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Alcyone: i quattro ditirambi

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Academic year: 2021

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1 Nadia Rosato

A

LCYONE

:

I QUATTRO DITIRAMBI

Tutto il libro è mitico, ad iniziare dal titolo e anche la scansione del libro è mitica. Alcyone apparentemente è la storia di un’estate, una sorta di diario divisa in mesi: nel mese di giugno si coglie la suggestione per l’imminente arrivo dell’estate, nel mese di luglio si celebra il trionfo estivo per l’esplosione della calda stagione, nel mese di agosto nella maturità dell’estate al culmine, si presenta l’estate ardente e selvaggia; nel mese di settembre si preannuncia il ripiegamento dell’estate che va a finire col suo ineluttabile declino.

Per Michele Bianco Alcyone non è tanto lo sviluppo diacronico di una meteorologia estiva, quanto la dinamica evoluzione del mito supeomistico della gioia di vivere in sintonia con la natura, anche selvaggia come risulta dalla sua divisione in ditirambi1.

A ciascun mese estivo corrisponde una sezione che contiene un ditirambo. Il ditirambo è un componimento poetico legato al culto di Dioniso e nella sua varietà dialogata a struttura drammatica, con un coro che danzava in cerchio al suono del flauto, al ritmo sfrenato e spumeggiante, esso è stato all’origine della Tragedia classica. La scansione di “Alcyone” in quattro ditirambi è dunque mitica e riconduce il poeta all’orbita nietzschiano, non solo per il “dionisiaco”, ma anche per il “superomismo” del mito classico. Nel primo ditirambo della prima sezione si celebra il tempo della mietitura, anticipato a mò di preludio, dal nervoso Furit aestus, come afferma Roncoroni: in cui l’entusiasmo panico ancora trattenuto e compreso, il

Ditirambo I esplode con un impeto lirico che si tiene, per quasi tutti i 470 versi che lo costituiscono, su toni

di furioso parossismo verbale e ritmico2. La lirica fu composta a Romena al calen d’Agosto MCMII. Inizialmente fu difficile dire quale dei titoli provvisori registrati nei vari elenchi di titoli contenuti nelle carte alcioniee prefiguri o preannunci il Ditirambo I.

Il titolo si legge per la prima volta nel mes.421 (metà luglio 1902) ma a quella data il componimento doveva essere solo abbozzato. Nel mes.422 databile al 13-14 agosto 1902 il titolo Dtirambo I occupa gia il posto gli resterà definitivo tra i titoli “Furit aestus” e “Pace”.

Il poeta finora si è indugiato a cogliere gli ultimi segni della primavera, lungo l’Affrico e sui colli di Fiesole, assaporando l’ultima pioggia di giugno. Adesso è pronto a dare sfogo alla “febbre”, che come ha detto in Furit aestus, si agita dentro la sua selvaggia pace, così nell’ora del meriggio egli intona il ditirambo dell’estate.

Esso attraverso elementi mitici racconta che è il tempo della mietitura e in tutta Italia si miete. Il poeta non ama la “scarsa messe” di aie anguste. Egli vuole battere le sue messe là dove sono urli, canti e balli in nome di Dioniso con il suo riso e il suo furore: nelle maremme dell’Agro Romano. Tutto il Lazio, in verità, vorrebbe veder trasformato “in un mar di frumento”.

Ove sono i cavalli del Sole criniti di furia e di fiamma? Le code prolisse annodate con liste

di porpora, l’ugne adorne di lampi su l’aride ariste? Ove l’aie come circhi, le trebbie come pugne, come atleti la rustica prole?.... …“Ove il tuo nome, o Dioniso,

e il tuo riso e il tuo furore e il tuo periglio?....” … “O Maremme, o Maremme,

1

MICHELE BIANCO, Figure di suono e di senso nell’ “Alcyone”, tra musicalità e panismo, in AA.VV., Gabriele

d’Annunzio. Letteratura e modernità, a cura di Carlo Santoli, «Sinestesie», IX, 2009, p. 105. 2 G

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bellezza immite nata dalla Febbre e dal Sole,

o regni diurni di Dite, voi l’anima mia sogna!

Dolce gli pare la Toscana e bella Firenze, ma nulla gli è caro come Roma e le sue compagne, lontano dalle quali si sente in esilio. La sua anima visionaria anela di continuo ai luoghi del Lazio lungo il Tirreno, così ricchi di mitie di storia e soprattutto ai luoghi intorno al Circeo, dove un giorno approdò Ulisse e dove Circe rinnova senza fine le sue magie, in cospetto della palude e del mare. Là dunque il poeta mieterà le sue messi. In quei luoghi bruciati dal sole e resi deserti dalla malaria si compie il miracolo: nell’ora del meriggio in un’aria vasta come un campo di battaglia si celebra il rito antichissimo della trebbiatura:

...“Ecco, al tripudio, ecco i cavalli! Chi li conduce?

Ecco le sferze, ecco i crotali, i cimbali cavi-sonori che vince il rombo dei cuori,

le femmine scalze-succinte ebre di luce, i giovini possa-di-tori

ebri di strepito. Ecco il fiore del sangue lati

Ecco gli otri gonfi di vino. Ecco la sapa dolce a mescere.

Ecco l’arido pane che asseta. Ecco la tazza di creta, foggia antica e ne’ secoli bella,

ampia come brucanio, rosea come mammella....”

… “Tutta la terra è roggia più che sinopia agli occhi torbidi.

Il vento turbina, suscita polvere in vortici.

Versano i plaustri nell’aia l’oro stridulo.

L’oro s’accumula...”

Nel tripudio eccitato dei presenti, tra suoni di crotali e di cimbali, vengono recati i manipoli di spighe. Il suolo ne è tutto coperto. Il vento solleva vortici di polvere. L’aia è tutta un aureo monte di spighe. I cavalli del carro, scalpitando senza tregua, vanno all’assalto dei mucchi e, in preda anch’essi, come gli uomini, a una furia implacabile, compiono l’epica fatica della trebbiatura. Poi, verso il tramonto, quando l’oro delle spighe trebbiate si fa color porpora come il cielo, sulle zolle delle terre intorno al Circeo ormai tornate alla vita, i cavalli del Sole, giunti al culmine del loro sforzo, allargano all’aria le loro ali titanie rivelandosi per quelli che veramente sono.

“Io Peàn! Io Peàn! Gloria al maestro dell’Opere, allo Specchio degli Uomini al Titan dalla rutila chioma, al Re delle alate parole,

al Duce dei cori elicon O Forza, Abondanaza, Vittoria, e tu, Genio che mai non si doma,

voi siatemi qui testimonii. Calpestano i cavalli del Sole

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il rinato frumento di Roma.

Il poeta allora innalza il suo canto di gioia e di gratitudine ad Apollo e chiama la Forza, l’Abbondanza, la Vittoria e il Genio eterno di Roma a testimoni della sua visione carica di presagi:i cavalli del Sole calpestano “il rinato frumento di Roma”.

La lirica potenzialmente – georgica la mietitura, la trebbiatura – viene infatti soffocata fin dall’inizio e cancellato dall’esaltazione dionisiaca che come afferma Roncoroni: “sfocia in una sorte di profezia visionaria orientata a chiari scopi celebrativi”3

. Tutto il componimento risulta costruito soltanto su un presagio:quello del risanamento dell’Agro Pontino, dal Circeo al Tevere e su una visione fantastica: lo spettacolo di una montagna di grano mietuto nei campi di Roma. Su ciò ha ragione Adriana Noferi quando, tenendo anche conto dell’enfasi roboante con cui tutto ciò è cantato, osserva che il Ditirambo I è nato “per una specie di furia verbale sopra un’iperbole vacua”4.

Il Ditirambo I riproduce per più di un motivo le Odi di Elettra e ripropone di essa i medesimi spunti celebrativi del genio romano e dei magnifici destini della Saturnia tellus. Gli spunti riguardano soprattutto il tema del Lazio e dell’Agro Pontino e vengono, sotto forma anche di immagini e sintagmi precisi, dall’ode di Roma, dalla Notte di Caprera e anche dalle tirate di Cantelmo nelle Vergini delle Rocce.

La lirica presenta per la prima volta, nel contesto alcionio, un nuovo linguaggio e una nuova metrica. Dal punto di vista linguistico-espressiva, la novità è offerta dalla comparsa di un’enfasi retorica chiaramente derivata, come si è visto, dalle Odi di Elettra. Sconosciuta alle liriche precedenti, questa enfasi è ora imposta dallo scopo celebrativo e si manifesta nella sequela di interrogative, di esclamative e di vocativi nell’abuso delle iterazioni, nella tendenza alle dilatazioni semantiche e nell’accumulo degli aggettivi e degli epiteti esornativi. Imprestiti eruditi e mitici provengono in gran numero anche da Virgilio e da altri autori latini. Presenti come fonti sono anche il Foscolo dei Sepolcri, il Carducci di Traversando la Maremma Toscana e il De Règnier de les mèdailles d’Argile. Da un punto di vista metrico, invece, la novità del Ditirambo I è costituita dall’adozione, per la prima volta nella compagine del Libro, di una trama metrica che sarà quella della Laus vitae. Il ritmo fortemente proparossitono dei versi, perseguito, secondo quanto afferma P. Gibellini, anche con rintocchi correttori nel corso delle successive redazioni, dà all’insieme quell’agitazione che travolge le parole svuotandole di significato e distruggendole sotto l’incalzare degli accenti5.

Come ci fa notare Gianfranca Lavezzi d’Annunzio nel scrivere i suoi ditirambi decide di prestare attenzione alla tradizione ditirambica italiana, al “Ditirambo all’uso dei Greci” del Chiabrera prendendo spunto dal “Bacco in Toscana di Francesco Redi, che presenta tutte le caratteristiche metriche proprie del ditirambo: la forma astrofica, l’irregolare schema delle rime, la polimetria, l’iterazione dei versi sdruccioli. Infatti si può constatare nel Ditirambo I, il poeta sembra di concentrare tutte le connotazioni metriche del ditirambo italiano: dell’alta percentuale di versi sdruccioli; i 470 versi sono eterometrici, divisi in nove strofe disuguali, quest’ultime non hanno schemi fissi ma sono legate a due a due. Si può vedere anche che alla tradizione ditirambica esso si avvicina, oltre che per parole come i crotali e i cimbali (vv. 268-269), elementi importanti dell’apparato bacchico, per le parole composte come: cavi - sonori, scalze - succinte per le quali Palmieri rimanda a Pindaro, ma che si rifanno forse direttamente a Chiabrera e Redi6. In più c’è l’uso dell’imperativo iterativo che è frequente nella tradizione ditirambica. In fine, secondo Bausi e Martelli, dal Bacco in Toscana provengono immagini e vocaboli giunti a d’Annunzio forse in primo luogo dalla mediazione vocabolarista7. Il Bacco in Toscana del Redi è la tripudiante esaltazione del vino fondata su abili espedienti musicali che fingono mimeticamente l’ubriacatura e l’ebbrezza e sull’alternanza della parola nobile e rara con la sprezzatura popolaresca. Il ditirambo di quest’ultimo, a differenza del d’Annunzio, è il prodotto di una cospirazione amichevole, anzi di una vera e propria collaborazione accademica. È un collettivo di amici e colleghi, che stimola, suggerisce, discute, approva, critica sancisce l’elaborazione del testo. Il ditirambo di d’Annunzio è il prodotto, a mio avviso, di un genio solitario, di un demiurgo creatore che attraverso esso il poeta evidenzia la volontà di creare una specie di liturgia della parola, una parola che diventa musica che deve essere bella al suono, all’apparenza.

Nel Ditirambo II si presenta la trasformazione del pastore Glauco in dio Marino. Qui anche i personaggi sono mitici come appunto Glauco che è un personaggio ovidiano, che in Alcyone rappresenta la 3 Ibidem. 4 Ibidem. 5 Ivi, p. 197. 6

GIANFRANCA LAVEZZI, La disciplina della libertà nella metrica di Alcyone, in AA.VV., “Da Foscarina a Ermione.

Alcyone: prodromi, officina, poesia, fortuna”, Ediars, Pescara 2000, pp. 148-149. 7 F

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proiezione dell’autore. La data di composizione è ignota. Una lettera di D’Annunzio ad Angelo Conti da Viareggio in data 13 agosto 1900 farebbe pensare che il Ditirambo II sia stato composto in quel mese. Vi si legge infatti: “Mi hanno agitato i soffii della poesia e i venti del mare in questi giorni. Molte Laudi ho composto imitando le acque e le foglie. Pubblicherò in autunni i primi tre libri Merope, Maia, Alcyone. Tu che fai? Conversi con Santa Chiara? Io veramente ho parlato con le sirene, e mi son trasfuso nel mito di Glauco”.

Il poeta in un esistenza anteriore fu Glauco, dio marino. Ridivenuto uomo, egli è punto dalla nostalgia di quella vita equorea supplica gli dei del mare di restituirlo agli abissi. Rimembra allora la sua antica metamorfosi. Un giorno lontano, di ritorno, dalla pesca, vuotate le reti a terra, egli aveva visto i pesci rianimarsi al contatto con l’erba e dileguarsi tra le onde. Capì che quell’erba possedeva una virtù singolare e senza intima irrequietudine l’aveva mangiata. Subito avvertì l’irresistibile attrazione del mare e insieme la propria trasformazione in creatura marina.

… “Memore sono. Era già fatto il vespero su l’acque; ma i cieli ultimi ardevano d’un foco inestinguibile,

e i golfi e i promontorii e l’isole di contro negreggiavano

come are senza vittime

già notturni, allorchè sostai nel pascolo nettunio presso il limite

marino. Onusto di gran preda, sùbito votai su l’erba i nèssili miei lini a novenar la mia dovizia.

Poi del confuso cumolo

feci schiere ordinate. E in cor godevami tante squame rilucere

veggendo per quel bruno intrico. “I nèssili miei lini e i piombi e i sugheri t’appenderò nel tempio, o dio propizio”

in cor disse ilò grato animo. E allorta vidi i pesci più risplendere,

vidi le pinne battere e le branchie alitare e per le scaglie

lampi di forza correre. E, come quando il nume di Diòniso

invade le Bassaridi

e si disfrena giu pe’ monti il Tìaso, la muta gente parvemi infuriare, cedere a un’incognita

virtù, di sacra fervere

insania. “Qual prodigio è questo? Ahi misero me!” gridai per grandissimo

spavento; chè la preda mia fuggivasi a gara con vipèrea

rapidità, balzando e dileguandosi. “Me misero! Un dio fecemi

questo? O nell’erba è la possanza?” Attonito mi rimasi. Il silenzio

era divino nella solitudine. Era già fatto il vespero, ma lungamente i cieli ultimi ardevano.

Udir parvemi bùccina cupa sonar lungh’essi i promontorii

selvosi; udire parvemi canti fatali spandersi dall’isole.

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E quasi inconsapovole

la man correami per quell’erba strania, meditando io nell’animo il prodigio. Divelsi dalle radiche

gli steli foschi; e, simile a capra di virgulti avida, mordere

incominciai, discerpere e mordere. Rigavami le fauci

il suco, ne’ precordii

scendeami, tutto il petto conturbandomi...” …. “La mia carne era libera della grandezza terrestre. Nascevami

dall’imo cor l’imagine

d’un’onda ismisurata e per le pàlpebre mi si svelava il cerulo

splendor del sangue novo, e il collo e gli òmeri dilatarsi parevano

e le ginocchia giugnersi, le scaglie su per la pelle crescere, gelidi guizzi correre pei muscoli.

“Terra, vale!” Precipite caddi nel gorgo, sommersi, l’infima

toccai valle oceanica,

uomo non più, non anco dio, ma immemore della terra e degli uomini. ...”

Inabissatosi, le acque di cento e cento fiumi provvidero a purificarlo di ogni residua terrestrità sino a renderlo immemore della sua nascita umana. Alla fine ormai fatto dio marino, era risalito verso la superficie del mare ed era apparso agli Argonauti, cui disse parole profetiche:

… “E mi risollevai dio verso l’etere santo; spirai grande alito

che una nave d’eroi sospinse. Io auspice apparvi agli Argonauti!

Di su la prora chino il cantor tracio raccolse il vaticinio.

E presso lui, d’oro chiomato, florido della prima lanugine, (sentendo l’immortalità, saltavagli

il cuore sotto il bàlteo

splendido) presso Orfeo figlio d’Apolline era il fratello d’Elena.

Fu dunque un dio, il poeta, ed ora, tornato uomo sente l’ansia di quella condizione divina. Gli dei del mare, quindi, lo richiamarono a sé, perchè la terra è per lui un luogo di sofferenza. Scesa la notte le tenebre che avvolgono il cielo e la terra rendono ancora più visibile e attraente la luce sembra un’alba annunciatrice di prodigi e verso di essa si avvia tuffandosi nei gorghi.

O Iddii profondi, richiamare l’esule, la deità rendetegli!

Io fui Glauco, fui Glauco, quel d’Antèdone. La terra m’è supplizio.

Ecco, tutta la luce è nel Mare Infero, e per ovunque è tenebra. O nunzia di prodigi Alba oceanica!

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Nel gorgo mi precipito.

Come afferma Ilvano: “Ansia e istanza di vita divina e di transumazione sono gia presenti in Canto

Novo del ’96 e accenti non dissimili echeggiano nel romanzo coevo al rifacimento del Canto Novo, Le vergini delle rocce8. Ma come ha notato Adelia Noferi, se allora la transumazione si dava come un prodigio possibile e compiuto, quale persuasione e affermazione di una volontà superumana, nel ditirambo di Glauco il miracolo appartiene al passato ed è invocato per il futuro, mentre nel presente ne è soltanto il desiderio, donde, in luogo dell’antica ebbrezza, un acuto senso di privazione. Roncoroni dice che entrando nell’ambito dell’esperienza alcionia, il motivo subisce una revisione e soprattutto, una rimotivazione. Da grido, più o meno scomposto, di panico entusiasmo, da narcisistica autocelebrazione, e insomma,da gesto superumano o superimanizzante, l’aspirazione del poeta a farsi dio si trasforma nella presa di coscienza di una realtà personale di decadenza e di crisi: da una parte, comporta la malinconica e disperata consapevolezza della perduta condizione di superiorità beata e dall’altra si estrinseca in una drammatica attesa di una reintegrazione nello stato della perduta felicità9.

Il Ditirambo II oltre a farsi interprete dell’ansia del divino che anima il poeta testimonia il momento in cui d’Annunzio, giunto al vertice del suo superomismo e scoperta, non già la sua personale sconfitta, ne la solitudine e l’inefficacia dei suoi sforzi di realizzarsi pienamente e di raggiungere la divinità (come aveva detto anche in Meriggio “E la mia vita è divina”), per forza di sensi, anela ormai a realizzarsi al di fuori della condizione divina che già fu sua e che ora può soltanto augurarsi gli sia restituita. L’attuazione di questo processo gli sembra possibile solo mediante una metamorfosi che sia garantita dal mito.

Nel Ditirambo II l’autore ha scelto, a fare da portavoce alla sua complessa problematica interiore, il mito di Glauco, il pescatore della Beozia che trasumanò e che divenne dio marino e , soprattutto, il personaggio la cui esperienza già Dante, in Paradiso, I, vv. 67-70, aveva scelto come unico esempio possibile di trasumanazione.

La scelta di Glauco ha comportato, a livello letterario, l’adozione del modello ovidiano. D’Annunzio per sceneggiare la sua nostalgia della condizione immortale si è appoggiato all’episodio di Ovidio, Metamorfosi che ricrea immedesimandosi nel protagonista.

I punti di contatto tra i due sono evidenti in entrambi è lo stesso Glauco che è introdotto a parlare di sé e della propria vicenda. D’Annunzio nel Ditirambo ha provveduto ad accentuare, rispetto al poeta latino, l’aspetto fantastico e stupefacente della metamorfosi e con soluzioni tipicamente alcionie, ha prestato particolare attenzione alla rese delle sensazioni fisiche, tattili e acquatiche che preparano e accompagnano la metamorfosi o che caratterizzano la condizione dell’ “effimero” che soffre la “terrestrità” e ripensa la “deità”.

Secondo Noferi: “Egli attiva la lezione dell’Immaginifico, “l’inventare e vivere miti” rimane la misura “di un gusto oratorio riferito al poeta come “vate”, rivelatore di “abissi” ignorati”10

. Vi è il libero rifacimento della nota metamorfosi ovidiana come nell’Oleandro e nel Ditirambo IV.

Nel Ditirambo III si trasforma l’estate in donna da amare e possedere da parte del poeta. Qui prende l’avvio l’avventura versiliese inneggiante alla pienezza estiva distesa tra la costa e le Apuane, colta nel folto delle pinete e nei canneti in riva al Motrone. La lirica fu composta in Versilia il 20 luglio come risulta da un manoscritto autografo. Essa prima di essere pubblicata in volume apparse su «Il Marzocco» di Firenze il 16 giugno 1901 con il titolo L’Estate. Qui l’estate ha ormai giunto il suo culmine e trionfa, in tutta la sua bellezza e in tutta la sua gioiosa pienezza, tra le Apuane e il mare. Il poeta è tutto preso e la lode, creatura una e molteplice, armoniosa e violenta, odorosa e sensuale, belle nelle sue rabbie improvvise e acre nei suoi torpori, selvaggia e vertiginosa.

… “Ardevi col tuo piede le silenti erbe marine, struggevi col tuo respiro le piogge pellegrine,

tra così candidi marmi ed acque cos’ soavi alzata; e grande eri, e pur delle più tenui vite gioiva la tu agioia, etutto vedeva la tua pupilla grande: le frondi delle selve e i fusti delle navi,

e la ragia colare, maturarsi nelle pine le chiuse mandorlette e la scaglia che le sigilla

8

D’ANNUNZIO, Alcyone (1978), cit., p. 355.

9

D’ANNUNZIO, Versi d’amore e di gloria, a cura di Niva Lorenzini - Annamaria Andreoli, introduzione di Luciano Anceschi, Mondadori («I Meridiani»), Milano 1989, vol. II, p. 1226.

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pender nel fulvo, e l’orme degli uccelli nell’argilla dei fiumi, l’ombre dei voli su le sabbie saline vedea, le sabbie rigarsi come i palati cavi, ...”

… “O Estate, Estate ardente, quanto t’amammo noi per t’assomigliare, per gioir teco nel cielo nella terra e nel mare, per teco ardere di gioia su la faccia del mondo,

selvaggia Estate dal respiro profondo,

figlia di pan diletta, amor del titan Sole armoniosa,

melodiosa,

che accordi il curvo golfo sonoro come la ctareda

accorda la sua cetra, dolore di Demetra

che di te si duole ne’ solstizi sereni

per Proserpina sua perduta primavera! O fulva fiera

o infiammata leonessa dell’etra, grande Estate selvaggia,

libidinosa, vertiginosa, tu che affochi le reni, che incrudisci la sete, che infurii gli estri, ...”

La loda e la esalta, cercandola e trovandola in tutti gli aspetti della natura dal più grande al più piccolo, dal più vicino al più lontano.

Anzi tanto l’amore che le porta che, nell’ebbrezza del suo delirio, egli vorrebbe poterla vedere fatta creatura vera e giacere con lei sull’immensa spiaggia del mare.

... O Estate, Estate, io ti dirò divina in mille nomi,

in mille laudi ti loderò se m’esaudi, se soffri che un mortal ti domi,

che in carne io ti veda,

ch’io mortal ti goda sul letto dell’immensa spiaggia tra l’alpe e il mare,

nuda le fervide membra che riga il tuo sangue d’oro odorate di aliga di rèsina e di alloro!

L’estate viene personificata, come nel componimento preditirambico Stabat nuda aestas, in una creatura femminile: “una creatura vaga e indistinta che è fatta solo delle sensazioni che suscita di colori e di odori e che soltanto la febbre del delirio può far vagheggiare al poeta di vedere e godere in carne e ossa”11.

La lode ditirambica dell’estate appare un atto volitivo, quasi generato da una necessità di persuadere, donde l’enumerazione enfatica e verbosa di luoghi e cose, invero alcionii, nel godimento dell’estate tra l’alpe e il mare, nonché il tono eloquente.

Il metro dinamico e incalzante, con i suoi versi liberi dall’andamento logaedico e con le rime e assonanze baciate conferiscono alla lode estiva ulteriore enfasi.

Di stampo withmaniano appaiono le misure lunghe, mentre le brevi richiamano gli schemi metrici di

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Maeterlinck e Regnier ma anche il coro ditirambico, matrice della tragedia greca, forma lirica- musicale che come ricorda Pinchera ha secondo Nietzsche “il carattere della musica dionisiaca”12

.

Come nei primi due ditirambi anche qui è presente il mito: “nei versi 60-64 egli allude al mito di Proserpina, che d’Autunno ritorna ogni anno all’Ade e per questo Demetra si addolora per l’imminente perdita della figlia.

Nel Ditirambo IV si sviluppa il tema “icario”, cioè del fallimento dell’uomo nel suo di volare Icaro era il figlio dell’architetto Dedalo, al quale Minosse aveva commissionato di edificare un inestricabile labirinto per rinchiudervi un mostruoso suo figlio, il Minotauro. Il componimento, come sappiamo dal manoscritto autografo conservato alla BiBBlioteca Nazionale “Vittorio Emanuele” di Roma, fu scritto a Nettuno del Lazio il 13 ottobre 1903. Cade così la tradizionale datazione del componimento all’agosto 1902 a Romena a ridosso della Morte del Cervo.

Lo spostamento di data operato dal poeta è frutto di una libera scelta. Secondo Roncoroni: “Forse risale al desiderio del poeta di giustapporre due testi, La morte del cervo e il Ditirambo IV appunto, particolarmente significativi, a segnare e suggerire un parallelo tra la situazione emotiva registrata dal primo (“l’imbestiamento sanguinario”, l’identificazione almeno sentimentale tra il poeta e il Centauro) e quella affidata al secondo (la volontà del poeta di identificarsi con Icaro)13. Il titolo “Ditirambo di Icaro”, infatti appare già nel mes. 418 che dovrebbe essere come afferma Gibillini “il più antico progetto conservato delle

Laudi”14.

Icaro, il figlio giovinetto di Dedalo, è nella ricreazione dannunziana del mito, preso dal fascino sensuale che emana da Pasifae, la moglie di minosse e arde d’Amore per lei. Egli, un giorno, assiste al bestiale congiungimento della donna, che si è nascosta nella “falsa” vacca foggiatele da Dedalo, con un toro bianco.

Icaro disse: “La figlia del Sole a me poggiata come ad un virgulto

sul limite dei paschi

gustava il candido armento dei buoi pascere lungo il Cèrato rupestro.

Mi si piegava il destro òmero sotto la mano regale umida di sudor gelido; e, dentro

me, tremavano tutte le midolle, negli orecchi fragore sonavami sì forte ch’io temeva udir dal sacro Dicte i Coribanti atroci e il rombo del bronzo percosso...

… “Io guardo il toro bianco, quello che tu non dèsti a Poseidone

la figlia di Perseide rispose. E la vette nevose

dell’Ida biancheggiavan men del toro niveo diniegato al dio profondo.

“Perchè s’ tremebondo sei tu, figlio di Dedalo?” il Re chiese.

E allor Pasife: “Questo ateniese giovinetto somiglia ad Androgèo

che non torna d’Atene: e per ciò mi sostiene,

il cor mi folce; per ciò tanto m’è dolce le dita porre nel suo crin prolisso”.

12

D’ANNUNZIO, Alcyone (1978), cit., p. 586.

13

Ivi, p. 587.

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… “Icaro disse: “Poi che l’ombra cadde (il vertice dell’Ida solitario

nell’etra rosseggiava come il fiore del dìttamo crionito) nascostamente ritornai su’ paschi, gonfio d’olio il cuor tacito; e scagliai

contra il toro le selci acuminate dell’àlveo del Cèrato divulse e imposte alla mia frombola cretese.

Il boaro m’intese e mi rincorse ratto su per l’erbe con la verga di còrilo e minaccia.

Ma perse la mia traccia nell’ombra che cadea; né mi conobbe,

né l’erbe verdi tenner le vestigia...” … “Icaro disse: “L’officina arcana era in un orto a vista del recurvo

porto Eracleo frequente di ben costrutte navi dalla prora dipinta; e gli utensili erano acuti, e la fronte del fabro era contratta

Sorgea la forma esatta della falsa giovenca nella luce del dì, quasi che sazia di pastura spirasse dalle sfroge il fiato olente

di cìtiso, tranquilla su’ piè fessi. Con tale arte commessi eran gli sculti legni e ricoperti di fresca pelle, che parean felici d’ubertà non fallibile e bei fianchi e le mamme in sul punto di gonfiarsi

all’affluir d’un latte repentino. Furtiva nel giardino venìa Pasife senza le sue donne

a rimirare l’opera fabrile ch’ella infiammava della sua lussuria

impaziente; e seco avea l’irsuto boaro come giudice perfetto.

Pieno d’orrore, per riscattare e vendicare tanta nefandezza, affronta e uccide, dopo una terribile lotta su un monte solitario, un’aquila e la consacra al Sole.

… “Icaro disse: “La figlia del Sole amai, che libidine soggiaque alla bestia di nerbo più potente.

Splendea divinamente la sua carne quand’ella penetrava

nel simulacro per imbestiarsi. Io chiuso in me riarsi. Io, quando vidi il callido boaro

la prima volta addurre alla falsa giovenca il toro bianco

che si batteva il fianco sonoro con la fersa della coda

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adrno i corni brevi d’una lista di porpora, balzai gridando: “O Sole,

a te consacrerò, sopra una rupe inconcussa, oggi un’aquila sublime!”...

... “Mi cadde su la fronte una goccia di sangue larga e calda

come goccia di nuvolo d’Agosto quando lampeggia e tuona. L’aquila s’abbattè sul sasso prona

il petto, aperta l’ali crude che strepitarono sul sasso, erta sùbito il rostro alla difesa...” … “Io con la destra le afferrai la strozza

robusta come tronco dì serpente, e strinsi e strinsi; e con la manca trassi

dalla ferita fresca il dardo primo, più volte e più nell’imo

fegato lo confissi.

Dall’offerta sacrificale, però salva le ali, in quanto intende farsene costruire due simili dal padre. Dedalo costruisce due paia di ali connettendo composto di resina e cera penne di vari uccelli, disposte ad imitazioni di quelle delle ali dell’aquila uccisa dal figlio, ad un telaio fatto di piccole verghe di legno, legate e strette con fili di lino.

... “Concedi, o dio magnifico, se m’odi, concedimi che immuni dalla brace

io dell’aquila serbi l’ali forti e con meco le porti

perchè le veda entrambe il padre mio Dedalo d’Eupalàmo

ateniese, artefice sagace, perchè due me ne foggi a simiglianza l’uomo di molti ingegni, ma più forti, ma con più grande numero di penne”

E tolsi le bipenne

che al cinto appesa avea dietro le reni: con ella diedi nelle congiunture, di muscoli e di tendini gagliarde cosi che resisteano al doppio taglio...”

… “Quivi all’innaturale opera intente era il mio padre, quivi

i congegni del volo

oprava senza incudine e senza maglio. Ben gli diedi travaglio

e affanno, chè pareami troppo tarda la sua fatica per il mio desìo e sempre poche mi parean le penne adunate dinnanzi a lui che oprava...” … “E sul congegno solido e leggero ei disponeva per ordine le penne, dalla più breve alla più lunga elette

acutamente, come nella fistola di Pan le avene dìspari digradano

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per la natura dei diversi numeri. E lino e cera usava a collegarle, cera immista di ragia, come dissi...”

Poi, dopo che il padre ha raccomandato a Icaro di volare a media altezza per evitare sia la vampa del sole sia l’acqua del mare, i due spiccano il volo. Ma Icaro sordo a qualsiasi ammonimento e, del resto, fin dall’inizio determinato a volare il più in alto possibile si lancia verso il cielo e la sua meta è il Sole. Lo raggiunge, infatti, proprio mentre le penne e le piume si staccano a una una dall’intelaiatura delle ali.

... “ E il mio padre destai dal sonno. Dissi: “Padre, è l’ora”. Non altro dissi. Muto

stetti mentr’ei m’accomodava l’ali agli omeri, mentr’ei gli ammonimenti

iterava con voce mal sicura. “Giova nel medio limite volare; chè, se tu voli basso, l’acqua aggreva

le penne, se alto voli, te le incende il fuoco. Tieni sempre il giusto mezzo...”

… “Ma con l’arte dell’aquila io spiccai dal limitar della caverna un volo

sì veemente che disperato fui sùbito. Gli stormi isbigottirono su per le rosse rupi in fuga striduli temendo la rapina dileguarono. Oh libertà! Pel corpo nudo l’aere matutino sentii crosciarmi, gelido tutto rigarmi di chiarezza irrigua: non i torrenti ove uso fui detergere dopo le cacce la sanguigna polvere m’avean rigato di sì grande giòlito”. … “Ma il cor non mi mancò. Non misi grido

verso il mio fato, come la devota alla saetta aquila moritura; né rimpiansi il paterno ammonimento.

Guatai senza spavento

in giuso; e l’ombre lievi eran le penne dell’ali, che cadeano tremolando

dalla cera ammollita...”

Tutto solo senza neppure un fremito di paura e senza grido, Icaro offre le ali al Sole e precipita nel mare che da allora porta il suo nome. Anche il poeta è pronto pur di acquistar una gloria eterna, a inabissarsi per sempre nel profondo del mare.

… “Icaro, Icaro, anch’io nel profondo Mare precipiti, anch’io v’inabissi la mia virtù, ma in eterno in eterno il nome mio resti al Mare profondo!

Il Ditirambo IV con le sue otto grandi strofe di varia lunghezza di endecasillabi e settenari come gli altri tre precedenti canta: “l’impeto eroico che anela a esplorare l’ignoto superando ogni limite e che consegue il suo scopo anche a prezzo della vita”15

.

Il motivo è quello superomistico di sempre, con le sue implicazioni: il disdegno della vita comune, l’ansia della gloria, la solitudine perseguita come elemento di distinzione, la sensualità esasperata e simili. A

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celebrare questo motivo, è introdotto qui, in una dimensione temporale che ha l’ampiezza dell’eternità, un personaggio mitico, Icaro. Lui stesso a parlare di sé e racconta la sua sorte eroica. Il poeta ascolta e solo alla fine interviene a svelare il significato attuale e personale del mito e a ribadire quanto già aveva annunciato nel compimento preditirambico: egli si sente fratello di Icaro e come lui è pronto ad osare.

D’Annunzio quando fa ricorso a trame mitiche ama innovare la tradizione. Già la figura di Icaro costituisce rispetto al modello che è come Glauco nel Ditirambo II e per la Dafne dell’Oleandro, Ovidio, una sostanziale novità. Se per Ovidio Icaro è solo un fanciullo che disubbidisce al padre, per d’Annunzio egli è come afferma Roncoroni “l’espressione dello spirito prometeico e ulissesco che è nell’uomo”16

. D’Annunzio finisce anche per attribuire quella volontà di ribellione e quell’aspirazione alla vita inimitabile e alla gloria che è propria del suo superuomo. D’Annunzio individua la causa prima dell’inedita ribellione di Icaro nell’amore deluso, nella sessualità esasperata nel ribrezzo di fronte alla bestialità della donna amata e nel conseguente desiderio di un atto liberatorio e purificatorio che cancelli ogni ricordo. Da un punto di vista linguistico secondo Sandro Gentili il Ditirambo IV è un’ampia struttura monolinguistica, imposta e dettata dall’esaltazione appolinea della voce narrante: imbestiamento di Pasifae e contemplazione del Sole non conoscono scarto di registro, univocamente nobile. Il materiale verbale ovidiano, ovviamente prevalente, è integrato attraverso un prelievo indiscriminato dal serbatoio classico: al servizio di una visività esasperata, di una definizione puntuale, di una nominazione continua, che rappresentano l’accesso dannunziano al mito, le tecniche di accertamento della sua possibile presenza attuale17. Come è sempre stato affermato il “ditirambo” è una forma della poesia greca dove emerge il tema bacchico e l’elogio del vino ma in d’Annunzio, come ci ha fatto notare anche Gianfranca Lavezzi, il vero e proprio tema bacchico è assente dai quattro ditirambi, però sarebbe stato probabilmente al centro del solo progettato Ditirambo V, che nell’indice citato compare con accanto l’annotazione “(Le uve - l’abbondanza - le vigne cariche)”: il Ditirambo V “è indizio di un intento di protrarre il diario lirico di una stagione esemplare fin dentro le soglie dell’autunno, e forse quello di modulare il ditirambo secondo accenti più propri e dionisiaci”18

.

16 Ivi, p. 589.

17

SANDRO GENTILI, La lingua di “Alcyone”, in AA.VV., “Da Foscarina a Ermione. Alcyone: prodromi, officina,

poesia, fortuna”, cit., p.179. 18L

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