DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE
IN GIURISPRUDENZA
Il Presidente della Repubblica e le intercettazioni
Candidato
Relatore
Alessio Bulleri Prof. Gianluca Famiglietti
INDICE
INTRODUZIONE 1
CAPITOLO I 5
SVILUPPO DEL CONFLITTO TRA PROCURA DI PALERMO ED AVVOCATURA DI STATO, E LA DECISIONE DELLA CORTE
COSTITUZIONALE CON LA SENT. N. 1/2013 5
1 Il contrasto tra Procura e Avvocatura 5
1.1 Il quadro storico: le intercettazioni di Mancino 5 1.2 Le vicende storiche immediatamente antecedenti al conflitto 9 1.3 La posizione dell’Avvocatura dello Stato 10 1.4 La posizione della Procura di Palermo 13 1.5 La memoria illustrativa dell’Avvocatura di Stato 18 1.6 La memoria illustrativa della Procura di Palermo 23
2 La decisione della Corte Costituzionale: la sent. n. 1/2013 29
2.1 Il profilo dell’ammissibilità del conflitto 29 2.2 Il profilo nel merito (segue) 34 2.3 La posizione del Presidente della Repubblica nel nostro sistema 35 2.4 L’asserita disparità di trattamento tra il Presidente della Repubblica e gli altri organi costituzionali 39
2.5 La tesi della tutela della riservatezza delle comunicazioni presidenziali e i suoi “deficit” 40 2.6 Le conseguenze interpretative della Corte e i suoi limiti intrinseci 44 2.7 La c.d. “clausola di salvaguardia” e valutazioni conclusive della sentenza n. 1/2013 45
CAPITOLO II 48
FONTI DI NATURA COSTITUZIONALE ED ORDINARIA, PRASSI E GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE RILEVANTI ALLA LUCE DELLE ARGOMENTAZIONI ESPOSTE DAL GIUDICE
COSTITUZIONALE NELLA SENT. N. 1/2013 48
1 L’origine del problema: una lacuna del legislatore 48 2 Il ruolo del Presidente della Repubblica alla luce dei principi basilari del
costituzionalismo 50
3 La posizione dell’Assemblea Costituente sulla responsabilità extra-funzionale
del Presidente della Repubblica 57
4 Il Presidente della Repubblica è responsabile per i reati comuni come ogni altro cittadino privato: le conferme 61
4.1 Disposizioni secondarie della legge n. 219/89: artt. 8, 9 e 10 61 4.2 Un confronto tra la forma di governo parlamentare e quella semi- presidenziale della Vª Repubblica francese 63
6 Ipotesi concrete di responsabilità “extra-funzionale” del Presidente della Repubblica nel dibattito dottrinario e nella prassi giurisprudenziale 73
6.1 Il Presidente Scalfaro coinvolto nella vicenda di fondi neri del Sisde 73 6.2 Il Presidente Scalfaro intercettato fortuitamente dalla Procura di Milano nell’inchiesta per bancarotta fraudolenta della Sasea di Florio Fiorini, e il Banco Popolare di Novara 75 6.3 Il «caso Cossiga» e la questione delle ingiurie e diffamazioni rivolte dal Presidente della Repubblica: quale regime giuridico, e quale tipo di
responsabilità, devono valere? (segue) 80 6.4 (segue) Il «caso Cossiga»: la Corte Costituzionale e la sentenza n.
154/2004 88
7 Intercettazioni “casuali” del parlamentare 92
7.1 La sentenza n. 390/2007 e il «meccanismo demolitorio» dell’art. 6 commi 2, 5 e 6 della legge n. 140/2003 92 7.2 I criteri indicativi dell’«occasionalità» dell’intercettazione 96
CAPITOLO III 102
PROFILI CRITICI DELLA DECISIONE DELLA CORTE E POSSIBILI
SOLUZIONI ALTERNATIVE 102
1 Incoerenze e contraddizioni della Corte Costituzionale nella sentenza n.
1/2013 102
2 La soluzione di un “nodo intricato”, et una possibile diversa alternativa al
conflitto 116
3 Altri possibili esiti alla risoluzione del conflitto, e le critiche alla luce del principio del contraddittorio ‘doppiamente’ tutelato dall’art. 111 commi 2 e 4
della Costituzione 129
4 Considerazioni e riflessioni finali 139
BIBLIOGRAFIA 157
SITOGRAFIA 163
1
INTRODUZIONE
In questa tesi si tenterà di esaminare il caso che ha condotto
all’innalzamento del conflitto di attribuzione da parte del Presidente
Napolitano dinanzi alla Corte Costituzionale, e contro la Procura di
Palermo.
In particolare, ci si soffermerà sulla sentenza n. 1/2013 con la quale la
Suprema Corte ha deciso il ricorso in favore delle istanze di protezione
in favore del Presidente della Repubblica, accogliendo nella sostanza le
richieste conclusive dell’Avvocatura di Stato.
Prima, però, di analizzare tale sentenza e le sue criticità, cercheremo di
ricostruire dai primi paragrafi del Capitolo I la vicenda dalla quale ha
avuto origine il conflitto, delineando le fondamenta del processo ad
quem
, e trattando nel dettaglio l’evoluzione dei fatti.
In particolare, ci si soffermerà sia sul contenuto del ricorso
presidenziale redatto dall’Avvocatura di Stato, sia sul provvedimento
di costituzione in giudizio della Procura di Palermo, e sulle rispettive
memorie integrative.
Successivamente, sempre nel Capitolo I, si metterà in luce il contenuto
della sentenza n. 1/2013, la quale, come detto, accoglie nella sostanza
le ragioni presidenziali, con un impianto argomentativo che riterremo
criticabile fin dal principio.
Nel Capitolo II, ci si occuperà di tutti quegli aspetti ritenuti rilevanti ai
fini del caso in questione; in particolare, partendo dalla figura
2
incarnante il Presidente della Repubblica nel nostro ordinamento, e
avvalendosi del peculiare regime di responsabilità presidenziale
previsto dall’art. 90 Cost., tenteremo di riprodurre in questo testo quegli
elementi giuridicamente rilevanti – derivanti dai Lavori dell’Assemblea
Costituente, dagli argomenti a contrario desumibili da talune
disposizioni normative, dagli interventi censurativi della Corte
Costituzionale avverso discipline legislative caratterizzatesi per il
riconoscimento di un’abnorme ‘fascia’ di tutela a favore del Presidente,
da eclatanti casi del passato recente del nostro Paese nei quali furono
coinvolti i Presidenti Scalfaro e Cossiga, nonché da alcune pronunce
del giudice costituzionale rilevanti in termini di ‘occasionalità’
dell’intercettazioni (elemento dirimente della questione) – che si è
ritenuto fondamentali ai fini della comprensione del caso oggetto di
trattazione.
Infine, nel Capitolo III, tenteremo di compiere una “sintesi”, traslando
quegli argomenti che avremo evinto dal Capitolo II nel caso di nostro
interesse che avremo sviluppato accuratamente nel Capitolo I.
In particolare, si tenterà di dimostrare l’illogicità di un’interpretazione
a fortiori
fondata sull’art. 7 della legge n. 218/89, che vedremo come
finirà per costituire il ‘ponte’ per proteggere il Presidente della
Repubblica da quegli episodi che potrebbero riguardarlo non soltanto
come Capo dello stato e rappresentante dell’unità nazionale, bensì
anche come semplice privato cittadino (la distinzione tra le due sfere si
vedrà come, secondo la Corte, sarà molto difficile da mantenere nella
3
realtà concreta; ragion per la quale, tale difficoltà sarà utilizzata dalla
Corte per farne derivare l’impossibilità di utilizzare lo strumento
investigativo dell’intercettazione telefonica nei confronti del
Presidente).
La conclusione cui giungerà la Corte la descriveremo in termini più che
critici poiché finirà per avallare un’inaccettabile disparità di trattamento
(art. 3 Cost.), in favore del Presidente della Repubblica, ed a discapito
di ciascun altro cittadino della Repubblica; finendo non solo per
determinare, come si vedrà, un consistente “taglio” alle garanzie
attuative del ‘principio del contraddittorio’, ma anche per compiere
delle vere e proprie rivisitazioni della Carta Costituzionale.
In questo ultimo senso, noteremo prima l’emersione di una vera e
propria prerogativa presidenziale creata ad hoc da questa pronuncia,
ossia la necessità di garantire la riservatezza delle comunicazioni
presidenziali, non prevista in Costituzione, e inconferente rispetto al
tema delle immunità; e dopo, si potrà anche valutare come, così
argomentando, la Corte, terminerà per distorcere la natura immanente
delle immunità presidenziali.
Sulla base delle critiche effettuate, si potrà ritenere opportuno di
ascriversi a quella parte della dottrina che sostiene la necessità di
interpretare in senso stretto l’immunità presidenziale di cui all’art. 90
Cost., ossia ritenere irresponsabile il Presidente soltanto per quelle
ipotesi in cui l’atto è sottoposto a controfirma ministeriale.
4
Si sosterrà quest’ultima tesi non soltanto per la presenza manifesta di
argomenti scritti dei Padri Costituenti a favore di questa restrittiva
soluzione, ma anche per il carattere illogico cui soggiaceremmo se
avallassimo le diverse, più ampie, soluzioni.
Ai fini di una migliore comprensione della tesi, e soprattutto della scelta
di tale ultima soluzione accennata, si dovrà tenere di conto che in questo
elaborato si accoglierà la concezione del Capo dello Stato come organo
di custodia e garanzia della Carta Costituzionale e dei suoi principi;
concezione che, però, bisognerà meditare, non è la sola ed unica
nell’ondivaga e ‘fluida’ materia del Presidente della Repubblica.
5
CAPITOLO I
SVILUPPO DEL CONFLITTO TRA
PROCURA DI PALERMO ED
AVVOCATURA DI STATO, E LA
DECISIONE DELLA CORTE
COSTITUZIONALE CON LA SENT. N.
1/2013
1
Il contrasto tra Procura e Avvocatura
1.1 Il quadro storico: le intercettazioni di Mancino
Questo scritto si pone l’obiettivo di trattare il tema delle garanzie del
Presidente della Repubblica muovendo dal caso delle c.d.
intercettazioni “casuali” dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano, e la decisione stabilita al riguardo dalla Corte
Costituzionale, intervenuta sulle modalità da utilizzare per distruggere
tali intercettazioni, mediante la sent. n. 1/2013.
In particolare, si ricordi che l’intercettazione era stata disposta nei
confronti dell’utenza telefonica del terzo soggetto interlocutore del
Presidente, ossia Nicola Mancino. Quest’ultimo era stato iscritto al
registro degli indagati dalla Procura di Palermo, dopo aver collezionato
in alcune testimonianze una serie di “non ricordo” che fecero
insospettire i magistrati di Palermo, i quali indagavano sulla c.d.
“trattativa” tra Stato e mafia (avvenuta «a cavallo tra il 1992 e il
1994»
1). Dal compimento di tale attività investigativa derivò la
captazione di taluni colloqui con il Presidente della Repubblica, il quale
ne venne a conoscenza da una intervista, rilasciata dal sostituto
procuratore della Procura di Palermo Antonino Di Matteo, e pubblicata
da «La Repubblica» il giorno 22 giugno 2012. Seguì una richiesta di
smentita da parte dell’Avvocato Generale dello Stato (al quale, intanto,
1 Corte Costituzionale, sentenza 15 gennaio 2013, n. 1, punto n. 3.1 del Ritenuto in
6
il Segretario generale della Presidenza della Repubblica aveva dato
mandato di rappresentarlo nella vicenda), che non trovò esito positivo
nelle successive risposte del Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Palermo Francesco Messineo (persona attraverso la quale
poi si costituì in giudizio la stessa Procura di Palermo, in ragione
proprio della sua qualità di Procuratore della Repubblica che rivestiva
al tempo).
Si giunge, dunque, alla decisione dell’allora Capo di Stato di sollevare
conflitto attribuzione tra poteri dello Stato, per la violazione degli artt.
3 e 90 della Costituzione, nonché l’art. 7 della legge n. 219/89 e l’art.
271 c.p.p., mediante apposito ricorso depositato il 30 luglio 2012.
Prima però di soffermarsi sulle ragioni addotte dall’Avvocatura dello
Stato per sostenere suddetto ricorso, si ritiene utile effettuare una breve
analisi dei fatti storici che hanno preceduto le vicende che hanno
condotto al sollevamento del conflitto - fatti, peraltro, trattati dalla
medesima Procura di Palermo nella Memoria della Costituzione in
Giudizio della stessa Procura - e sviluppare poi con maggiore capillarità
anche quelle sopra accennate vicende.
In particolare, si noti che Mancino viene indagato all’interno del
procedimento n. 11609/08 (scaturito dalla riapertura delle indagini del
precedente processo n. 18101/00), il quale si interessa di accertare le
responsabilità di coloro che parteciparono alla c.d. “trattativa” tra Stato
e mafia, realizzatasi tra il 1992 e il 1994. Il delitto per il quale si procede
è “Violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo,
giudiziario o ai suoi singoli componenti”, disciplinato dall’art. 338 c.p.
(aggravato dal successivo art. 339 e dall’art. 7 del d. l. n. 152/91,
convertito in legge n. 203/91)
2. Tuttavia, Mancino, al contrario degli
2 Sinteticamente, la tesi della Procura consiste nel ritenere che la “trattativa” (sulla
quale si sono già pronunciati in senso positivo circa la sua esistenza, e in via definitiva, i giudici di Firenze e Caltanissetta) avvenuta tra esponenti mafiosi e rappresentanti delle istituzioni, avrebbe rafforzato nei primi la convinzione che portare avanti la “strategia delle bombe” (che sarebbe così continuata con le bombe di Firenze, Roma
7
altri indagati, non viene sottoposto ad indagini per aver partecipato alla
suddetta “trattativa”, bensì per aver fatto nascere dubbi e perplessità in
capo ai magistrati di Palermo sulla genuinità delle sue affermazioni
3.
Ecco che, a seguito della separazione dei procedimenti effettuata dalla
Procura di Palermo, avvenuta per la maturazione dell’interesse a
esercitare l’azione penale ex art. 112 Cost. nei soli confronti di alcuni
indagati, tra cui vi è appunto Mancino, lo rinvia poi a giudizio per falsa
testimonianza
4.
e Milano del ’93, dopo quelle già realizzatesi nel ’92) avrebbe portato i suoi “frutti”, da intendersi come benefici per i mafiosi.
3 I dubbi nascono durante e a seguito della testimonianza offerta dallo stesso Mancino
all’interno di un’udienza del processo contro Mori e Obinu (per la mancata cattura di Provenzano). In particolare, è in questa sede che Mancino raccoglie una serie di “non ricordo” già sopra accennata, che insospettiscono i magistrati. Le contraddizioni riguardano più punti: a) sull’esistenza di una spaccatura interna a Cosa Nostra, Mancino dichiarò in quella occasione di non esserne a conoscenza, quando invece nel 2009 di fronte ai giudici di Caltanissetta e Palermo dichiarò di esserne informato; b) sulle affermazioni effettuate da Scotti, suo predecessore al Viminale (si noti al riguardo che Mancino viene designato ministro dell’interno nel nuovo Governo Amato del giugno 1992, a cavallo tra la strage di Capaci e la strage di Via D’Amelio), il quale disse di non aspettarsi il “rimpasto”, mentre Mancino sostenne che fu Scotti a rinunciare, e che fu egli stesso a tentare di convincere quest’ultimo a rimanere (Scotti ha denegato sul punto); c) sulla conoscenza della c.d. “trattativa”, il Ministro della Giustizia Martelli dice di aver reso partecipe Mancino, invitandolo a intervenire sui vertici dell’Arma, ma quest’ultimo dice di non ricordare; d) sulla sospensione del 41 bis a 140 mafiosi, Mancino nega di averne discusso in sede di Consiglio dei ministri, ma vi è uno scritto del ’92 dello stesso Mancino, dove afferma di esserne stato preventivamente messo a conoscenza da un’informativa della Dia.
4 Tale fatto, ossia che Nicola Mancino sia stato imputato per falsa testimonianza, non
è un dato dalle conseguenze irrilevanti. Ci si vuole soffermare sinteticamente sul punto perché si ritiene necessario difendere la legittimità delle indagini della Procura di Palermo, presupposto essenziale perché tale lavoro non venga svuotato della sua rilevanza.
Si vuole esaminare quanto ha sostenuto Valerio Onida, in più circostanze, sull’asserita illegittimità delle indagini della Procura di Palermo. Il Presidente emerito della Corte costituzionale ritiene che le indagini in questione siano illegittime poiché riguarderebbero attività dell’allora Ministro dell’Interno, con la conseguenza che dovrebbero rientrare all’interno della competenza a giudicare del Tribunale dei Ministri. Onida motiva la sua posizione asserendo che non «basta obiettare che le imputazioni mosse agli ex ministri non riguardano i fatti di allora (“trattativa”), bensì fatti di oggi (le loro dichiarazioni)» quando in realtà è proprio così. Si vuole dire che non rileva l’oggetto del delitto, bensì valutare se il delitto sia stato commesso, e in caso positivo, esaminare quando è stato compiuto affinché sia possibile trarne anche la competenza. Nel caso in esame è evidente che, sebbene le dichiarazioni di Mancino siano riferibili a fatti compiuti quando era Ministro (la trattativa), egli viene però incriminato per un fatto (la falsa testimonianza) che ha commesso da privato
8
Prima di procedere con l’analisi delle vicende che hanno condotto al
sollevamento del conflitto, si vuole considerare i dati evincibili
dall’attività di investigazione rivolta all’ex Ministro dell’Interno (e che
ci risulteranno utili in un secondo momento). In particolare, l’attività di
intercettazione delle due utenze di Mancino, per le quali è stato disposto
il provvedimento intercettazione, ha coperto un periodo di circa sei mesi
(dal 7 novembre 2011 al 9 maggio 2012), ha captato un totale di 9295
chiamate, soltanto quattro delle quali hanno visto come interlocutore il
Presidente della Repubblica, per un periodo complessivo di 18 minuti
di colloqui
5.
Rileva inoltre che il verbale delle quattro intercettazioni di nostro
interesse sia stato redatto senza alcuna trascrizione, neppure in forma
sintetica, del contenuto delle conversazioni. Infine, l’autorizzazione a
intercettare le utenze di Mancino è stata data da due diversi decreti
autorizzativi, uno soltanto dei quali è stato poi oggetto di proroga,
poiché era l’unico ad aver apportato elementi investigativi utili. Ma solo
grazie all’altro decreto, quello non prorogato
6, era stato possibile
intercettare il Presidente nelle prime due occasioni
7.
Segue dunque la separazione del procedimento il 1° giugno 2012, con
conseguente passaggio al procedimento 11719/12. Poi la notificazione
dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ex art. 415 bis
cittadino. Da qui, se ne dovrebbe trarre la legittimità delle indagini in capo alla Procura di Palermo, dal momento che procede per un reato non ministeriale. Per verificare quanto e approfondire maggiormente gli argomenti trattati si veda V. Onida, Il ruolo del Tribunale dei Ministri, in «Corriere della sera» del 19 agosto 2012, nonché l’ultima parte dell’intervista di P. Nessi, Stato-Mafia/Cossiga non c’entra con Napolitano: Onida risponde al Fatto Q., in www.ilsussidiario.net, 26 agosto 2012.
5 Le prime due chiamate (avvenute il 24 dicembre 2011 e il successivo 31 dicembre)
da qualificarsi come telefonate “in uscita” dalla persona sottoposta ad indagini (dunque rivolte a Napolitano), mentre le seconde due (13 gennaio 2012 e 6 febbraio 2012) sarebbero da considerarsi “in entrata” (quindi direzionate a Mancino dal centralino del Quirinale).
6 A sostegno già, di una difficoltà a tratteggiare il c.d. fumus persecutionis del potere
giudiziario nei confronti del Presidente della Repubblica nel caso in esame.
7 Si noti, peraltro, che sarebbe stato possibile captare un quinto e ulteriore colloquio
(del 20 aprile) “in entrata”, se Mancino avesse risposto. Questa attività sarebbe stata captabile in virtù del decreto di autorizzazione prorogato.
9
c.p.p., la richiesta di rinvio a giudizio e il decreto di fissazione
dell’udienza preliminare, prevista per il giorno 29 ottobre 2012.
1.2 Le vicende storiche immediatamente antecedenti al conflitto
Premessi tali elementi, si intende ricostruire i fatti che hanno anteceduto
il sollevamento del conflitto da parte del Capo dello Stato. In via
preliminare, ci si soffermi anzitutto sulla pubblicazione da parte del
quotidiano «La Repubblica» della intervista al dott. Di Matteo, il giorno
22 giugno 2012. In questa occasione, Di Matteo affermò che «negli atti
depositati non c’è traccia di conversazioni del Capo dello Stato e questo
significa che non sono minimamente rilevanti», aggiungendo poi che
«quelle che dovranno essere distrutte con l’instaurazione di un
procedimento davanti al [Giudice per le indagini preliminari] saranno
distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzati
in altri procedimenti»
8.
L’Avvocato generale dello Stato chiedeva allora il 27 giugno 2012 al
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo
Francesco Messineo di confermare o smentire quanto detto da Di
Matteo. Messineo difese l’operato della Procura cui è a capo, prima con
una nota del 6 luglio 2012 con la quale evidenziava come (la Procura),
«avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento
qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al capo
dello stato, non ne prevede[va] alcuna utilizzazione investigativa o
processuale, ma esclusivamente la distruzione con l’osservanza delle
formalità di legge»
9.
8 Corte Costituzionale, sentenza 15 gennaio 2013, n. 1, punto n. 2 del Considerato in
diritto.
9 Poi con successiva nota del 9 luglio 2012, e pubblicata in «La Repubblica» il
successivo 11 luglio, spiegava le ragioni del modus operandi della Procura, facendo presente che nel nostro ordinamento non esiste una «norma [che] prescriv(a) o anche soltanto autorizz(i) l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione… (di) una conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione». Così il Procuratore della Repubblica concludeva sottoscrivendo quando detto nelle precedenti occasioni dal dott. Di Matteo, in ordine alle modalità da adoperare per procedere alla distruzione
10
1.3 La posizione dell’Avvocatura dello Stato
Si intende tralasciare per il momento quanto detto dalla Procura di
Palermo all’interno della Memoria di costituzione in giudizio, il cui
contenuto è stato finora oggetto di trattazione. E si vuole invece
focalizzare l’attenzione sulle motivazioni addotte dall’Avvocato
generale nel ricorso.
Premesso che, l’irresponsabilità giuridica e politica ex art. 90 Cost. vale
soltanto per gli atti funzionali
10, l’Avvocatura elabora il suo discutibile
ragionamento, facendo perno sull’art. 7 comma 2 e 3
11della l. n. 219/89
intitolata “Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti
dall’articolo 90 della Costituzione”. In particolare l’Avvocatura ritiene
operabile tale normativa al caso in questione. E motiva la sua posizione
postulando la necessità di garantire al Capo dello Stato «il massimo di
libertà di azione e di riservatezza»
12, che troverebbe il proprio
fondamento in talune attività che il Presidente compie in via non
formalizzata
13.
della documentazione. Vedi, Corte Costituzionale, sentenza 15 gennaio 2013, n. 1, punto n. 1.2 del Ritenuto in fatto.
10 E ciò inevitabilmente, in ragione dell’impossibilità di considerare irresponsabile il
Capo dello Stato anche per i c.d. atti extra-formali, poiché altrimenti si verificherebbe un’inaccettabile violazione del principio della parità di trattamento, ex art. 3 Cost.
11 Recitano rispettivamente: “Devono in ogni caso essere deliberati dal comitato i
provvedimenti che dispongono intercettazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione, ovvero perquisizioni personali o domiciliari, nonché quelli che applicano misure cautelari limitative della libertà personale nei confronti degli inquisiti”, e “Nei confronti del Presidente della Repubblica non possono essere adottati i provvedimenti indicati nel comma 2 se non dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica”.
12 Corte Costituzionale, sentenza 15 gennaio 2013, n. 1, punto n. 1.2 del Ritenuto in
fatto.
13 Vale la pena sottolineare che non si intende affatto negare la rilevanza di tali attività,
bensì l’uso strumentale che se ne intende fare. Si intende che l’affermazione di una necessità – quella della massima libertà di azione e riservatezza – non trova riscontro all’interno del testo costituzionale e normativo del nostro ordinamento. A maggior ragione, se si considera che uno dei “capisaldi” del nostro sistema, e sul quale si impernia anche questo stesso lavoro, è rappresentato dalla considerazione che le prerogative istituzionali debbano essere interpretate in senso restrittivo, cioè soltanto per le ipotesi previste da disposizioni di legge. Perciò non è possibile estenderle a ulteriori e diversi casi, se non in presenza di una convincente motivazione, che dimostri l’identità, o perlomeno l’affinità di ratio tra la fattispecie astratta e quella concreta. Tale posizione si avvalora peraltro in ragione dell’intrinseco carattere di tali
11
Ci si pone l’interrogativo di come l’Avvocatura possa allora basare il
proprio ragionamento per giungere a una tale conclusione. La risposta
ci viene fornita dalla stessa Avvocatura quando apre alla c.d.
“interpretazione sistematica” delle norme concernenti il Presidente
della Repubblica.
Tra queste vi è il sopra citato art. 7 della l. n. 219/89, che concerne le
ipotesi in cui sia stato integrato il reato presidenziale ex art. 90, ossia il
c.d. alto tradimento o attentato alla Costituzione, per i quali si prevede
la messa in stato di accusa del Presidente, da parte del Parlamento in
seduta comune.
L’Avvocatura sviluppa il suo ragionamento asserendo che «se, in questi
casi, vi è un divieto assoluto di intercettazione «diretta» fin quando il
Presidente è in carica, sarebbe «naturale» (corsivo nostro) che sussista
un divieto, altrettanto assoluto, di intercettare e, se del caso, di utilizzare
le comunicazioni presidenziali anche qualora captate in modo indiretto
o casuale, trattandosi di attività egualmente idonea a ledere la sua sfera
di immunità
14». Criticamente proseguiva sostenendo la qualifica
dell’intercettazione, anche casuale, del Presidente come ipotesi di atto
compiuto «fuori dei casi consentiti della legge»
15. In aggiunta, e non
senza sorpresa, l’Avvocatura afferma l’applicabilità al Capo dello
Stato, e a fortiori, delle tutele previste per il difensore (ex art. 103 c.p.p.)
prerogative, ossia quello di deroga al principio di eguaglianza, ex art. 3 Cost., che ci impone di limitare al minimo l’apertura a deroghe di tale tipo.
14 E il ragionamento continua così: «(sarebbe) poi altrettanto evidente (corsivo nostro)
che il divieto assoluto di ricorso al controllo delle comunicazioni telefoniche, enunciato in rapporto ai reati presidenziali, debba estendersi, nel silenzio della legge, ad altre fattispecie di reato che possano a diverso titolo coinvolgere il Presidente. A maggior ragione dovrebbe ritenersi inammissibile l’utilizzazione di sue conversazioni intercettate occasionalmente nel corso di indagini concernenti reati addebitabili a terzi, come è avvenuto nel caso in esame». Così Corte Costituzionale, sentenza 15 gennaio 2013, n. 1, punto n. 1.2 del Ritenuto in fatto.
15 E con buona pace di un altro “caposaldo” per il nostro lavoro, ossia l’idea pacifica
nella giurisprudenza di legittimità che le invalidità processuali siano quelle tassativamente previste dal legislatore (c.d. “principio di tassatività delle invalidità processuali”).
12
senza però che sia possibile ravvisarne una men che minima identità di
ratio
16.
L’Avvocatura si concentra poi sull’art. 6 della l. n. 140/2003
17(normativa di attuazione dell’art. 68 della Costituzione), affermando
inoltre che trattasi di legge inapplicabile al caso di specie
18.
Dopo aver ribadito la sua posizione circa l’impossibilità di utilizzare
tali intercettazioni, paventando il rischio altrimenti di vanificare la
«garanzia funzionale riconosciuta negli articoli da 87 a 90 della
Costituzione», e affermando l’irrilevanza nel caso in questione della
distinzione tra intercettazioni dirette, indirette, o casuali
19, l’Avvocatura
16 E soprattutto, concludendo che, allora, trattandosi di intercettazione
assolutamente inutilizzabile, la procedura di distruzione della documentazione avrebbe dovuto seguire la procedura ex art. 271 c.p.p.
17Art. 6 comma 1 legge n. 140/2003 dispone: “Fuori dalle ipotesi previste dall'articolo
4, il giudice per le indagini preliminari, anche su istanza delle parti ovvero del parlamentare interessato, qualora ritenga irrilevanti, in tutto o in parte, ai fini del procedimento i verbali e le registrazioni delle conversazioni o comunicazioni intercettate in qualsiasi forma nel corso di procedimenti riguardanti terzi, alle quali hanno preso parte membri del Parlamento, ovvero i tabulati di comunicazioni acquisiti nel corso dei medesimi procedimenti, sentite le parti, a tutela della riservatezza, ne decide, in camera di consiglio, la distruzione integrale ovvero delle parti ritenute irrilevanti, a norma dell'articolo 269, commi 2 e 3, del codice di procedura penale”.
18 E ciò in virtù di una serie di ragioni: l’applicabilità dell’art. 6 comma 2 (sulla necessità
della autorizzazione della Camera di appartenenza affinché possa essere utilizzata l’intercettazione di cui al 1° comma) al solo parlamentare; l’“intercettabilità” del solo parlamentare previa autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza; la differenza di ratio tra le tutele previste a favore del Presidente della Repubblica e a favore del parlamentare. Particolarmente, in riferimento a questo ultimo punto, si noti che nel primo caso si vuole proteggere la funzione del Capo dello Stato, viceversa, nell’altro soltanto la riservatezza del parlamentare (e dunque, non sarebbe corretto distinguerla da quella di qualsiasi altro cittadino, poiché, in ogni caso, non ne seguirebbe un vulnus alla funzionalità della Camera di appartenenza).
19 Distinzione che non trova il proprio fondamento all’interno della l. n. 140/2003
come sostiene l’Avvocatura, la quale desume la sopracitata irrilevanza per il caso in questione dal fatto che tale normativa risulta «insuscettibile di applicazione analogica al Capo dello Stato». In realtà la distinzione tra diverse tipologie di intercettazione è stata delineata dalla sent. n. 390/2007, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 commi 2, 5 e 6 della l. n. 140/2003 nella misura in cui prevedevano la distruzione della documentazione di cui al 1° comma, anche nelle ipotesi in cui l’autorità giudiziaria avesse voluto utilizzare quei verbali o quelle registrazioni nei confronti del terzo interlocutore non parlamentare. Così facendo la normativa finiva per estendere l’immunità ex art. 68 a soggetti che non avrebbero dovuto fruire di tale tutela. E ciò avveniva per il mero fatto episodico e casuale di essere interlocutori più o meno abituali di un parlamentare. La Corte
13
giunge alle sue richieste conclusive. In particolare, dopo essersi
lamentata per il fatto che la Procura di Palermo non avrebbe fatto un
buon uso dei propri poteri, menomando le prerogative presidenziali
20,
richiede alla Corte di dichiarare che non spetta alla Procura di Palermo
di «omettere l’immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche
casuali di conversazioni del Presidente della Repubblica», nonché
valutarne l’eventuale «(ir)rilevanza», offrendole alla «udienza stralcio»
ex art. 268 c.p.p.
211.4 La posizione della Procura di Palermo
Per comprendere meglio le vicissitudini, nonché il contenuto della
sentenza n. 1/2013 che più avanti tratteremo, si ritiene opportuno
analizzare anche l’angolo visuale della Procura di Palermo, nonché le
successive memorie illustrative depositate da entrambe le parti,
rispettivamente prima l’Avvocatura e poi la Procura. In particolare, si
intende valutare quanto affermato dalla Procura all’interno della sua
Memoria di costituzione in giudizio, dopo aver effettuato la premessa
storica già trattata.
nell’occasione parlò di «meccanismo integralmente e irrimediabilmente demolitorio che omette qualsiasi apprezzamento delle posizioni dei terzi, anch’essi coinvolti in quelle conversazioni». E, come sopra detto, questa fu anche l’occasione per distinguere le intercettazioni in dirette, indirette e casuali. La Corte stabilì solo per quest’ultime che non si sarebbe resa necessaria l’autorizzazione “successiva” per l’utilizzazione di documentazione ormai già formatasi.
Si noti il linguaggio utilizzato dall’Avvocatura in questo punto. Ritiene inapplicabile, anche in via analogica, la l. n. 140/2003 al Capo dello Stato, e allora irrilevante la classificazione delle intercettazioni (fatta derivare impropriamente dalla legge sopra menzionata). In questo senso, si mal comprende il “rigidismo” dell’Avvocatura, visto il carattere prettamente ermeneutico delle citate ricostruzioni, dal valore più descrittivo, che non prescrittivo. Non si ravvisano, dunque, particolari problemi a sostenere l’eventuale esorbitanza di tali concetti dalla legge che, anche ipoteticamente, ne costituisse il fondamento.
20 Adducendo, a proprio sostegno, le seguenti ragioni: l’aver registrato intercettazioni
che captavano in via casuale il Presidente della Repubblica; l’aver mantenuto tale documentazione all’interno degli atti del procedimento; l’averne valutato la rilevanza ai fini di una eventuale utilizzazione investigativa o processuale, nonché aver espresso la volontà di procedere alla distruzione della medesima, previa udienza ex art. 268 c.p.p.
21 Corte Costituzionale, sentenza 15 gennaio 2013, n. 1, punto n. 1.4 del Ritenuto in
14
La Procura dà rilievo a una pluralità di ragioni che condurrebbero talune
alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso e talaltre alla
dichiarazione di infondatezza nel merito del medesimo. Non senza,
però, aver prima dato adito ad un particolare rilevante senza dubbio dal
punto di vista dell’opportunità (e non della giuridicità)
22.
In seguito, come accennato, la Procura si sofferma sulle ragioni di
inammissibilità del ricorso
23.
Prosegue poi affermando l’infondatezza nel merito del ricorso,
adducendo non poche ragioni a proprio sostegno
24. Principale
22 Si tratta del fatto che il Presidente della Repubblica Napolitano «si sia comportato
in modo diverso (non sollevando alcun conflitto) rispetto a quanto era avvenuto in occasione di due precedenti intercettazioni «indirette» di sue comunicazioni, operate nel 2009 e nel 2010 nel corso di altrettante indagini della Procura di Firenze…», così Corte Costituzionale, sentenza 15 gennaio 2013, n. 1, punto n. 3.2 del Ritenuto in
fatto.
In tale occasione, che vedeva interessati il Presidente Napolitano e il Capo della Protezione civile Bertolaso (intercettato all’interno delle indagini “G8”), non solo non fu sollevato conflitto di attribuzioni dal primo, ma neanche fu distrutta la documentazione, anzi, venne allegata agli atti del dibattimento. Così C. Pannacciulli, La riservatezza dei colloqui del Presidente della Repubblica nel conflitto di attribuzioni con la Procura di Palermo, in Amicus Curiae 2012 (Il Presidente intercettato), nota 7 (che rinvia a V. M. Mugnaini, Napolitano intercettato a Firenze. La Procura: stop dopo tre giorni, in www.laRepubblica.it, Archivio, 18 luglio 2012).
23 In una, la Procura lamenta il fatto che l’oggetto del ricorso, ossia «l’immediata
distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali del Presidente della Repubblica», sia impossibile poiché richiederebbe un “facere” inesigibile al Pubblico Ministero. E ciò in ragione del fatto che la distruzione della documentazione non è mai realizzabile dal p.m., bensì dal solo giudice. Nell’altra, e in correlazione alla precedente, si lamenta la c.d. “contraddittorietà” del ‘petitum’ rispetto alle ragioni addotte. La Procura ragiona dicendo che, se l’Avvocatura ha richiesto alla Procura la distruzione immediata della documentazione, ci si chiede come dopo possa ritenere sussistente in capo alla medesima Procura il dovere di chiedere al giudice la distruzione della documentazione, secondo la procedura ex art. 271 c.p.p.
24 Tra queste, si rinviene: il carattere assolutamente «casuale», e non “mirato”, della
captazione del colloquio con il Presidente (vista la «enorme sproporzione tra il numero complessivo delle telefonate intercettate (9295)» e «quello… cui ha preso parte il Capo dello Stato (quattro)»); l’assenza di qualsivoglia «idoneità lesiva» dell’operazione (visto il carattere prettamente automatico della registrazione, la quale si realizza mediante «apparecchiature informatiche, non controllate né influenzabili, almeno nell’immediato, da alcun operatore», neppure in ipotesi di ascolto c.d. “remotizzato”, ipotesi che permette all’ufficiale di polizia giudiziaria di ascoltare la conversazione in via diretta e simultanea dal proprio ufficio); la lamentata allegazione del testo delle telefonate agli atti del procedimento non ha ragion d’essere, poiché tale allegazione non ha mai avuto luogo (in ragione della effettuata valutazione di irrilevanza dal punto di vista processuale di tali intercettazioni); la valutazione di irrilevanza di «qualsivoglia comunicazione telefonica in atti diretta al
15
argomento secondo il nostro lavoro consiste nel ritenere che il «divieto
assoluto di valutazione delle espressioni verbali del Presidente,
occasionalmente captate nel contesto di una intercettazione legittima»
non sarebbe ipotizzabile all’interno «di un quadro costituzionale che
prevede l’irresponsabilità del Capo dello Stato per gli atti funzionali
25,
e che certamente non copre le responsabilità del suo interlocutore»
26.
Dunque, “l’attività di valutazione risulterebbe non solo legittima, ma
«doverosa e ineliminabile»”
27.
Al contrario, se si avalla la lettura dell’Avvocatura si finisce per
ipotizzare «una prerogativa presidenziale intesa come immunità totale
dalla giurisdizione»
28.
La resistente nella parte finale della costituzione in giudizio esprime
preoccupazione per l’eventuale accoglimento del ricorso, poiché ciò
comporterebbe non poche problematiche alla luce di quanto è stato in
passato affermato dalla sentenza n. 390/2007, nonché le c.d. sentenze
Capo dello Stato» (evincibile dalla lettera inviata da Messineo all’Avvocatura generale dello Stato il 6 luglio 2012), comporterebbe che la «valutazione (della Procura) ha avuto ad oggetto le sole espressioni verbali della persona sottoposta ad indagini nel suo colloquio con il Presidente, e non le risposte fornite dell’interlocutore». Per una conferma in tal senso si veda Corte Costituzionale, sentenza 15 gennaio 2013, n. 1, punto n. 3.3 del Ritenuto in fatto. E per un maggiore approfondimento del carattere ‘automatico’ delle registrazioni si veda M. Deganello, Presidenza della Repubblica ed intercettazioni fortuitamente apprese: una decisione non sufficientemente meditata della Corte Costituzionale, in Diritto Penale Contemporaneo 2013, p. 3-4, nota 7, che rinvia a L. Filippi, La riservatezza delle comunicazioni del Presidente della Repubblica, in Arch. pen. 2013, 3, laddove parla di “mero evento meccanico”, a conferma della «caratteristica di automatismo e con essa la assenza di lesività».
25 «(…) e che certamente non lo esenta dalla giurisdizione per gli atti estranei alla
funzione», in linea di continuità (come più avanti vedremo) a quanto si evince dalle posizioni assunte in sede di Assemblea Costituente, nonché dalla Corte Costituzionale in occasione dei pronunciamenti sui c.d. lodi e sul caso Cossiga.
26 Corte Costituzionale, ibidem. 27 Ibidem.
28 E ciò pare difficile da accettare non solo alla luce dei dati testuali e giurisprudenziali
accennati, ma anche considerando la natura parlamentare della forma di governo del nostro Paese. Per un interessante analisi comparatistica si veda E. Grosso, La “prevalenza del politico” e le cause dell’irresponsabilità giuridica di fatto del Presidente della Repubblica francese, in AA.VV., Il “caso Cossiga”, Giappichelli, Torino 2003, 209 ss.
16
“gemelle” del 2010, le numero 113 e 114 (che ritroveremo più tardi)
29.
Prima però di vagliare le conclusioni della Procura sulla questione, è
preferibile vagliare le motivazioni per le quali si ritiene il ricorso
infondato, per il fatto che non si potrebbe applicare al caso concreto la
disciplina ex art. 271 c.p.p., e invece sì quella derivante dall’art. 268
commi 6 ss.
In maniera più sistematica rispetto a quanto effettuato già
antecedentemente, si consideri che non è applicabile al caso di specie il
1° comma dell’art. 271 poiché esso concerne le intercettazioni compiute
«fuori dei casi consentiti dalla legge», e tali ipotesi si ritiene che
debbano coincidere con i casi tassativamente previsti dal legislatore
(secondo quanto deriva dal c.d. “principio della tassatività delle
invalidità processuali”)
30.
Né può ritenersi operabile il comma 2 dell’art 271, che sanziona con
l’inutilizzabilità quelle intercettazioni che hanno carpito conversazioni
delle persone indicate dall’art. 200 comma 1
31, salvo che non riguardino
29 Per la motivazione essenziale che «una simile decisione renderebbe illecito «ex se»
anche l’ascolto occasionale di una conversazione presidenziale nel contesto di un’intercettazione debitamente autorizzata; impedirebbe al magistrato penale di prendere cognizione del contenuto della comunicazione, anche al solo fine di apprezzare la responsabilità di un altro soggetto, non protetto da alcuna immunità; imporrebbe, infine, l’immediata distruzione delle intercettazioni, in violazione del diritto di difesa del terzo che avesse un interesse contrario alla distruzione», così Corte Costituzionale, sentenza 15 gennaio 2013, n. 1, punto n. 3.5 del Ritenuto in
fatto.
30 La Procura afferma peraltro che tutt’al più l’applicazione della normativa di cui
all’art. 7 della l. n. 219/89 sarebbe estensibile ai casi di intercettazione ‘mirata’, in linea alla giurisprudenza costituzionale già sopra citata (sent. n. 390/2007 e sent n. 113 e 114 del 2010). Non però alle ipotesi di intercettazione indiretta poiché un «divieto di intercettare anche «casualmente» le conversazioni presidenziali, del resto, sarebbe inconcepibile sul piano logico, dato che qualsiasi proibizione legale presuppone necessariamente che l’accadimento che si intende scongiurare sia prevedibile e prevenibile: tratti, questi, incompatibili con un evento qualificato come «casuale»».
31 “Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione
del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria:
1. a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano;
17
fatti noti per ragione del loro ministero, ufficio o professione. La
motivazione sta nell’impossibilità di individuare una ‘eadem ratio’ tra
la figura del Presidente della Repubblica e il difensore, come avevamo
già accennato.
Infine, il comma 3, sebbene non faccia riferimento esplicito e puntuale
alla camera di consiglio ex art. 127 (come invece fanno gli art. 268 e
269), non ci solleva dal dover riconoscere ugualmente l’esigenza di
attuare le garanzie del contraddittorio. In tal senso, la Procura fa leva su
quanto statuito dalla Corte con la «sent. n. 463/94 del 1994 in rapporto
alla procedura di distruzione delle intercettazioni a tutela della
riservatezza (…) e, cioè, che il giudice, prima di decidere, deve sentire
in camera di consiglio le parti interessate in ordine all’eventuale
rilevanza in futuro delle registrazioni, quale possibile prova di non
colpevolezza»
32.
Ultima considerazione registrata dalla Procura sta nel ritenere che la
distruzione ex art. 271 non può comunque essere immediata, a
differenza di quanto avviene per l’ipotesi dell’art. 269 commi 2 e 3.
Così, secondo la giurisprudenza di legittimità, poiché, altrimenti,
prevederebbe «una statuizione di inutilizzabilità processualmente
insuscettibile di modifiche», che escluda la utilizzabilità in futuro della
medesima documentazione «nell’ambito del processo a carico di altri
imputati a seguito di diverse e autonome valutazioni del giudice
competente»
33.
3. c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria;
4. d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale”.
32 Corte Costituzionale, sentenza 15 gennaio 2013, n. 1, punto n. 3.3 del Ritenuto in
fatto.
33 Sulla medesima falsariga si veda M. Deganello, Presidenza della Repubblica ed
intercettazioni fortuitamente apprese: una decisione non sufficientemente meditata della Corte Costituzionale, in Diritto Penale Contemporaneo 2013, p. 15, nota 61, che richiama Cass. Pen., sez. II, 26 maggio 2009, P.A. e G.G., in www.dejuregiuffre.it, in particolare che «la distruzione dev’essere eseguita solo quando la decisione sull’inutilizzabilità sia divenuta definitiva», che «l’interpretazione prospettata è l’unica costituzionalmente orientata perché, tenendo conto delle finalità del processo penale
18
1.5 La memoria illustrativa dell’Avvocatura di Stato
Per poter disporre di una visione più ampia e il più possibile esaustiva,
anche e soprattutto al fine di comprendere maggiormente la sent. n.
2013, occorre procedere all’analisi delle due memorie illustrative,
rispettivamente depositate prima dall’Avvocatura generale e dopo dalla
Procura.
Nella prima, l’Avvocatura ribadisce la tesi della estensione dell’art. 7
della l. n. 219/89 anche alle ipotesi di intercettazione indiretta
apportando nuovi ed ulteriori elementi argomentativi rispetto a quelli
già fatti valere in precedenza. Prima però affronta le eccezioni di
inammissibilità postulate dalla Procura
34.
Dal punto di vista del merito, l’Avvocatura riafferma la sua tesi in
ragione della necessità di tutelare «la libertà e segretezza delle
comunicazioni del Capo dello Stato» anche nelle ipotesi di
intercettazioni fortuite. Motiva la sua posizione, facendo leva su
numerosi argomenti.
Nel primo riprende un caso del passato, quando già in un’altra
occasione fu intercettato casualmente l’allora Presidente della
Repubblica Oscar Luigi Scalfaro
35. In particolare, viene richiamato il
passaggio del discorso parlamentare del Ministro di Grazie e Giustizia
(che, sebbene improntato al principio accusatorio, deve pur sempre tendere all’accertamento della verità e deve svolgersi in modo giusto sulla base di prova legittimamente acquisite) sarebbe abnorme la distruzione di una prova decisiva (a favore dell’accusa o della difesa) sulla base di una decisione che venisse poi riformata».
34 In particolare, l’Avvocatura generale afferma che la lamentata impossibilità
giuridica dell’oggetto del ricorso non sia da intendersi come richiesta diretta nei confronti del pubblico ministero. Al contrario, la richiesta alla Corte sarebbe da leggersi sul presupposto che la Procura non abbia fatto «quanto in suo potere per ottenere immediatamente dal giudice un provvedimento di distruzione». Così facendo si svuota di contenuti anche la seconda eccezione, concentrata sulla contraddittorietà del ‘petitum’ delle ragioni poste a sostegno del ricorso, per la ragione essenziale che verrebbe meno proprio il fulcro centrale della stessa eccezione, ossia tale contraddittorietà. Così Corte Costituzionale, sentenza 15 gennaio 2013, n. 1, punto n. 4.1 del Ritenuto in fatto.
35 Per una dettagliata ricostruzione della vicenda si veda G. Roma, Un altro passo verso
l’inviolabilità del Presidente della Repubblica? (il caso della c.d. intercettazione telefonica indiretta del Presidente Scalfaro), in Giur. Cost., 1999, 2883 ss.
19
Maria Giovanni Flick, il quale dichiarò che la libertà di comunicazione
e di corrispondenza del Capo dello Stato costituisce «un connotato
essenziale dell’esercizio delle funzioni» presidenziali. E per avvalorare
la sua tesi fece un peculiare uso dell’interpretazione a fortiori
36, dicendo
che, se nell’ipotesi in cui sia commesso un reato presidenziale ex art.
90 Cost. la possibilità di intercettare il Presidente si avvera soltanto
dopo la sospensione della carica (ex art. 7 della l. n. 219/89), allora «a
maggior ragione dovrebbe prefigurarsi una tutela piena in rapporto ad
ipotesi di reati comuni e, a fortiori, rispetto a qualsiasi fatto penalmente
irrilevante».
In secondo luogo, altro argomento fatto valere dall’Avvocatura consiste
nell’impossibilita di distinguere i diversi compiti e funzioni cui è
preposto il Presidente della Repubblica, in particolare non si riuscirebbe
a separare gli «atti tipici» dalle «attività meramente propedeutiche e
preparatorie». Il che, secondo l’Avvocatura, diviene argomento valido
per confermare la c.d. «esigenza di salvaguardare la libertà e la
segretezza delle comunicazioni del Capo dello Stato (…) anche in
confronto alle intercettazioni «casuali»», e ciò, a maggior ragione se
esse si concretizzino in «un contatto assolutamente lecito».
Tuttavia, si può dire che l’Avvocatura non adduce a sostegno della sua
tesi, argomenti così convincenti. Difatti, successivamente,
l’Avvocatura inizia un elenco delle funzioni che ricopre il Presidente
(dalle funzioni interne ai rapporti diplomatici, al comando delle forze
armate, a quelle derivanti dalla presidenza del CSM o dalla
36 Sull’interpretazione a fortiori si veda A. Morelli, La riservatezza del Presidente.
Idealità dei principi e realtà dei contesti nella sentenza n. 1 del 2013 della Corte Costituzionale, in Diritto Penale Contemporaneo, 27 marzo 2013, che si sofferma sulla sentenza n. 1/2013 e sull’interpretazioni a fortiori compiuto dalla Corte, sulla falsariga di quello dell’Avvocatura. In chiave critica, sull’utilizzo dell’interpretazione a fortiori della Corte si veda M. Deganello, Presidenza della Repubblica ed intercettazioni fortuitamente apprese: una decisione non sufficientemente meditata della Corte Costituzionale, in Diritto Penale Contemporaneo 2013, p. 4-5, nota 11). In particolare, sulla debolezza di tale argumentum si veda P. Ferrua, La sentenza sulle intercettazioni “casuali” del Presidente Napolitano. I non sequitur della Corte Costituzionale, in Giur.
20
rappresentanza dell’unità nazionale
37), avvertendo che «se si
permettesse di divulgare il contenuto delle attività preparatorie, si
metterebbero a rischio gli interessi – rilevantissimi – alla cui
salvaguardia tali funzioni sono preordinate»
38. Peraltro non solo non
motiva quanto detto, ma aggiunge che non rileva nel caso concreto la
distinzione tra atti funzionali ed extra-funzionali
39, affermazione
veritiera che ci conduce ad ulteriori argomentazioni che si ritiene
opportuno sviluppare meglio più avanti
40.
37 Sulla quale, diversi autori si sono pronunciati. Si rimanda ad A. Anzon Denmig,
Prerogative costituzionali implicite e principio della pari sottoposizione alla giurisdizione, in Rivista telematica AIC, 2013, n. 1, che lo definisce «assorbente quanto nebuloso», caratterizzato da «margine di notevole indeterminatezza». Vedasi anche l’interessante disquisizione sul tema ad opera di F. Ferrari, Ma non era una Repubblica? Sul ruolo costituzionale del Presidente della Repubblica dopo Corte Cost. 1/2013, in www.federalismi.it, 13/2013.
38 Tuttavia senza motivare affatto tale posizione, il che suscita ulteriori dubbi se si
pensa a quanto scritto da F. Cerrone, Presidente della Repubblica e magistratura: conflitto o leale collaborazione?, in Rivista telematica AIC, 2012, n. 4, p. 6, dove l’Autore paventa l’ipotesi in cui «alla diffusione, da parte dei mass-media, di una conversazione del Presidente da cui risulti egli ha resistito ad insistenti ed insinuanti minacce o che alla sua azione si deve la soluzione di una delicata vertenza che abbia coinvolto la vita o la libertà di cittadini italiani». Egli si chiede dunque in via dubitativa se può ritenersi «che la diffusione di tali notizie determini senz’altro un vulnus delle funzioni presidenziali».
Si consideri che l’ipotesi prospettata viene trattata dall’Autore alla luce di quanto emerso nel dibattito parlamentare che interessò le intercettazioni di Scalfaro, e in particolare alla luce di quanto auspicato da Leopoldo Elia, il quale esortava a riflettere sulla possibilità di applicare l’art. 277 c.p., intitolato “Offesa alla libertà del Presidente della Repubblica”. Ciò però non toglie che l’idea postulata dall’autore citato possa valere anche per il caso in esame.
39 Affermazione anch’essa non seguita da motivazione. Anzi, si aggiunge che «le
conversazioni telefoniche oggetto del conflitto rientrerebbero comunque tra gli atti funzionali, tenuto conto della qualità dei soggetti tra i quali sono intercorse e della sede nella quale sono state poste in essere (trattandosi di conversazioni tutte effettuate tramite il centralino del Quirinale). Ci si limiti a constatare per il momento che Mancino è al momento delle intercettazioni cittadino privato. È anche vero che la differenza tra atti funzionali e atti extra-funzionali non segue pedissequamente il fatto che i soggetti interlocutori siano persone appartenenti alle istituzioni o meno, e dunque non si nega ex se che la conversazione del Capo dello Stato con un privato cittadino possa essere considerata come attività funzionale del Presidente. È per tale ragione che è necessario confermare la competenza dell’autorità giudiziaria a valutare l’enucleazione degli atti del Presidente all’interno dell’una o dell’altra categoria, così come è stato riconosciuto dalla sent. n. 154/2004 della Corte Costituzionale sul caso Cossiga (lo vedremo più avanti).
40 Per il momento ci si limiti a quanto segue. Si allude a una sorta di “paradosso
21
L’Avvocatura, per giungere alla sua criticabile conclusione, ossia che
la assoluta «inutilizzabilità delle intercettazioni qui considerate
imporrebbe di procedere alla loro distruzione immediata, senza alcuna
valutazione circa la loro eventuale rilevanza processuale», si avvale
altresì di ulteriori risibili argomenti.
In particolare, fa perno sulla “particella” «in ogni caso» presente
all’interno del comma 2 dell’art. 7 della l. n. 219/89 (concernente la
necessità dell’autorizzazione per le intercettazioni da parte della
Giunta), per affermarne l’operatività non solo per le intercettazioni
dirette, ma per qualsiasi intercettazione, anche quella casuale
41.
Altro poco comprensibile argomento si ricava dal divieto di imporre nei
confronti del Presidente della Repubblica l’accompagnamento coattivo
per l’assunzione della testimonianza, secondo quanto dispone l’art. 205
comma 3 del codice di procedura penale. Oltre alla fondamentale
considerazione che pare complicato ravvedere un rapporto di
‘pertinenza’ tra la disciplina dell’intercettazione e quella della
testimonianza, si noti che l’Avvocatura ritiene «anomalo» (corsivo
intercettazioni telefoniche, in Corr. giur., 1996, 245 ss., alla «dissennata disciplina del codice». Il problema, accennato anche dal Procuratore Francesco Saverio Borrelli nel caso Scalfaro, si sostanzia nel paradosso che la distruzione della documentazione di colloqui del Presidente si dovrebbe imporre allorché rilevi la commissione di un reato non presidenziale, in ragione dell’irresponsabilità giuridica sancita dall’art. 90 della Costituzione (e sempre che ci si stia muovendo nell’area degli atti funzionali, non quella degli atti extra-funzionali, ma di questo ne parleremo a fondo più avanti). Viceversa, tale distruzione non si impone nel caso in cui non rilevino elementi di reato, lasciando dunque del tutto scoperta la tutela del diritto alla privacy del terzo interlocutore. Si tratta, peraltro, di un problema molto sentito e sul quale ci soffermeremo alla luce di quanto scritto da M. Maddalena, Diritti costituzionali e intercettazioni telefoniche, cit., e G. Roma, Un altro passo verso l’inviolabilità del Presidente della Repubblica? (il caso della c.d. intercettazione telefonica indiretta del Presidente Scalfaro), cit.
41 In realtà, diversa e interessante lettura ritiene che tale “particella” possa leggersi in
linea di continuità a quanto statuito all’interno del 1° comma dell’art. 7, dove trova fondamento il potere per il comitato di delegare i singoli componenti a compiere atti di indagine. Ne deriva che il successivo comma con l’espressione «in ogni caso» voglia precludere la possibilità di concedere l’autorizzazione ad intercettare ad ogni singolo delegato, e riservare invece tale potere al solo comitato nella sua totalità. Così R. Orlandi, Le parole del Presidente (a proposito del conflitto fra Presidenza della Repubblica e Procura di Palermo, circa il destino di comunicazioni casualmente intercettate), in Amicus Curiae 2012 (Il Presidente intercettato), p. 9, nota 15).
22
nostro) ritenere intercettabile fortuitamente il Presidente della
Repubblica, vista la disciplina prevista per l’assunzione della
testimonianza
42.
Così l’Avvocatura giunge a una diversa e più grave conclusione rispetto
a quella già espressa in sede di sollevamento del ricorso, e cioè che
l’impossibilità di utilizzare le intercettazioni dovrebbe condurre
all’immediata distruzione «senza alcuna valutazione circa la loro
eventuale rilevanza processuale»
43, e motiva la sua posizione con un
ulteriore discutibile elenco di motivazioni
44.
Infine, sull’art. 271 comma 3, conferma la sua rigidità quando si tratta
di poter estendere al capo dello Stato i contenuti della sentenza n.
390/2007
45. Viceversa, per quanto concerne la sent. n. 463/1994 fatta
valere dalla Procura, l’Avvocatura risponde che ritiene attivabile nel
caso specifico la procedura derivabile ex art. 271, trattandosi di
intercettazione compiuta «fuori dai casi consentiti dalla legge»
46.
42 Corte Costituzionale, sentenza 15 gennaio 2013, n. 1, punto n. 4.4 del Ritenuto in
fatto.
43 Tale conclusione ci pare molto difficile da accettare, visto quanto si evince dai
principi che imperniano il nostro ordinamento, nonché di quanto statuito dalla giurisprudenza negli anni antecedenti.
44 Si consideri «l’attività di intercettazione avrebbe dovuto essere interrotta dalla
Procura palermitana non appena accertata la qualità soggettiva dell’interlocutore» (sebbene non esista una norma che autorizzi o prescriva qualcosa di questo tipo, come sottolineato da Messineo all’interno della lettera diffusa e pubblicata da «la Repubblica» l’11 luglio 2012), così come la conservazione dei colloqui tra gli atti del procedimento, e la volontà di procedere alla distruzione di dette documentazioni mediante procedura ex art. 269, che renderebbe «conoscibile e divulgabile il contenuto delle conversazioni stesse», problema del quale come detto si riconosce l’esistenza. Peraltro, l’Avvocatura continua nel suo elenco affermando che «a smentire il contrario assunto della Procura palermitana, basterebbe por mente all’ipotesi in cui tali conversazioni abbiano ad oggetto delicate questioni di sicurezza o di politica estera o di difesa nazionale, le quali – ove fosse valida la tesi della controparte – sarebbero «esposte in modo del tutto casuale e, quindi, irrazionale al pubblico»». Come detto al riguardo, non si nega il problema, ma si critica il modus operandi dell’Avvocatura, la quale per giungere a una soluzione “invocabile” si avvale di argomenti apodittici (si pensi alle espressioni fin qui riportate in corsivo, ad esempio, «è naturale che…», «è evidente…», «sarebbe del tutto anomalo che…»).
45 E ciò, si ricordi, in ragione dello ‘specioso’ argomento che tale pronuncia riguarda
una legge non applicabile al Capo dello Stato.
46 Ma non considerando, in maniera forse un po’ circolare, che quanto fatto notare
23
Come ultimo punto si consideri che il rischio di disperdere possibili
prove di non colpevolezza, paventato dalla Procura, è infondato perché
sul punto si è già pronunciata quest’ultima dichiarando che «le
intercettazioni oggetto del conflitto [sono] irrilevanti e che non
costituiscono corpo di reato». Così facendo, si trascura palesemente ed
erroneamente la possibilità che sia l’avvocato difensore a manifestare il
proprio interesse a non procedere alla distruzione, per evitare
l’eliminazione di elementi potenzialmente rilevanti per l’eventuale
“scagionamento” del suo assistito
47.
Alla luce di quanto finora, l’Avvocatura ribadisce le sue richieste
conclusive già espresse all’interno delle motivazioni del ricorso già
depositato, ossia «che non spetta alla Procura della Repubblica presso
il Tribunale Ordinario di Palermo di omettere di interrompere
l’effettuazione delle intercettazioni casuali del Presidente della
Repubblica»; e che non spetta ad essa «di omettere, una volta acquisite
le predette intercettazioni, di richiederne al Giudice l’immediata
distruzione né […] valutarne la (ir)rilevanza offrendole all’udienza
stralcio di cui all’art. 268 c.p.p.
1.6
La memoria illustrativa della Procura di Palermo
Alla luce di quanto detto sinora, si intende trattare anche la memoria
illustrativa depositata dalla Procura della Repubblica di Palermo
48.
in ogni caso, è necessario dare attuazione alle garanzie del contraddittorio, attivando la procedura in camera di consiglio ex art. 127 c.p.p.
Peraltro, si noti come l’aver fatto ricadere il caso in esame sotto lo spettro dell’art. 271 comma 1, in contrasto con il principio della tassatività delle invalidità processuali, conduca in via consequenziale ad ulteriori errori interpretativi.
47 In senso critico, si pronuncia P. Ferrua, La sentenza sulle intercettazioni “casuali”
del Presidente Napolitano. I non sequitur della Corte Costituzionale, cit., che definisce l’intervento della difesa come «il miglior antidoto contro il rischio sia di arbitrarie decisioni, sia di possibili sospetti ed illazioni sulla correttezza delle scelte dell’autorità giudiziaria», concludendo che l’opinione secondo la quale «la presenza del giudice rend[e] superflua la garanzia della difesa è il classico, goffo argomento con cui si motivano scelte inquisitorie».
48 Corte Costituzionale, sentenza 15 gennaio 2013, n. 1, punto n. 5 del Ritenuto in