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Utopie tecnologiche. Tra miti e follie della ragione

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Academic year: 2021

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Gianluca Cuozzo

Utopie tecnologiche: tra miti e follie della ragione

Abstract

Out of the irenic fairy tale concocted by the media looms a world devastated by technology. The so-called side effects of our economic practices (erosion of the principles of life, profligacy on the one hand and, on the other hand poverty and social injustice, the spread of waste and refuse and of pollution-related dangers) have nowadays become the stars of a decayed theater showing a formidable pièce entitled «Welcome Catastrophe». In order to refocus our life on what really matters, it is mandatory to take off the spectacles described in Lyman Frank Baum’s romance The Wonderful Wizard of Oz (1900): the magical green-hued spectacles which on the one hand make everything appear as brilliant as emeralds but, on the other hand, hide the “Industrial Nemesis” which, sooner or later, will reclaim its rights. Before reinchanting the world, as Benjamin would put it, one should try to «cultivate fields where, until now, only madness has reigned. Forge ahead with the whetted axe of reason» – this is the main task that nowadays philosophy needs to undertake.

Keywords

Phantasmagoria, utopia, Philip K. Dick, garbage, ecology.

Con il rischio di contraddire il tema del convegno, direi che il compito odierno non è più quello del «die Welt romantisieren», come voleva Novalis – forse perché l’uomo ritiene da sempre di abitare in un mondo troppo

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grigio e triste per il potere pressoché illimitato della fantasia, mondo oggi più che mai avvilito, dominato com’è dai quattro cavalieri dell’apocalisse Interesse, Sfruttamento, Spreco e Tecnocrazia. Ben diversamente, si tratta forse di compiere il cammino inverso: retrocedere dalla favola al mondo vero. Il che, lo dirò sin d’ora, per me non significa in alcun modo abbracciare il mondo così com’è: tra la trasfigurazione romantica dell’esistente e il più piatto conformismo di quei pensatori che Valéry definiva «i meticolosi contabili di ciò che esiste»1, vi sono perlomeno la

critica dell’ideologia e la metafisica, atteggiamenti dello spirito della cui attualità oggi mi pare superfluo insistere.

A far problema, a mio modo di vedere, è la fantasmagoria oscena del presente, una favola allo stesso tempo inebriante, aleatoria ed esiziale nei suoi effetti, conseguenze sempre meno inventariabili come puramente “collaterali”. Come scrive Slavoj Žižek, «la crisi ecologica, le conseguenze della rivoluzione biogenetica, gli squilibri interni al sistema stesso (problemi con la proprietà intellettuale, imminenti lotte per le materie prime, cibo e acqua), e la crescita esplosiva delle divisioni ed esclusioni sociali»2 si

stagliano all’orizzonte come punti di non ritorno, facendoci paventare la possibilità, per la prima volta nella storia dell’uomo, della finis mundi; oppure, come profetizzava Günther Anders – non a caso definito «la Cassandra della filosofia tedesca»3 – di «un mondo senza uomo» (e non è

che questa seconda chance sia meno preoccupante della prima, gli “ultimi uomini” che si librano tragicamente nel vuoto, sradicati e senza un mondo abitabile). A tal proposito, non posso fare a meno di ricordare il bel racconto 1 P. Valéry, Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, Paris, Gallimard, 1919 (tr. it. di S. Agosti, Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, Milano, Abscondita, 2012, p. 41).

2 S. Žižek, Living in the End Times, Verso, London, 2010 (tr. it. di C. Salzani, Vivere alla fine dei tempi, Milano, Ponte alle Grazie, 2011, pp. 10-11).

3 P.P. Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Günther Anders, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 23.

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di Dario Fo L’apocalisse rimandata ovvero Benvenuta catastrofe (del 2009)4,

in cui viene ritratta con toni tragicomici – come fosse una fiaba con un esito del tutto inatteso e dunque paradossale – la fine di un’umanità cieca, presuntuosa e stolta fino al parossismo; essa, giunta sul baratro della fine del mondo per dismisura (Hybris) e spreco insensato delle risorse, considera ancora ogni acquisizione tecnico-scientifica, comprese le abitudini e i godimenti annessi ad ogni gadget alla moda, come un bene inalienabile: persino l’automobile (sebbene non vi sia più combustibile) e la televisione (anche se non esiste più energia elettrica per farla funzionare).

Non credo che l’umanità, dai tempi del primo rapporto del Club di Roma dietro ricerca commissionata al MIT, rapporto pubblicato nel volume del ’72 I limiti dello sviluppo a cura di Donatella e Dennis Meadow5, si stia

poi comportando tanto diversamente. Le proiezioni più affidabili parlano chiaro: tra il 2040 e il 2045 fine del petrolio e dei suoi derivati (o, per lo meno, fine delle sue possibilità estrattive); nel 2050 si comincerà a fare i conti con una drastica e irreversibile riduzione della biodiversità (con tutti i problemi che ne deriveranno a livello genetico e in termini alimentazione e salute, umana anzitutto), innalzamento dei mari accompagnato da migrazioni di massa di intere popolazioni e, non in ultimo, carenza di risorse idriche; da qui ad un secolo, poi, se non si interrompe il sogno di una crescita illimitata (la cosiddetta “mistica del PIL”) probabile estinzione dell’uomo: finis fabulae, Entazauberutng der Welt und des Menschen. Questo scacco, tuttavia, darebbe adito, come scrive Jean-Marie Domenach,

4 D. Fo, L’apocalisse rimandata ovvero Benvenuta catastrofe, Pordenone, Guanda, 2009, passim.

5 D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W.W. Behrens III, Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers e William W. Behrens III, The Limits to Growth: a Report for the Club of Rome’s Project on the Predicament of Mankind Earth Island, New York, Potomac Associates, 1972 (tr. it. di F. Macaluso, I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group MIT per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, Prefazione di A. Peccei, Milano, Mondadori, 1973).

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al «retour du tragique» nel mondo moderno6; oppure, come aveva

osservato Ivan Illich, al ritorno di una «Nemesi formato industriale», la gelosia distruttiva degli dei nel pieno della civiltà secolarizzata: essa, celandosi nella «controproduttività sociale» di molti dei ritrovati della tecnica, «si è annessa la secolarizzazione universale, il trasporto di massa, il lavoro salariato industriale e la medicalizzazione della salute. Essa plana sui canali televisivi, le autostrade, i supermercati e gli ospedali. I parapetti che i miti garantivano sono tutti saltati»7, liberalizzando la disfunzione

omicida del sistema quale condizione diffusa dell’odierna catastrofe storica. Ora, noi sappiamo tutto ciò, ma non riusciamo a dire altro che “benvenuta catastrofe”, pensandoci capaci di provvedere ad oltranza alle conseguenze scellerate delle nostre azioni. Al più ci pariamo dietro il fragile ventaglio di una morale prudenziale che – dai tempi di John von Neumann – ha preso la forma del minimax: formula che consiste nel minimizzare la perdita massima possibile sul piano di una strategia della precauzione che tende ad anestetizzare la catastrofe nelle categoria del «rischio» e dell’«improbabile», tipiche del gioco d’azzardo. Eppure, occorre osservare, «la catastrofe ha questo di terribile: che non solo non si crede che essa si produrrà anche se si hanno tutte le ragioni per sapere che essa si produrrà, ma che una volta che essa si è prodotta appare come dipendente dall’ordine normale delle cose. La sua stessa realtà la rende banale»8.

In fondo, come scriveva Jean Baudrillard già trent’anni or sono, siamo convinti di vivere nell’utopia realizzata, l’eden della società dei consumi – una nuova Canaan «dove, invece del latte e del miele, scorrono le onde del

6 J.-M. Domenach, Le retour du tragique, Paris, Seuil, 1967, passim. 7 I. Illich,

8 J.-P. Dupuy, Pour un catastrophisme éclairé. Quand l'impossible est certain, Paris, Seuil, 2004 (tr. it. di P. Heritier, Per un catastrofismo illuminato, Milano, Medusa, 2011, p. 75).

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neon sul ketchup e sulla plastica»9. La nostra esistenza scorre leggera nel

pieno della «precessione dei simulacri», immagini senza referente che trasfigurano – mediante un poderoso impianto di segni consolatori e allettanti – gli aspetti scabrosi del reale in un «inferno molle e climatizzato», rendendo la drammaticità della crisi in atto un’«apocalisse morbida», fruibile comodamente in poltrona come mero oggetto dello spettacolo mediatico e della trasfigurazione cinematografica. In questa finzione – che è stata anche definita «nuovo totalitarismo pubblicitario»10 – ci

abbandoniamo fiduciosi ad un mantra mediatico assordante che è come la coltre ideologica che la tecnica irradia intorno a sé per coprire lo sfruttamento insensato dell’ambiente e le profonde ingiustizie sociali del presente – colonna sonora, festosa e vacua, che potrebbe accompagnarci fino alla fine del mondo; o, per meglio dire, fino a che esso non sia letteralmente consummatum. Viviamo come in un eterno happy hour sul baratro dell’apocalisse, ballando in un’immensa discarica con gli occhi bendati, maschera antigas e l’immancabile spritz in mano. In questa farsa oscena assomigliamo davvero al signor Senzasperanza di Kafka: colui che naviga in acque perigliose, da cui affiorano scogli taglienti, con la sua barchetta dal pescaggio ridotto intorno al Capo di Buona Speranza. Solo uno spot televisivo, con tanto di effetti speciali e litanie ossessive che inneggiano al tempo della festa e della sazietà, può convincerci che l’impresa (il cui nome, ogni volta, è happiness now) è ancora possibile, e che il viaggio ha un senso altro che non sia la catastrofe a cui andiamo incontro11.

9 J. Baudrillard, La societé de consommation, Paris, Éditions Denoël, 1970 (tr. it. di G. Gozzi e P. Stefani, La società dei consumi, il Mulino, Bologna, 2006, p. 4).

10 F. Beigbeder, 99 Francs, Paris, Grasset & Fasquelle, 2000 (tr. it. di A. Ferrero, Lire 26.900, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 20).

11 F. Kafka, Die Acht Oktavhefte, in Idem, Hochzeitsvorbereitungen auf dem Lande und andere Prosa aus dem Nachlass, Frankfurt a. M., Fischer, 1953 (tr. it. di I.A. Chiusano, Quaderni in ottavo, Milano, SE, 1991, p. 79).

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Riprendo qui Benjamin, un fedele compagno di viaggio per chiunque abbia a cuore la salvazione (nel senso forte, dunque teologico di Rettung) dei fenomeni: «Bonificare i territori su cui finora è cresciuta solo la follia. Penetrarvi con l’ascia affilata della ragione […]. Ogni terreno ha dovuto una volta essere dissodato dalla ragione […]»12; ciò è quanto occorre fare qui

per il nostro secolo.

Ma per arrivare a Benjamin, prima vorrei attraversare il regno incantato della fiaba, come sembra suggerire L. Frank Baum a Dorothy, la protagonista de Il Mago di Oz (1900). Prima di tornare nella grigia cittadina del Kansas in cui abita con lo zio Henry e la zia Em, la bambina – come in ogni Bildungsroman che si rispetti – deve infatti sperimentare delizie e pericoli di una realtà di sogno, incunearsi nei suoi meandri prodigiosi, per comprendere infine che il Grande e Terribile Mago che governa in quel paese fatato è in realtà un impostore e un mentitore. A interessarmi, in primo luogo, sono gli occhiali che fanno vedere tutto verde e luccicante nel meraviglioso mondo di Oz, tali da circonfondere ogni cosa di un lucore incantato che nasconde le asperità e le contraddizioni del reale, tenendo ben lontane le streghe crudeli e invidiose che minacciano the Wonderful Wizard of Oz – come l’Altro della fiaba tout court.

Si tratta di un’apparente digressione, questa, ma davvero non lo è. Narrando fiabe molto spesso si descrive in modo velato il mondo in cui viviamo anzitutto e per lo più – e il caso nostro non fa eccezione. Non è allora un caso che L. Frank Baum, prima del racconto citato, si fosse occupato della grande distribuzione e della sua promozione commerciale, e avesse scritto un interessante testo su come arredare le vetrine allo scopo – inutile dirlo – di incrementare le vendite e incentivare il consumo (una delle 12 W. Benjamin, Passagen-Werk, a cura di R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1980 (tr. it. Parigi capitale del XIX secolo. I “passages” di Parigi, a cura di R. Tiedemann, Torino, Einaudi, 1986, p. 1038).

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attività commerciali a cui L. Frank Baum si interessò molto fu l’allevamento avicolo, di cui aveva intravisto le immense possibilità di vendita per la grande distribuzione; in tal senso, nel 1886, scrisse un trattato dal titolo The Book of the Hamburgs). In questa attività pionieristica L. Frank Baum approfondì quel nesso tra «estetica, industria e mercato» che sarà centrale nella cultura dei consumi degli Stati Uniti d’America da quel momento in poi, fino ai magnifici Anni Cinquanta dello sviluppo economico statunitense e all’affermazione del concetto dell’usa-e-getta (cultura di cui è stato uno spietato critico un altro grande scrittore americano: Philip K. Dick, ricorrendo all’ultima versione sovversiva della fiaba: la Science Fiction)13. Il

libro di L. Frank Baum in oggetto s’intitola The Art of Decorating, che aveva lo scopo di insegnare a conferire agli oggetti esibiti nelle vetrine «un fulgore di gloria», studio che si affiancò alla rivista da lui fondata nel 1897 «The Show Windows» (letteralmente, La vetrina-spettacolo): proprio in quegli anni la vetrina diviene una vera e propria «narrazione visiva, una scena accuratamente predisposta sin nei minimi dettagli calcata da personaggi-manichini, bambole e bambolotti, animali di pelouche o meccanici»14 che

trasformano la promozione commerciale in una fantasmagoria ravvicinata e tangibile del paradiso. La vetrina, nelle considerazioni di L. Frank Baum, diviene in effetti uno scorcio fantastico che permette – sono sue parole – «una sbirciatina in Paradiso»15, luogo ora accessibile a tutti e davvero a

buon mercato. Come non ricordare a tal proposito le mirabili pagine di Benjamin sui passages di Parigi? Queste gallerie, nel Passagen-Werk, sono descritte come «antri fatati», «templi del capitale mercificato», luoghi ovattati e pervasi da un’atmosfera di sogno, sospesi tra interno (della casa) ed esterno (della strada); essi sono simili a «grandi acquari» dove il tempo 13 Per questi aspetti rimando al mio Filosofia delle cose ultime. Da Walter Benjamnin a Wall-E, Bergamo, Moretti & Vitali, pp. 67-92.

14 A. Cagidemetrio, Il Mago di Oz: la fiaba moderna di Frank Baum, in L. Frank Baum, Il Mago di Oz, tr. it. di S.M. Sollors, Venezia, Marsilio, 2004, p. 19.

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non scorre, percorribili solo con aria sognata e passo distratto da flâneur. Questi atteggiamenti, avverte Benjamin, divengono moda e stile, certo; ma, in realtà, servono a far cadere preda delle merci colà esibite gli abitanti della metropoli – riduzione allo stato inorganico della vita di cui la prostituta è la prima vittima, esibita come trofeo nel «nuovo Lete d’asfalto» delle gallerie parigine16.

Il mondo di Oz, The Wonderful Land of Oz, è in fondo l’utopia americana presque réalisée; ma si tratta di una «utopia formato famiglia»17

con cui sembra idealmente concludersi, tra le quattro mura domestiche – in stile fiabesco e secondo i precetti del mercato dei consumi –, il Pilgrim’s Progress descritto da John Bunyan due secoli prima (la parabola puritana del pellegrino sul suolo americano fu scritta, com’è noto, nel 1678, in cui viene descritto un viaggio di purificazione che si conclude, in senso mistico, nella Città Celeste). Sarebbe qui utile contrapporre a questo pellegrinaggio la parodia fattane da N. Hawthorne ne La ferrovia celeste, perché anticipa quello che vorrò dire sul finire del mio intervento. Basterà dire che nel racconto citato Hawthorne comincia già a scorgere nella contaminazione della natura selvaggia e nella mondanizzazione della provvidenza (trasformata in blasfemo progresso tecnologico) i segni di un agire essenzialmente permeato dal peccato originale: l’altra faccia di sé, terrificante e minacciosa, che la tecnica rivela nella prima metà dell’Ottocento (I muschi da una vecchia canonica, da cui è tratto il racconto in oggetto, sono stati scritti tra il 1843 e il 1846). Al posto del classico pellegrinaggio a piedi verso il Paradiso, si è costruita una ferrovia percorsa da un comodo treno: ma si tratta, scrive l’autore, di «un demonio meccanico»18 che, invece di condurre al Paradiso in terra, inchioda l’uomo

16 W. Benjamin, Passagen-Werk, tr. it. cit., p. 55.

17 A. Cagidemetrio, Il Mago di Oz: la fiaba moderna di Frank Baum, cit. p. 25. 18 N. Hawthorn, The Celestial Railroad, in Idem, Mosses from an Old Manse, London, Wiley & Putnam, 1846 (tr. it. it. di S. Antonelli e I. Tattoni, La ferrovia celeste, in Idem, Tutti i racconti, Roma, Donzelli, 2006).

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alla Fiera della Vanità – lo smascheramento, si potrebbe dire, delle “magnifiche sorti e progressive”.

Ma torniamo a Oz e al suo mondo meraviglioso: basterebbe togliersi gli occhiali per vedere che dietro la profezia di Nietzsche (secondo cui «il mondo vero è divenuto favola») si nasconde la superfice scabra della verità, una verità scomoda e imbarazzante. Il Grande Mago, si diceva, si rivela alla fine un semplice impostore (humbug), piccolo e brutto, o al limite un semplice prestigiatore da strapazzo («magician»); la Città Smeralda (Emerald City), poi, fuori dall’incanto ottico garantito dalle lenti colorate, appare davvero meno lucente e verde di come non sembri inforcando i green spectacles – occhiali magici che dovrebbero almeno insospettirci per modo in cui vengono portati: essi sono fissati dietro la testa di abitanti e visitatori di quella città mediante una serratura, la cui chiave è affidata nelle mani sicure di un custode che, già solo per il nome (egli è chiamato il Guardiano dei Cancelli), sembra anticipare – nel bel mezzo del mondo fiabesco di Oz – alcuni dei personaggi polverosi, inquietanti e inaccessibili descritti da Franz Kakfa (si pensi alla parabola allucinata Davanti alla legge19, in cui un Guardiano inchioda il malcapitato in una relazione di

bando permanente – il cosiddetto Bannkreis, che colpevolizza il vivente come tale, separandolo dalla grazia (ciò che libera dalla Legge) anche in mancanza di occhiali colorati e muniti di serratura: ad essere colpevole, oramai, qui è la «nuda vita» come tale20, non occorre più ingannare

nessuno per irretirlo nel cerchio magico del sempre-uguale.

19 F. Kafka, Der Prozess, Berlin, Die Schmiede, 1925 (tr. it. di G. Zampa, Il processo, Milano, Adelphi, 1978).

20 Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 2005, passim.

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Ma ogni incanto, anche nel mondo descritto da L. Frank Baum, dura poco. «No, vi siete tutti sbagliati […]. Stavo soltanto facendo finta»21, dice

Oz quando è costretto a rivelare la sua assoluta inettitudine come mago, il suo non essere cioè né Grande né Terribile (egli, a conti fatti, non può dare un cuore all’uomo di latta, non può offrire un cervello allo spaventapasseri, non può infondere coraggio al leone codardo, e soprattutto non può far tornare in Kansas la piccola Dorothy). Questi, il Mago di Oz, è semmai un pifferaio imbroglione, un po’ buffone da circo un po’ ventriloquo, che inganna chi ha bisogno di essere ingannato per vivere – senza averne coscienza – in un mondo pieno di contraddizioni e pericoli. Noi, in fondo, siamo proprio così: come dice l’editorialista americano Kunstler, oggi per vivere spensieratamente dobbiamo credere che «la bolla artificiale di plenitudine»22 del tutto eccezionale, quel miraggio di benessere offerto fino

agli anni ’50 dalla disponibilità di energia a buon mercato (il petrolio, la cui estrazione ha oramai superato la cosiddetta curva di Hubbert determinata dal “picco estrattivo”), sia la condizione permanente di un concetto di felicità materiale “non negoziabile” (l’espressione, a proposito dello stile di vita americano, è di Dick Cheney, vicepresidente degli USA ai tempi dell’amministrazione Bush). Si tratta dunque di quell’alterazione prospettica – o «dissonanza gnoseologica»23 – che tanto assomiglia agli effetti prodigiosi

prodotti dagli occhiali verdi del meraviglioso mondo di Oz.

Prima di re-incantare il mondo, occorre dunque rinunciare al prisma consolatorio delle nostre lenti colorate; dietro il mondo splendente in cui crediamo di vivere, se solo cambiamo occhiali o prospettiva (come

21 L. Frank Baum, The Wonderful Wizard of Oz, Chicago, George M. Hill Company, 1900 (tr. it. di S.M. Sollors, Il mago di Oz, Venezia, Marsilio, 2004, p. 247).

22 J.H. Kunstler, The Long Emergency: Surviving the Converging Catastrophes of the Twenty-first Century, New York, Grove/Atlantic, 2005 (tr. it. di G. Lupi, Collasso, Bologna, Nuovi Mondi Media, 2005, p. 56).

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insegnano le teorie dell’anamorfosi descritte da Baltrusaitis)24 potrebbe

nascondersi, come ne Gli ambasciatori di Hans Holbein, un orribile teschio, appena dissimulato dalle tarsie policrome del pavimento: dietro la magnificenza dei notabili ritratti con enfasi, si avverte qui il richiamo alla caducità di ogni bene terreno, vanitas vanitatum.

«Welcome to the real world», Miss Dorothy, si potrebbe dire con Morpheus di Matrix a chiunque si tolga gli occhiali verdi di Oz. Chi sceglie la pillola rossa scorge appena sotto il velo di Maya della finzione allucinatoria un mondo spaventoso ridotto in macerie, miseri resti cui si riducono tutti i nostri sogni di benessere e di gloria: esse fanno sembrare il mondo a «un cimitero di filoni e pozzi sfruttati, ripudiati e abbandonati»25. Ora, in questo

paesaggio disperato, sia detto per inciso, potrebbe trovarsi a proprio agio solo il benjaminiano Angelo della Storia, intento a contemplare impotente quei relitti che il tempo, come un’enorme bufera, lascia dietro di sé e che noi, per ostinato ottimismo, «chiamiamo progresso»26; o forse Wall-E, il

robottino dell’omonimo film di animazione ideato da Pixar Animation Studios che accumula relitti su relitti in un mondo oramai abbandonato dall’uomo e ridotto a un’enorme discarica a cielo aperto.

Le utopie formato famiglia sono oggi davvero molte; nell’epoca della fine della grandi narrazioni (così di diceva sino a qualche tempo fa), appaiono nuovi e sorprendenti racconti apologetici che accompagnano le merci, tali da assurgere a surrogati di «ideologie di redenzione»27. Queste

24 J. Baltrusaitis, Anamorphoses ou perspectives curieuses, Paris, Oliver Perrin, 1955 (tr. it. di P. Bertolucci, Anamorfosi o thaumaturgus opticus, Milano, Adelphi, 2004, segnatamente pp. 51-132)

25 Z. Bauman, Wasted Lives. Modernity and its Outcasts, Cambridge, Polity Press, 2004 (tr. it. di M. Astrologo, Vite di scarto, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 32).

26 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte , “Die neue Rundschau”, 41 (1950) n. 4, pp. 560-570 (tr. it. di G. Bonola e M. Ranchetti, Sul concetto di storia, Torino, Einaudi, 1997, p. 37).

27 G. Ritzer, Enchanting a Disenchanted World. Continuity and Change in the Cathedrals of Consumption, Thousand Oaks, Pine Forge Press, 1999 (tr. it. di N.

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favole consumistiche costituiscono il limbo semantico in cui gadget tecnologici e merci di ogni tipo acquisiscono senso, vita propria e valore: il linguaggio delle pubblicità, nell’incoraggiare determinati stili di vita finalizzati all’indefinita sostituzione dei prodotti e nel fornire rassicurazioni psicologiche contro i numerosi effetti di ricaduta dello spreco (rifiuti non smaltibili, crisi ambientale, popolazioni affamate), ha introiettato – deformandola per finalità economiche – la connaturata propensione utopica del desiderio umano di felicità. Ogni prodotto, riformulato in immagine proteiforme, ubiqua e atta a raggiungere e sedurre i potenziali compratori in ogni luogo del pianeta, si carica di valenze salvifiche che diventano il surrogato dell’inquietudine escatologica dell’uomo contemporaneo. Steve Jobs, per fare un esempio, novello mago di casa Apple, aveva ben compreso questa potere di seduzione favolosa dei suoi prodotti: il suo intento era, a proposito del tanto celebrato sistema operativo OS X, che pulsanti e icone, sullo schermo di un Mac, fossero talmente belli «che viene voglia di leccarli»28 – una metafora potente e sconcertante del Paese di Cuccagna

descritto nella bellissima raffigurazione di Pieter Bruegel (luogo della realizzazione del desiderio dove l’uovo alla coque corre nelle fauci del chierico addormentato, l’oca si dispone nel piatto di portata e il maiale si aggira nel paesaggio recando il coltello, con cui sarà sgozzato, legato al proprio corpo).

A volte, osservando le etichette di una merce, sembra di leggere una delle didascalie autocelebrative di cui narra Philip K. Dick nel romanzo Ubik (del ’69), tutta «strisce luminose, palloncini e caratteri che ne esaltano le

Rainò, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell'iperconsumismo, Bologna, il Mulino, 2005, p. 43).

28 S. Jobs, dichiarazione alla rivista “Fortune” (24 gennaio 2000); cit. in L. KAHNEY, Inside Steve’s Brain, Expanded Edition, New York, Penguin, 2009 (tr. it. di

P. Lucca, Nella testa di Steve Jobs, nuova ediz. ampliata e aggiornata, Milano, Sperling & Kupfer, 2011, p. 29).

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superfici lucenti»29. Ubik, nel racconto dickiano, dapprima è il nome di una

miracolosa pozione del tipo Coca-Cola, ideata sul finire dell’800, con incredibili capacità terapeutiche. Nel corso della narrazione, tuttavia, Ubik si rivela come l’essenza della merce come tale, capace di trasformarsi in ogni prodotto: di volta in volta è il marchio di un aspirapolvere, di una birra, una marca di caffè, un potente grastroprotettore, una cassa depositi e prestiti in grado di far sparire l’ansia provocata dei debiti, una pellicola extralucida spray protettiva, una schiuma rinfrescante che funge da collutorio, un reggiseno anatomico, un cremoso balsamo per capelli, un deodorante che pone chi lo adopera al centro degli avvenimenti, un potente sonnifero, una marca di dolcetti per la prima colazione, e via dicendo. Ubik, detto altrimenti, è l’essenza della merce che si rinnova costantemente, l’esser-merce della l’esser-merce che permea di sé ogni prodotto della società dei consumi. Ora leggo insieme a voi l’etichetta di un prodotto realmente in commercio – e davvero non credo si stia esagerando più di tanto nello stabilire analogie tra realtà e fiction letteraria:

Lazzaro, shampoo effetto resurrezione! I tuoi capelli rivedranno la luce. Secchi, tristi o maltrattati: li rimette a nuovo con oli emollienti di jojoba, oliva e mandorla, frutta tropicale ed erbe per riequilibrare la cute [...]. È la morte sua! Agita la bottiglia, applica sui capelli e risciacqua30.

Lazzaro il redivivo, colui che si alza e cammina superando la morte, è qui in vendita – in una confezione minimalista che non fa che promuovere se stessa – come un prodotto tra gli altri, la cui pubblicizzazione è affidata alle stesse istruzioni d’uso che compaiono sull’etichetta: realtà e finzione 29 P.K. Dick, Ubik, New York, Doubleday & Company, 1969 (tr. it. di P. Prezzavento, Ubik, Roma, Fanucci, 2007, p. 189.

30 La metafora biblica vale solo per la versione italiana del prodotto; la casa madre pubblicizza in Inghilterra lo shampoo con il nome Rehab, attingendo a un patrimonio metaforico del tutto diverso (https://www.lush.co.uk/ product/328/Rehab-Shampoo-100g/http).

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mediatica (secondo cui l’immagine ‘ha il solo scopo di presentare il prodotto’) qui vanno a braccetto. La promessa di benessere affidata al prodotto, in tal senso, si autoadempie nel carattere performativo della leg(g)enda, che è a un tempo presentazione di una merce e predizione di uno stato di appagamento futuro (il riveder la luce da parte dei nostri capelli); desideratum, questo, che è al confine tra l’esperienza ordinaria (estetica in senso pieno) e l’ottenimento (inverificabile con i sensi) di una grazia.

Certo, l’analogia biblica sembra eccessiva. Ma ecco cosa recita il sito WEB dedicato al prodotto:

La metafora biblica è un po’ forte, ma questo shampoo ha davvero poteri sovrannaturali sui capelli secchi, sfibrati o trattati. Li farà letteralmente risorgere con gli enzimi detergenti della frutta, con il gel di alghe e con gli emollienti olii di mandorle e di oliva, che danno struttura e aumentano la flessibilità. Ginepro e lavanda si occupano invece di ristabilire una corretto equilibrio per andar avanti. Ricordatevi di agitare bene prima dell’uso31.

Prima azzardavo un parallelo tra mondo dei consumi e fiction letteraria. Non sarà piuttosto che Ubik, sfuggendo al controllo del suo autore, si è reincarnato in uno shampoo appena un po’ pretenzioso? In un mondo senza grazia, di fatto, la salvezza può arrivare da qualsiasi cosa presenti se stesso come un che di divino. D’altronde, il nome Ubik non deriva forse da ubique? Ovunque, nel mondo dei consumi, può darsi un surrogato di redenzione: basta solo credere nel verbo dell’imbonitore, che non fa che amplificare la lingua fantasmagorica della merce:

Io sono Ubik. Prima che l’universo fosse, io ero. Ho creato i soli. Ho creato i mondi. Ho creato le forme di vita e i luoghi che esse abitano; io le muovo nel

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luogo che più mi aggrada. Vanno dove dico io, fanno ciò che comando. Io sono il verbo e il mio nome non è mai pronunciato, il nome che nessuno conosce. Mi chiamo Ubik, ma non è il mio nome. Io – l’essenza di ogni merce – sono e sarò in eterno32.

Questa affabulazione commerciale, in cui aspetto descrittivo e aspetto predittivo di una legenda si confondono oltre il principio di realtà, non è cosa innocua. La politica lo sa bene, e i nuovi maghi – penso qui al Mago di Arcore – sono pronti a sfruttare questo stato di confusione mentale: è così possibile ricevere nelle nostre buche delle lettere una pubblicità elettorale travestita da modello di richiesta di rimborso di una tassa, ove si sovrappongono insensibilmente dato oggettivo (voglio il tuo voto, sto solo presentando un prodotto-partito fra gli altri) e aspetto predittivo (guarda, è così probabile la mia vittoria che, come un improbabile Robin Hood che viene dal futuro, ti restituisco già ora la terribile e ingiusta tassa, come è mia intenzione fare se avrò il tuo voto; non hai letto cosa c’è scritto sulla busta? «Avviso importante – Rimborso IMU 2012»; e non è solo una promessa, bensì les jeux sont faits, qui e ora).

Sul finire, voglio fare un solo accenno a una nuova strategia di reincantamento, non solo retorica, che faccia i conti con la crisi sistemica in cui viviamo: una possibile riaffabulazione del mondo e della natura dopo aver usato l’ascia affilata della ragione contro l’inganno perpetrato da merci miracolose e nuovi imbroglioni/imbonitori di turno. Oggi il pensiero filosofico, rispetto all’urgenza di una nuova filosofia della natura, sembra latitare; la natura, infatti, oggi è piccola e brutta, essa può solo suscitare la nostalgia di ciò che non è più; mentre la nostra sussistenza è resa possibile soltanto dalla speranza che ciò che resta del mondo ambiente sia un frammento – un’allegoria – capace di additare verso una totalità di senso

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adveniente, la cui immagine salvifica (ora mediata con la storia) è quella del Paradiso ritrovato. Detto altrimenti, l’Ecosofia, se vuol vincere la partita con la catastrofe imminente che minaccia la civiltà, deve essere guidata dai fili invisibili della teologia, che sola permette di mediare desiderio (essenzialmente storico) di salvezza e immagine omeostatica di un mondo in sé riconciliato (sottraendo questo ideale allo spettro dell’utopia regressiva).

Il grande narratore Michel Tournier, mi pare, ha fatto i conti con questa chance salvifica, che provvede a un reincantamento del mondo – mediante «illuminazioni o celebrazioni profane» –, ma solo dopo l’estirpazione della follia e del mito con cui si crogiola pericolosamente il sogno autistico della nostra civiltà. La natura, nelle sue narrazioni, sembra accedere alla grazia, a un darsi da sé dell’essere dal profondo che coinvolge uomini e cose in una festa dei sensi e dello spirito: dove per stato di grazia deve intendersi tanto «quello che si applica a un ballerino [quanto] quello che riguarda il santo»33.

Un giardino ben curato, in questi istanti privilegiati, «somiglia a certe raffigurazioni medievali del giudizio universale»; un parco cittadino a una foresta lussureggiante, «cosmo vegetale in cui la materia è totalmente riassorbita dalla forma»; un grosso albero assurge a vita animale, che invita gli uccelli ad abitarlo; per non parlare dell’eleganza del passo di certi quadrupedi, dei segreti della spiaggia al ritrarsi della marea (Chateaubriand docet), dell’«odio vegetale» che gli alberi del bosco si votano l’un l’altro al soffiare della tempesta – come dire, in queste celebrazioni profane della «ricchezza inesauribile del mondo» l’uomo e le cose si riscattano davvero dalla loro «schiavitù di essere utili»34, sempre e comunque, obbligandolo ad

33M. Tournier, Vendredi ou les Limbes du Pacifique, Paris, Gallimard, 1967 (tr. it. di C. Lusignoli, Venerdì o il limbo del Pacifico, Torino, Einaudi, 2010, p. 209).

34 H. Arendt, Walter Benjamin, «Merkur», 12 (1968), pp. 305-316 (tr. it. di V. Bazzicalupo e S. Muscas, Il pescatore di perle, in Idem, Il futuro alle spalle, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 160).

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abbandonare la percezione obbiettivante a favore dell’ammirazione estatica:

Qui lo spazio vince sul tempo, solo l’occhio comanda. Conta più del cuore, e non sa che farsene delle sottigliezze della psicologia e delle secrezioni della vita interiore. La bellezza degli esseri e delle cose, la loro stranezza e bizzarria, il loro sapore giustificano e ricompensano una caccia felice e insaziabile [...]. Non esiste nulla di paragonabile all’ammirazione. Esultate perché ci si sente sopraffatti dalla grazia di un musicista, dall’eleganza di un animale, dalla grandezza di un paesaggio, o dall’orrore grandioso di un inferno: ecco ciò che dona senso alla vita. Miserabile è colui che non è capace di ammirazione35.

Biografia

Gianluca Cuozzo è docente di Filosofia teoretica all’Università di Torino. Ha dedicato i propri studi a Löwith, Cusano, Bruno e Benjamin. Negli ultimi anni ha rivolto i propri interessi da un lato al nesso tra dottrine artistiche e riflessione filosofica, dall’altro ad alcuni narratori statunitensi (Don DeLillo, Paul Auster, Philip K. Dick) e al tema delle utopie classiche e postmoderne. Tra le sue più recenti monografie si ricordano: Regno senza grazia, Milano-Udine 2013; Filosofia delle cose ultime, Bergamo 2013; Dentro l’immagine, Bologna 2013.

35 M. Tournier, Célébrations, Paris, Mercure de France, 1999 (tr. it. di I. Landolfi, Celebrazioni, Milano, Garzanti, 2001, p. 5).

Riferimenti

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