D’Amérique en Europe. Quand les Indiens découvraient l’Ancien Monde (1493-1892) Éric Taladoire
Parigi, CNRS Éditions, 2014, 286 pp.
recensione di Antonio Aimi
Tintas.Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 5 (2015), pp. 219-221. issn: 2240-5437.
http://riviste.unimi.it/index.php/tintas Il tema della presenza degli Indiani
d’America in Europa è totalmente ignorato. Finora se ne trova qualche traccia nei commenti sulla Conquista che ricordano, en passant, i Taino portati da Colombo già al ritorno del primo viaggio o i giocatori di ulama [il gioco della palla]
mexica che nel 1528 si esibirono davanti a
Carlo V e furono raffigurati da Christoph Weidetz. Tracce ancor più sporadiche appaiono nelle ricerche sul collezionismo che, qua e là, ricordano che ogni tanto gli
exotica americani inviati in Europa erano
accompagnati da Indiani in carne ed ossa. In un caso e nell’altro queste tracce sono state percepite come aneddoti e, come tali, sono state relegate ai margini della ricerca scientifica.
Finalmente, però, questa lacuna è stata colmata da Éric Taladoire, già titolare della cattedra di Archéologie des Amériques alla Sorbona, autorità indiscussa sul gioco della palla e autore di importanti ricerche sul collezionismo e sulle culture precolombiane. Nel 2014, infatti, lo studioso francese ha pubblicato D’Amérique en Europe, dove non solo affronta questo tema in modo sistematico, ma lo colloca nel contesto più generale di quello che, riprendendo il titolo del libro di Crosby, è stato chiamato lo «scambio colombiano». Ma mentre il popolare libro dello storico statunitense
prendeva in esame l’uomo come «entità biologica» nel quadro del suo rapporto con virus, batteri, organismi unicellulari, piante e animali, il saggio di Taladoire si sofferma solo sugli Indiani, donne e uomini, che, come «entità sociali e culturali» si potrebbe dire sempre sulla scia di Crosby, vennero in Europa nei quattro secoli che seguirono il primo viaggio di Colombo. E per quanto i due libri possano apparire molto vicini, se non altro per il fatto di essere assai innovativi, in realtà sono molto diversi.
Infatti mentre Crosby si limitava a elencare sotto un titolo brillante fenomeni noti da tempo e in alcuni casi fin dai tempi della scoperta, Taladoire scopre che i pochi aneddoti di cui si è parlato più sopra non sono altro che la punta dell’iceberg di un universo nuovo e finora completamente inesplorato: quello del flusso relativamente regolare dei viaggiatori indigeni che varcavano l’Atlantico per venire in Europa per periodi più o meno lunghi o, a volte, definitivi.
E tanto Lo scambio colombiano era approssimativo (basti dire che nel capitolo sulle dispute sul Nuovo Mondo, incredibilmente, ignorava i lavori fondamentali e conclusivi di Gerbi: La
natura delle Indie nove e La disputa del Nuovo Mondo), quanto D’Amérique en Europe è puntuale e preciso e non perde
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Éric Taladoire, D’Amérique en Europe. Quand les Indiens découvraient l’Ancien Monde (1493-1892) [Antonio Aimi] ——— 220 ———
mai di vista la complessità di un processo che sembra sporadico, ma è di lunga durata e presenta una dimensione che può essere misurata da un punto di vista quantitativo. Cominciando da quest’ultimo aspetto, è opportuno partire dalle appendici finali del libro, dove Taladoire mostra che, escludendo gli schiavi, i meticci, ecc., tra il 1493 e il 1892 arrivarono in Europa 3.724 Indiani. Di 349 di questi (644 nella versione on-line del libro) è stato possibile trovare il nome e alcune informazioni di base. Per quanto riguarda gli schiavi, il cui numero evidentemente doveva essere molto superiore, l’autore si limita a ricordare che secondo i dati di Mira Caballos 2.242 persone furono portate in Castiglia solo nel XVI secolo.
Ma, come è noto, la quantità si trasforma in qualità. E la qualità emersa da questi dati che, probabilmente, tutti pensavano fosse impossibile ricostruire, mostra che la presenza costante e significativa di Indiani in Europa creò una rete di relazioni coi sovrani, le corti, gli intellettuali, i funzionari coloniali che da un lato contribuì a definire la nostra visione delle Americhe e, più in generale, le prime riflessioni antropologiche sulle società extraeuropee, dall’altro ebbe conseguenze di un certo rilievo sugli stessi processi di conquista e sulle lotte tra le diverse potenze coloniali.
Il libro è diviso in due parti speculari:
De la découverte à la reconnaissance 1493-1616 e Une perspective inversée 1616-1892. Il discrimine del 1616 è quello
del viaggio di Pocahontas a Londra. La data, ovviamente convenzionale, da un lato coglie la riduzione del flusso dei visitatori che si registrò con la progressiva metabolizzazione della scoperta e dall’altro è un buon compromesso tra la diversa situazione dei domini iberici e di quelli inglesi e francesi. Nella prima parte, dopo un breve prologo, Dal Nuovo al Vecchio
Mondo, si prendono in esame i reciproci
processi di acculturazione (cap. I), l’arrivo degli Indiani come «curiosità e interpreti» (cap. II) e il loro utilizzo «come spettacolo» (cap. III), il progressivo cambiamento della riflessione europea che s’inventa «il buon selvaggio» (cap. IV), i viaggi di «nobili e cacicchi» in cerca di ricompense per i favori prestati alle potenze coloniali (cap. V), la presenza di figure atipiche come quelle di spie e marinai (cap. VI), il caso particolare dei meticci tra il 1528 e il 1550 (cap. VII) e la «parte sommersa dell’iceberg: gli schiavi e i servi» (cap. VIII). Coerentemente col taglio speculare del libro, la seconda parte, dopo un secondo prologo, comincia a riprendere in esame «gli schiavi, i servi e gli ostaggi» (cap. IX), per passare poi ai «meticci e ai convertiti» (cap. X), ai «nobili, ai postulanti e agli alleati» (cap. XI). Seguono quindi i capitoli: Dal buon selvaggio a specie in
pericolo (cap. XII), Il ritorno al grande spettacolo (cap. XIII), Il ritorno alle origini: l’Amerindiano come curiosità antropologica
(cap. XIV), che è seguito dalle conclusioni:
Un’altra conquista del Nuovo Mondo e da
una breve postfazione.
Appare, dunque, evidente che il libro presenta una struttura molto articolata e una quantità di informazioni sorprendente. C’era, pertanto, il rischio che l’opera di Taladoire risultasse un mattone indigesto e che i dati sovrabbondanti facessero perdere la visione d’insieme del fenomeno. Ma l’autore non solo non dimentica mai le questioni più generali, dalle quali scaturiscono i modelli interpretativi che consentono di illuminare e dare un senso ai dati, ma riesce anche a muoversi con agilità su diversi terreni: quello dell’histoire événementielle, della sociologia, dell’etnostoria, della storia del collezionismo e della storia della stessa percezione dell’America. Su quest’ultimo piano, che è un po’ quello che tira le fila degli
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Éric Taladoire, D’Amérique en Europe. Quand les Indiens découvraient l’Ancien Monde (1493-1892) [Antonio Aimi] ——— 221 ———
altri, Taladoire affronta di petto la visione riduzionistica di Mann e Nunn e Qian e altri autori che sulla scia di Crosby hanno proposto una visione dei rapporti Europa-America che finisce, di fatto, per privilegiare gli elementi eco-biologici rispetto al ruolo degli Indiani. Nel farlo, giustamente, non cade nella trappola dell’ideologia (batteri e piante vs esseri umani), ma rimane fermo sul terreno della ricerca e mostra che semplicemente questo riduzionismo non funziona e finisce per alimentare pregiudizi e visioni stereotipate dei complessi processi della conquista e della colonizzazione. Dalle ricerche dello studioso francese emerge invece con chiarezza che gli Indiani non furono solo vittime e spettatori esclusivamente “passivi” dei più generali processi di conquista e colonizzazione, ma anche “protagonisti” di queste vicende.