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Validazione di potenziali biomarcatori di lesioni tiroidee e del mesotelioma

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(1)

DIPARTIMENTO DI FARMACIA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN FARMACIA

TESI DI LAUREA

“VALIDAZIONEDIPOTENZIALIBIOMARCATORIDILESIONI

TIROIDEEEDELMESOTELIOMA”

RELATORE: CANDIDATA:

Prof.ssa Maria Rosa Mazzoni Frusi Fabiana

CORRELATORE:

Prof. Antonio Lucacchini

(2)

1

(3)

2

Quando stai per mollare, fermati un attimo e pensa al motivo per il quale hai resistito fino ad allora. Pensa alla meta, non a quanto sia lungo il tragitto. Rimboccati le maniche e non aver paura della fatica. Guardati allo specchio e riconosci quel sognatore che ti sta di fronte. Lotta e combatti. E quando ciò che desideri sarà tuo, porta una mano al cuore e sentirai in ogni singolo battito l’eco di ognuno dei passi che hai compiuto. E se avrai qualche cicatrice non preoccuparti, non c’è vittoria senza una ferita di guerra, non c’è arcobaleno senza la pioggia.

(4)

3

INDICE

Abstract ... 5

Capitolo 1 ... 6

1.Introduzione ... 6

1.1 Proteomica: uno strumento per la scoperta di biomarcatori tumorali ... 6

1.1.1Tecnologie proteomiche ... 8

1.1.2Biomarcatori tumorali ... 10

Capitolo 2 ... 14

2.Mesotelioma pleurico maligno ... 14

2.1 Il polmone………14

2.1.1Cenni di anatomia ... 14

2.2 Il mesotelioma pleurico maligno ... 16

2.2.1 Definizione e classificazione ... 16 2.2.2 Epidemiologia e stadiazione ... 18 2.2.3 Eziologia e patogenesi ... 20 2.2.4 Sintomi e diagnosi ... 22 2.2.5 Trattamento ... 26 2.2.6 Prevenzione ... 28 Capitolo 3 ... 29 3.Lesioni tiroidee... 29 3.1 La tiroide ... 29 3.1.1Cenni di anatomia ... 29 3.2 Carcinoma tiroideo ... 31

(5)

4

3.2.1 Definizione e classificazione ... 31

3.2.2 Epidemiologia e stadiazione del carcinoma tiroideo ... 33

3.2.3 Fattori di rischio ... 35

3.2.4 Sintomi e diagnosi ... 36

3.2.5 Trattamento ... 39

3.2.6 Prevenzione ... 40

Capitolo 4 ... 41

4.Scopo della tesi ... 41

Capitolo 5 ... 42

5.Materiali e metodi ... 42

5.1 Test elisa per validazione della PSPA ... 43

5.1.1Preparazione dei campioni ... 43

5.1.2Preparazione dei reagenti ... 44

5.1.3Procedura del saggio ... 45

5.1.4Principio del test ... 46

5.2 Western blot per validazione di ANXA 2 e ANXA 5 ... 48

5.2.1 Preparazione dei campioni ... 48

5.2.2 Procedure del saggio ... 49

Capitolo 6 ... 56

6.Risultati e discussione ... 56

(6)

5

ABSTRACT

Individuare la malattia appena si manifesta attraverso esami poco invasivi, è uno dei fronti sui quali si combatte la lotta contro il cancro. La diagnosi precoce è spesso decisiva per determinare un decorso positivo della malattia. Alcune neoplasie, tuttavia, sono particolarmente difficili da individuare se non si ricorre ad esami molto invasivi. Su questo aspetto si concentra la ricerca dei “biomarcatori tumorali”, cioè di quelle sostanze biologiche che vengono prodotte dal tessuto canceroso o dall’organismo in risposta ad alcuni tipi di neoplasie. Oggi sappiamo che tali sostanze, però, non vengono prodotte solo dai tessuti tumorali, ma anche da tessuti normali o colpiti da malattie benigne. La differenza è solo quantitativa, nel senso che le cellule tumorali producono e rilasciano quantità maggiori di marcatori rispetto a quelle normali. Riuscire a trovare nuovi marcatori tumorali può essere, quindi, di fondamentale aiuto nella gestione clinica del paziente, in quanto possono essere utilizzati in diverse fasi della malattia:

• per la formulazione della diagnosi;

• per la valutazione prognostica della malattia; • per guidare nella scelta della terapia;

• per monitorare i progressi terapeutici durante e dopo la terapia.

Sulla base di quanto detto, il nostro studio si è focalizzato sulla validazione di tre diverse proteine, prosaposina (PSPA) (possibile marcatore del mesotelioma pleurico maligno), annessina 2 (ANXA2) ed annessina 5 (ANXA5) (possibili marcatori del carcinoma tiroideo), mediante l’utilizzo di test sensibili come il test ELISA ed il western blot. L’analisi dei risultati ha rivelato l’importanza di PSPA nel discriminare campioni benigni da campioni maligni. Mentre, i risultati su ANXA2 e ANXA5 non hanno portato ad una significativa discriminazione tra lesioni microfollicolari benigne e maligne.

(7)

6

CAPITOLO

1

1.

I

NTRODUZIONE

1.1PROTEOMICA: UNO STRUMENTO PER LA SCOPERTA DI BIOMARCATORI

TUMORALI

Nonostante i diversi progressi che si sono ottenuti nella diagnosi e nella terapia, ancora oggi il cancro rimane una sfida importante per la salute pubblica. Si tratta di una malattia pericolosa per la vita che solo nel 2012 ha riportato 14,1 milioni di nuovi casi, con una mortalità di 8,2 milioni di persone

(1). I cambiamenti demografici ed epidemiologici globali, segnalano un incremento delle malattie oncologiche nei prossimi decenni (2).

Il cancro è caratterizzato dalla crescita incontrollata delle cellule, le quali assumono la capacità di infiltrare e distruggere le strutture sane vicine. A determinarne la malignità concorre anche il tasso di accrescimento relativamente rapido e la capacità di creare metastasi per diffusione ematica o linfatica delle cellule tumorali; il suo sviluppo è, inoltre, un processo a multi-step che coinvolge diversi fattori ambientali e genetici (3,4). Sebbene enormi risorse siano state dedicate alla ricerca sul cancro, la sua complessità e la sua natura multifattoriale rendono difficile la comprensione della sua eziologia e, in definitiva, rendono difficile la cura di questa patologia altamente debilitante

(3,5). Nonostante ciò, la corsa per ottenere il controllo sui processi che sono alla base di questa malattia sta guadagnando velocità. Dalla biotecnologia alla chimica, dalla fisica applicata alla creazione di nuovi software, crescenti risorse vengono utilizzate, aventi come obiettivo la prevenzione e la riduzione della mortalità. In particolare, innovazioni nel campo della biotecnologia

(8)

7 hanno permesso lo sfruttamento dei processi biologici, con lo scopo di studiare la patogenesi del cancro a livello molecolare (6).

Negli ultimi anni l’interesse del mondo scientifico si è concentrato sulla

proteomica, termine che si riferisce allo studio di tutte le proteine espresse in

un organismo, tessuto o cellula in un preciso istante. Le proteine sono le macromolecole di prima funzione di una cellula ed esprimono la maggior parte dell’informazione genetica. Svolgono una vasta gamma di funzioni all’interno degli organismi viventi, tra cui la catalisi delle reazioni metaboliche, diverse funzioni di sintesi come la replicazione del DNA, la risposta agli stimoli e il trasporto di molecole da un luogo ad un altro. Esse vanno a formare il “proteoma” che costituisce un’entità dinamica in cui le cellule dello stesso organismo esprimono proteine differenti, ma anche lo stesso tipo di cellule, a seconda delle diverse condizioni (età, stato di salute, ambiente), risulta avere un pattern proteico differente (7). Per cui, analizzando le proteine si possono avere informazioni dettagliate sui loro livelli in un preciso momento, in una cellula o in un fluido biologico, rilevandone, inoltre, le possibili modificazioni post-traduzionali, che ne determinano la funzione e che risultano importanti per i processi di trasduzione del segnale (8,9).

A partire dagli anni 90’, la proteomica ha permesso la caratterizzazione delle proteine e delle modificazioni associate ad esse, le quali costituiscono una complessa rete di segnalazione in grado di mediare l’attività cellulare, ed ha quindi fornito informazioni sulle modifiche di queste vie di segnalazione all’interno delle cellule tumorali (10,11). Poiché il cancro è una malattia multigenica, in cui ciascun tipo di tumore risulta caratterizzato da una varietà di popolazioni cellulari con morfologie e comportamenti distinti (12),

possiamo prevedere come le sue caratteristiche molecolari non siano così semplici da comprendere. E’ stato dimostrato come un’ampia varietà di proteine sia dinamicamente up/down-regolata dal tessuto tumorale, il quale risulta costituito da un groviglio di proteine, cellule infiltrate e fattori secretori

(9)

8 che interagiscono tra di loro e influenzano costantemente le funzioni autocrine e paracrine. In questo contesto, un’analisi della proteomica di una cellula tumorale può includere 1,5 milioni di proteine (13). La proteomica offre

attualmente diverse tecniche che permettono di chiarire il funzionamento delle interazioni proteiche e che permettono di scoprire nuovi biomarcatori per la terapia del cancro (14,15). In particolare, i suoi principali obiettivi sono: • lo studio dei processi biochimici implicati nelle malattie;

• il monitoraggio dei processi cellulari;

• la valutazione dei livelli di espressione delle proteine e delle loro modificazioni post-traduzionali;

• la ricerca di differenze tra i fluidi biologici e le cellule di soggetti sani e malati;

• l’identificazione di biomarcatori di malattia e di possibili candidati per un intervento terapeutico (16).

1.1.1 Tecnologie proteomiche

A causa dell’ampia varietà delle proteine, esistono diverse tecnologie proteomiche comprendenti metodi biologici, chimici ed analitici. Tra queste, la principale tecnica utilizzata è la spettrofotometria di massa (MS), accoppiata molto spesso a metodi di separazione delle proteine (17). Si tratta

di una tecnica ad alta sensibilità e versatilità, che permette di quantificare le proteine, oltre che determinarne la sequenza, la massa e le modificazioni post-traduzionali (glicosilazioni e fosforilazioni) (18). Generalmente lo studio proteomico si caratterizza di diverse fasi:

• scelta e preparazione del campione;

• separazione del campione attraverso tecniche elettroforetiche; • identificazione delle proteine tramite spettrofotometria di massa;

(10)

9 • confronto delle proteine con quelle di un database contenente le proteine

codificate dal genoma.

Per la separazione delle proteine si utilizza l’elettroforesi su gel bidimensionale, pilastro della tecnologia elettroforetica per circa un decennio. Descritta per la prima volta 25 anni fa, le proteine vengono separate in primis in base al loro punto isoelettrico; successivamente una seconda separazione viene effettuata sulla base delle loro masse molecolari (19).

In generale, le tecnologie proteomiche, come la MS, consentono di identificare proteine patologicamente significative in vari tipi di campioni biologici, tra cui sangue, tessuti, urina, latte e cellule. La proteomica assistita dalla MS ha quindi contribuito alla caratterizzazione di diversi biomarcatori

tumorali, che possono dare informazioni utili per capire i meccanismi alla

base del tumore (20,21).

Rimane comunque da ricordare che gli studi riguardanti la proteomica sono più difficili da compiere rispetto agli studi di genomica; infatti, mentre oggi siamo in grado di conoscere la sequenza di basi che costituisce un gene in tempi davvero brevi, per quanto riguarda la proteomica gli studi sono ancora molto arretrati. La grande difficoltà nell'avanzamento di questa disciplina risiede nella difficoltà di riuscire a ottenere quantità abbondanti di proteine dal campione, per eseguire le analisi. Proteine insolubili, come quelle di membrana, sono infatti difficili da solubilizzare e quindi il loro studio diviene altamente complesso. Durante i passaggi di purificazione e cristallizzazione delle proteine, molto campione viene anche perso o danneggiato (le proteine possono infatti denaturarsi o aggregarsi tra loro e precipitare in modo irreversibile). C’è quindi necessita di tecniche che riescano a fornire una maggiore quantità di materiale di partenza per lo studio di queste macromolecole. In generale, la proteomica dovrebbe perfezionarsi su alcuni aspetti:

(11)

10 • riuscire ad individuare meglio le proteine a bassa concentrazione;

• creare protocolli e piattaforme standard per migliorare l’interpretazione dei dati ottenuti;

• perfezionare gli strumenti di bioinformatica, al fine di individuare i processi rilevanti;

• migliorare le strategie proteomiche per superare le difficoltà di accesso ai fluidi prossimali del tumore ed alle masse tumorali.

1.1.2 Biomarcatori tumorali

Un biomarcatore è una entità misurabile o valutabile che fornisce informazioni di tipo diagnostico, prognostico, o sull’orientamento terapeutico, e che quindi può guidare il clinico nella cura del paziente. Un ottimo marcatore deve soddisfare 4 criteri:

• facilmente ottenibile; • adeguata sensibilità; • adeguata specificità;

• portare beneficio al paziente attraverso un trattamento terapeutico od un intervento diagnostico.

Un campione facilmente ottenibile è quello che può essere raccolto nell’ambulatorio o nella clinica di uno specialista e per il quale è richiesta una limitata strategia di preparazione. Le urine sono esempi di campioni facilmente utilizzabili (22,23). Più difficili sono i campioni che richiedono una

procedura più invasiva, come l’ago aspirazione, i quali danno risultati più specifici e sensibili, ma la loro raccolta risulta essere più complessa con rischio di danno al campione durante la procedura (24, 25). Il sangue, invece, rappresenta il campione che contiene più informazioni sui marcatori; esso infatti è a contatto con tutti gli organi del corpo e può essere considerato

(12)

11 “l’archivio” di tutti i processi biologici che avvengono nell’organismo (26).

Interessante è anche l’utilizzo della saliva a scopi diagnostici visto che contiene alcuni costituenti del siero che raggiungono le ghiandole salivari attraverso una via intracellulare (diffusione passiva) o attraverso una via extracellulare (ultrafiltrazione attraverso le giunzioni strette tra le cellule). La sensibilità, ovvero la capacità di identificare la presenza di malattia in pazienti realmente malati, è un altro criterio importante per un biomarcatore; come lo è la specificità, ovvero la capacità di discriminare tra soggetti sani e soggetti malati. Un marcatore ideale presenta valori di specificità e di sensibilità del 100%, ma purtroppo un marcatore di questo tipo non esiste. Infatti, a causa della somiglianza biologica tra cellula normale e cellula maligna si creano inevitabilmente dei falsi negativi (soggetti con tumore e marcatore negativo) e falsi positivi (soggetti sani con marcatori positivi), i quali possono andare ad alterare i risultati delle analisi. Per questo motivo, è necessario che ci sia un equilibrio tra questi due criteri, in modo da poter considerare il marcatore tumorale un elemento diagnostico valido.

Un altro criterio che un biomarcatore deve avere è quello dell’applicabilità clinica, cioè deve essere in grado di dare informazioni sull’eziologia della neoplasia, sul meccanismo con cui si manifesta o su quello che deve essere l’intervento terapeutico, dando al clinico gli strumenti necessari al fine di assicurare la sopravvivenza del paziente o migliorarne la qualità della vita. I marcatori tumorali sono sostanze molto eterogenee e ciò rende difficile classificarli in modo ottimale e univoco. In base al parametro a cui si fa riferimento, è possibile classificarli per:

• natura chimica della sostanza prodotta (proteine, amine, nucleosidi, microRNA);

• funzione biologica della sostanza (ormone, antigene, enzima); • natura del tumore che ne determina la produzione;

(13)

12 • antisieri utilizzati nei metodi di laboratorio.

Diversi studi hanno rivelato l’esistenza di un numero considerevole di proteine che sono espresse in modo differente a seconda dello stato di salute di un paziente; tuttavia, la maggior parte di queste proteine sono prodotte da processi cellulari comuni sia ai pazienti sani che a quelli malati. Questo ha fatto comprendere come i marcatori tumorali non siano necessariamente prodotti unicamente dalle cellule neoplastiche, ma nella maggior parte dei casi sono prodotti dalle cellule neoplastiche in quantità maggiore (alterazioni quantitative). Pur non essendo possibile formulare diagnosi di neoplasia basandosi sull’aumento della concentrazione di un marcatore, i marcatori tumorali possono essere utilizzati:

• nelle fasi precoci della malattia, prima della comparsa dei sintomi clinici (diagnosi precoce);

• possono fornire indicazioni indirette sull’estensione della neoplasia (stadiazione);

• per distinguere tra diverse neoplasie o tra una neoplasia e una patologia non neoplastica (diagnosi differenziale);

• nella caratterizzazione biologica della neoplasia (26,27).

Lo sviluppo di nuove metodologie ad alto rendimento per l’identificazione e la validazione dei biomarcatori tumorali dovrà essere un passo obbligato, al fine di trasformare la ricerca di base in quella che può essere definita “proteomica clinica”. Infatti, l’identificazione di marcatori tumorali capaci di distinguere tra cellule sane e cellule malate, porterà ad un incremento dell’uso della proteomica in ambito clinico nei prossimi anni; inoltre, i progressi nei dispositivi di MS miglioreranno l’accuratezza e la specificità delle analisi. Pertanto, la più grande speranza della “proteomica clinica” è quella di riuscire

(14)

13 a sviluppare dei trattamenti “personalizzati” per ogni tipo di paziente, rappresentando un vero rivoluzionario passo nell’ambito della medicina. Negli ultimi anni, nei nostri laboratori, ci siamo dedicati allo studio di diversi tipi di tumori per individuare proteine che fossero indicative della condizione patologica. In particolare, per questa tesi, ci siamo focalizzati sull’analisi del mesotelioma e del carcinoma tiroideo, nel suo sottotipo microfollicolare.

(15)

14

C

APITOLO

2

2.

M

ESOTELIOMA PLEURICO MALIGNO

2.1

Il

POLMONE

2.1.1 Cenni di anatomia

I polmoni sono due organi parenchimatosi che costituiscono la parte essenziale dell’apparato respiratorio. Situati nel torace, ne occupano una grande parte, delimitando lateralmente lo spazio mediastinico. Ogni polmone è rivestito da una membrana sierosa, la pleura formata da due foglietti: uno addossato al polmone stesso e l’altro alla parete toracica. Il polmone destro è più voluminoso del sinistro, che a sua volta è un po’ più lungo e stretto del destro. Hanno la forma di due mezzi coni e presentano un apice, situato in alto, una base, posta in basso, una faccia mediale o mediastinica, una faccia laterale o costovertebrale e tre margini, anteriore, posteriore e inferiore. Il parenchima polmonare è costituito dall’albero bronchiale e dal connettivo interstiziale, responsabile delle suddivisioni del parenchima in unità anatomo-funzionali, quali lobi, segmenti, lobuli, acini e alveoli (28).

Le pleure sono membrane sierose, sottili e trasparenti, che rivestono i polmoni e la superficie interna della cavità toracica (figura 1). Sono formate da due foglietti, viscerale (o polmonare) e parietale che sono rispettivamente adesi al polmone e alla gabbia toracica e continuano l’uno sull’altro a livello del peduncolo polmonare creando fra di essi una cavità, denominata cavità pleurale (29).

(16)

15

Figura 1. Rappresentazione grafica delle pleure

Tale cavità contiene liquido sieroso, che consente alle due pleure di scorrere facilmente, senza attrito, l’una sull’altra.

Entrambi i foglietti pleurici presentano una struttura simile (figura 2). Sono costituiti da:

• Un mesotelio, costituito da un singolo strato di cellule simil-epiteliali appiattite capaci di produrre e riassorbire il liquido pleurico. Queste cellule che sono di derivazione mesodermica hanno caratteristiche sia delle cellule epiteliali che di quelle endoteliali;

• Uno strato sottomesoteliale, formato da fasci di collagene paralleli e in profondità una ricca componente fibroelastica;

• Una tela sottosierosa, formata da tessuto connettivo lasso ricco di vasi sanguigni (28).

(17)

16

Figura 2. Aspetto istologico della pleura parietale e viscerale e del mesotelioma pleurico maligno

2.2 IL MESOTELIOMA PLEURICO MALIGNO 2.2.1 Definizione e classificazione

Con il termine mesotelioma si definisce il tumore che nasce dalle cellule del mesotelio, il sottile strato che riveste la maggior parte degli organi interni e può avere origine in quattro zone del corpo: nel torace, nell’addome e, molto raramente, nella cavità intorno al cuore e nella membrana che riveste i testicoli. Per cui, a seconda del distretto da cui hanno origine, i mesoteliomi si dividono in:

• Mesotelioma pleurico: nasce dalla cavità toracica e rappresenta la forma più diffusa (3 casi su 4);

(18)

17 • Mesotelioma peritoneale: nasce nell’addome e rappresenta la quasi totalità

dei mesoteliomi rimasti escludendo quelli pleurici;

• Mesotelioma pericardico: nasce nella cavità intorno al cuore ed è estremamente raro;

• Mesotelioma della tunica vaginale: nasce dalla membrana che riveste i testicoli ed è molto raro.

Se invece si considera l’aspetto istologico della neoplasia, si distinguono tre tipi di tumore in base alla morfologia cellulare (figura 3):

• Epitelioide: il più comune (60-70% dei casi) e quello che tende ad avere una migliore prognosi;

• Sarcomatoide o fibroso: rappresenta dal 10 al 20% dei mesoteliomi;

Misto o bifasico: con aree epitelioidi e aree sarcomatoidi, rappresenta dal

30 al 40% dei mesoteliomi (30).

(19)

18

2.2.2 Epidemiologia e stadiazione

Il mesotelioma maligno è un tumore raro che colpisce più frequentemente gli uomini e in Italia rappresenta lo 0.4% di tutti i tumori diagnosticati nell’uomo e lo 0,2% di quelli diagnosticati nelle donne. Ciò equivale a dire che si verificano 3,4 casi di mesotelioma ogni 100.000 uomini e 1,1 ogni 100.000 donne, con punte del 10-15% nelle città con maggior impatto industriale (Genova, Trieste, Alessandria, Torino, Taranto). Il mesotelioma è raro prima dei 50 anni e presenta un picco massimo attorno ai 70; la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi si ferma poco al di sotto del 20% nella fascia di età compresa tra i 45 e i 54 anni e diminuisce progressivamente con l’aumentare dell’età (30). Nel 1980 in Italia sono stati riportati 545 morti per mesotelioma maligno, mentre nel 1992 i morti sono aumentati a 942 (34). Dal mesotelio

possono originare anche tumori benigni, in genere rimossi mediante chirurgia senza bisogno di ulteriori trattamenti (30).

Nonostante i progressi nel trattamento dei tumori maligni, la prognosi per il mesotelioma è piuttosto deludente. I problemi che questa malattia pone sono molteplici e derivano dai seguenti fattori:

• natura del tumore che occupa una superficie ampia, dalla quale si separano facilmente cellule maligne che possono dare origine a metastasi;

• facilità con cui il tumore invade gli organi a stretto contatto con il mesotelio;

• intervallo di latenza molto variabile, ma in genere lungo, tra esposizione all’asbesto e manifestazione dei sintomi.

La scelta del trattamento dipende dallo stadio del tumore al momento della diagnosi, dal sottotipo istologico del tumore, dall’età e dalle condizioni generali del paziente. Esistono diversi sistemi di stadiazione. Per il mesotelioma pleurico il sistema più utilizzato è quello del Gruppo di Lavoro Internazionale per il mesotelioma che adopera il sistema TNM (T= tumore,

(20)

19 N= linfonodi, M= metastasi) che colloca i pazienti nelle categorie prognostiche indicate nella tabella 1 (31).

Tabella 1: Stadiazione TNM del MPM (32)

Stadio TNM Caratteristiche

1a T1a N0 M0 Tumore primitivo confinato alla pleura parietale.

1b T1b N0 M0 Come lo stadio 1a con coinvolgimento della pleura viscerale.

II T2 N0 M0 Come lo stadio 1a o 1b con coinvolgimento del diaframma o della pleura viscerale o del polmone.

III T3 N0 M0

T3 N1 M0

T3 N2 M0

Tumore localmente avanzato (coinvolge il polmone) Coinvolti i linfonodi bronco-polmonari dello stesso lato o dell’ilo.

Coinvolti i linfonodi sottocarenali (biforcazione bronchiale) o mediastinali omolaterali.

IV T4 M3 N1 Tumore localmente avanzato e non asportabile chirurgicamente. Coinvolti i linfonodi controlaterali mediastinici, mammari e/o sopraclavicolari omolaterali o controlaterali. Metastasi a distanza.

Un altro sistema di stadiazione è quello proposto da Sugarbaker del Brigham and Women’s Hospital dopo aver analizzato 52 pazienti sottoposti a terapia trimodale. Questo sistema prevede 4 stadi e prende in considerazione la resecabilità e lo stato linfonodale (33):

• STADIO I: malattia confinata all’interno della pleura parietale, pleura viscerale ipsilaterale, polmone, pericardio, diaframma o parete toracica limitatamente alle sedi di pregresse biopsie. I pazienti in stadio I hanno un tumore resecabile e senza infiltrazione linfonodale.

• STADIO II: tutti gli stadi I con linfonodi intratoracici (N1 o N2) positivi. Vi confluiscono i tumori operabili.

(21)

20

• STADIO III: estensione locale della malattia nella parete toracica o nel mediastino, nel cuore o attraverso il diaframma nel peritoneo; con o senza coinvolgimento di linfonodi controlaterali o extratoracici. Tumori non resecabili a causa dell’infiltrazione delle strutture mediastiniche o transdiaframmatica.

• STADIO IV: raggruppa i pazienti che si presentano con malattia metastatica.

2.2.3 Eziologia e patogenesi

Il principale agente eziologico del MPM è l’asbesto (dal greco asbestos = indistruttibile o inestinguibile); è un insieme di minerali del gruppo dei silicati appartenenti alle serie mineralogiche del serpentino e degli anfiboli. In Italia la legge prevede l’utilizzo del termine “amianto” per indicare sei differenti minerali - actinolite, amosite, antofillite, crisotilo, crocidolite, e tremolite - che, oltre ad avere in comune una morfologia fibrosa, sono stati ampiamente utilizzati per le loro particolari proprietà chimiche e fisiche. I termini asbestiforme e fibroso sono utilizzati per composti aventi caratteristiche morfologiche simili agli asbesti. L’asbesto è resistente al fuoco, ad agenti chimici e biologici, all’abrasione, all’usura; ha notevole resistenza meccanica e alta flessibilità grazie alla sua struttura fibrosa; è fonoassorbente e termoisolante; si lega facilmente con materiali da costruzione quali calce, gesso e cemento (Eternit), come anche con alcuni polimeri (gomma, PVC). Le fibre di asbesto danno luogo alla formazione di un lattice cristallino in cui le molecole sono allineate le une accanto alle altre e tenute insieme da legami piuttosto deboli, quindi possono liberarsi facilmente, disperdendosi nell’ambiente circostante, nell’aria e nell’acqua potabile, anche se proveniente da fonti naturali. Quantità pericolose di fibre di asbesto si trovano anche nei polmoni di individui non esposti professionalmente al materiale

(22)

21 fu fatta per la prima volta da Gloyne, in Gran Bretagna, nel 1935. Nel 1960, Wagner et al dimostrarono la reale associazione di tale forma tumorale con l’attività lavorativa, riportando 33 casi di mesotelioma nei minatori di crocidolite in Sud Africa (34).

E’ stato ampiamente dimostrato come la qualità aereodinamica delle diverse fibre di asbesto sia rilevante nella patogenesi delle lesioni pleuriche: un alto rapporto lunghezza/diametro permette una più profonda penetrazione nelle vie aeree, con aumentato rischio di danno polmonare e pleurico. A questo riguardo la crocidolite e il gruppo degli anfilobi sono certamente quelli con più elevata patogenicità. Anche l’esposizione a fibre naturali asbestiformi, presenti in ambienti vulcanici, come l’erionite, rientra nell’eziologia del mesotelioma. Non è comunque chiaro come le fibre di asbesto causino le alterazioni tissutali che inducono al danno polmonare (35). Per questo motivo sono stati proposti diversi meccanismi patogenetici:

• Le fibre di amianto sono in grado di irritare la pleura inducendo cicatrici o accelerando la progressione a tumore maligno (36);

• Le fibre di amianto sono in grado di penetrare le cellule mesoteliali, interferire con la mitosi e generare mutazioni nel DNA, alterando la struttura cromosomica (37);

• L’amianto innesca la produzione di radicali liberi dell’ossigeno responsabili del danno al DNA intracellulare e dell’interruzione dei meccanismi di riparazione (38);

• L’amianto è in grado di interferire con i proto-oncogeni a risposta precoce che a loro volta promuovono la proliferazione cellulare anormale attraverso chinasi proteiche attivate da mitogeni (MAP) e chinasi regolate da segnali extracellulari (ERK) 1 e 2 (39);

Ulteriori fattori di rischio ambientale sono stati implicati nello sviluppo del MPM come la precedente esposizione a radiazioni, altre fibre minerali,

(23)

22 materiali sintetici (ceramiche, nanoparticelle), ecc. (40,41). Inoltre, il virus

simian 40 (SV 40) è stato anche segnalato come potenziale cofattore nella patogenesi del MPM, sebbene il suo ruolo rimanga controverso (42).

2.2.4 Sintomi e diagnosi

Il MPM causa i seguenti sintomi: respiro corto, tosse persistente, sensazione di oppressione o dolore al torace ed alla schiena, respiro affannoso, difficoltà respiratorie, febbre, sudorazione notturna, stanchezza, perdita di peso (43).

Inoltre, in pazienti affetti da MPM sono state descritte diverse sindromi paraneoplastiche, tra cui ipercalcemia, ipoglicemia, anemia emolitica autoimmune, stati di ipercoagulabilità, e coagulazione intravasale disseminata. Queste sindromi sono comunque aspecifiche e si osservano anche in altri tumori rendendo spesso il MPM di difficile diagnosi (44). Nella maggior parte dei casi i sintomi respiratori sono causati da un eccessivo accumulo di liquido nello spazio tra i due foglietti pleurici (versamento) o dall’ispessimento dei foglietti stessi, con compressione dei polmoni, che non riescono così ad espandersi adeguatamente durante la respirazione. Alcuni pazienti possono non manifestare alcun disturbo pur presentando la malattia, che invece viene scoperta occasionalmente, eseguendo esami radiologici per altre motivazioni (45). Il primo passo verso la diagnosi del MPM, quindi, è verificare la presenza di un versamento pleurico, ossia la raccolta di liquido pleurico, a cui seguiranno esami più specifici, quali:

• Analisi del liquido pleurico: Il liquido pleurico è costituito da sangue ed essudato con un’elevata concentrazione di proteine e lattato deidrogenasi nonché un’elevata conta cellulare. Si tratta, comunque, di dati aspecifici tipici anche di altre condizioni patologiche; inoltre, la sensibilità dell’analisi citologica del liquido pleurico è bassa e da circa l'85% dei liquidi analizzati si hanno letture negative o non decisive (46).

(24)

23 • Radiografia del torace: solitamente è il primo esame che viene eseguito. In caso di MPM la radiografia mostra un ispessimento del mesotelio nella porzione basale del polmone. Nelle fasi avanzate l’ispessimento si estende verso le parti più alte del polmone. Spesso è visibile anche un versamento pleurico (figura 4).

Figura 4. Radiografia toracica di un paziente con MPM

• Tomografia del torace: la tomografia computerizzata, indicata anche con la sigla TAC, è una metodica diagnostica per immagini che utilizza raggi x, che permette di ottenere immagini di sezioni assiali del corpo umano. Tale metodica, però, non permette di distinguere tra adenocarcinoma del polmone e mesotelioma (46).

• PET: tomografia ad emissione di positroni che permette di identificare le cellule che stanno crescendo più velocemente e che corrispondono alle cellule tumorali. La PET è in grado di aumentare la possibilità di differenziare le lesioni pleuriche benigne da quelle maligne (47).

• Risonanza magnetica: Permette di ottenere immagini dettagliate dei tessuti molli del corpo, ma senza l’utilizzo di raggi X. Nel caso del

(25)

24 mesotelioma risulta utile per verificare lo stato di salute del diaframma, muscolo essenziale per la respirazione, posto al di sotto dei polmoni (30).

• Biopsia pleurica: si preleva con un ago una minima quota di liquido pleurico (toracentesi) o, preferibilmente, un piccolo frustolo di pleura che verrà analizzato al microscopio. Nonostante tali procedure vengano eseguite adeguatamente, non è facile giungere ad una corretta diagnosi: il mesotelioma infatti è un tumore molto eterogeneo, perciò può essere erroneamente confuso con altre patologie benigne o maligne, interessanti la pleura (45).

• Toracoscopia: La "toracoscopia medica" può essere eseguita con un broncoscopio rigido in anestesia locale o regionale (48). Consiste

nell’introduzione dello strumento nella cavità pleurica, che può essere impiegato per la visualizzazione delle pleure. La “toracoscopia chirurgica”, invece, prende il nome di VATS (Video Assisted Thoracic Surgery); in questo caso è necessaria una sedazione generale del paziente e permette di effettuare ampie biopsie pleuriche e se necessario di asportare noduli polmonari periferici (49).

• Esami del sangue: possono essere utili per seguire l’andamento della malattia durante e dopo il trattamento. Vengono misurati i livelli di SMRP (serum mesothelin related protein) la cui concentrazione è apparsa elevata in più dell’84% dei mesoteliomi; è una glicoproteina di membrana espressa in vari tipi di cancro, che sembrerebbe promuovere la sopravvivenza e la proliferazione delle cellule tumorali attraverso l’attivazione della via NF-kB, con conseguente aumento dell’interleuchina-6. Diversi studi hanno dimostrato che come marker diagnostico presenta una specificità del 96% ma una sensibilità del solo 47%.

Esistono poi ulteriori marcatori che possono ritrovarsi nel siero e nel liquido pleurico:

(26)

25 - Osteopontina (OPN): è una proteina extracellulare di adesione, che media l’interazione cellula-matrice e la segnalazione cellulare tramite interazione con i recettori CD44. Diversi studi hanno dimostrato il suo coinvolgimento nella diffusione metastatica delle cellule tumorali e nelle vie di segnalazione implicate nella carcinogenesi asbesto-indotta. Ciò conferma il suo ruolo come potenziale marcatore prognostico di MPM.

- Fibulina-3: fa parte della famiglia delle glicoproteine extracellulari codificate dal fattore di crescita epidermico. E’ implicata nei processi di crescita, adesione e motilità cellulare, in particolare per quanto riguarda la tumorigenesi. Diversi studi hanno dimostrato come i livelli di fibulina-3 fossero più alti in pazienti con MPM, rispetto che in pazienti con versamento pleurico non correlato a MPM. Nonostante questi studi abbiano mostrato la fibulina-3 come potenziale biomarcatore del MPM, sono necessarie ulteriori validazioni.

- HMGB1 (High-mobility group box 1): è un mediatore chiave dell’infiammazione. Recenti studi hanno dimostrato come l’esposizione all’amianto provochi la necrosi delle cellule mesoteliali umane primarie, con conseguente rilascio di HMGB1, il quale si lega al suo principale recettore, provocando l’attivazione di Nalp3 e la secrezione di IL-1b; questa cascata di attivazione sembra essere collegata alla carcinogenesi associata all’amianto. Inoltre, è stato visto come i livelli di HMGB1 siano significativamente più alti in pazienti con MPM rispetto che in pazienti sani esposti.

- Micro-RNA (mi-RNA): sono una famiglia di piccoli RNA non codificanti che rispondono responsabilmente alla regolazione dell'espressione genica, inibendo la traduzione dell’RNA messaggero bersaglio mediante l’associazione con elementi di riconoscimento dell’RNA messaggero. Sono stati identificati in linee cellulari di MPM, e per questo risultano interessanti come possibili markers diagnostici.

(27)

26 In particolare, recenti studi hanno dimostrato come 3 miRNA circolanti fossero up-regolati nei pazienti con MPM rispetto ai gruppi di controllo. Per tanto, questi risultati suggeriscono che l'utilità clinica dei miRNA dovrebbe essere ulteriormente esplorata (50).

2.2.5 Trattamento

Il MPM è un tumore molto aggressivo, di difficile diagnosi e dalla prognosi purtroppo infausta. Poiché la guarigione è molto rara, l’obiettivo principale del trattamento è il controllo dei sintomi, al fine di garantire una vita accettabile al paziente. La scelta dell’approccio terapeutico deve tenere presente che ogni paziente è un caso a sé, quindi ciò che funziona in un soggetto potrebbe non funzionare in un altro soggetto, e dipende dello stadio del tumore al momento della diagnosi, dalle condizioni generali del paziente e dal sottotipo istologico del tumore. Oggi, la terapia più efficace sembra essere la terapia “trimodale”, comprendente la chirurgia, la chemioterapia e la radioterapia, usati in associazione o in casi particolari anche singolarmente

(30).

• Chirurgia: non è considerata molto efficace specialmente se usata da sola; si preferisce usarla in associazione con chemioterapia e radioterapia per aumentare le probabilità di successo. Può essere praticata a scopo curativo, mirato a rimuovere il tumore che deve essere ben localizzato, o a scopo palliativo, mirato a ridurre i sintomi quando il tumore è ormai diffuso.

L’intervento chirurgico più diffusamente praticato è la pleurectomia, che prevede l’asportazione di tratti, più o meno ampi, di pleura. Meno frequente è la pratica d’interventi più demolitivi come la pneumonectomia extra-pleurica in cui il chirurgo asporta il polmone, la pleura, parte della parete toracica e, se necessario, parte del diaframma e del pericardio (30).

(28)

27 • Radioterapia: si attua generalmente dopo l’intervento chirurgico associata alla chemioterapia, ed è utile per distruggere i piccoli gruppi di cellule tumorali che, non essendo visibili, non sono stati rimossi chirurgicamente (radioterapia adiuvante); può essere praticata a scopo palliativo (51).

• Chemioterapia: si basa sull’uso di un singolo farmaco o di combinazioni di più farmaci e può contribuire a rallentare la progressione della malattia, anche se difficilmente riesce a curarla in modo definitivo. La terapia di prima linea, approvata dalla US Food and Drug Administration (FDA) per pazienti con MPM in stadio avanzato non operabile, è la combinazione cisplatino/pemetrexed (52).

Il cisplatino è un derivato del platino che, tramite alchilazione diretta del DNA, è in grado di interferire in tutte le fasi del ciclo cellulare; migliora l’attività di molti altri farmaci e per questo motivo viene spesso usato in associazione con altre sostanze (53).

Il pemetrexed è un inibitore folico, appartenente alla categoria dei farmaci antimetabolici. Nell’organismo è convertito in una forma attiva che blocca l’attività di enzimi specifici coinvolti nella produzione di nucleotidi, rallentando la formazione di DNA e RNA e prevenendo la divisione cellulare.

In letteratura è riportato che il pemetrexed in associazione con cisplatino migliora la sopravvivenza dei pazienti con mesotelioma pleurico e peritoneale (54).

Un’altra valida combinazione per la terapia sistemica di prima linea, supportata da studi di fase II, è l’associazione cisplatino/gemcitabina (antimetabolita pirimidinico di nuova generazione), avvalorata dall’accettabile profilo tossicologico, dal buon tasso di risposta e dai benefici clinici per i pazienti (55). Attualmente, però, non ci sono studi di

(29)

28 fase III che supportano la gemcitabina come terapia di prima linea, la quale è, quindi, somministrata da sola o in associazione con il cisplatino come terapia di seconda linea (52).

Dallo studio di fase II LUME-Meso, è stato dimostrato come l’aggiunta

del farmaco nintedanim alla chemioterapia standard

(cisplatino/pemetrexed) per il MPM non operabile, riduce del 46% il rischio di progressione della malattia, migliorando la sopravvivenza complessiva.

Il nintedanim è un triplice inibitore orale di angiochinasi, che ha come bersaglio i recettori tirosin-chinasici dei fattori di crescita VEGF, FGF, PGF, coinvolti nella trasduzione del segnale ed anche, quindi, nello sviluppo del MPM. E’ attualmente in fase di valutazione nello studio di fase III LUME-Meso, per il quale è in corso il reclutamento dei pazienti

(56).

2.2.6 Prevenzione

Il miglior modo per prevenire il mesotelioma è evitare o limitare al massimo l’esposizione all’amianto. La legge 257 del 1992 obbliga a verificare la presenza di amianto negli edifici pubblici, come le scuole, e anche nelle vecchie abitazioni, che ne possono contenere delle tracce. Sono state promulgate ulteriori leggi nel 2009 e nel 2011, dove sono riportate nuove norme per lo smaltimento dei materiali pericolosi. La legge del 2011 ha anche riconosciuto per la prima volta il diritto dei lavoratori esposti all'amianto a un risarcimento per malattia professionale (30).

(30)

29

CAPITOLO

3

3.

LESIONI TIROIDEE

3.1 LA TIROIDE

3.1.1 Cenni di anatomia

La tiroide è una ghiandola endocrina con struttura follicolare, la cui principale funzione è quella di secernere ormoni che agiscono sul metabolismo cellulare, sull’accrescimento e sulla differenziazione. E’ situata nella regione anteriore del collo ed è formata da due lobi, destro e sinistro, allungati verticalmente e riuniti da una parte trasversale e ristretta detta istmo. Nel 30-50% dei casi è presente anche un terzo lobo, il lobo piramidale, che dall’istmo si porta in alto fino a raggiungere l’osso ioide. Di colore rosso bruno, liscia e di consistenza molle, è variamente sviluppata a seconda del sesso, dell’età e del luogo di residenza (figura 5).

(31)

30 La tiroide è circondata da una propria capsula e da un involucro fibroso, la guaina peritiroidea, che la fissa posteriormente alla cartilagine cricoidea, alla cartilagine tiroidea e ai primi anelli tracheali. E’ costituita da follicoli sferici, rivestiti da un epitelio monostratificato di cellule di varia altezza (tireociti), e contenenti una sostanza colloidale (colloide) che rappresenta la forma di accumulo del prodotto dell’attività secretoria dei tireociti (figura 6). Attorno a ogni follicolo si trova una lamina basale sottile che lo separa da una fitta rete di vasi capillari.Le arterie deputate all’irrorazione della tiroide sono: le arterie tiroidee superiori, derivate per ciascun lato, dalla carotide esterna e dalle arterie tiroidee inferiori, che sono rami del tronco tireocervicale dell'arteria succlavia. Fra le reti vascolari appartenenti a follicoli adiacenti si trovano terminazioni a fondo cieco di vasi linfatici, mentre numerose fibre nervose accompagnano le ramificazioni dei vasi, entrando in contatto sia con questi che con le cellule dell’epitelio follicolare. Si tratta soprattutto di terminazioni del sistema ortosimpatico e di sporadiche fibre pregangliari del sistema parasimpatico, tutte con prevalente significato vasomotore.

(32)

31 I tireociti, sono deputati alla secrezione di specifici ormoni, quali tiroxina (T4) e triidotirosina (T3), che hanno la funzione di regolare il metabolismo. Oltre

alle cellule principali, nel parenchima tiroideo si trova un altro tipo di cellule, localizzato negli interstizi interfollicolari. Queste cellule sono denominate cellule parafollicolari, più voluminose delle cellule principali e presentano granuli che contengono un ormone di natura proteica, la calcitonina, che regola la concentrazione ematica di calcio, con effetto ipocalcemizzante (figura 6) (28).

3.2CARCINOMA TIROIDEO

3.2.1 Definizione e classificazione

Il cancro alla tiroide è la malattia più comune del sistema endocrino e rappresenta l’1% di tutti i tumori maligni. E’ causato dall’anomalo sviluppo di alcune cellule di questa ghiandola e si manifesta molto spesso in forma benigna e piuttosto raramente in forma maligna, assumendo in questo caso il nome di cancro della tiroide. I tumori benigni sono particolarmente diffusi e prendono il nome di noduli benigni e nella maggior parte dei casi non provocano problemi particolari, tanto da passare del tutto inosservati o essere occasionalmente scoperti durante la palpazione o durante una visita specialistica. Una piccola percentuale di tali noduli può dare sintomi tipici della tireotossicosi (eccesso di ormoni tiroidei) o cresce a tal punto da creare problemi di fonazione o deglutizione, per compressione dei tessuti circostanti. Ancora più rari sono i noduli maligni della tiroide, che spesso non danno segni visibili, in quanto crescono molto lentamente e sono poco invasivi.

Secondo alcune stime, circa il 50% della popolazione sviluppa nel corso della propria vita un nodulo tiroideo, e solo nel 4-7% si sviluppano noduli dalle dimensioni sufficientemente grandi, per essere avvertiti da un medico tramite palpazione del collo del paziente. L’importanza clinica dei noduli tiroidei

(33)

32 dipende dalla necessità di escludere il carcinoma che si ha nel 5-10% dei casi e che, a sua volta, può dipendere da diversi fattori (età del paziente, sesso, familiarità, condizioni ambientali) (57,58).

I tumori tiroidei possono essere classificati in:

• adenomi: si presentano come noduli follicolari, prevalentemente derivati dalle cellule follicolari e per questo chiamati adenomi follicolari. Alcuni pazienti possono presentare elevati livelli di tireoglobulina nel sangue o segni di ipertiroidismo: in questo caso l’adenoma follicolare è anche chiamato adenoma di Plummer. Microscopicamente l’adenoma è caratterizzato dalla proliferazione di tanti otricoli, circondati dalla capsula, che a seconda della loro grandezza dividono l’adenoma in normofollicolare, microfollicolare, macrofollicolare e solido-trabecolare

(59,60).

• carcinoma papillare: si presenta con lesioni solitarie o multifocali della tiroide. Alcuni di questi tumori possono essere ben circoscritti e incapsulati, mentre altri, a margine irregolare, possono infiltrare il parenchima adiacente. Le lesioni possono contenere aree di fibrosi e calcificazioni, e il loro aspetto è spesso cistico (61).

• carcinoma follicolare: si presenta come un nodulo della tiroide dal diametro variabile, dal colorito bianco-brunastro e può essere dotato di una capsula. Microscopicamente è costituito da una proliferazione di otricoli, come nell’adenoma follicolare, ma a differenza di quest’ultimo, gli otricoli neoplastici invadono la capsula del tumore, si ritrovano all’interno dei vasi ematici o nel tessuto tiroideo adiacente normale.

• carcinoma midollare: insorge dalle cellule parafollicolari che producono calcitonina. Si presenta come un nodulo solitario, o come noduli multipli che interessano entrambi i lobi. Microscopicamente la neoplasia è formata

(34)

33 da una proliferazione solida di cellule poligonali e con citoplasma chiaro, circondate da tessuto fibroso denso, da tessuto collagene e da amiloide.

• carcinoma anaplastico: si presenta come una grossolana lesione nodulare, con aree di necrosi e calcificazioni amorfe al suo interno; può presentare margine irregolare e precoce invasione della capsula della tiroide, con infiltrazione delle strutture adiacenti. Microscopicamente il tumore è formato da una proliferazione di cellule atipiche mesenchimali che possono crescere in nidi, papille e trabecole (59).

3.2.2 Epidemiologia e stadiazione del carcinoma tiroideo

Ogni anno in Italia, 9000 persone vengono colpite da cancro alla tiroide, che rappresenta l’% di tutti i carcinomi. Questa neoplasia è più diffusa tra la popolazione femminile, con un rapporto di 4:1 rispetto agli uomini (60).

L’incidenza è statisticamente aumentata negli ultimi anni, soprattutto per i carcinomi ben differenziati che rappresentano il 90% dei casi e per il carcinoma papillare, che è cresciuto da 2 a 9 volte dal 1988 al 2002, e l’incidenza è sempre maggiore per il sesso femminile (62).La sopravvivenza a 10 anni viene riportata del 98% per il carcinoma papillare, del 92% per la variante follicolare, dell'80% per il midollare e del 13% per il carcinoma anaplastico (63).

La stadiazione dei tumori della tiroide dipende dal tipo di tumore e dall’età del paziente. In particolare, i carcinomi follicolari sono classificati secondo il seguente schema:

- età inferiore a 45 anni

• stadio 1: il tumore può invadere i tessuti e i linfonodi adiacenti, indipendentemente dalle dimensioni, ma non si è diffuso ad altri organi; • stadio 2: il tumore, indipendentemente dalle dimensioni, si è diffuso ad

(35)

34 - età pari o superiore a 45 anni

• stadio 1: il tumore ha un diametro massimo di 2 cm ed è confinato alla tiroide;

• stadio 2: il tumore ha un diametro compreso tra 2 e 4 cm ed è confinato alla tiroide;

• stadio 3: il tumore ha un diametro superiore a 4 cm ed è confinato alla tiroide; oppure, il tumore, indipendentemente dalle dimensioni, ha iniziato a diffondersi oltre la tiroide nei tessuti molli vicini o ha invaso i linfonodi adiacenti del compartimento centrale;

• stadio 4A: il tumore, indipendentemente dalle dimensioni, ha superato la capsula tiroidea e ha invaso il tessuto muscolare e/o la laringe e/o la trachea e/o l’esofago e/o il nervo laringeo ricorrente e/o i linfonodi laterali del collo o della parte superiore del torace;

• stadio 4B: il tumore, indipendentemente dalle dimensioni, ha invaso la fascia prevertebrale e/o l’arteria carotidea e/o i vasi mediastinici;

• stadio 4C: il tumore, indipendentemente dalle dimensioni e dall’invasione linfonodale, si è diffuso ad altri organi (ad esempio ossa o polmone). I tumori anaplastici invece sono classificati in base alla stadiazione TNM. Sono considerati T4, suddivisi in due stadi:

• T4a: tumore di qualsiasi dimensione confinato alla tiroide, asportabile chirurgicamente;

• T4b: tumore di qualsiasi dimensione esteso oltre la capsula tiroidea, non asportabile chirurgicamente.

I carcinomi follicolari e papillari diagnosticati in soggetti di età inferiore a 45 anni hanno la prognosi migliore, con una stadiazione di malattia che, anche in presenza di metastasi a distanza, non supera lo stadio II (31).

(36)

35

3.2.3 Fattori di rischio

Purtroppo ancora oggi non si conosce la causa del tumore tiroideo, ma sono stati individuati i possibili fattori di rischio per il suo sviluppo.

Il fattore di rischio ambientale riconosciuto è l’esposizione a radiazioni ionizzanti, in particolare nell’infanzia (64). Tale esposizione può essere

professionale o derivare da incidenti atomici, ma anche l’esposizione a esami diagnostici o alla radioattività naturale legata a particolari situazioni geo ambientali (es. terreni vulcanici o aree geotermiche) può aumentare il rischio di tumore tiroideo (65,66). I meccanismi alla base della carcinogenesi tiroidea sono conseguenza dell’interazione diretta o indiretta delle radiazioni con il genoma cellulare, che comporta possibili riarrangiamenti dei proto-oncogeni RET e TRK e che spiegherebbe anche la maggiore diffusione delle forme papillari (67).

Un altro fattore di rischio è rappresentato dalla carenza di iodio. Lo iodio è un micronutriente essenziale presente in piccolissime quantità nell’organismo, che è coinvolto nella produzione degli ormoni T3 e T4. Il deficit di iodio è uno dei principali fattori coinvolti nella patogenesi del gozzo (semplice o nodulare), come dimostrato dalla riduzione della prevalenza dello stesso dopo le campagne di iodio-profilassi (68). La carenza di iodio rappresenta, inoltre,

un fattore predisponente allo sviluppo di carcinoma papillare nel caso di eventuale esposizione a radiazioni ionizzanti, come dimostrato nella popolazione di Chernobyl, in cui i casi di carcinoma papillare sono stati più numerosi nelle aree a carenza iodoidica rispetto a quelle iodio sufficienti (69).

Tuttavia, la relazione tra deficit di iodio e incidenza del tumore tiroideo rimane controversa.

Diversi studi hanno ipotizzato che la tiroidite di Hashimoto, causa più comune di ipotiroidismo primario, può rappresentare un altro fattore di rischio per lo sviluppo di carcinoma tiroideo; infatti, l’autoimmunità tiroidea potrebbe favorire la carcinogenesi attraverso la produzione di citochine

(37)

pro-36 infiammatorie e stress ossidativo. Tuttavia, anche in questo caso, non è stata trovata una correlazione tra la presenza di anticorpi anti-tiroidei e rischio di sviluppare una neoplasia tiroidea (70,71).

E’ stato documentato, inoltre, come il rischio di tumore tiroideo sia influenzato dalla componente genetica più di ogni altro tumore (72). Fattori

genetici ed epigenetici e l’interazione tra questi sono quindi implicati nella tumorigenesi dei noduli benigni e dei carcinomi e influiscono sull’aggressività tumorale (73).

Anche l’obesità può essere considerata un fattore di rischio per questo tipo di neoplasia, se pur non è stato ancora stabilito attraverso quale meccanismo inciderebbe (74).

3.2.4 Sintomi e diagnosi

Il sintomo più comune del tumore della tiroide è un nodulo isolato all’interno della ghiandola; fortunatamente, nella maggior parte dei casi, questi noduli sono il segno di una iperplasia tiroidea, ovvero una forma benigna di crescita ghiandolare (30). I noduli tiroidei possono essere svelati “accidentalmente” nel corso di procedure diagnostiche per altre patologie, oppure manifestarsi clinicamente come una tumefazione al collo, in corrispondenza della tiroide, associata o meno a sintomatologia (dolore, sensazione di “corpo estraneo” alla gola, alterazione del timbro della voce) (75). Una volta identificato il nodulo,

è necessario sottoporsi ad una serie di esami atti a definirne la reale natura: • esami del sangue: sono effettuati per controllare i livelli degli ormoni

tiroidei nel sangue (fT3, fT4, calcitonina, tireoglobulina (hTG), anticorpi anti-hTG) e del TSH, ovvero l’ormone che regola il funzionamento della tiroide.

• ecografia: permette di valutare le caratteristiche morfologico-strutturali dei noduli tiroidei e dei linfonodi del collo per poter selezionare quelli che

(38)

37 meritano la valutazione citologica mediante ago-aspirato (75). E’ una

metodica ormai diffusa anche in ambito ambulatoriale e non essendo associata alla somministrazione di radiazioni, può essere effettuata a qualsiasi età e in qualsiasi periodo della vita fertile.

• scintigrafia: ha rappresentato per decenni l’esame cardine nella diagnostica della patologia nodulare tiroidea e si esegue somministrando al paziente lo iodio radioattivo. I noduli iperfunzionanti (aree di captazione eccessiva dello iodio) appaiono come regioni nere dette “nodi caldi”; al contrario, i noduli ipofunzionanti (aree con captazione di iodio scarsa o nulla) appaiono come regioni bianche o di colore grigio dette “nodi freddi”. Se c’è un nodo freddo si può fare un’ecografia per escludere una cisti; si può anche eseguire una biopsia con ago sottile, per escludere una neoplasia maligna (76).

• TAC, RMN e PET: il loro uso per la diagnosi della patologia tiroidea è alquanto limitato, in quanto non sono in grado di dare informazioni più dettagliate rispetto all’ecografia. RMN e TAC non sono in grado di differenziare lesioni maligne e benigne. Assumono invece un ruolo importante nella ricerca di metastasi linfonodali nel follow-up dei carcinomi tiroidei. Al contrario la PET ha dimostrato una buona capacità diagnostica sui noduli maligni (77).

• ago aspirato: è una procedura diagnostica mini-invasiva che viene impiegata per confermare o escludere la natura maligna di un nodulo tiroideo. L’accertamento prevede il prelievo di un piccolo quantitativo di cellule dal nodulo sospetto. Viene impiegato un ago molto sottile, il quale viene inserito attraverso la parete anteriore del collo sotto la guida dell’ecografia (30). Oggi, l’esame citologico da agoaspirato rappresenta il miglior test per la diagnosi di natura della patologia nodulare tiroidea. Benchè si tratti di una metodica caratterizzata da elevata sensibilità, soffre di due limiti: campionamenti “inadeguati” e diagnosi “indeterminate” (78).

(39)

38 Lo scopo principale è quello di distinguere i pazienti che devono essere sottoposti a trattamento chirurgico per il loro alto rischio di malignità da quelli che possono essere seguiti nel tempo perché a rischio molto basso. Pertanto, il referto citologico deve attribuire il paziente ad una categoria diagnostica ben definita ed identificabile con un codice numerico. I diversi quadri citologici che si possono ottenere dall’ago aspirazione di un nodulo tiroideo sono classificati secondo il sistema Britannico:

- TIR 1: Materiale insufficiente per diagnosi; in tal caso è necessario ripetere la procedura.

- TIR 2: Benigno; rappresenta il 60-70% dei risultati e corrisponde, sul piano istologico, a noduli colloidi o iperplastici, tiroidite linfocitaria, tiroidite granulomatosa e cisti benigne; è consigliato il follow-up clinico ecografico.

- TIR 3: Indeterminato (neoformazione microfollicolare); questa categoria comprende noduli iperplastici benigni, adenomi follicolari, carcinomi papillari varietà follicolare e carcinomi follicolari. In considerazione della non trascurabile probabilità di neoplasia (15-25%) è indicato l’intervento chirurgico.

- TIR 4: Sospetto per malignità; comprende lesioni con caratteri citologici che suggeriscono, ma non mostrano in modo decisivo, caratteri di malignità. Comprende inoltre campioni con caratteri fortemente indiziari di malignità ma con cellularità insufficiente; anche in questo caso il paziente deve sottoporsi all’intervento chirurgico.

- TIR 5: Maligno; rappresenta circa il 5% degli agoaspirati: comprende il carcinoma papillare, il carcinoma midollare, il carcinoma anaplastico, i linfomi e le metastasi. Il carcinoma anaplastico, il linfoma e le lesioni metastatiche necessitano di un ulteriore inquadramento prima dell’eventuale operazione chirurgica (79,80).

(40)

39

3.2.5 Trattamento

Il trattamento di prima scelta del tumore alla tiroide è la chirurgia. In particolare, l’intervento di asportazione della tiroide prende il nome di “tiroidectomia”, può essere totale o subtotale (viene lasciato un residuo di ghiandola) e si esegue comunemente in caso di gozzo multinodulare, tumore della tiroide, ed ipertiroidismo (81). Dopo l’intervento di tiroidectomia totale si somministrano, in genere, ormoni tiroidei in sostituzione di quelli che la ghiandola non può produrre. In caso di piccolo carcinoma papillare o follicolare della tiroide, si può procedere con un intervento conservativo di lobectomia e istmectomia, cioè l’asportazione del solo lato coinvolto e del tratto di tiroide che unisce i due lobi. Inoltre, in quelli più a rischio di metastasi, il paziente viene trattato con iodio radioattivo a completamento delle procedure terapeutiche. La radiazione emessa dalle molecole di iodio radioattivo viene trasportato nel nucleo cellulare e distrugge la cellula tiroidea. Questo trattamento, definito “radiometabolico”, è molto efficace proprio per la sua specificità e viene usato al posto della classica radioterapia

(30).

La chemioterapia è limitata alle neoplasie avanzate ed aggressive ed a quelle che hanno già dato metastasi a distanza. L’adriamicina è l’unico

chemioterapico approvato per il carcinoma tiroideo. Da sola o in combinazione non è mai stata testata in studi randommizzati (quelli fatti sono stati chiusi precocemente prima di raggiungere il target di pazienti previsti). La sua attività è modesta in monoterapia (5-37%), mentre non si ha alcun incremento di attività se associata a cisplatino. Una combinazione potenzialmente utile comprende gli analoghi degli antiblastici, epirubicina e carboplatino (82).

(41)

40

3.2.6 Prevenzione

Nelle aree dove il gozzo è endemico, per mancanza di iodio, vi è una maggiore incidenza di neoplasie tiroidee. L’unica forma di prevenzione attuabile è quella di usare sale iodato invece di quello normale, utile anche nella prevenzione di disturbi benigni della tiroide. Non è invece indicata alcuna forma di screening, perché si tratta di tumori rari che spesso non danno problemi per lunghi anni.

Tutte le più recenti linee guide raccomandano di effettuare la valutazione ecografica del collo se si ha più di 45 anni di età e in presenza di fattori di rischio per tumore della tiroide:

• pregressa irradiazione al collo; • familiarità per neoplasia tiroidea;

• noduli clinicamente in rapido accrescimento; • noduli fissi e di consistenza aumentata;

• linfonodi clinicamente patologici;

• comparsa di alterazione stabile del timbro di voce (75,78).

(42)

41

CAPITOLO

4

4.

SCOPO DELLA TESI

Nel presente lavoro di tesi, ci siamo proposti l’obiettivo di validare diverse proteine cellulari, al fine di capire se queste potessero essere considerate

biomarcatori tumorali, utili per la diagnosi precoce di due specifiche

neoplasie. In particolare, il mio lavoro si è diviso in due parti, al fine di investigare l’espressione di proteine identificate da studi precedenti condotti nei nostri laboratori:

- una prima parte si è concentrata sulla validazione della prosaposina (PSPA), possibile biomarcatore tumorale del MPM;

- una seconda parte, invece, si è incentrata sulla validazione di due proteine, annessina 2 (ANXA2) ed annessina 5 (ANXA5), come possibili biomarcatori del tumore alla tiroide in pazienti con noduli microfollicolari, sottoposti all’ago aspirato. Abbiamo, inoltre, validato la presenza di ANXA2 e ANXA5 in campioni di saliva di pazienti con noduli microfollicolari.

(43)

42

C

APITOLO

5

5.

MATERIALI E METODI

Tutti i reagenti e i solventi sono stati acquistati dalle più comuni fonti commerciali.

L’acqua è stata filtrata mediante l’apparecchio MilliQ, PSWhatman, Millipore Corporation, Maid Stone, England.

L’apparecchio usato per l’elettroforesi e il Protean II XL Ready Gel (Biorad) con alimentatore EPS 601 Power Sully (Amersham Bioscience). L’apparecchio usato per il Western Blot e il Trans-Blot Turbo, transfer system (Bio-Rad).

Per il test Elisa sono stati usati i seguenti strumenti:

Spettrofotometro (Perkin Elmer Precisely Lambda 25 UV/VIS);

Strumento per incubazione piastra ELISA (Thermo-Shaker PST-60HL Biosan);

Strumento per lettura ELISA (Wallac Victor2 1420 multilabel counter Perkin Elmer);

Centrifuga ad alta velocità (Sigma);

Centrifuga a bassa velocità (Beckman GPR Centrifuge).

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43 5.1 TEST ELISA PER VALIDAZIONE DELLA PSPA

Il saggio ELISA (Enzyme Linked Immuno-adsorbent Assay) è un metodo di analisi immunochimico usato in biochimica per rilevare la presenza di un antigene grazie all’uso di uno specifico anticorpo. In particolare, per il mio studio è stato utilizzato il metodo ELISA a “sandwich” per la misurazione quantitativa in vitro nel siero umano della PSPA. Questo test ha un’elevata sensibilità e un’eccellente specificità per il rilevamento della PSPA, in quanto non è stata rilevata alcuna interferenza tra PSPA e analoghi.

5.1.1 Preparazione dei campioni

Presso l’unità operativa di Medicina del Lavoro dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Pisa, sono stati raccolti 72 campioni, di cui 36 sieri di pazienti affetti da MPM e 36 sieri di pazienti sani esposti all’asbesto. Questi campioni sono stati precedentemente preparati tramite la tecnica di “separazione del siero” che prevede, per prima cosa, il prelievo di sangue intero da una vena periferica con provette senza anticoagulante, rispettando gli standard di sterilità/asepsi; il prelievo viene mantenuto a temperatura ambiente per 2 ore o per una notte a 4°C per favorire la formazione del coagulo; successivamente, si centrifuga il sangue per 20 minuti a temperatura ambiente a 1000xg. Si divide il surnatante in aliquote trasferite in provette adatte alla crioconservazione (tale procedura è essenziale per evitare ripetuti congelamenti e scongelamenti); infine, le aliquote vengono conservate in scatole da congelamento a -80°C fino al loro utilizzo.

Tutti i soggetti hanno firmato un consenso informato e sono stati associati ad un codice in modo da evitare ogni identificazione personale; i dati, infatti, sono stati trattati in conformità con la legge italiana sulla privacy (675/96) e come approvato dal Comitato Etico e dalla Dichiarazione di Helsinki.

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5.1.2 Preparazione dei reagenti

Per prima cosa, è necessario portare tutti i componenti del kit (ELISA kit for Prosaposin, Cloud-Clone Corp.) e i campioni a temperatura ambiente, agitandoli delicatamente; successivamente si procede con la preparazione dei vari reagenti:

Standard: si ricostituisce lo standard con 1,0 ml di liquido di diluizione. La

concentrazione dello standard nella soluzione madre è di 400 µg/ml; si prepara una soluzione diluita dello standard con concentrazione di 50 µg/ ml, usando la formula Vi x Ci = Vf x Cf. Prima di procedere con la diluizione in

serie bisogna mescolare accuratamente la soluzione preparata. Quindi, si preparano 7 provette contenenti 0,5 ml di liquido di diluizione e utilizzando lo standard diluito, si produce una diluizione seriale come mostrato in figura

7, mescolando accuratamente ogni provetta prima del successivo

trasferimento. Si ottengono, in questo modo, 7 provette contenenti lo standard a concentrazioni di 50 µg/ml, 25 µg/ml, 12,5 µg/ml, 6,25 µg/ml, 3,12 µg/ml, 1.56 µg/ml, 0.78 µg/ml, mentre un’ultima provetta contiene soltanto il liquido di diluizione (concentrazione dello standard di 0 µg/ml).

Figura 7. Rappresentazione grafica delle diluizioni seriali

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