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Il ruolo delle parti nel patteggiamento

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione

...3

1. Diversità concettuale tra procedimenti differenziati e speciali...3

2. Cenni introduttivi sull'applicazione della pena su richiesta delle parti...19

2.1. Le origini dell'istituto: gli artt. 77 e ss della L.689/1981...29

2.2. La disciplina dell'istituto sino al 2003...39

2.3. La disciplina dell'istituto successiva all'introduzione della legge 134/2003...43

Capitolo I...56

La richiesta...56

1. Soggetti legittimati...56

1.1. La richiesta e il consenso: natura e forma...62

1.2. (segue)la richiesta e il consenso: termini di presentazione...66

1.3. Il contenuto della richiesta...76

2. Il problema dell'ammissione di reità...80

3. L'applicazione della pena su richiesta delle parti nell'ambito del procedimento per la responsabilità da reato degli Enti ex D.Lgs. 231/2001...90

4. Il ruolo della parte civile...95

4.1. La costituzione della parte civile ex D.Lgs. 231/2001...110

Capitolo II...114

Il ruolo del Giudice...114

1. I compiti del Giudice...114

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2. L'accertamento della responsabilità: la posizione del Giudice...151

3. Gli effetti tipici della sentenza di patteggiamento...155

3.1. Gli effetti riflessi della sentenza di patteggiamento...160

Capitolo III...170

Il sistema delle impugnazioni della sentenza di Patteggiamento....170

1. Seconda richiesta da parte dell'imputato...172

1.1. Il ruolo del Giudice e del Pubblico Ministero in dibattimento...174

2. Unico caso di appello...175

2.1. Conversione dell'impugnativa...209

3. Il ricorso per cassazione...210

4. Revisione...218

Conclusioni...228

Nuove prospettive di riforma...228

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INTRODUZIONE

SOMMARIO: 1. Diversità concettuale tra procedimenti differenziati e speciali. - 2. Cenni introduttivi sull'applicazione della pena su richiesta delle parti. - 2.1. Le origini dell'istituto: gli artt. 77 e ss della L.689/1981 - 2.2. La disciplina dell'istituto sino al 2003. - 2.3. La disciplina dell'istituto successiva all'introduzione della legge 134/2003.

1. Diversità concettuale tra procedimenti differenziati e speciali.

Se assumiamo che il procedimento penale ordinario, che si svolge presso il tribunale collegiale e la corte d'assise, costituisce il modello base, possiamo isolare due fondamentali tipi di modelli processuali che da esso si distinguono: il primo tipo, che ricomprende i procedimenti differenziati, contiene quei riti che si staccano dal procedimento presso il tribunale collegiale nel senso che hanno la medesima struttura del rito ordinario (dalle indagini preliminari alle impugnazioni), ma rispetto al modello base si caratterizzano per alcune particolarità che attengono o al Giudice o al tipo di responsabilità da accertare; essi si pongono come strutture parallele rispetto al procedimento presso il tribunale collegiale. Possono essere definiti “procedimenti differenziati” i seguenti: quello presso il tribunale monocratico, quello presso il giudice di pace, quello presso il tribunale per i minorenni e quello che accerta la responsabilità amministrativa dell'ente1.

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Un secondo tipo, che ricomprende i procedimenti speciali, contiene quei riti che si distaccano dal modello base, perché si limitano ad omettere una della fasi processuali e cioè l'udienza preliminare o il dibattimento o entrambe. Da un punto di vista meramente formale i procedimenti speciali si dividono in due gruppi: il primo comprende quelli che si limitano ad eliminare l'udienza preliminare per pervenire in modo più veloce al dibattimento. Tali procedimenti, che di regola prescindono dal consenso dell'imputato, sono il giudizio direttissimo e il giudizio immediato. Si tratta di riti che appartengono al sistema processuale misto di tipo napoleonico; in essi viene eliminata l'udienza preliminare e cioè il controllo operato dal Giudice sul rinvio a giudizio. Nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato su richiesta del Pubblico Ministero l'eliminazione avviene in modo imperativo e cioè in base a un provvedimento emesso senza il consenso dell'imputato. La semplificazione, pur ammissibile in astratto sulla base del riconoscimento costituzionale delle esigenze di “ragionevole durata” del processo penale (art.111, comma 2, Cost.), deve tuttavia assicurare un adeguato contemperamento con il diritto di difesa dell'imputato.

Il secondo gruppo di procedimenti speciali comprende i riti che omettono il dibattimento. In questi casi la semplificazione opera solo con il consenso dell'imputato, poiché il diritto al dibattimento è un aspetto centrale del diritto di difesa; si tratta di vedere quali sono le rinunce che ragionevolmente si possono chiedere all'imputato e quale bilanciamento deve essere operato con i diritti costituzionalmente garantiti. I procedimenti speciali che sono fondati sul consenso dell'imputato sono il giudizio abbreviato, il c.d. patteggiamento,

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la sospensione del procedimento con messa alla prova e, in qualche misura, il procedimento per decreto, nel quale la mancata opposizione configura un implicito consenso. In questi riti il Giudice compie le sue valutazioni utilizzando gli atti raccolti in modo unilaterale dalle parti2.

Concepiti quali alternativi al rito principale, i procedimenti speciali non sono necessariamente incompatibili fra loro. La scelta si impone solo all'interno del medesimo gruppo di riti speciali, nel senso che un procedimento di tipo “consensuale” esclude la trasformazione in altro procedimento appartenente al medesimo tipo: ad esempio, una volta ammesso il patteggiamento, non è possibile chiedere il giudizio abbreviato; inoltre, il giudizio immediato richiesto dall'imputato esclude la possibilità di richiedere sia il rito abbreviato sia il patteggiamento.

L'instaurazione di una procedura consensuale è altresì incompatibile con qualsiasi semplificazione autoritativa del procedimento: ad esempio, la scelta del giudizio abbreviato o del patteggiamento esclude sia il giudizio immediato sia il giudizio direttissimo.

È invece sempre consentito il passaggio inverso, da un rito scelto ex auctoritate a uno dei riti consensuali. A rendere opportuna e per certi versi doverosa questa trasformazione concorrono essenzialmente due ragioni: una di tipo economico, giacché il rito premiale, chiudendosi prima del dibattimento, realizza quasi sempre un risparmio di risorse, maggiore rispetto al rito speciale imposto ex auctoritate dal magistrato ed è perciò favorito dal sistema; l'altra ragione ha carattere più propriamente giuridico-costituzionale e si collega all'esigenza di garantire un trattamento uniforme degli imputati di 2 P. Tonini, Manuale di procedura penale, Giuffrè, 2015, sedicesima edizione, p.774.

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fronte alle possibili scelte processuali, verso le quali si può orientare la strategia difensiva dell'imputato; in altre parole, l'accesso ai riti premiali non può essere ostacolato dall'instaurazione autoritativa di un procedimento speciale3.

Se si guarda al recente passato è facile constatare che lo spazio riservato dalla legge alla negoziabilità delle situazioni processuali è andato aumentando via via che i principi dello stato autoritario ed assistenziale hanno perso terreno a vantaggio di un rapporto cittadino-autorità basato su un progressivo coinvolgimento dell'individuo nei problemi di funzionamento degli uffici pubblici, ivi compresi quelli deputati all'esercizio della giurisdizione penale. Nel sistema penale del 1930, la volontà delle parti e, in special modo, dell'imputato, figurava in soli due casi quale presupposto per una semplificazione procedurale tale da comportare una chiusura anticipata del processo: precisamente nell'oblazione e nel procedimento per decreto. Una soluzione pattizia o consensuale della causa penale era dunque ammessa esclusivamente in presenza di reati bagatellari: suscettibili di oblazione, le contravvenzioni punibili con l'ammenda; definibili con decreto penale i reati punibili con la pena pecuniaria.

Una prima significativa dilatazione degli istituti negoziali si verifica con la l.24 novembre 1981, n.689: l'ambito di operatività dell'oblazione subisce una sensibile estensione, sì da includere le contravvenzioni punibili con pena alternativa per le quali il Giudice ritenga di applicare la pena pecuniaria; vine inoltre introdotta una forma di patteggiamento che offre alle parti la

3 G. Conso, V. Grevi, M. Bargis, Compendio di procedura penale, M.C. Gastaldo, F. Della Casa, A. Giarda, L. Giuliani, G. Illuminati, M.R. Marchetti, E. Marzaduri, R. Orlandi, G.P. Voena CEDAM, ottava edizione, p.597.

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possibilità di accordarsi sul quantum di pena, evitando il dibattimento a fronte di reati di scarsa gravità.

La riforma processuale del 1988 ha ulteriormente ampliato il dominio delle parti sulle situazioni processuali, dilatando l'operatività di vecchi istituti e introducendone di nuovi. In particolare, sono stati considerevolmente estesi gli ambiti applicativi del c.d. patteggiamento e del procedimento per decreto; è stato introdotto un nuovo rito speciale deflattivo del dibattimento (il giudizio abbreviato); si è, infine, assegnata all'imputato la facoltà di rinunciare all'udienza preliminare e, in certi casi di contestazione suppletiva, all'intera fase preliminare del processo.

La disciplina dei procedimenti speciali è stata poi rimessa a punto con la legge sul Giudice unico di primo grado. Il D.Lgs. 19 febbraio 1998, n.51 è stato varato per portare a termine la volontà della soppressione della figura del pretore e conseguentemente la volontà di istituire un unico Giudice di primo grado; il tribunale diviene, quindi, il Giudice unico di prima istanza, a parte comunque la Corte di assise. Bisogna, innanzitutto, sottolineare che l'utilizzo del termine “unico” sta a raffigurare l'ufficio, il tribunale, non equivalendo cioè a un Giudice monopersonale e che nel termine “unico” è contemplata la configurazione di due figure, e cioè di un organo collegiale e di un organo monocratico, diversificati quanto a cognizione, nonché al rito, alle garanzie e ai poteri delle parti e del Giudice; va però sottolineata la prevalenza monocratica che caratterizza il neonato tribunale nella visione del D.lgs. Questa è la finalità che ha rilevato nel perseguimento del Giudice unico in vista anche dell'economicità che ne potrebbe scaturire; tale finalità la si sarebbe potuta realizzare anche mantenendo la figura del pretore e

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aumentandogli semplicemente la competenza per i reati maggiori, tale ipotesi ha però incontrato delle remore identificabili in quelle di attribuire al pretore, e non a un collegio, cognizione per ipotesi sempre più gravi. Inoltre bisogna tenere di conto che l'intento del legislatore era proprio quello di sopprimere la figura del pretore, unificandolo nel nuovo tribunale, anche se, come poc'anzi detto, quest'ultimo si proietti con due composizioni diversificate. Il che si pone come una volontà legislativa organizzatoria diretta a incidere sull'architettura giudiziaria con una riforma volta a razionalizzare l'impiego delle risorse umane e strutturali del sistema giustizia. Riforma in cui si esclude che la ridistribuzione degli uffici giudiziari comporti oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato; su questo costo zero ci permettiamo di poter essere dubbiosi.

In tale contesto ci limiteremo a svolgere qualche notazione sui vantaggi e gli svantaggi a seguito della scelta legislativa sul Giudice unico e di quella caratterizzazione di prevalenza monocratica adottata. Ed è proprio tale ultimo aspetto che ci porta a pensare come esso, privilegiando appunto la monocratizzazione si finalizzi a un risparmio, se si identifica in una sola persona la funzione di giudicare; fenomeno che già si era verificato in passato allorquando si era provveduto a una riduzione numerica nella composizione dei collegi, nonché quando si era provveduto a trasferire al pretore la competenza di reati prima appartenenti a un collegio. Da tal punto di vista non si può non convenire sul fatto che la divisione o scomposizione da tre a uno comporti la moltiplicazione di Giudici, utilizzabili come tali in composizione singola; si può allora parlare davvero di maggiore economicità? La risposta non può essere negativa anche se bisogna tenere di

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conto che dalla moltiplicazione dei Giudici monocratici derivi del pari una moltiplicazione degli operatori giudiziari: è lo stesso ufficio del Giudice che, per la sua esistenza, reclama una vasta gamma di collaboratori occorrenti alla realizzazione della funzione; se accanto al fabbisogno soggettivo si aggiunge il correlato accrescimento di quello oggettivo, riferendoci alle strutture edilizie idonee e ai mezzi tecnici, ne deriva che non si potrà certamente negare che non ci siano oneri di non scarsa entità.

A parte queste enunciazioni è bene ora soffermarsi sul profilo dei vantaggi riscontrabili nella già menzionata scelta legislativa: dal singolo sarebbe giusto aspettarsi infatti una maggiore celerità anche se questo, ovviamente, non dovrà tradursi in una scarsa valutazione; anzi dovremmo, invece, immaginare un accrescimento di senso di responsabilità avvertito dal giudicante, consapevole di non poter più trovare appoggio nel numero e, di conseguenza, di non poter condividere con esso la sua decisione. Argomento, quest'ultimo, in cui sicuramente si possono riscontrare dei pregi, anche se non mancano obiezioni di maggior garanzia riscontrabili nel collegio, a cominciare dalle possibilità di errori, stante la mancanza, nella figura monocratica, della “scienza4” di altre persone e di un controllo sia in fatto che

in diritto della propria opinione: un dialogo tra più persone, infatti, vuol dire sottoporre la tesi ad ogni soggetto presente nel collegio. Dalla mancanza di una dialettica all'interno di un organo unipersonale, possono riallacciarsi i rilievi per cui, viceversa, in quello pluripersonale ci si dovrebbe immaginare una minore possibilità di errori, stante l'afflusso di più attenzioni e partecipazioni di cui si è appena parlato, inoltre sarebbe meno ipotizzabile la 4 A. Virgilio, Il giudice unico nel settore penale (dalla istituzione alla riforma),

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possibilità di abusi sia nello svolgimento processuale che nel momento decisorio finale. Si aggiunga infine che il collegio sembra offrire meno permeabilità alle pressioni di ogni genere: resistenza maggiore del collegio quando le pressioni dovessero esprimersi in minacce; indubbiamente queste sarebbero più intimidatorie se fossero rivolte nei confronti di una sola persona. Nonostante ciò, bisogna chiudere tale discorso prevedendo che il legislatore ha statuito per la prevalenza monocratica, per cui quanto appena enunciato potrà magari servire per eventuali modificazioni normative5. Tale riforma è poi confluita nella l. 479 del 1999, la quale agisce sul Giudice unico con una certa incisività: in primis, in ordine alla ripartizione delle attribuzioni tra monocratico e collegiale nonché in ordine al rito agli stessi assegnato. Bisogna innanzitutto soffermarsi sulle nuove versioni degli artt. 33 bis6 e 33 ter7, introdotte dall'art. 10 della legge in parola: dal raffronto di tali norme e quelli sostituite è lecito dedurre in via preliminare come il sistema che ne conseguiva apparisse indubbiamente più semplice. Al tribunale in composizione collegiale apparteneva quel complesso di fattispecie individuate nel comma 1 dell'art. 33 bis c.p.p., nonché, per quantità di pena prevista, i delitti puniti con la pena della reclusione superiore al massimo di venti anni: la pena era determinata dal secondo periodo del comma 2 dell'articolo citato. Al tribunale in composizione monocratica spettava, invece, in via residuale, quanto non fosse previsto dall'art. 33 bis c.p.p. o da altre disposizioni di legge: pertanto, la sua attribuzione, salvo le riserve statuite per il collegio, comprendevano i reati puniti con una pena non 5 A. Virgilio, Il giudice unico nel settore penale (dalla istituzione alla riforma),

jovene, 2000, p. 45.

6 Art. 33 bis, Attribuzioni del tribunale in composizione collegiale. 7 Art. 33 ter, Attribuzioni del tribunale in composizione monocratica.

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superiore nel massimo a venti anni.

A questa distinzione si correlava ovviamente il rito: la lett. e) della L. delega n. 254 del 19978 per cui quanto rientrante nell'ambito collegiale erano da osservare “le norme processuali vigenti per il procedimento innanzi al tribunale”, mentre nelle restanti materie erano da osservare “le norme processuali vigenti per il procedimento innanzi al pretore”.

Ci si deve chiedere se anche oggi sussiste quella semplicità di cui si è appena parlato. Per una risposta positiva non possono non esserci dei dubbi per quanto concerne il procedimento innanzi al tribunale monocratico vista la diversa normazione introdotta e il discrimine tra i casi di citazione diretta e non; esenti da dubbi non si è, però, nemmeno in ordine al criterio ripartitivo delle attribuzioni tra le due configurazioni di tribunale che, a nostro avviso, appare più complesso.

Restando sui nuovi artt. 33 bis e 33 ter c.p.p. bisogna affermare che per quanto riguarda il primo, in ordine alle lettere del comma 1, il mutamento in alcuni casi è dovuto solo a un diverso modo di enunciare i commi o di far luogo a citazioni di legge che rappresentino conversioni del D.L o di precisazioni dell'atto normativo, come nel caso della lett. g) dell'articolo in parola. È nel secondo comma, però, che si ravvisa maggiormente la diversità di criterio, che si basa sia sulla quantità della pena che nell'esclusione dei delitti attribuiti nel comma 1 dell'art. 33 ter al tribunale in composizione monocratica; salvo tale esclusione al collegio spettano, infatti, i delitti puniti con la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni.

Resta da aggiungere, a ulteriore specificazione della diversità di criteri 8 Con la L. 16 luglio 1997, n. 254 veniva data “Delega al Governo per l'istituzione

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introdotti con la l. 479 del 1999, che per la determinazione della pena si osservano le disposizioni dell'art. 4 c.p.p.9 e non più quelle imposte dal comma 2 del sostituito art. 33 bis per cui, invece, si aveva riguardo al massimo della pena stabilito dalla legge per il reato, consumato o tentato, tenuto conto dell'aumento massimo di pena stabilito per le circostanze aggravanti. A voler essere realisti, però, non resta che riconoscere che si tratta di una scelta legislativa.

Si tratta sempre di una scelta legislativa anche quella che esclude dal collegiale, nel contempo, i delitti racchiusi nel comma 1 dell'art. 33 ter, di cui alcuni sarebbero, invece, certamente rientranti nel collegiale, come anche superiori ai dieci anni di reclusione se non vi fosse stata quella precisa eccezione con specifica attribuzione al monocratico.

Senza volersi ulteriormente soffermare sulle ripartizioni tra collegiale e monocratico, ci sembra di poter concludere tale discorso con due ultimi rilievi: il primo, si riferisce al fatto che il criterio specificativo di fattispecie viene con il comma 1 dell'art. 33 ter c.p.p. introdotto anche nell'ambito del monocratico. Il secondo riguarda, in sostanza, un criterio di esclusione di fattispecie; il riferimento va al comma 1 dell'art. 33 ter che espunge dalle attribuzioni all'organo monopersonale le fattispecie in cui siano contestate le aggravanti di cui all'art. 80 comma 1, 3 e 4 del D.p.r. n. 309 del 199010.

9 Regole per la determinazione della competenza – Per la determinazione della

competenza si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione delle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.

10 Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.

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Si conclude affermando che se si volesse ancora parlare di attribuzione residuale per il tribunale monocratico, lo si potrebbe anche fare, sottolineando, però, che essa si aggiunge al conferimento delle spettanze primieramente indicate nel comma 111.

La l. 16 novembre 1999, n.479 ha, inoltre, profondamente innovato la normativa sul giudizio abbreviato, nell'intento sia di ampliare l'ambito di operatività, sia di correggerne talune storture che la rendevano costituzionalmente illegittima; ha rimaneggiato il procedimento per decreto, allo scopo di accrescerne l'efficacia deflattiva, ha parzialmente modificato patteggiamento e giudizio immediato, al fine di adeguare le rispettive discipline alla giurisprudenza costituzionale e alle nuove norme sull'udienza preliminare12.

Addentrandoci nei contenuti della manovra novellistica in esame, per quanto riguarda in particolare l'istituto del patteggiamento, va detto che questi si concentrano su profili dinamici del procedimento, lasciando, per contro, inalterata la disciplina dei presupposti del rito: l'oggetto e i limiti del negoziabile, nonché le prerogative della giurisdizione, si mantengono immutati. Questo non viene smentito nemmeno dalla constatazione dell'intervenuta riscrittura del secondo comma dell'art. 444 c.p.p.: in tal caso si tratta, infatti, della mera inserzione di direttive derivanti da altrettante censure di illegittimità costituzionali subite a suo tempo dal testo originario. Così da un lato si dispone che il Giudice, investito della richiesta di

11 A. Virgilio Il giudice unico nel settore penale (dalla istituzione alla riforma), jovene, 2000, p. 228.

12 G. Conso, V. Grevi, M. Bargis, Compendio di procedura penale, M.C. Gastaldo, F. Della Casa, A. Giarda, L. Giuliani, G. Illuminati, M.R. Marchetti, E. Marzaduri, R. Orlandi, G.P. Voena CEDAM, ottava edizione, p.598.

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applicazione della pena concordata, deve valutare la congruità; dall'altro, si ribadisce che il buon esito dell'istanza di semplificazione non esonera l'imputato dal pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile, salvo che il Giudice non ritenga sussistere un'esigenza di compensazione totale o parziale delle stesse13.

Significative sono, invece, le novità apportate alle movenze procedimentali: innanzitutto, viene riplasmato l'assetto cronologico del rito; in particolare, il termine finale per la proposizione della richiesta di applicazione della pena, e parallelamente quello per la manifestazione del consenso, arretrano al momento della presentazione delle conclusioni in sede di udienza preliminare, sempre che si tratti di un procedimento dotato di tale fase. Diversamente, tale termine si colloca nei seguenti modi: la dichiarazione di apertura del dibattimento, in caso di rito direttissimo; il termine previsto, in sede di giudizio immediato attivato dal Pubblico Ministero, per l'eventuale richiesta di trasformazione in abbreviato. Distinta, invece, appare l'articolazione di tale scadenza nel caso di procedimento di competenza del tribunale in composizione monocratica quando manchi l'udienza preliminare: in tal caso il termine si individua rispettivamente nella dichiarazione di apertura del dibattimento in caso di procedura a citazione diretta; nell'atto di opposizione al decreto penale di condanna, qualora si proceda in via monitoria; nel momento subito successivo alla convalida dell'arresto o del fermo ove si versi nello schema del giudizio direttissimo.

13 G.M. Baccari, A. Bernasconi, F. Caprioli, G. Ciani, C. Conti, S. Corbetta, G. Di Chiara, G. Garuti, G. Leo, P. Moscardini, D. Negri, F. Peroni, A. Presutti, F. Rigo, A. Scalfati, A. Scella, G. Spangher, P. Tonini, Il processo penale dopo la

riforma del giudice unico (l. 16 dicembre 1999, n.479), a cura di F. Peroni,

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In estrema sintesi, si prevede un riassetto, con evidenti fini di razionalizzazione, delle scadenze imposte alle parti per esprimere le loro determinazioni in ordine alla scelta del rito; rito che, peraltro, non può che accogliersi con favore. È noto, in particolare, come la possibilità di presentare richiesta di patteggiamento all'apertura del dibattimento si traducesse, in passato, in un potenziale sacrificio proprio di quelle istanze di economia su cui si basa il rito alternativo14.

Di notevole portata innovativa è stata anche la ricalibratura dei meccanismi azionabili in caso di epilogo infausto di una richiesta di applicazione della pena in fase di indagini preliminari. La riforma agisce, in particolare, in due direzioni: sotto un primo profilo, la riformulazione dell'art. 448, comma 1 c.p.p. segnala come la possibilità di recupero dell'epilogo patteggiato si offra ora non solo all'imputato che abbia visto respinta la propria richiesta dal Pubblico Ministero, ma anche alle parti che, concordi sui termini dell'iniziativa negoziale, abbiano subito il rigetto della richiesta da parte del Giudice competente. La portata della modifica si apprezzerà solo se si rammenta come la precedente disciplina non contemplasse, per tale ultima ipotesi, alcun meccanismo di recupero della soluzione patteggiata in sede di giudizio. L'asimmetria che ne derivava rispetto alla fattispecie di mancata adesione del Pubblico Ministero alla proposta dell'imputato e l'evidente sacrificio di esigenze di tutela di quest'ultimo, avevano indotto parte della dottrina a suggerire un'assimilazione di entrambe le fattispecie alla medesima

14 G.M. Baccari, A. Bernasconi, F. Caprioli, G. Ciani, C. Conti, S. Corbetta, G. Di Chiara, G. Garuti, G. Leo, P. Moscardini, D. Negri, F. Peroni, A. Presutti, F. Rigo, A. Scalfati, A. Scella, G. Spangher, P. Tonini, Il processo penale dopo la

riforma del giudice unico (l. 16 dicembre 1999, n.479), a cura di F. Peroni,

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dinamica: quella del possibile recupero in fase di giudizio della pena ridotta. Peraltro, un'interpretazione in tal senso risultava, oltre che priva di un supporto normativo, portatrice di non pochi inconvenienti di ordine sistematico. In effetti, l'applicazione della pena concordata in sede dibattimentale anche per la fattispecie non disciplinata si sarebbe tradotta in un aggiramento del limite cronologico prescritto dall'art. 446, comma 1 c.p.p., finendo per riconoscere alle parti un'irrituale facoltà di rinnovazione della richiesta oltre lo spartiacque della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Tale quadro normativo obbligava, dunque, a prevedere che, ogni volta le parti avessero visto respinta la propria richiesta di definizione negoziata del processo, non avrebbero potuto dolersene che in sede di impugnazione della sentenza dibattimentale di primo grado.

Ebbene, il testo novellato grazie alla l. 479 del 1999, modificando il comma 1 dell'art. 448 c.p.p., supera definitivamente le incongruità della versione originaria, equiparando, per quanto concerne le dinamiche, l'ipotesi di dissenso del Pubblico Ministero e quella di rigetto del concordato da parte del Giudice per le indagini preliminari15.

Dalla riformulazione della norma in parola emerge anche l'inedita facoltà dell'imputato di rinnovare, entro l'apertura del dibattimento, l'iniziativa negoziale precedentemente rigettata dal Giudice o non andata a buon fine per il dissenso del titolare dell'accusa; si opera in tal modo una sorta di anticipazione di quel congegno di applicazione postuma dell'epilogo

15 La menzione del solo Giudice delle indagini preliminari è ben lontana dall'esprimere un'intenzione esclusiva nei confronti del Giudice dell'udienza preliminare come si può notare alla luce dell'incipit dell'art. 448 c.p.p., che nel regolamentare il termine per richiedere il patteggiamento, tratta anche di itinerari procedimentali sprovvisti dell'udienza preliminare.

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patteggiato, indispensabile a salvaguardare da censure di illegittimità costituzionale il potere di veto attribuito al Pubblico Ministero16.

L'innovazione offre il pregio di svincolare l'applicazione della pena dal compimento, prima inderogabile, delle attività dibattimentali, prefigurando una contrazione dei tempi processuali; a ben vedere, però, le potenzialità deflattive del nuovo congegno sono compromesse dalla conservata facoltà dell'imputato di perseguire la pena ridotta all'esito del dibattimento o in sede di impugnazione. Se dunque la scelta operata dal legislatore del 1999 pare non priva di una sua coerenza garantistica, deve avvertirsi che quella stessa scelta potrebbe comportare un prezzo non trascurabile per i tempi processuali, inducendo a privilegiare la reiterata presentazione della propria proposta rispetto all'obiettivo di una rapida definizione negoziale con il Pubblico Ministero. Si deve, però, osservare che i riflessi negativi riconducibili a tale espediente sono contenuti dal limite dell'immodificabilità della proposta17.

A sua volta, la legge sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche fa leva sugli istituti premiali, rendendo accessibile all'ente-imputato sia il giudizio abbreviato, sia l'applicazione della sentenza su richiesta, sia il procedimento per decreto. Infine, grazie alla l. 12 giugno 2003, n.134, il patteggiamento ha visto dilatarsi in misura davvero rimarchevole il proprio ambito di applicabilità.

16 È sulla scorta di tale considerazione, oltre che sulla base della lettera della norma, che si è indotti a ritenere che il Giudice destinatario della rinnovata richiesta possa accoglierla anche a prescindere dal dissenso del Pubblico Ministero. 17 G.M. Baccari, A. Bernasconi, F. Caprioli, G. Ciani, C. Conti, S. Corbetta, G. Di

Chiara, G. Garuti, G. Leo, P. Moscardini, D. Negri, F. Peroni, A. Presutti, F. Rigo, A. Scalfati, A. Scella, G. Spangher, P. Tonini, Il processo penale dopo la

riforma del giudice unico (l. 16 dicembre 1999, n.479), a cura di F. Peroni,

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Più di recente, la l. 28 aprile 2014, n.67 ha introdotto un nuovo rito speciale, la sospensione del processo con messa alla prova (Titolo V-bis), modellato sull'analogo istituto da tempo sperimentato con qualche successo nel settore della giustizia minorile.

Comunque sia, a dispetto delle severe critiche dottrinali cha hanno attirato e continuano ad attirare su di sé, bisogna ammettere che i riti consensuali sono sempre più incoraggiati dalle legge processuale e si sono ormai guadagnati uno spazio significativo nella prassi giudiziaria.

Il loro comun denominatore lo si ritrova nella rinuncia delle parti, in particolare dell'imputato, a giovarsi dei possibili vantaggi abbinati a determinate situazioni processuali tipiche del procedimento ordinario. La diversità di disciplina si giustifica con la varietà delle situazioni suscettibili di costituire l'oggetto di quell'atto dispositivo e di rinuncia, che una o entrambe le parti sono legittimate a compiere. Rinunciando al dibattimento, l'imputato si priva della facoltà di contrastare l'accusa con quella grande abbondanza di strumenti che la fase del giudizio offrirebbe. Una simile rinuncia, del tutto legittima sul piano costituzionale, in quanto espressamente giustificata da quel richiamo al consenso che compare nel novellato testo dell'art. 111 comma 5° Cost., comporta una comprensibile accelerazione sullo svolgimento processuale, ma in modo da avvantaggiare sensibilmente l'accusa, non fosse altro perché rende legittima una sentenza di merito sulla base degli atti compiuti unilateralmente da polizia giudiziaria e Pubblico Ministero.

Nessun imputato dotato di senno farebbe ovviamente una scelta così rischiosa e persino autolesionistica, se non vi fosse spinto dalla prospettiva di un

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possibile tornaconto. Di qui il carattere premiale di questi procedimenti, basati su uno scambio di entità tradizionalmente disomogenee rese forzatamente omogenee in nome del principio efficientistico: al fine di incentivare la rinuncia alle opportunità difensive delle quali l'imputato potrebbe giovarsi nel dibattimento, la legge offre sensibili sconti di pena e altri cospicui vantaggi.

Ben diversa la ragione che determina la rinuncia all'udienza preliminare nel giudizio immediato richiesto dall'imputato o all'intera fase preliminare del processo nei casi di giudizio direttissimo consensuale: qui è assente qualsiasi connotazione di premialità. Col consentire l'amputazione di una fase del procedimento penale per arrivare prima al giudizio, l'imputato rinuncia sì alla possibilità di profittare di certe chances difensive, ma al verosimile scopo di meglio tutelare la propria posizione in vista di un pronosticabile e irrevocabile proscioglimento, non già per concedere qualcosa all'accusa, ma in cambio di uno sconto di pena18.

2. Cenni introduttivi sull'applicazione della pena su richiesta delle parti.

Nel nuovo codice di procedura penale adottato nel 1988, l'alternativa inquisitoria, intesa come deviazione dall'andamento normale del processo penale che prevede che esso si sviluppi con il rito accusatorio, è rappresentata

18 G. Conso, V. Grevi, M. Bargis, Compendio di procedura penale, M.C. Gastaldo, F. Della Casa, A. Giarda, L. Giuliani, G. Illuminati, M.R. Marchetti, E. Marzaduri, R. Orlandi, G.P. Voena CEDAM, ottava edizione, p.598.

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da quei riti che consentono di pervenire alla definizione del procedimento utilizzando come prova gli atti delle indagini preliminari compiuti dal Pubblico Ministero.

Le radici normative dell'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti ex artt. 444 e ss. c.p.p vanno individuate nella legge 24 novembre 1981, n.689 e più precisamente nell'istituto disciplinato dagli artt. 77 e ss. della legge de qua, ove si disciplinava l'istituto dell'applicazione di sanzioni sostitutive su richiesta dell'imputato. Detta normativa, prevedeva che nel corso dell'istruzione e fino a quando non fossero state compiute per la prima volta le formalità di apertura del dibattimento, il Giudice, laddove ritenesse la sussistenza di elementi per applicare, per il reato per cui si procedeva, la sanzione sostitutiva della libertà controllata o della pena pecuniaria, potesse disporre con sentenza, su richiesta dell'imputato e con il parere favorevole del Pubblico Ministero, l'applicazione della sanzione sostitutiva, con l'esclusione di ogni pena accessoria e misura di sicurezza, ad eccezione della confisca nei casi previsti dal comma 2 dell'art. 240 c.p19.

Nella nuova riformulazione dell'istituto conseguente all'adozione del nuovo codice, la denominazione del rito sta a significare che il Giudice, con sentenza, applica quella pena che è stata precisata da una concorde richiesta delle parti e cioè dall'imputato e dal Pubblico Ministero. Al Giudice spetta di controllare la correttezza della qualificazione giuridica del fatto e la congruità della pena richiesta. La decisione avviene allo stato degli atti, e cioè sulla base del fascicolo delle indagini e dell'eventuale fascicolo del difensore, contenente la documentazione delle investigazioni difensive. La

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semplificazione consiste nell'eliminare l'assunzione delle prove e nell'utilizzare i verbali degli atti di indagine ai fini della decisione. Una volta pronunciata la sentenza, questa di regola non è appellabile, ma può essere sottoposta a ricorso per cassazione.

La legge prevede un incentivo per l'imputato che si accorda con il Pubblico Ministero: nel determinare la pena, sulla quale si forma l'accordo, si deve applicare una diminuzione fino a un terzo; la diminuzione opera dopo che è stato effettuato il computo delle circostanze.

Proprio sull'aspetto degli incentivi è poi intervenuto il Parlamento che, con la legge 12 giugno 2003, n.134, ha ampliato l'ambito di applicazione dell'istituto. In seguito alle modifiche intervenute, oggi sono configurabili due distinti tipi di patteggiamento, quello “tradizionale” e quello “allargato”20.

L'applicazione della pena su richiesta delle parti ha destato numerose perplessità in ordine alla sua compatibilità con alcuni principi costituzionali. Le frizioni del patteggiamento con il dettato costituzionale sono dovute alla difficile conciliabilità tra le sue due componenti: quella negoziale e quella giurisdizionale. La compatibilità dell'istituto in esame con i principi costituzionali dipende da come vengono bilanciati questi due aspetti. In altre parole si tratta di stabilire in maniera adeguata fino a che punto possano spingersi i poteri dispositivi delle parti che scelgono di accordarsi e quali siano i doveri accertativi del Giudice. Il nostro legislatore non ha però fissato con la dovuta chiarezza il punto di equilibrio tra la componente negoziale e quella giurisdizionale; questo spiega perché una delle questioni 20 P. Tonini, Manuale di procedura penale, Giuffrè, 2015, sedicesima edizione,

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maggiormente dibattute in materia di patteggiamento sia stata e continui ad essere quella relativa alla natura della sentenza21.

Merita, a questo punto, ricordare il disposto dell'art. 445 comma 1-bis, a mente del quale, “salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”. Dal punto di vista dei contenuti, invece, l'art. 444, comma 2, afferma solo che la sentenza in esame viene emessa quando “non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 129” e “sulla base degli atti”; niente di più prevede con riguardo al contenuto probatorio.

Dalla lettura dell'art. 445 si ricava che il codice del 1988 non ha voluto qualificare come condanna la sentenza di patteggiamento; la ragione della scelta è resa palese dalla Relazione al progetto preliminare del codice, dal quale si evince che la decisione del Giudice avrebbe dovuto prescindere da un positivo accertamento della responsabilità penale.

L'impostazione recepita dal codice del 1988 ha però sollevato una serie di riserve di legittimità costituzionale soprattutto con riferimento al principio nulla poena sine iudicio. Saremmo infatti in presenza di un meccanismo in virtù del quale la sanzione penale verrebbe applicata a prescindere da una condanna e, quindi, da un accertamento di responsabilità nei confronti dell'imputato. Eppure quest'ultimo, va ricordato, è presunto innocente (art. 27, comma 2 Cost.). Una simile lettura appare confliggere anche con il principio costituzionale relativo all'indisponibilità della libertà personale ( art. 13, comma 1 Cost.). A tal riguardo è il caso di aprire una piccola parentesi affermando che anche oggi, come nei secoli scorsi, il processo può dar luogo 21 P. Tonini, Manuale di procedura penale, Giuffrè, 2015, sedicesima edizione,

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a delle restrizioni della libertà personale; tali restrizioni inoltre, anche se in misura inferiore rispetto al passato, possono essere causa di lesioni attinenti a beni ulteriori dell'imputato, all'integrità fisica e alla libertà morale. La prima circostanza su cui bisogna soffermarsi è proprio il contrasto fra il modo in cui generalmente vengono valutate da un lato le restrizioni di cui abbiamo parlato sopra e dall'altro le lesioni. La difformità di quest'ultime dai principi di fondo del sistema è ormai avvertita saldamente dalla coscienza sociale come dai Giudici chiamati talvolta a giudicarle e ciò anche se l'ordinamento non ha ancora rinvenuto strumenti efficaci per impedirle; al contrario invece si ha l'impressione che le restrizioni cui va soggetta la libertà personale dell'imputato appaiono più normali e giustificabili di quanto in effetti non siano. Certo mentre le lesioni sono espressamente vietate dalla Costituzione , le restrizioni sono invece ammissibili sia pur entro limiti determinati22. A tal riguardo bisogna inoltre aggiungere che nonostante tale libertà sia stata considerata inviolabile, come si evince dal primo comma dell'art. 13 Cost., il secondo comma, invece, implica la possibilità di poter incidere su tale diritto prevedendo una garanzia a tutela ovvero la riserva di legge e di giurisdizione. Su un piano strettamente tecnico possiamo quindi dire che la libertà personale si configura certamente come una sfera di autonomia, suscettibile bensì di compressione, ma munita di strumenti giuridici per poterlo fare; da ciò si può quindi desumere che se la premessa è l'inviolabilità, il sacrificio può avvenire solo nei casi predeterminati dalla legge in misura tale da poterne dare conto nella motivazione degli atti giudiziali23.

22 Giul. Amato, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Giuffrè, 1967, p.367.

23 Giul. Amato, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Giuffrè, 1967, p.367.

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Le disposizioni costituzionali richiamate non valgono solo a dar conto dello spessore sostanziale delle garanzie accordate dal Costituente alla libertà personale, ma servono anche da guida per individuare l'ambito entro il quale sono chiamate ad operare o per definire la nozione costituzionale di libertà personale. Le tesi espresse dalla dottrina possono essere riportate a due filoni interpretativi:

I. rappresentato da coloro che ritengono che la nozione di libertà personale di cui l'art. 13 Cost. coincida con quella di libertà fisica24, II. rappresentato da chi ritiene estensibile le garanzie previste dalla

disposizione costituzionale in parola anche alla tutela della dignità sociale oppure alla tutela della libertà morale.

Senza entrare nel merito del dibattito si può però sostenere che la posizione della Corte Costituzionale al riguardo appare sostanzialmente allineata con il primo filone interpretativo anche se essa ha subito nel tempo alcune oscillazioni non marginali.

Peraltro la nozione costituzionale di libertà personale non solo non risulta facilmente ricavabile da una mera esegesi dell'art. 13 Cost, ma si presenta di ardua precisazione per il fatto di riferirsi a una “libertà-situazione25”, la cui

molteplicità di possibili estrinsecazioni mal si presta a un'immediata esaustiva percezione. Ciò comporta un duplice ordine di conseguenze: innanzi tutto l'esigenza di correggere la tendenza a definire in termini 24 Come sostenuto anche da Giul. Amato nel Commento all'art. 13 Cost., Zanichelli,

Bologna, 1977, p.1.

25 Giul. Amato, Commento all'art. 13 Cost., Zanichelli, Bologna, 1977: “essa si

colloca infatti non tra le libertà-facoltà (quelle cioè che coincidono con singole e specifiche facoltà), ma tra le libertà-situazioni (quelle cioè in cui la garanzia copre tutte le indefinibili facoltà che si possono esercitare in quanto ci si trova in una situazione di libertà) e questo rende la sua definizione naturalmente polivalente”, cit p.2.

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eccessivamente rigidi quella nozione sulla base dei soli dati testuali disponibili, evitando così il rischio di una sua cristallizzazione astratta. In secondo luogo l'esigenza di tenere conto degli sviluppi concreti che l'ordinamento assicura al quadro complessivo dei principi costituzionali, cercando di cogliere, al di là del dato meramente testuale, il senso dei conflitti di interessi reali.

Per questa via il rapporto libertà-autorità si arricchisce di una nuova dimensione: cessa di essere solo la storia delle relazioni tra Stato e cittadino, ma diviene anche la storia del rapporto tra i poteri all'interno dello Stato. Il quadro che ne esce risulta assai più complesso e articolato che in passato; accanto, infatti, alla tutela della persona in quanto tale, della persona fisica disposta dall'art. 13 Cost., troviamo la tutela della persona in una serie di proiezioni e attività essenziali al libero sviluppo della stessa in relazione sia a possibili interferenze pubbliche che private26.

Tornando al tema principale, le riserve menzionate si sono poi via via aggravate negli anni a seguito di fenomeni convergenti: da un lato si sono registrati una serie di interventi legislativi e giurisprudenziali volti ad attribuire alla sentenza di patteggiamento alcuni tra i più rilevanti effetti che la legge riconosce alla sentenza di condanna; da un altro lato, l'introduzione del patteggiamento allargato ha ampliato l'area applicativa del rito in esame, con ciò rendendo ancor più forte la frizione con i principi costituzionali27. Dall'entrata in vigore fino ad oggi sono intervenute numerose leggi che hanno disciplinato espressamente gli effetti sostanziali e processuali della sentenza 26 P. Caretti, I diritti fondamentali, libertà e diritti sociali, Giappichelli, Torino,

2002, p.187.

27 P. Tonini, Manuale di procedura penale, Giuffrè, 2015, sedicesima edizione, p.800.

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di patteggiamento, con ciò eliminando le incertezze lasciate dall'ambiguo dettato costituzionale:

1. la legge n. 97 del 2001 ha previsto che la sentenza di patteggiamento sia equiparata alla condanna ai fini degli effetti del giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità. Infatti l'art. 445, comma 1-bis stabilisce che la sentenza in esame non ha efficacia nei giudizi civili ed amministrativi “salvo quanto previsto dall'art. 65328”; da qui si ricava, quindi, che l'efficacia di giudicato è riconosciuta solo a quelle sentenza di patteggiamento che contengano un accertamento del fatto.

2. La legge n. 134 del 2003 ha equiparato la sentenza di patteggiamento alla condanna ai fini della possibilità di revisione.

3. Un'ultima rilevante indicazione si trae da una pronuncia delle Sezioni unite29. Il Supremo collegio ha risolto un contrasto giurisprudenziale affermando che la sentenza di patteggiamento è idonea a provocare la revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena precedentemente concesso da altro Giudice. Dalla motivazione della pronuncia si ricava che la Corte ha riconosciuto implicitamente la natura accertativa della sentenza di patteggiamento; l'effetto risolutivo della sospensione, infatti, ha come presupposto l'accertamento della commissione da parte dell'imputato di un nuovo 28 “1. La sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l'imputato non lo ha commesso. 1Bis. La sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso.” 29 Cass., sez. un., 29 novembre 2005-23 maggio2006, n.17781, Diop Oumar

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reato che fa venir meno la prognosi di ravvedimento e mina le basi del giudizio di meritevolezza che aveva portato a concedere il beneficio30.

Da quanto fin qui è esposto, è possibile affrontare il problema della natura accertativa o meno della sentenza di patteggiamento. Sulla configurabilità del Giudice di operare un accertamento della responsabilità dell'imputato si registra una divaricazione tra due opposti filoni interpretativi: a quanti ritengono indispensabile un accertamento del genere31, si oppongono coloro che negano la configurabilità di un accertamento giudiziale, anche solo implicito.

Appare più convincente, però, una tesi secondo la quale la sentenza che accoglie il patteggiamento conterrebbe un accertamento incompleto. Questa soluzione concilia le esigenze di rispetto dei principi costituzionali con la necessità di mantenere immutato un rito speciale che dal 1988 ha dato buona prova della propria funzione deflattiva. D'altronde l'art. 111 comma 5 Cost. consente espressamente una deroga al principio del contraddittorio nella formazione della prova in presenza del consenso dell'imputato. Da tale norma pare potersi ricavare che l'accertamento della responsabilità sia una regola disponibile, tale da ammettere che il Giudice possa limitarsi alla verifica

30 P. Tonini, Manuale di procedura penale, Giuffrè, 2015, sedicesima edizione, p.800.

31 La necessità di un accertamento della responsabilità è stata ritenuta indispensabile già dalla sentenza della Corte Costituzionale n.313 del 1990, dove si è, infatti, previsto che il giudice non è vincolato alla volontà delle parti bensì soltanto alla legge (art. 101 Cost.); non può essere considerato quale mero notaio di scelte operate da altri. Pertanto la sua decisione di accoglimento dell'accordo deve contenere un accertamento della responsabilità dell'imputato; soltanto in presenza di un accertamento di tal tipo si può applicare una limitazione della libertà personale. Tale soluzione evita frizioni con i principi costituzionali già menzionati, ma ha il difetto di non avere riscontri nella lettera del codice, che anzi esclude la configurabilità di una condanna in senso proprio.

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negativa della non esistenza di una causa di non punibilità. In sintesi, l'art. 111 Cost. non impone un unico tipo di accertamento uguale per tutte le situazioni: permette che vi sia un accertamento incompleto su consenso dell'imputato, purché un minimo di accertamento ci sia.

Con l'accordo delle parti si attua, infatti, una forma dialettica che non elimina, ma attenua l'onere della prova in capo al Pubblico Ministero; la presunzione di innocenza resta, dunque, salva come regola probatoria. L'imputato rinuncia solo a quella garanzia che consiste nella regola dell'oltre ragionevole dubbio, rendendo più lieve l'onere probatorio in capo al Pubblico Ministero. In sostanza, il Giudice non può rigettare la richiesta di patteggiamento per incompletezza delle indagini; in presenza di un minimo di prova di reità e in mancanza di una prova piena di innocenza ai sensi dell'art. 129, il Giudice, nel dubbio, non può rigettare la richiesta, né disporre l'acquisizione di nuove prove, ma deve emettere sentenza di patteggiamento. Se questa forma di dialettica oltre a soddisfare le reciproche esigenze delle parti, attua anche le esigenze di ragionevole durata, è evidente che la si può utilizzare nella misura in cui consenta di ridurre i tempi processuali, come impone l'art. 111, comma 2 Cost.: non si finge, quindi, che ci sia un accertamento che in realtà non esiste, bensì si permette un accertamento di intensità minore che però deve necessariamente essere effettuato.

In sostanza la differenza tra la sentenza di condanna e quella di patteggiamento risiede nel diverso grado di approfondimento della cognizione del Giudice32.

32 P. Tonini, Manuale di procedura penale, Giuffrè, 2015, sedicesima edizione, p.800.

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2.1 Le origini dell'istituto: gli artt. 77 e ss della L. 689/1981.

L'introduzione dell'istituto di applicazione di sanzioni sostitutive su richiesta dell'imputato ha attratto maggiormente l'interesse degli operatori giuridici. Ci troviamo innanzi a una normativa, la quale, anche se in presenza di dichiarate cautele e ambiguità, rappresenta il risultato originale sino ad oggi scaturito dal dibattito che si è andato sviluppando negli ultimi anni del 1980, sulla necessità di ridurre le ipotesi di ricorso obbligatorio al modello ordinario di processo penale attraverso l'elaborazione di strumenti finalizzati a rendere più spedito l'iter procedimentale, sopprimendo fasi o abolendo stati processuali. L'interesse per una tale riforma non può che essere scaturito dalle preoccupanti incapacità delle nostre amministrazioni giudiziarie di fornire risposte tempestive alle istanze di giustizia: l'assenza di meccanismi che, da un lato, impedivano la formazione dei tempi morti, dall'altro consentivano una conclusione anticipata dei procedimenti in corso33.

Nella prospettiva di contenimento dell'uso del processo, che potrebbe essere definita come deprocesualizzazione, il legislatore del 1981 ha utilizzato strade diverse, ma convergenti dal punto di vista funzionale: da un lato, la riduzione del numero dei fatti costitutivi tramite depanilizzazione e la correlativa estensione dei casi di perseguibilità a querela; dall'altro, l'ampliamento del ricorso ai meccanismi di definizione abbreviata del procedimento penale. In questa seconda posizione si colloca l'istituto previsto dall'art. 77 della legge in esame, che consente al Giudice, su richiesta 33 E. Marzaduri, L'applicazioni di sanzioni sostitutive su richiesta dell'imputato,

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dell'imputato e con il consenso favorevole del Pubblico Ministero, di applicare la sanzione sostitutiva della libertà controllata o della pena pecuniaria già in fase istruttoria, chiudendo anticipatamente il processo mediante una sentenza ricorribile solo per Cassazione. La scelta del rito alternativo, che, attraverso la tendenziale eliminazione della fase dibattimentale e la soppressione dell'impugnativa nel merito, permette di conseguire una notevole economia processuale, è incentivata dal riconoscimento all'imputato di particolari vantaggi tra cui: l'esclusione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza eventualmente previste, ad eccezione della confisca nei casi di cui il secondo comma dell'art. 240 c.p.p., e la contestuale dichiarazione di estinzione del reato; l'espressa previsione che la sentenza ex art. 77 non produce altri effetti oltre a quelli disposti dalla sezione II del cap. III della legge 689.

Il fatto che il ricorso allo schema processuale semplificato di cui l'art. 77 della legge in esame presupponga la convergente volontà dell'imputato e del Pubblico Ministero, e che la legge attribuisca all'imputato per la sua richiesta, quasi come se fosse un premio, notevoli vantaggi sia sul piano sostanziale che processuale, ha portato i primi commentatori nonché parte della giurisprudenza a ravvisare il modello ispiratore dell'istituto in esame in quello statunitense del plea bargaining; da cui deriva il nome di patteggiamento. Anche se la denominazione può essere mantenuta per comodità di espressione, bisogna sin da subito sottolineare che i due istituti, a parte la comune logica ispirazione, abbiano struttura e natura radicalmente diverse. Il meccanismo del plea bargaining trova, infatti, il suo presupposto nella discrezionalità dell'esercizio dell'azione penale che caratterizza il sistema

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processuale statunitense, e che si manifesta nel potere di scelta da parte del public prosecutor non solo sul se, ma anche sul come, quando e per cosa procedere oltre al potere di rinunciare all'azione dopo averla iniziata: in questa prospettiva si colloca il potere del Pubblico Ministero di negoziare con l'imputato, in segreto e al di fuori di ogni controllo esterno, l'esercizio e il contenuto dell'azione penale, offrendogli in cambio di una dichiarazione di colpevolezza con cui chiudere il processo senza arrivare alla fase dibattimentale, di procedere per certi reati e non per altri; di dare al fatto una qualificazione giuridica meno grave; di non contestare aggravanti e infine di formulare al Giudice una specie di raccomandazione di clemenza in ordine alla pena. Una volta che, in seguito alla trattativa, l'imputato si dichiari colpevole del reato contestatogli, il Giudice è tenuto solo a controllare che la confessione sia stata prestata volontariamente e nella piena consapevolezza delle eventuali conseguenze; che essa sia fondata su sufficienti riscontri obiettivi; che non sia contrastante con gli interessi di giustizia; dopodiché, verbalizzato l'accordo, pronuncia condanna irrogando la pena. Tutto ciò avviene in un sistema che riconosce una ripartizione di competenze funzionali tra organo dell'accusa e Giudice diverse da quelle esistenti nel nostro ordinamento, dove al Pubblico Ministero spetta, in ogni caso, il potere di promuovere l'azione e di provare l'accusa e al Giudice quello di condurre il processo e, una volta valutata la regolarità del procedimento, di applicare la sanzione, ma non di accertare la responsabilità dell'imputato34.

Bastano questi pochi cenni per notare subito come l'istituto del plea bargaining non abbia nulla a che fare con quello previsto dall'art. 77 della 34 M. Trapani, Le sanzioni penali sostitutive, CEDAM, Padova, 1985, p. 283.

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legge 689/1981: esso non presuppone, infatti, alcuna trattativa tra Pubblico Ministero e imputato, destinata a sfociare in un accordo sull'applicabilità di una sanzione sostitutiva in cambio della reciproca rinunzia da un lato, a concludere l'azione penale e dall'atro, a protrarre la difesa negli ulteriori stadi e gradi del procedimento; l'art. 77, infatti, non prevede alcuna relazione diretta tra Pubblico Ministero e imputato, come si evince dalla circostanza che la richiesta e il parere non sono atti indirizzati alla controparte, di cui si sollecita l'adesione, ma al Giudice. La non assimilabilità del patteggiamento al modello del plea bargaining la si nota, soprattutto, nel fatto che, persino in caso di volontà concordi tra Pubblico Ministero e imputato, il Giudice non è assolutamente vincolato ad aderire alla soluzione proposta dalle parti, potendo invece, pur in presenza del suddetto presupposto, procedere oltre nel giudizio qualora non riconosca sussistenti le condizioni per la sostituzione; senza contare che una norma che annullasse il potere decisorio del Giudice, obbligando a ratificare la decisione presa dalle parti interessate, non solo priverebbe il Giudice della specifica competenza di accertamento in fatto, ma risulterebbe certamente incostituzionale alla stregua dell'art. 101, ult. Comma Cost., secondo cui i “i giudici sono soggetti solo alla legge”, e anche dell'art. 25, comma 2 Cost., nella parte in cui stabilisce il principio della riserva assoluta di legge con riferimento alle conseguenze sanzionatorie del reato. Bisogna, infine, affermare che, nonostante alcune vaghe somiglianze, l'istituto previsto dall'art. 77, non può neppure essere assimilato a quell'ormai lontano precedente storico, presente nella tradizione giuridica dell'Italia meridionale conosciuto con il nome di truglio, risalente nelle sue prime manifestazioni al XV sec.: il truglio, infatti, piuttosto che un meccanismo

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processuale ordinario di allegerimento del carico giudiziario, era un mezzo straordinario avente la natura di istituto di clemenza sovrana, come l'amnistia e l'indulto, di cui ripeteva le finalità di riduzione della popolazione carceraria nei momenti di crisi del sistema penitenziario; ciò avveniva sulla base di un vero e proprio compromesso tra Giudice, Pubblico Ministero e imputato assistito dal difensore. Contro tale sentenza non era ammessa impugnazione, né la pena poteva poi essere comunque estinta35.

Un problema delicato, la cui soluzione risulta indispensabile per la comprensione dell'istituto del patteggiamento, concerne l'individuazione della natura giuridica della pronuncia emessa ai sensi dell'art. 77 della legge in esame e delle misure sostitutive applicate su richiesta. A tal proposito sono state avanzate due differenti tesi: secondo una parte della dottrina, che privilegia la lettera della legge, la circostanza che il procedimento ex art. 77 si chiuda con una sentenza di non doversi procedere per l'estinzione del reato deporrebbe per la natura non penale della libertà controllata e della pena pecuniaria applicata su richiesta. Secondo tale interpretazione ci troveremmo di fronte a una particolare utilizzazione su richiesta dei modelli delle sanzioni sostitutive in funzione di causa estintiva del reato secondo uno schema che riproporrebbe grosso modo quello dell'oblazione: il Giudice, una volta ricevuta la richiesta dell'imputato con il consenso del Pubblico Ministero, non potrebbe più procedere all'accertamento della responsabilità del prevenuto, ma dovrebbe limitarsi a formulare un giudizio di tipo prognostico; qualora il fatto sia ritenuto punibile con la libertà controllata o con la pena pecuniaria, il Giudice potrebbe immediatamente imporre a carico dell'imputato gli obblighi

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corrispondenti al contenuto della sanzione sostitutiva ipoteticamente applicabile, dichiarando contestualmente estinto il reato. Tale valutazione costituirebbe per il Giudice solo l'indispensabile parametro per decidere in ordine alla possibilità della chiusura anticipata del processo e alla determinazione della specie e del quanto di misura irrogabile. Si tratterebbe di un meccanismo analogo a quello dell'oblazione ex art. 162 bis c.p.: per le contravvenzioni punite con pena alternativa, nel quale il Giudice può respingere domanda di oblazione sulla base di un giudizio prognostico sulla gravità del fatto, ma che a differenza di quest'ultimo istituto, presenterebbe la peculiarità di un'estinzione del reato antecedente l'adempimento dell'onere. Sulla base di tale parallelismo alcuni autori hanno ravvisato nell'istituto previsto dall'art. 77 una sorta di mezzo di depenalizzazione su richiesta operante in sede processuale.

Tale interpretazione, pur avendo il pregio di risultare coerente con le finalità di economia processuale e di semplificazione dei procedimenti, non può, però, essere accolta per una serie di motivi.

Anzitutto l'istituto dell'art. 77, ragionando nei termini sopra esposti, dovrebbe ritenersi costituzionalmente illegittimo: a prescindere dalla stessa compatibilità con il sistema delineato dagli artt. 13 e 25 Cost. di sanzioni non penali incidenti sulla libertà personale, l'applicazione di tale misura non potrebbe sottrarsi alla duplice garanzia della riserva di legge e di giurisdizione, previste a livello costituzionale dall'art. 13, comma 2., nel nostro caso, invece, l'imposizione di obblighi contenutisticamente identici a quelli inerenti alla libertà controllata, e quindi limitativi della libertà personale, non conseguirebbe a un giudizio di accertamento della

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responsabilità dell'imputato; né si potrebbe ritenere sufficiente il mero consenso dell'imputato, il che darebbe vita a una sorta di autoapplicazione della sanzione, dal momento che la libertà personale costituisce un diritto indisponibile36.

Tuttavia, tale interpretazione, deve essere respinta tenendo presente come, contrariamente alla premessa da cui muove l'opinione sopra espressa, l'applicazione di sanzioni sostitutive su richiesta presuppone un vero e proprio accertamento della responsabilità dell'imputato. Numerosi argomenti, inoltre, depongono a favore di tale tesi: l'art. 77, stabilendo che il Giudice provvede in seguito all'esame degli atti e agli accertamenti eventualmente disposti, indica come, nonostante la richiesta dell'imputato, l'organo giurisdizionale mantenga inalterati i suoi poteri istruttori, e quindi il potere-dovere di compiere quegli atti che in base agli elementi raccolti appaiono necessari per l'accertamento della verità come si evince dall'art. 299, comma 1, c.p.p.; il che non avrebbe senso se non in vista di un giudizio che entri nel merito della colpevolezza dell'imputato.

Inoltre, l'art. 77 prevede che il Giudice può irrogare la sanzione sostitutiva della libertà controllata o della pena pecuniaria solo quando ritiene che sussistano elementi per applicare la suddetta sanzione, è evidente allora che il Giudice, per decidere, debba necessariamente entrare nel merito della regiudicanda, dal momento che tra i presupposti dell'applicazione d'ufficio della sanzione sostitutiva c'è sempre l'accertamento della sussistenza del fatto, della colpevolezza dell'imputato e dell'irrogabilità in concreto di una pena detentiva non superiore ad una certa durata. Né può ritenersi che la

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valutazione operata dal Giudice poggi, non su un accertamento effettivo , ma su un giudizio di tipo ipotetico circa la colpevolezza dell'imputato; contro una tale evenienza depone un'attenta analisi dei lavori preparatori, da cui si ricava come il passaggio dal testo predisposto dal comitato ristretto della Commissione giustizia della Camera37, che prevedeva un giudizio di tipo prognostico, a quello che sarebbe poi divenuto il testo definitivo dell'art. 77 fu determinato proprio dalla considerazione che una misura limitativa della libertà personale può discendere, nel nostro sistema, solo da un completo accertamento giudiziale di responsabilità.

Infine, un'ulteriore conferma di tale tesi la si ritrova nell'art. 77, comma 1, laddove prevede che, in caso di accoglimento della richiesta dell'imputato, il Giudice applica la sanzione sostitutiva con esclusione di ogni pena accessoria e misura di sicurezza: tenendo presente che le pene accessorie conseguono di diritto alla condanna e le misure di sicurezza sono subordinate all'accertamento di un reato, è evidente come l'espressa esclusione di tali sanzioni non avrebbe senso, se non ritenendo che anche l'applicazione di misure sostitutive su richiesta presupponga necessariamente l'accertamento della responsabilità. Lo stesso art. 77, comma 1, dispone, infatti, che l'unica sanzione irrogabile insieme a quella sostitutiva sia la confisca nei casi previsti dal secondo comma dell'art. 240 c.p.; se nessun problema sorge per quanto riguarda la confisca obbligatoria nei casi di cui l'art. 240, n. 2, c.p.38, dal momento che essa, a differenza di tutte le altre misure di sicurezza,

37 Art. 52 bis: Il giudice, quando ritiene che per il reato per cui si procede possa

essere inflitta, nel caso di condanna, una delle sanzioni sostitutive ecc.

38 Art. 240, comma 2, n. 2 c.p.: “è sempre ordinata la confisca:[...] 2) delle cose, la

fabbricazione, l'uso, il porto, la detenzione o l'alienazione delle quali costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna”.

(37)

prescinde dall'esistenza di un reato, lo stesso discorso non si può fare per le ipotesi di confisca obbligatoria prevista dal n. 139, che essendo, invece, subordinata a un provvedimento di condanna, presuppone un completo accertamento della responsabilità dell'imputato40.

La tesi che ravvisa nell'istituto di cui l'art. 77 un meccanismo di depenalizzazione su istanza analogo all'oblazione non può essere accolta anche per la ragione che la libertà controllata e la pena pecuniaria sostitutiva applicate su richiesta son vere e proprie pene criminali in senso stretto41, in tutto e per tutto identiche, quanto a natura, alle corrispondenti sanzioni sostitutive irrogate d'ufficio.

A tale conclusione si perviene, tra l'altro, sulla base di numerosi argomenti: dal punto di vista letterale, non è senza significato il fatto che il legislatore, per descrivere il fenomeno contenuto nell'art. 77, utilizzi la stessa nomenclatura degli artt. 53 ss quella, cioè, di “sanzioni sostitutive” della libertà controllata e della pena pecuniaria; a ciò si deve aggiungere la simmetria terminologica tra le rubriche della sezione I di “Applicazione delle sanzioni sostitutive” e della sezione II di “Applicazione delle sanzioni sostitutive su richiesta dell'imputato”, e la loro comune appartenenza allo stesso capo III intitolato “ Sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi”. Inoltre, occorre notare come l'art. 77 abbia abbandonato la formulazione originaria dell'art. 52 bis del testo predisposto dal Comitato ristretto, che parlava di misura corrispondente alla sanzione sostitutiva; il che è indicativo

39 Art. 240, comma 2, n.1 c.p. : “è sempre ordinata la confisca: 1) delle cose che

costituisco il prezzo del reato”.

40 M. Trapani, Le sanzioni penali sostitutive, CEDAM, Padova, 1985, p. 293. 41 Tesi sostenuta da gran parte della maggioranza della dottrina, tra cui P. Nuvolone,

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di un ripensamento da parte del legislatore circa la natura giuridica della misura sostitutiva applicata su richiesta.

Ancora, la legge dispone espressamente che nella determinazione, applicazione ed esecuzione delle sanzioni sostitutive su richiesta si osservano le stesse disposizioni concernenti le corrispondenti sanzioni sostitutive irrogate d'ufficio; ciò significa che, per quanto non specificatamente previsto dagli artt. 77 ss., si osservano tutte le disposizioni concernenti le sanzioni sostitutive officiose.

Ad ulteriore conferma della tesi sostenuta, è bene sottolineare la circostanza che l'art. 77, comma 1, menziona espressamente accanto alle sanzioni sostitutive su richiesta, sia pur al fine di escluderne l'applicazione, le pene accessorie e le misure di sicurezza, è cioè sanzioni certamente di natura penale. Tale conclusione trova riscontro, a contrario, nell'originario art. 52 bis che prevedendo l'applicazione di una misura senz'altro non penale, non faceva alcun riferimento a eventuali pene accessorie e misure di sicurezza. L'art. 77 stabilisce, inoltre, che, oltre alle sanzioni sostitutive su richiesta, il Giudice debba disporre la confisca “nei casi previsti dal secondo comma dell'art. 240 del codice penale”, e cioè una misura la cui natura penale è fuori discussione.

Per finire si può affermare che la conclusione a cui siamo giunti risulta perfettamente coerente col fatto che la sentenza emessa ai sensi dell'art. 77 abbia per presupposto un completo accertamento della responsabilità dell'imputato e non un mero giudizio di tipo prognostico42.

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