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Resveratrolo e rischio cardiovascolare globale: evidenze epidemiologiche e meccanismi farmacologici

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Academic year: 2021

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INDICE

1. RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE...1

2. INFLUENZA DEGLI ANTIOSSIDANTI SUL RISCHIO CARDIOVASCOLARE...10

3. LA DIETA MEDITERRANEA E IL CONTRIBUTO DEL VINO ROSSO...14

4. VINO ROSSO E RISCHIO CARDIOVASCOLARE: STUDI EPIDEMIOLOGICI...19

5. MECCANISMI FARMACOLOGICI DEI POLIFENOLI...21

5.1 AZIONE ANTIOSSIDANTE...21

5.2 AZIONE ANTIINFIAMMATORIA...22

5.3 AZIONE ANTITROMBOTICA...22

6. IL RESVERATROLO...23

6.1 STRUTTURA CHIMICA ED EFFETTI BIOLOGICI...25

6.2 METABOLISMO...29

6.3 MECCANISMI D’AZIONE...30

6.3.1 Attività antiossidante...31

6.3.2 Azione antiinfiammatoria e vasoprotettiva...32

6.3.3 Effetti sull'aggregazione piastrinica...34

6.3.4 Effetti sulla disfunzione endoteliale...35

6.3.5 Effetti sulla biosintesi e sull'attività di NO...35

6.3.6 Attivazione di canali del potassio di tipo BK...41

7. POTENZIALE TERAPEUTICO DEL RESVERATROLO NELLE PATOLOGIE CARDIOVASCOLARI...46

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7.2 RIMODELLAMENTO CARDIACO...47

7.3 RIMODELLAMENTO VASCOLARE...48

8. CONCLUSIONI...50

9. BIBLIOGRAFIA...51

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1 1. RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE

Il termine “malattia cardiovascolare” è un termine generico usato per descrivere una vasta serie di patologie che colpiscono il cuore e i vasi sanguigni, come la malattia coronarica, le aritmie o le cardiopatie congenite. La conoscenza dei principali fattori di rischio è fondamentale per mettere in atto misure di prevenzione delle malattie cardiovascolari. Diversi studi hanno infatti dimostrato che la mortalità cardiovascolare aumenta all’aumentare del numero di fattori di rischio presenti in un individuo. Il rischio cardiovascolare globale assoluto esprime la probabilità di essere colpiti da un evento cardiovascolare o cerebrovascolare fatale o non fatale nei successivi dieci anni. E’ influenzato da otto fattori di rischio (età, sesso, abitudine al fumo, diabete, colesterolemia totale e HDL, pressione arteriosa, terapia antipertensiva). Negli ultimi anni è stata abbandonata l’idea di identificare le persone a rischio sulla base dei fattori considerati singolarmente, ma viene presa in considerazione la loro valutazione globale. L’uso dell’indicatore di rischio globale assoluto rispetta l’eziologia multifattoriale della malattia cardiovascolare: il suo valore viene quindi stimato per ogni individuo a partire dai principali fattori di rischio presenti. Inoltre offre opzioni multiple al trattamento delle persone con rischio aumentato: la modificazione di ciascuno dei singoli fattori può influenzare in maniera prevedibile il rischio assoluto. Per valutare il rischio globale assoluto si utilizzano algoritmi che elaborano dati derivanti da studi condotti su gruppi di popolazione seguiti nel tempo, da cui derivano le carte del rischio cardiovascolare (Figura 1), uno strumento di valutazione del rischio globale assoluto, calcolate per categorie di fattori di rischio (età, sesso, diabete, fumo, pressione arteriosa e colesterolemia totale) (Palmieri et al., 2004).

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DONNE NON DIABETICHE DONNE DIABETICHE

UOMINI NON DIABETICI UOMINI DIABETICI

Figura 1 - Tabelle del rischio cardiovascolare globale, in cui l'entità del rischio è rapportata a diversi fattori, quali: sesso, presenza di patologia diabetica, tabagismo, età e colesterolemia totale. I diversi colori rappresentano i differenti livelli di esposizione al rischio: verde chiaro = <5%; verde scuro = 5-10%; giallo = 10-15%; arancione = 15-20%; rosso = 20-30%; viola = > 30%.

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3 I fattori di rischio vengono tradizionalmente suddivisi in:

• fattori di rischio non modificabili

• fattori di rischio modificabili (con cambiamenti dello stile di vita oppure attraverso la terapia farmacologica)

I più importanti fattori di rischio non modificabili sono:

• Età: il rischio cardiovascolare aumenta progressivamente con l’avanzare dell’età, in particolare dopo i 65 anni, essendo la malattia aterosclerotica una patologia cronica e degenerativa. Inoltre con l’età aumenta l’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone e la produzione di radicali tossici dell’ossigeno che procurano la disfunzione endoteliale e l’innesco di fenomeni apoptotici;

• Sesso: gli uomini sono più a rischio delle donne, ma nella donna il rischio aumenta sensibilmente dopo la menopausa a causa della carenza di estrogeni che determina modificazioni sfavorevoli dell’assetto lipidico;

• Fattori genetici e familiarità: diversi studi epidemiologici hanno evidenziato una predisposizione familiare alla malattia coronarica che sarebbe determinata dall’interazione tra ereditarietà e fattori ambientali. Si considera a rischio un individuo di cui un familiare di primo grado abbia presentato un evento coronarico ad un’età inferiore ai 55 anni se uomo oppure inferiore ai 60 anni se donna.

I principali fattori di rischio modificabili sono: • Stile di vita (fumo, attività fisica, etc.) • Ipertensione

• Dislipidemie • Diabete • Dieta

Ai classici fattori di rischio, oggi si sono aggiunti fattori di rischio “ emergenti “, che comprendono condizioni come adiposità addominale, infiammazione, stress e depressione che hanno un notevole impatto sul rischio cardiovascolare. Questi fattori di rischio hanno lo stesso peso e la stessa importanza sia per gli uomini che per le donne, tuttavia differiscono per il grado di rischio associato (ad esempio, la presenza di diabete

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4 Esaminiamo le principali condizioni modificabili che influenzano il rischio cardiovascolare:

• fumo: è ormai noto che il fumo predispone all’aterosclerosi. Da uno studio effettuato su più di centoventimila infermiere sane, è emerso che quattro o cinque sigarette al giorno raddoppiavano quasi il rischio, mentre venti sigarette al giorno aumentavano il rischio di sei volte (Sarna et al., 2008). Oggi sappiamo che la nicotina attiva il sistema nervoso simpatico adrenergico con conseguente aumento della frequenza cardiaca, del lavoro cardiaco, della pressione arteriosa e possibile riduzione del flusso coronarico per vasocostrizione. Il monossido di carbonio inoltre agisce con un meccanismo tossico diretto sull’endotelio rendendolo più permeabile alle lipoproteine ed inoltre provocando ipossia relativa secondaria all’aumento della carbossiemoglobina.

• ipertensione: uno studio su dati raccolti da oltre un milione di adulti di età compresa fra i 40 e i 69 anni ha dimostrato che un incremento di 20mmHg di pressione sistolica o di 10mmHg della pressione diastolica rispetto ai valori abituali di pressione arteriosa raddoppia la mortalità per malattia coronarica (Lewington et al., 2002). Ictus e malattie coronariche aumentano di tre volte nelle donne con pressione sistolica superiore a 185 mmHg rispetto a donne con pressione sistolica inferiore a 135 mmHg. Il trattamento dell’ipertensione è attualmente lo stesso per entrambi i sessi e consiste nella maggior parte dei casi nella farmacoterapia associata a modifiche dello stile di vita. I farmaci di prima scelta sono gli ACE inibitori ed i bloccanti del recettore dell’angiotensina. Come farmaci di seconda scelta, se i primi non sono tollerati, si utilizzano diuretici e Ca++ antagonisti. In base ad alcune evidenze scientifiche gli uomini tendono ad avere valori di pressione arteriosa sistolica e diastolica superiori rispetto alle donne fino all’età di 59 anni, quando aumenta la prevalenza di ipertensione nelle donne.

• dislipidemia: è noto che la dislipidemia contribuisce direttamente allo sviluppo e alla progressione della malattia coronarica. Nonostante ne siano interessati sia gli uomini che le donne esistono alcune differenze genere-specifiche. Il colesterolo totale e LDL-C sono generalmente più bassi nelle donne in pre-menopausa rispetto agli uomini di pari età; dopo la menopausa tuttavia questi valori aumentano significativamente raggiungendo un picco intorno all’età di 60 anni. Per quanto riguarda i livelli di HDL-C, questi sono più alti nelle donne sia in pre-menopausa

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5 che in post-menopausa, rispetto agli uomini della stessa età e quindi questo può essere considerato un fattore protettivo genere specifico (Collins, 2008). Nelle donne come negli uomini l’associazione fra colesterolo LDL ed un aumento del rischio cardiovascolare è fuori discussione così come i benefici della sua riduzione in soggetti ad alto rischio.

• diabete: il diabete mellito è una malattia a patogenesi molto complessa, alle cui manifestazioni concorrono sia fattori genetici e ambientali. Nell'ambito delle manifestazioni patologiche riconducibili all'iperglicemia cronica si possono facilmente individuare due tipi distinti di meccanismi fisiopatologici: insulino-resistenza e inadeguata secrezione insulinica. Questi due meccanismi concorrono a determinare i quadri clinici caratteristici del diabete mellito di tipo 1 e di tipo 2. Il progressivo aumento delle conoscenze sull'argomento ha fatto sì che le due condizioni morbose, che hanno in comune le alterazioni del metabolismo glucidico e le conseguenze dell'iperglicemia a lungo termine, si siano configurate come due entità distinte, significativamente diverse l'una dall'altra. Per quanto riguarda in particolare il diabete mellito di tipo 2, si sono accumulate nel tempo maggiori evidenze che lo collocano all'interno di un cluster di condizioni morbose, quali ad esempio l'ipertensione arteriosa, le iperlipoproteinemie, l'obesità, condizioni che affiancano l'alterazione del metabolismo glucidico, con effetti peggiorativi sulla qualità e la durata della vita. Il diabete mellito è una alterazione cronica del metabolismo caratterizzata da iperglicemia dovuta ad alterazione della segregazione e/o dell'azione insulinica. Dopo alcuni anni di malattia si assiste spesso alla comparsa di complicanze croniche costituite da patologie a carico dei piccoli vasi (microangiopatia), in particolare a livello della retina e dei glomeruli renali, neuropatia periferica e precoci lesioni aterosclerotiche. In passato la classificazione del diabete si basava su alcune caratteristiche cliniche (età di comparsa, insulino-dipendenza) pertanto si parlava di diabete giovanile e di diabete dell'età matura. Con il passare degli anni questa suddivisione si è rivelata insufficiente, soprattutto alla luce degli studi condotti sulla eziopatogenesi e sulla fisiopatologia, che hanno mostrato come il diabete primitivo non sia un unico disordine bensì una sindrome eterogenea dal punto di vista eziologico e patogenetico. Il diabete mellito di tipo 1 è caratterizzato dalla distruzione delle β-cellule pancreatiche, che di solito conduce ad insulino-deficienza. In questa forma di diabete, l'alterazione fisiopatologica più rilevante è il deficit di secrezione

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6 insulinica, che determina iperglicemia accompagnata da chetosi. Quando la distruzione delle cellule β è massiva, la terapia sostitutiva con insulina esogena è indispensabile ad evitare la morte del paziente per chetoacidosi. Il diabete mellito di tipo 2 è caratterizzato dalla presenza di insulino- resistenza associata a deficit di secrezione insulinica. Questa forma, nota anche con il termine di diabete dell'adulto, è la più frequente nel nostro paese. Essa è caratterizzata da insulino- resistenza di solito accompagnata da relativa carenza insulinica. I pazienti non sono dipendenti dall'apporto di insulina esogena per la loro sopravvivenza (possono però fare uso di insulina per correggere l'iperglicemia). La maggior parte dei pazienti affetti da questa forma di diabete è sovrappeso: l'obesità è di per se stessa causa di insulino- resistenza. I pazienti con diabete di tipo 2 non sviluppano chetoacidosi se non in circostanze particolari (stress, stati febbrili, traumi). Questa forma di diabete può rimanere non diagnosticata per molti anni, dal momento che la gravità della iperglicemia aumenta in maniera graduale e, almeno all'inizio, non compaiono i classici sintomi di diabete; proprio per questo motivo, la manifestazione di esordio di questo tipo di diabete è allora la comparsa di una complicanza cronica del diabete, quale ad esempio la retinopatia. I livelli plasmatici di insulina in questi pazienti possono essere normali, oppure, specie all'esordio della malattia, aumentati. In realtà, l'iperglicemia in questi pazienti non è in grado di causare, come ci si aspetterebbe, un adeguato aumento della secrezione β-cellulare; di conseguenza, la secrezione insulinica è da considerarsi deficitaria e soprattutto insufficiente a compensare l'insulino-resistenza. il rischio di sviluppare questa forma di diabete aumenta con l'aumentare dell'età e del grado di obesità, non che con la carenza di esercizio fisico; nei pazienti obesi, la riduzione del peso corporeo diminuisce significativamente il rischio di sviluppare diabete. Le donne con pregresso diabete gestazionale e le persone ipertese e dislipidemiche sono da considerarsi categorie a rischio (Rotella et al., 2003).

• dieta: molti secoli fa, il padre della medicina moderna, Ippocrate, disse “ fa' che il cibo sia la tua medicina “. Infatti, una buona pratica nutrizionale non soltanto serve a mantenere una vita salutare prevenendo molte malattie degenerative, ma può anche limitare alcuni processi patologici. Ci sono numerose evidenze scientifiche che attribuiscono ad uno stile di vita adeguato e ad una corretta alimentazione, ricca di frutta e verdura, una riduzione dell'incidenza di cancro e delle malattie degenerative, nonché della probabilità di incorrere in incidenti cardiovascolari di

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7 vario genere. Ad esempio la pressione arteriosa può essere ridotta diminuendo l’introito di sodio e aumentando quello di potassio e seguendo una dieta ricca di frutta e verdura. Tuttavia la dieta è influenzata anche da altri fattori come per esempio le abitudini alimentari del gruppo etnico e le caratteristiche geografiche. In diversi studi è stato riscontrato che un cambiamento delle abitudini alimentari modifica il rischio, in particolare per quel che riguarda i cambiamenti della qualità e della quantità dei grassi assunti, determinando un miglioramento del profilo lipidico.

Gli effetti benefici di una dieta composta da un’alta percentuale di frutta e verdura sul colesterolo totale, sul colesterolo LDL e sulla pressione arteriosa sono ben noti ed è stata infatti dimostrata più volte in studi epidemiologici che la mortalità e la morbosità cardiovascolare così come la mortalità totale sono ridotte nelle popolazioni che beneficiano di questo tipo di dieta. I meccanismi alla base di tali effetti benefici sono molteplici e la dieta deve essere sempre associata a cambiamenti dello stile di vita, all’esercizio fisico e ai farmaci, se necessario. E' stato suggerito che tale ruolo protettivo nei confronti dell'organismo derivi dagli antiossidanti contenuti nella dieta e dalla loro capacità di neutralizzare specie radicaliche aggressive.

I radicali liberi sono infatti molecole contenenti uno o più elettroni spaiati che conferiscono alla molecola stessa una reattività molto marcata. I radicali derivati dall’ossigeno (ROS: specie reattive dell'ossigeno) sono quelli più importanti generati nel nostro organismo: fra questi ricordiamo ad esempio l’anione superossido ed il perossido di idrogeno, considerato una ROS secondaria perché generata dalla precedente (Miller et al., 1999). Utilizzando specie perossidiche, anioni e radicali liberi di vario genere, le cellule del sistema immunitario eliminano gli agenti patogeni provocando loro uno stress ossidativo sulle membrane cellulari.

Gli effetti dannosi di ROS e RNS (specie reattive dell'azoto) si concretizzano in uno “ stress ossidativo “, una modificazione del delicato equilibrio ossidanti/antiossidanti, che si verifica quando si ha una sovrapproduzione di ROS/RNS o una deficienza di antiossidanti. I ROS reagiscono con lipidi, proteine e DNA modificandoli e inibendo così le loro normali funzioni. Queste specie chimiche particolarmente reattive si formano nelle cellule endoteliali attraverso vie enzimatiche e non enzimatiche e che causano danno ai tessuti,

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8 come ad esempio la disfunzione endoteliale (Figura 2), direttamente o attraverso intermedi che intervengono nelle vie di trasmissione del segnale.

Figura 2 - Schema degli effetti prodotti dallo stress ossidativo sulla funzione endoteliale, e conseguenti alterazioni patologiche sistemiche.

Nel metabolismo cellulare la molecola dell'ossigeno è ridotta ad acqua attraverso tappe successive di trasformazione che portano alla produzione di anioni radicalici. Fra questi i composti più importanti sono: l'anione superossido, il perossido di idrogeno e il radicale idrossilico. Questi intermedi della riduzione dell'ossigeno, processo che avviene all'interno dei mitocondri, non lasciano il sistema finché la trasformazione non è finita. La concentrazione di ROS, normalmente generate attraverso il metabolismo cellulare, può essere incrementata da agenti esterni: radiazioni ionizzanti, inquinanti a base di composti clorurati, ioni metallici e barbiturati possono direttamente o indirettamente generare specie reattive dell’ossigeno all’interno delle cellule. Le radiazioni ultraviolette sono potenti iniziatori della formazione di ROS, in particolare di ossigeno singoletto (1O2; Figura 3).

Tra le cause dell’eccessiva concentrazione di ROS ci può essere anche il fumo di sigaretta, costituito da una complessa miscela di composti chimici, tra cui agenti cancerogeni. L’anione superossido viene considerata la ROS primaria, da cui, mediante reazioni con altre molecole, si possono ottenere le ROS secondarie.

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9 Figura 3 - Progressiva riduzione dell'ossigeno molecolare, con formazione di ROS intermedie.

Le maggiori fonti di anione superossido, in circostanze normali, sono le catene di trasporto elettronico, che possono favorire il trasferimento di un elettrone all’ossigeno molecolare. All’interno della cellula la maggior concentrazione di ROS la ritroviamo nel mitocondrio, responsabile della produzione di energia e della respirazione cellulare. Un altro organulo in cui si può avere la produzione di ROS è il reticolo endoplasmatico, dove il citocromo P450 catalizza l’ossidazione di agenti xenobiotici allo scopo di trasformarli in molecole meno tossiche, usando l’ossigeno come agente ossidante. Infine, nelle membrane la NADPH ossidasi catalizza l’ossidazione di NADH o NADPH con contemporanea riduzione dell’ossigeno. Fra i danni più significativi che le ROS possono apportare all'organismo sono da citare quelli a carico del DNA poiché il radicale ossidrilico può reagire con tutti i componenti della molecola di DNA (basi azotate e struttura del desossiribosio), danneggiandone la struttura e quelli a carico delle membrane biologiche. Le membrane biologiche sono strutture diffusissime in natura e sebbene possano differire per composizione chimica e caratteristiche fisiche la loro struttura fondamentale è sempre la medesima: è costituita infatti da un doppio strato fosfolipidico in cui sono intercalate proteine intrinseche ed estrinseche andando così a formare il cosiddetto modello a mosaico

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10 fluido. La funzione primaria delle membrane biologiche è quella di creare una separazione fisica fra i compartimenti cellulari e fra l’ambiente interno e quello esterno; inoltre è responsabile del passaggio di alcune sostanze, come ad esempio nutrienti e ioni che vengono fatte passare attraverso specifiche proteine di membrana. Alcune membrane possono anche svolgere funzioni di riconoscimento se vi sono recettori per molecole specifiche sulla loro superficie o di catalisi se alcune proteine di membrana hanno una funzione enzimatica. E’ evidente quindi che un danno a queste strutture comporterebbe un’alterazione dell’omeostasi cellulare portando inevitabilmente alla morte della cellula. Di conseguenza se queste sostanze ossidanti non vengono rimosse prontamente lo stress ossidativo coinvolgerà e danneggerà tutti i componenti della cellula, incluse proteine, lipidi e DNA, provocando fenomeni infiammatori cronici a cui seguiranno disfunzioni endoteliali di vario genere come per esempio l’aterosclerosi, l’artrite reumatoide, l’ipertensione arteriosa ed altre patologie croniche. L’aterosclerosi può essere presa come esempio di patologia cronica infiammatoria nella quale ha un ruolo significativo ed evidenze sostanziali l’effetto dello stress ossidativo. L’aterosclerosi è una patologia infiammatoria cronica che si sviluppa, nelle arterie di media grandezza, nelle regioni soggette a lesioni. Sappiamo che il principale fattore di sviluppo di questa patologia cronica è senza dubbio l’ipercolesterolemia, cioè l’elevata concentrazione di colesterolo nel sangue, ma ci sono altri fattori che contribuiscono alla formazione delle placche aterosclerotiche. Una delle più importanti scoperte nella ricerca sull’aterosclerosi ha dimostrato che la modificazione ossidativa delle LDL (lipoproteine a basso peso molecolare) potrebbe essere uno step cruciale per lo sviluppo di questa patologia.

2. INFLUENZA DEGLI ANTIOSSIDANTI SUL RISCHIO CARDIOVASCOLARE Gli antiossidanti sono molecole capaci di reagire con le ROS in maniera diretta oppure interagendo con le vie metaboliche coinvolte nella loro formazione. Gli antiossidanti cominciarono ad essere studiati verso la fine del diciannovesimo secolo, con l’identificazione di un gruppo di composti, non meglio classificati, caratterizzati dalla capacità di ossidarsi più facilmente rispetto ad altre specie presenti. Solo successivamente fu compresa l’importanza degli antiossidanti per la salute umana, con le prime pubblicazioni, durante gli anni sessanta, su vitamine e flavonoidi e, con le successive ricerche su acido ascorbico e sulla relazione tra antiossidanti e cancro. Oggi le sostanze

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11 antiossidanti sono considerate indispensabili per il corretto funzionamento dell’organismo e vengono utilizzate anche come integratori alimentari per la loro azione protettiva nei confronti di tumori e patologie cardiovascolari; sono inoltre comprese in formulazioni cosmetiche per la loro azione anti-invecchiamento. L'organismo combatte lo stress ossidativo utilizzando una serie di sistemi, enzimatici e non enzimatici che, con la loro azione, limitano il potenziale danno causato dalle specie reattive dell'ossigeno. Molti sistemi antiossidanti sono già presenti all'interno dell'organismo (antiossidanti endogeni); altri devono essere introdotti attraverso la dieta (antiossidanti esogeni). In generale gli antiossidanti sono definiti come qualsiasi sostanza che, presente in bassa concentrazione rispetto ad un substrato ossidabile, è in grado di rallentare o inibire l'ossidazione di quel substrato; in questo modo substrati ossidabili come lipidi, proteine e DNA vengono protetti dall'ossidazione e rimangono inalterati. Una prima classificazione degli antiossidanti si può basare sulla loro provenienza e caratteristiche strutturali (Figura 4): tra gli antiossidanti endogeni sono presenti sistemi enzimatici, come il sistema superossido dismutasi-catalasi-glutatione perossidasi e non enzimatici, come seleno-proteine e dismutasi-catalasi-glutatione. Tra gli antiossidanti esogeni si trovano vitamine e composti non vitaminici, come carotenoidi e polifenoli.

Figura 4 - Classificazione degli antiossidanti a seconda di provenienza e struttura.

Un secondo tipo di classificazione si può effettuare considerando le modalità di azione degli antiossidanti: gli antiossidanti primari o preventivi limitano l'azione ossidante delle specie reattive dell'ossigeno favorendo la trasformazione dei ROS in specie non reattive,

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12 chelando metalli di transizione o rigenerando altri antiossidanti (es. glutatione, vitamina C), riportandoli nelle loro forme attive. Gli antiossidanti secondari o di tipo chain-breaking (es. polifenoli) hanno strutture che permettono loro di bloccare i radicali liberi, trasformandosi in radicali meno reattivi di quelli di partenza. In questo modo gli antiossidanti riescono ad intervenire nella fase di iniziazione e di propagazione di reazioni radicaliche come ad esempio nel caso della perossidazione lipidica, rallentandone la velocità. Gli antiossidanti sono composti endogeni ed esogeni:

• antiossidanti endogeni: il più efficiente sistema antiossidante enzimatico è quello costituito dagli enzimi superossido dismutasi, catalasi e glutatione perossidasi. Attraverso l'azione combinata dei tre enzimi, il sistema contribuisce a limitare la concentrazione di ROS all'interno della cellula, riducendo l'anione superossido ad acqua e ossigeno. Tra i sistemi non enzimatici è opportuno citare il glutatione (GSH), un tripeptide costituito da glutammato, cisteina e glicina. In genere, l'azione antiossidante dei composti tiolici è di tipo chain-breaking. Lo zolfo è in grado di accettare un elettrone, dando vita ad un radicale relativamente stabile. Nel caso del glutatione il radicale GS° può dimerizzare facilmente per formare un prodotto non radicalico. Il glutatione è un antiossidante multifunzionale. Oltre all'azione di neutralizzare dei radicali liberi, assume un importante ruolo come antiossidante preventivo: è un cofattore in diversi meccanismi di detossificazione nei confronti dello stress ossidativo, ad esempio nella degradazione del perossido di idrogeno e dei lipidi perossidi ed è in grado di rigenerare nelle loro forme attive alcuni importanti antiossidanti, come le vitamine C ed E.

• antiossidanti esogeni: si dividono in vitaminici e non vitaminici. Tra gli antiossidanti vitaminici i più efficienti sono la vitamina C (acido ascorbico) e la vitamina E (tocoferolo), che svolgono fondamentalmente la stessa funzione: la prima in ambiente acquoso, la seconda in ambiente lipofilico. A pH fisiologico l'acido ascorbico si trova sotto forma di anione; svolge la sua funzione antiossidante attraverso diversi meccanismi: è coinvolto nella riduzione di metalli, come ferro e rame; rigenera la vitamina E, riportandola nella sua forma attiva; blocca i radicali liberi, convertendosi in un anione radicale stabilizzato per risonanza.

La vitamina E è presente in otto differenti forme; la forma più attiva negli uomini è l'α-tocoferolo. È difficile porre in relazione l'ipovitaminosi con una malattia umana ben

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13 definita, perché è molto raro osservare carenze di questa vitamina. Oggi si ritiene che la vitamina E agisca come antiossidante donando un idrogeno ai radicali e convertendosi in una radicale stabilizzato per risonanza. La vitamina E ossidata può essere ridotta alla sua forma originaria dall'acido ascorbico. Questa reazione probabilmente avviene all'interfaccia della membrana dove la vitamina C idrosolubile e la vitamina E liposolubile possono venire a contatto. Tra gli antiossidanti non vitaminici sono importanti da citare i polifenoli ed i carotenoidi. I carotenoidi sono dei pigmenti che si trovano in piante e microrganismi, responsabili dei colori rosso, giallo e arancione di frutta e verdura. Alcuni carotenoidi, come il β-carotene, una volta introdotti nell'organismo possono produrre molecole di retinolo. Il retinolo e altri retinoidi che posseggono la sua stessa attività biologica sono chiamati vitamina A. La vitamina A è richiesta per la formazione del pigmento fotosensibile della retina, indispensabile per il processo visivo. Inoltre, è necessaria per il funzionamento delle cellule epiteliali capaci di secernere muco, per la crescita, per lo sviluppo del tessuto osseo e per la riproduzione; possiede inoltre ruoli fondamentali sulla regolazione della crescita e della differenziazione cellulare. I carotenoidi hanno inoltre una elevata capacità antiossidante, dovuta all'abilità della struttura a doppi legami coniugati nel delocalizzare elettroni spaiati. Anche in questo caso dunque l'azione antiossidante è di tipo chain-breaking. I polifenoli sono i più abbondanti antiossidanti presenti nella nostra dieta e sono presenti in frutta, vegetali, cereali, olive, legumi secchi, cioccolato e bevande, come tè, caffè e vino. Malgrado la loro ampia distribuzione, gli studi sugli effetti dei polifenoli sono cominciati solamente negli ultimi anni. La classica struttura polifenolica è caratterizzata da diversi gruppi ossidrilici su anelli aromatici, ma possono essere considerati polifenoli anche molecole con un solo anello fenolico, come acidi ed alcoli fenolici. I polifenoli naturali sono divisi in diverse classi a seconda del numero di anelli fenolici che contengono ed agli elementi strutturali che legano gli anelli aromatici. L'azione antiossidante dei polifenoli è di tipo chain-breaking: reagiscono con i radicali cedendo loro un radicale idrogeno, secondo il seguente schema di reazione (Figura 5).

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14 Figura 5 - Reazione chain-breaking: i polifenoli reagiscono con i radicali liberi cedendo un radicale idrogeno

Molti polifenoli hanno proprietà antiossidanti dirette (per esempio alcuni agiscono come agenti riducenti) e possono reagire con le specie chimicamente reattive formando composti con una minore reattività. Altri polifenoli possono incidere sullo stato ossidativo aumentando la capacità degli antiossidanti endogeni oppure inibendo sistemi enzimatici coinvolti nella formazione delle ROS.

3. LA DIETA MEDITERRANEA E IL CONTRIBUTO DEL VINO ROSSO

Come abbiamo visto, una fonte a cui poter attingere una grande quantità di polifenoli è senza dubbio la dieta, purché questa sia molto ricca di frutta e verdura (contenenti un'ampia varietà di metaboliti secondari biologicamente attivi; Fig. 6) e povera di grassi.

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15 Figura 6 - Classificazione dei composti fitochimici, presenti in frutta e verdura.

Un esempio di dieta che rispetta questi canoni e che andrebbe adottata al fine di beneficiare dei suoi effetti positivi su molti sistemi dell'organismo è senza dubbio la dieta mediterranea. La dieta mediterranea venne, per così dire, "battezzata" negli anni 50 dallo studioso statunitense Ancel Keys, che richiamò l'attenzione internazionale sui bassi tassi di malattie cardiache in alcune aree del mediterraneo. Questo studioso effettuò numerosi studi per quanto riguarda l'alimentazione dei popoli dell'area mediterranea e asiatica confrontandoli con l'alimentazione dei popoli del nord Europa e degli Stati Uniti. Ancel Keys prese come punto di riferimento le abitudini alimentari degli abitanti di Creta che presentavano un'incidenza particolarmente bassa di malattie cardiache e una più elevata aspettativa di vita, nonostante gli scarsi servizi medici di allora. Keys avviò inoltre lo " studio dei sette paesi" che interessò la Finlandia, l'Olanda, l'Italia, la Jugoslavia, la Grecia, il Giappone e gli Stati Uniti (Keys, 1970). L'Italia risultò il prototipo della dieta mediterranea con la sua dieta ricca di cereali, pasta, legumi, ortaggi, frutta, verdura, olio d'oliva, pane e vino. Nonostante nelle aree del mediterraneo vi fosse un elevato consumo di grassi, soprattutto olio d'oliva, si godeva di una bassa incidenza di malattie cardiovascolari. Anche il Giappone, insieme alle zone dell'area mediterranea, presentò una bassa incidenza di malattie cardiovascolari e presentava una dieta con un basso contenuto di grassi e un elevato consumo di pesce e tè. La Finlandia orientale, invece, risultò la zona con il più elevato tasso di malattie cardiovascolari, a causa della dieta particolarmente ricca di acidi grassi saturi. Dopo questi studi, Keys arrivò alla conclusione che adottare la dieta mediterranea non significava soltanto nutrirsi di cibi salutari, ma soprattutto adottare uno

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16 specifico stile di vita costituito da tradizioni, festosità e da un moderato ma quotidiano esercizio fisico. Questa definizione la ritroviamo anche come primo motivo citato dall'UNESCO per ritenere la dieta mediterranea (Mediet) un patrimonio culturale immateriale dell'umanità: " la dieta mediterranea rappresenta un insieme di competenze, conoscenze, pratiche e tradizioni che vanno dal paesaggio alla tavola , includendo le colture, la raccolta, la pesca, la conservazione, la trasformazione, la preparazione e, in particolare, il consumo di cibo. La dieta mediterranea è caratterizzata da un modello nutrizionale rimasto costante nel tempo e nello spazio, costituito principalmente da olio di oliva, cereali, frutta fresca o secca, una moderata quantità di pesce, latticini e carne e molti condimenti e spezie, il tutto accompagnato dal vino e infusi. Essa promuove l'interazione sociale, poichè il pasto comune è alla base dei costumi sociali e delle festività condivise da una data comunità e ha dato luogo a un notevole corpus di conoscenze, canzoni, massime, racconti e leggende."

L'interesse della scienza sugli effetti del cibo sulla salute è cresciuto notevolmente negli ultimi anni, supportato da una produzione enorme di materiale scientifico riguardante specificatamente questo campo della medicina. Un notevole contributo nella quantità di polifenoli e altri composti antiossidanti è offerto dal vino, costituito da una porzione alcolica e, molto più importante, da una porzione non alcolica contenente appunto gli antiossidanti. Come sappiamo, il vino è ottenuto fermentando il succo d’uva, frutto anch’esso molto ricco di una grande varietà di antiossidanti, quali, come vedremo più avanti, il resveratrolo, le catechine, le epicatechine e le proantocianidine. Per quanto riguarda la concentrazione a cui queste sostanze sono state ritrovate, è importante specificare che il resveratrolo si trova principalmente nella buccia dell’uva, mentre le proantocianidine le ritroviamo principalmente nei semi. Recenti studi hanno dimostrato che sia il resveratrolo sia le proantocianidine sono responsabili degli effetti cardioprotettivi del vino, attraverso meccanismi specifici che vedremo in dettaglio più avanti. Ci sono almeno 500 differenti tipi di antiossidanti contenuti nell’uva: i suoi semi contengono la Vitamina E, l’acido linoleico, i flavonoidi, le procianidine (conosciute anche con la sigla OPCs e cioè oligomeric proanthocyanidins), tannini condensati e picnogenolo. Questi stessi composti sono contenuti anche nella buccia dell’uva, ma in concentrazione minore. Ciò che invece ritroviamo nella buccia sono il resveratrolo e le proantocianidine, quest’ultime contenute in parte anche nei semi: questi due composti sono gli antiossidanti polifenolici più importanti presenti nell’uva, responsabili di attenuare le patologie

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17 cardiovascolari e, come recenti studi hanno dimostrato, di fungere come agenti di prevenzione verso il cancro. L’importanza del vino la ritroviamo a ritroso nei millenni di civilizzazione umana, poiché da sempre questa bevanda è associata a una moltitudine di effetti benefici e valori medicinali, per non parlare dei poteri quasi magici che gli sono stati attribuiti dalle popolazioni antiche: basti pensare che gli antichi Greci consideravano il vino un dono degli Dei e crearono una divinità specifica che chiamarono Dioniso, “il dio del vino”. Persino nelle tombe dei faraoni, all’interno delle piramidi, sono stati ritrovate pitture che avevano come soggetto principale il vino e altri oggetti ad esso correlati. Come abbiamo già detto, il vino consiste di oltre 500 composti ad attività antiossidante, ma soltanto una piccola percentuale è presente ad una concentrazione maggiore di 100mg/L. I polifenoli sono categorizzati in due gruppi principali: i flavonoidi e i non flavonoidi (Fig. 7). I composti non flavonoidi sono rappresentati dagli stilbeni (come ad esempio il resveratrolo), dagli acidi idrossicinnamici (come l’acido caffeico, ad esempio, o l’acido caftarico) e dagli idrossibenzoati. I composti non flavonoidi, specialmente nel vino non invecchiato in botti di rovere, sono sottoprodotti degli acidi idrossibenzoico e idrossicinnamico. Fra i flavonoidi invece ritroviamo i flavonoli (come la quercetina), i flavanoli (come le catechine e le epicatechine) e le antocianidine. I flavonoidi sono stati ritrovati principalmente nella buccia, nei semi e perfino nelle radici dell’uva, mentre i flavonoli e le antocianine originano principalmente nella buccia e i flavanoli li ritroviamo nei semi e nelle radici. Nel vino rosso, i flavonoidi comprendono circa l’85% del contenuto fenolico, mentre nel vino bianco si attesta intorno a poco più del 20%. La struttura chimica dei più comuni polifenoli presenti nel vino è mostrata in figura 7.

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18 Figura 7 - Struttura chimica dei principali polifenoli del vino.

Il motivo per cui il contenuto fenolico nel vino rosso è maggiore rispetto al vino bianco, è da ricercare nella procedura di preparazione delle due tipologie di vino. Il vino rosso infatti viene preparato tenendo in stretto contatto l’alcool (che si forma nel processo di fermentazione) con la buccia e i semi e poiché l’alcool è un ottimo solvente per i polifenoli e il vino rosso impiega più tempo rispetto al vino bianco per fermentare, l’estrazione di questi composti dalla buccia e dai semi durante la macerazione è molto facilitata. Il vino rosso generalmente contiene un totale di 1,8 g/L di polifenoli ( la cui maggior parte è costituita dai flavonoidi ), mentre una bottiglia di vino bianco contiene soltanto 0,2-0,3 g/L di polifenoli. Questo perché la fermentazione del vino bianco viene permessa solo dopo aver separato la parte solida da quella liquida. E’ stato infatti

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19 dimostrato che tenendo in macerazione per 18 ore l’uva spremuta, senza separare la parte solida da quella liquida, si ha un incremento del contenuto di polifenoli del 41% e del 60% se presente anche l’etanolo, come componente estrattivo. Un consumo lieve o moderato di vino sembra essere associato ad un minor rischio di malattie vascolari. Gli effetti protettivi di un consumo moderato di etanolo sono collegati all’effetto antiaterogenico, attraverso le alterazioni delle lipoproteine plasmatiche, all’azione antitrombotica dovuta a meccanismi che regolano le funzioni delle piastrine e infine al bilanciamento dei fattori della coagulazione e della fibrinolisi. L’alcool infatti influenza molti fattori coinvolti nel mantenimento del delicato equilibrio fra la formazione dei coaguli, usati dal nostro organismo per proteggerlo dalle emorragie e dissoluzione degli stessi onde evitare infarti miocardici. Il consumo di alcool è inoltre associato con l’incremento dei livelli dell’attivatore tissutale del plasminogeno (tPA), comporta una diminuzione dei livelli di fibrinogeno e di antitrombina III, oltre a ridurre la suscettibilità delle piastrine all’aggregazione.

E’ dimostrato infatti che l’assunzione di moderate quantità di alcool può essere protettiva, mentre il consumo cronico di quantità elevate di alcool oppure il binge drinking (assunzione di 5 o più bevande alcoliche in un intervallo di tempo piuttosto breve) sono dannosi non solo per il fegato, ma anche per il cuore comportando un rischio maggiore di incidenti cardiovascolari. Un consumo moderato di alcool è definito come un bicchiere standard per le donne e due per gli uomini (questo perché le donne metabolizzano l’alcool più lentamente rispetto agli uomini): un bicchiere standard corrisponde a circa 12 g di alcool (che equivalgono a circa 15 cl di vino). Uno studio condotto da Costanzo et al., 2010, ha dimostrato che in pazienti con malattie cardiovascolari il consumo moderato di alcol (5-25 g/die) è risultato significativamente associato ad una minore incidenza di mortalità cardiovascolare e per tutte le cause.

4. VINO ROSSO E RISCHIO CARDIOVASCOLARE: STUDI EPIDEMIOLOGICI Una associazione inversa fra il consumo moderato di alcool e la CHD (Coronary heart disease) è stata costantemente dimostrata in molti studi epidemiologici (Klatsky et al., 2003). Un'analisi di 51 studi epidemiologici condotti ha concluso che gli effetti protettivi dell'alcool erano molto pronunciati soltanto a dosi moderate. Il rischio di CHD era diminuito del 20% circa (rischio relativo RR=0,80, 95% confidence interval (CI):

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0.78-20 0.83) se venivano consumati da 0 a 2 bevande alcooliche al giorno (Corrao et al., 2000) e inoltre il consumo delle stesse bevande per 3 o 4 volte alla settimana ha diminuito il rischio di infarto del miocardio del 32% (RR=0.68, 95% CI: 0.59-0.77) a prescindere dal tipo di bevanda alcolica consumata. Va comunque considerato che le varie bevande alcoliche hanno effetti diversi sull'organismo. Ad esempio il rischio relativo complessivo (RR) dei bevitori di vino rispetto ai non bevitori era di 0.68 (95% CI: 0.59-0.77), mentre la protezione associata al consumo di birra era del 10% più bassa e così, mentre esistono delle curve dose-risposta per quanto riguarda il consumo di vino rosso, questo non succede per il consumo di birra, non essendoci alcuna significativa relazione fra i differenti quantitativi di assunzione di birra e il rischio vascolare. In un lavoro sulla mortalità ed il consumo di alcool condotto su un range molto ampio di persone di nazionalità americana (128.934 adulti e 16.431 morti in 20 anni) è stato dimostrato che gli effetti protettivi di un consumo moderato di alcool contro le morti dovute a problemi cardiovascolari sono essenzialmente ristretti alle donne, per le quali si verifica una diminuzione del 20% (contro il 10% riferito agli uomini), poiché più propense a bere vino (Klatsky et al., 2003). La relazione dose-risposta fra il consumo di alcool e le CHD sono state raffigurate con una curva a forma di J (Corrao et al., 2000), nella quale possiamo vedere che i non bevitori hanno un più alto rischio rispetto ai bevitori moderati, ma un rischio simile o più basso rispetto ai forti bevitori (Figura 8).

Figura 8 - Correlazione tra assunzione di alcol (vino) e rischio totale.

Come vediamo dalla figura, dopo un iniziale decremento del rischio cardiovascolare grazie all'aumentare del consumo di alcool, la curva raggiunge un plateau a consumi più alti fino a che i valori del rischio cardiovascolare aumentano nuovamente quando si assumono alti

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21 quantitativi di alcool. Per quanto riguarda il consumo di vino rosso, invece, la riduzione massima del rischi vascolare è prevista a 750ml/giorno, ma una riduzione statisticamente significativa la ritroviamo a 150-200 ml/giorno, indicando che il quantitativo di vino ottimale, per cui abbiamo il miglior bilanciamento fra i rischi e i benefici, è fra 1 e 2 bicchieri di vino al giorno, come vediamo in figura. L’assunzione di etanolo attraverso il vino comporta un aumento degli effetti benefici grazie al supporto della componente non alcolica del vino e cioè quella costituita da tutta la gamma di vasodilatanti e antiossidanti, come appunto i polifenoli. L’alto contenuto di polifenoli nel vino rosso provvede ad una importante attività antiossidante, attraverso diversi meccanismi.

5. MECCANISMI FARMACOLOGICI DEI POLIFENOLI

5.1 AZIONE ANTIOSSIDANTE

I polifenoli contenuti nell’uva e nel vino sono capaci di aumentare la resistenza delle LDL alla perossidazione lipidica attraverso diversi meccanismi e studi condotti su volontari hanno dimostrato un aumentato potere antiossidante nel sangue e una maggiore protezione delle LDL dall’ossidazione dopo il consumo di vino rosso (Klatsky et al., 2003). C’è una differenza sostanziale a seconda che un pasto ricco di grassi sia consumato bevendo acqua oppure vino. Nel secondo caso infatti l’incremento dei livelli plasmatici di idroperossido che si manifesta dopo il pranzo, è molto ridotto. Il primo meccanismo antiossidante è quello di fungere da scavenger di radicali liberi assumendo il ruolo di agente riducente delle molecole donatrici di un atomo di idrogeno. Un altro meccanismo è quello di diminuire la capacità dei metalli di generare radicali liberi, poiché i composti fenilici possono chelare gli ioni metallici di transizione. Un terzo meccanismo è quello di far risparmiare alla cellula composti antiossidanti endogeni, come ad esempio la vitamina E e i carotenoidi, aumentandone quindi l’attività antiossidante. I polifenoli possono inoltre alleviare l’ossidazione delle LDL attraverso la riduzione dello stress ossidativo indotto dai macrofagi, inibendo le ossigenasi cellulari, come ad esempio la 15-lipossigenasi, il citocromo P450, la NADPH ossidasi e la mieloperossidasi o anche attivando gli antiossidanti cellulari come il glutatione. Un’altra rilevante modificazione antiaterogenica riguarda la capacità del vino rosso di aumentare i livelli di HDL (high density lipoprotein) a livelli superiori ottenibili dopo il consumo di solo alcool e di ridurre la deposizione lipidica nelle arterie. L'attività dei polifenoli non si ferma al solo aspetto di antiossidanti,

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22 ma il consumo di vino è correlato ad altri benefici fisiologici fra cui un’azione antiinfiammatoria, un’azione vasodilatante correlata alla liberazione del nitrossido ed un’azione antitrombotica.

5.2 AZIONE ANTIINFIAMMATORIA

I polifenoli infatti interferiscono con il metabolismo dell’acido arachidonico causando conseguentemente una inibizione dell’aggregazione piastrinica e una riduzione della sintesi di fattori e dei mediatori pro-trombotici e pro-infiammatori. E' stato dimostrato che i polifenoli del vino mostrano una significativa azione antiinfiammatoria sui ratti, sui topi e sugli umani; dagli studi sperimentali si è visto che estratti dalla buccia e dai semi dell'uva inibiscono nel topo l'infiammazione, gli edemi e l'infiltrazione di leucociti polimorfonucleati (Bralley et al., 2007). Gli effetti antiinfiammatori di questi polifenoli sono principalmente ascritti alla loro capacità immunomodulante e all'azione antiossidativa. Un decremento importante nella concentrazione di prostaglandine E2 e di ROS in culture di condrociti umani, rispetto al gruppo di controllo, si ottiene per trattamento con una combinazione di estratto di vino e IL-1b, producendo effetti simili o migliori di quelli ottenibile con il trattamento con indometacina (Panico et al., 2006). Un altro meccanismo che contribuisce all'azione antiinfiammatoria è quello di modulare l'espressione genetica delle citochine.

5.3 AZIONE ANTITROMBOTICA

Possono inoltre indurre una down-regulation dell’espressione delle molecole di adesione e diminuire l’attività del fattore tissutale, noto più propriamente come Tissue Factor (TF), proteina responsabile della formazione della trombina a partire dalla pro-trombina. Infatti l’attività ottenuta da qualsiasi agonista che agisce inducendo questo fattore, è significativamente ridotta da composti polifenolici quali la quercitina o il resveratrolo (Pendurthi et al., 2002).

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23 6. IL RESVERATROLO

Il resveratrolo (3,5,4’ – triidrossistilbene) è un fenolo non flavonoide che appartiene alla classe degli stilbeni. Gli stilbeni sono dei composti poco diffusi in natura. Nella nostra alimentazione, le principali fonti alimentari di resveratrolo sono rappresentate dall’uva e dal vino, in particolare dal vino rosso. Gli stilbeni sono presenti in tutti gli organi della vite, dalle radici alla buccia degli acini dell’uva. Tali molecole fanno parte dei meccanismi di resistenza della pianta a condizioni di stress (patogeni, UV, danni meccanici). In presenza di attacco da parte di agenti patogeni, il normale metabolismo dei flavonoidi è deviato verso la formazione di derivati stilbenici, tramite l’enzima stilbene sintetasi. Quindi nella vite il resveratrolo si comporta come una fitoalessina. Secondo una definizione fornita da Paxton nel 1981, le fitoalessine sono composti antimicrobici, a basso peso molecolare, sintetizzati dalle piante in cui si accumulano in seguito all’attacco di microorganismi (Paxton, 1981). Tuttavia oltre all’interazione con un agente patogeno, anche fattori abiotici (agenti chimici e fisici) sono in grado di indurre le piante a produrre fitoalessine. La presenza di stilbeni nella vite fu evidenziata per la prima volta da Langcake e Pryce nel 1977 (Langcake e Pryce, 1977). Essi osservarono che nel corso del processo di infezione da parte di Botrytis cinerea su foglie recise di differenti genotipi di Vitis vinifera, era possibile individuare, sottoponendo le foglie a radiazioni UV (366 nm), una zona fluorescente costituita da cellule apparentemente sane intorno alle lesioni provocate dal fungo. Una simile fluorescenza risultava visibile anche a distanza di 24 ore da una breve esposizione (di circa 10 minuti) delle foglie sane a radiazioni di lunghezza d’onda corta (254 nm). Quest’osservazione suscitò l’interesse dei due ricercatori poiché in letteratura erano già noti casi in cui era stato dimostrato che i composti fluorescenti prodotti dalle piante fossero in qualche modo implicati nei loro processi di resistenza alle malattie. Un ulteriore studio dei composti rilevabili nei tessuti fluorescenti permise di identificare nel trans-resveratrolo (3,5,4’-triidrossistilbene) la sostanza responsabile del fenomeno, assente nelle foglie sane (cioè non sottoposte ad infezione da parte di Botrytis cinerea) ed in quelle non sottoposte a irradiazione con raggi UV. Se l’estrazione dei tessuti avveniva al riparo dalla luce, si otteneva il solo isomero trans della sostanza, mentre in presenza di luce il fenomeno di isomerizzazione aveva luogo ed era possibile isolare anche l’isomero cis, meno fluorescente (Adrian et al., 1998). L’interesse per tale sostanza proveniva dal fatto che, secondo dati riportati nella letteratura medica, il resveratrolo era la componente attiva di un medicamento popolare cinese e giapponese noto come “kojokon” a base di polvere

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24 essiccata di radici di Polygonum cuspidatum. Tale rimedio veniva utilizzato per vari scopi come ad esempio contro arteriosclerosi, allergie e infiammazioni. Sempre sul fronte medico, prima dell’individuazione del resveratrolo nel vino, alcuni ricercatori si stavano interessando da tempo a questa bevanda alcolica per le sue funzioni protettive contro le malattie cardiocircolatorie; intorno agli anni novanta una ricerca dimostrò che il consumo di vino rosso, ma non di vino bianco o superalcolici, induceva una ipoaggregazione piastrinica ed un aumento del colesterolo HDL, fattori entrambi positivi per la salute umana. Sulla base di queste evidenze sperimentali, Siemann e Creasy formularono l’ipotesi di un legame diretto tra il resveratrolo e l’effetto protettivo del vino nei riguardi delle malattie coronariche (Siemam e Creasy, 1992). La scoperta della struttura del resveratrolo è piuttosto recente, in quanto è stata descritta dettagliatamente solo nel 1940 quando studiando i componenti della pianta elleboro, nota anche come rosa di Natale e conosciuta botanicamente con il nome di Veratrum grandiflorum, fu scoperto questo preciso componente fenolico. Successivamente, la ricerca di questo polifenolo naturale fu spostata anche su altri tipi di piante che spesso erano state usate dai popoli antichi per vari scopi terapeutici; il resveratrolo fu così ritrovato principalmente nell’uva (soprattutto nella buccia), nel vino rosso, nelle arachidi ed in altre piante. Tuttavia non fu data molta importanza a questa molecola finché uno studio epidemiologico, portato avanti dal Prof. Serge Renaud dell’Università di Bordeaux, mise in evidenza quel fenomeno che oggi è conosciuto con il termine di “ paradosso francese “. Nel 1992 infatti, la rivista scientifica “ The Lancet “ pubblicò un’indagine epidemiologica di Renaud e de Lorgeril relativa al paradosso francese (Renaud e de Lorgeril, 1992). Questi autori studiarono la correlazione esistente tra la mortalità dovuta a malattia coronarica (in uomini e donne nel 1987) e l’assunzione di grassi di origine animale nella dieta di campioni di popolazione di alcuni stati europei e dell’Australia. Elaborando i dati raccolti si notò come i due parametri studiati fossero direttamente proporzionali, nel senso che quanto più elevato era il consumo medio giornaliero di calorie provenienti da grassi animali, tanto più elevata era la mortalità: i due parametri risultarono quindi correlati. Nella popolazione francese, nonostante l’elevato consumo di grassi animali, si riscontrò una bassa mortalità per malattie coronariche. Questa situazione paradossale è alla base del cosiddetto “ paradosso francese “. Il passo successivo dei due ricercatori francesi fu quello di capire la motivazione di un esito, così atipico, dell’indagine da essi stessi condotta. In presenza di una situazione così anomala si controllarono altri fattori di rischio per le malattie coronariche, quali la pressione sanguigna, l’indice di massa corporea, il fumo, ma nessuno

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25 di questi era più basso in Francia rispetto agli altri paesi europei. Si considerò quindi il consumo regolare di vino e si notò come questo parametro fosse in grado di spiegare il paradosso: i francesi bevevano più vino degli altri europei e questo poteva controbilanciare gli effetti dell’elevata ingestione di grassi animali. Si ipotizzò che non fosse l’alcool il responsabile di questo effetto positivo, ma altre sostanze non ancora indagate, considerando che altre bevande a base di alcool non avevano dato gli stessi effetti del vino. I due studiosi francesi conclusero la loro ricerca affermando che l’effetto protettivo del vino e la sua superiorità su altre bevande alcoliche era solo un’ipotesi che aspettava conferme. Questo paradosso quindi consiste nel fatto che nonostante la popolazione francese abbia una dieta molto ricca di grassi saturi, l’incidenza di malattie delle arterie coronariche e in generale di patologie a carico del sistema cardiocircolatorio è molto più bassa rispetto al resto dell’Europa. Una delle sostanze ritenute responsabili (almeno in parte) degli effetti benefici del vino fu il resveratrolo. Da allora, a seguito di molti studi tesi a verificare i reali effetti del resveratrolo sul sistema cardiovascolare, sono stati scoperti molti altri benefici che questa molecola può portare al nostro organismo, soprattutto per quanto riguarda le malattie correlate all’avanzamento dell’età. Si è scoperto infatti che il resveratrolo non soltanto contrasta l’incidenza di patologie cardiache, ma porta benefici anche in altri distretti, contrastando ad esempio il diabete di tipo 2, il cancro e varie patologie neurologiche.

6.1 STRUTTURA CHIMICA ED EFFETTI BIOLOGICI

Il resveratrolo ha formula bruta C14H12O3 ed è costituito da due anelli aromatici uniti fra di

loro da un ponte etilenico su cui si innestano tre gruppi ossidrilici in posizione 3, 4’ e 5 per formare il 3,4’,5-triidrossistilbene, una molecola correlabile all’estrogeno sintetico dietilstilbestrolo. Grazie alla presenza dei gruppi ossidrilici il resveratrolo è in grado di formare un derivato radicalico stabilizzato dalla delocalizzazione elettronica sui due anelli aromatici e sul ponte etilenico che li congiunge, ottenendo così le proprietà antiossidanti tipiche dei polifenoli. Come vediamo nella figura 9, il resveratrolo esiste in due forme stereoisomere, la forma cis e la forma trans, ma solo quest’ultima è la forma attiva.

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26 Figura 9 - Struttura di trans- e cis-resveratrolo

Sebbene entrambe le forme siano presenti in prodotti naturali, solo l’isomero trans è presente nell’uva e sembra essere responsabile dei suoi numerosi effetti benefici. Una esposizione ai raggi UV facilita l’isomerizzazione della forma trans in quella cis. La struttura cristallina del composto ha rivelato un impaccamento piuttosto interessante in cui le interazioni intermolecolari di maggiore importanza sono i legami a idrogeno: ciascuno dei tre atomi di ossigeno contenuti nella molecola partecipa a due legami a idrogeno intermolecolari. La presenza di un’estesa rete di legami a idrogeno supporta l’ipotesi che l’azione antiossidante di questo stilbene sia dovuta al trasferimento di un atomo di idrogeno. Gli idrogeni dei gruppi ossidrile possono essere orientati in due posizioni secondo un modello detto legame a idrogeno flip-flop. Si crea così un disordine dinamico in cui gli idrogeni "saltano" da un sito parzialmente occupato all’altro e questa mobilità suggerisce la partecipazione del reveratrolo alle funzioni biologiche in qualità di antiossidante (Caruso et al., 2007). Come visto precedentemente, il resveratrolo lo ritroviamo in molte piante, dove svolge molte funzioni biologiche poiché ricopre il ruolo di fitoalessina, un gruppo di composti che in natura servono a proteggere la pianta da danni di varia natura, come ad esempio attacchi fungini, lesioni chimiche o fisiche, irradiazioni UV, grazie alle loro proprietà antimicrobiche e fungicide. Nel corso degli anni, vari studi hanno portato alla luce molte altre proprietà farmacologiche del resveratrolo che giustificano gli effetti cardioprotettivi, poiché i potenziali benefici terapeutici mostrati dal resveratrolo coprono un ampio range di disordini cardiovascolari fra cui l'infarto del miocardio, le aritmie, l'ipertensione, ipertrofia dovuta all'infiammazione che porta a fibrosi, l'aterosclerosi e le trombosi. Ma gli effetti terapeutici del resveratrolo non sono riferiti soltanto al sistema cardiovascolare, ma ci sono evidenze sostanziali che dimostrano come questa molecola sia coinvolta in molte delle patologie correlate all'avanzamento dell'età, come ad esempio il cancro, il diabete di tipo 2, l'infiammazione, fra cui i disordini

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27 neurodegenerativi, la malattia di Alzheimer, almeno per quanto riguarda i modelli animali e gli studi in vitro (Baur e Sinclair, 2006). Attraverso vari meccanismi, schematizzati in figura 10, il resveratrolo ha attività antiossidante, antiinfiammatoria, chemoprotettiva, ha effetti sull’inibizione dell’aggregazione piastrinica, sull’induzione della produzione di nitrossido (NO), ha la capacità di attivare le sirtuine (una classe di proteine implicate nella resistenza allo stress, nell’apoptosi, nell’invecchiamento, ecc.) e infine agisce sulle tre fasi cronologicamente successive di sviluppo dei tumori (iniziazione, promozione e progressione) inibendole. Il resveratrolo può bloccare infatti la cancerogenesi inibendo bersagli molecolari come ad esempio le chinasi, le cicloossigenasi, la DNA polimerasi e le riduttasi ribonucleotidiche (Saiko et al., 2008).

Figura 10 - Meccanismi farmacologici attribuiti al resveratrolo.

Un’importante aspetto farmacologico del resveratrolo è relativo alla sua biodisponibilità. Secondo ricerche recenti, il resveratrolo è biodisponibile solo se ingerito usando come matrice il vino rosso. I risultati più significativi riguardanti l'assorbimento e il metabolismo del resveratrolo arrivano dai lavori svolti da Bertelli che attraverso dimostrazioni in vivo, vide che questo stilbene contenuto nel vino rosso, dopo somministrazioni orali di 4 ml di vino rosso (con dosi acute di 26 µg o una somministrazione giornaliera di 13 µg per due

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28 settimane), viene assorbito nei ratti, entra velocemente nel circolo sanguigno e risulta presente in concentrazioni significative in diversi organi (Bertelli et al., 1996). Fu dimostrato quindi che il resveratrolo non solo si trovava nel sangue e nelle urine, ma anche nel fegato, nei reni e nel cuore. Gli stessi autori infatti, in uno studio successivo (Bertelli et al., 1998), somministrando per os 28 µg/ratto di resveratrolo contenuto nel vino rosso, tramite sonda gastrica, studiarono la cinetica di assorbimento e la presenza nel plasma e in diversi organi, quantificando, tramite HPLC il contenuto di resveratrolo nel cuore, nel fegato e nei reni, riscontrando concentrazioni nei tessuti, maggiori o simili a quelle riscontrate nel plasma (1 ng/ml nel siero e 1ng/g nel tessuto). Risultati analoghi sono stati ottenuti da Juan e coll.: somministrando 2 mg/kg di trans-resveratrolo si è trovata una concentrazione nel plasma pari a 0.175 mg/l dopo 15 minuti dalla somministrazione (Juan et al., 1999). Gli stessi livelli plasmatici di resveratrolo erano stati trovati in un trial clinico effettuato su 10 volontari sani a cui fu detto di bere per 15 giorni 300 ml di vino rosso. E’ rilevante anche sapere che nello stesso trial non furono trovati livelli plasmatici significativi di resveratrolo in altri 10 volontari sani a cui furono somministrati 300 ml di vino bianco per 15 giorni (Pignatelli et al., 2006) Altri studi condotti sul resveratrolo in associazione ad altre matrici (Goldberg et al., 2003) sono stati infruttuosi, come risulta dagli alti livelli di resveratrolo ritrovato come coniugato nelle urine: l’assorbimento era infatti basso in 12 soggetti sani a cui erano state somministrate dosi singole di trans-resveratrolo (25 mg/70 kg in vino bianco, succo d’uva e succhi vegetali) (Bertelli, 2006). Quando il resveratrolo è somministrato attraverso matrici diverse dal vino rosso, quindi, la biodisponibilità è molto bassa, poiché l’assenza dell’etanolo riduce la penetrazione e l’assorbimento dei composti liposolubili, confermando l'importanza del vino rosso come matrice. Rispetto agli altri polifenoli assunti con la dieta, il resveratrolo è relativamente biodisponibile in termini di proporzione fra la dose orale assimilata ed escreta attraverso l’urina e la dose corretta per la concentrazione plasmatica massima raggiunta (Manach et al., 2004).

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6.2 METABOLISMO

La concentrazione tissutale del resveratrolo nei tessuti dimostra che è presente una significante biodisponibilità a livello cardiaco ed una forte affinità per il fegato ed i reni, quest’ultimi coinvolti nell’eliminazione del resveratrolo. Il ruolo degli enzimi detossificanti sembra essere particolarmente rilevante per il catabolismo di questo stilbene, soprattutto per quanto riguarda il citocromo P450. De Santi, con studi in vitro condotti usando zolfo radioattivo, ha rivelato che il resveratrolo va incontro a solfatazione nel fegato e nel duodeno e a glucuronazione nel fegato, fenomeni che potrebbero limitare la biodisponibilità del composto e aumentare l'allontanamento dall'organismo. Inoltre ha dimostrato che l’attività degli enzimi detossificanti è alterata e modulata dai componenti presenti nel vino rosso, come ad esempio la quercitina, un flavonoide presente nel vino, nella frutta e nei vegetali e l’etanolo stesso. La quercitina in particolare è un forte inibitore del metabolismo del resveratrolo, bloccando la sua coniugazione con acido glucuronico e solfato, aumentando così la sua biodisponibilità e suggerendo che i composti presenti nella dieta possono inibire le suddette reazioni (De Santi et al., 2000). In un recente lavoro Yu e coll. (Yu et al., 2002) hanno studiato il metabolismo del trans-resveratrolo in modelli sperimentali in vitro (microsomi ed epatociti di fegato umano, epatociti di ratto) e in vivo. Tramite tecniche cromatografiche di HPLC e spettrometria di massa sono riusciti ad identificare il resveratrolo ed i suoi metaboliti dopo trattamento con il composto per tempi compreso tra 30 minuti e 4 ore. In particolare, non hanno osservato metaboliti del resveratrolo né prodotti di ossido-riduzione e idrolisi nei microsomi umani dopo incubazione di un'ora. Hanno invece osservato un'elevata quantità di trans-resveratrolo-3-O-glucuronide e trans-resveratrolo-3-solfato nelle urine di ratto, siero di topo e dopo incubazione di epatociti sia umani che di ratto. In entrambi i modelli l'isomero cis è stato trovato solo in tracce, ad indicare che il processo di isomerizzazione non è un meccanismo di rilievo per il metabolismo e l'eliminazione del resveratrolo. Potter e collaboratori (Potter et al., 2002), usando microsomi di linfoblasti umani esprimenti l'enzima CYP1B1, hanno dimostrato che il resveratrolo viene convertito in un composto con una elevata attività anti-cancerogena: il piceatannolo. La reazione di conversione è catalizzata dall'enzima CYP1B1, appartenente alla famiglia del citocromo P450 e che catalizza la conversione dell'estradiolo a 4-idrossiestradiolo; studi di immunoistochimica hanno dimostrato che esso è sovraespresso in tumori a carico di diversi organi. La somiglianza strutturale fra

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30 l'estradiolo (un estrogeno) e il resveratrolo (un fitoestrogeno) permette a quest'ultimo di essere utilizzato come substrato dell'enzima.

6.3 MECCANISMI D’AZIONE

Il resveratrolo ha dimostrato di prevenire o almeno rallentare lo sviluppo di molte patologie, incluso il cancro, le patologie cardiovascolari, le patologie ischemiche e la malattia di Alzheimer (Baur e Sinclair, 2006). Questo composto ha dimostrato inoltre di mimare in parte gli effetti della restrizione calorica aumentando la durata della vita di molti organismi (Agarwal e Baur, 2011). Il resveratrolo presenta molti effetti biologici e questo è attribuibile al fatto di essere una molecola con molti target farmacologici (Figura 11). Alla base dell'azione protettiva del resveratrolo sul sistema cardiovascolare ci sono molti meccanismi d'azione, fra cui ovviamente l'attività antiossidante, espressa attraverso lo scavenging di radicali liberi, il precondizionamento ischemico e le proprietà angiogeniche. Queste azioni sono collegate a molti componenti cellulari, inclusi i recettori di membrana, i recettori nucleari, le vie di trasmissione del segnale, le vie metaboliche e la trascrizione di geni. Studi in vivo suggeriscono che il resveratrolo sia un potente antiossidante, probabilmente grazie alla sua capacità di aumentare la sintesi di NO o attraverso la modulazione del sistema della tioredoxina e dell'eme-ossigenasi o entrambi.

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31 Figura 11 - Target farmacologici del resveratrolo.

6.3.1 Attività antiossidante

Frankel fu il primo a dimostrare nel 1993 che il trans-resveratrolo aggiunto a lipoproteine a bassa densità (LDL) umane riduce l'ossidazione catalizzata dal rame (Frankel et al., 1993). L'esperimento fu effettuato su due volontari adulti sani: l'aggiunta di resveratrolo 10 µM risultava inibire la perossidazione dell' 80% e del 70% nei due soggetti, ma il resveratrolo era circa due volte meno potente di epicatechina e quercitina (flavonoidi presenti nel vino rosso). Questi dati suggerivano che la combinazione di tali sostanze nel vino ed un prolungato periodo di consumo potrebbero proteggere contro l'aterogenesi. Successivamente Belguendouz misurando la formazione di prodotti di degradazione di acidi grassi polinsaturi (PUFA) durante l'ossidazione delle LDL di maiale, ha osservato che il resveratrolo inibisce la perossidazione dipendente e indipendente da ioni metallici principalmente chelando il rame, sebbene i flavonoidi siano scavenger di radicali liberi più

Figura

Figura  1  -  Tabelle  del  rischio  cardiovascolare  globale,  in  cui  l'entità  del  rischio  è  rapportata  a  diversi  fattori,  quali:  sesso,  presenza  di  patologia  diabetica,  tabagismo,  età  e  colesterolemia  totale
Figura 2 - Schema degli effetti prodotti dallo stress ossidativo sulla funzione endoteliale, e  conseguenti alterazioni patologiche sistemiche
Figura 4 -  Classificazione degli antiossidanti a seconda di provenienza e struttura.
Figura 8 - Correlazione tra assunzione di alcol (vino) e rischio totale.
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