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Crisi aziendali incongruenti e strategie di risposta da parte dell'impresa: analisi sul campo ed implicazioni manageriali

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA` DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in Marketing e Ricerche di mercato

TESI DI LAUREA

Crisi aziendali incongruenti e strategie di risposta da parte

dell'impresa: analisi sul campo ed implicazioni manageriali

RELATORE:

Prof. Matteo Corciolani

CONTRORELATORE:

Prof.ssa Annamaria Tuan

IL CANDIDATO:

Giuseppe Maiellaro

(2)
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1

INDICE

Ⅰ.

Introduzione……… 4

1.

Reputazione aziendale e come difendersi da una crisi……… 6

1.1 Applicazione della teoria situazionale della comunicazione di crisi (SCCT)……. 6

1.2 Fattori che formano il rischio reputazionale……… 8

1.2.1 Grado di controllo della crisi da parte dell’azienda……… 8

1.2.2 Storico delle crisi precedenti……….. 9

1.2.3 Relazione con gli stakeholder precedente alla crisi……… 9

1.3 Gli step per la valutazione del rischio reputazionale durante una crisi………….10

1.4 Come le strategie di risposta alla crisi proteggono dalle reazioni negative……...11

1.5 Le strategie di risposta alla crisi………11

1.5.1 Strategie di risposta primarie……….11

1.5.2 Strategie di risposta secondarie………....…..13

1.6 La CSR: asset o rischio reputazionale?...14

1.7 La CSR vista come rischio per una crisi………....15

1.8 La CSR-based challenge e la creazione di una crisi……….16

1.9 Irresponsabilità sociale d’impresa………16

1.10 Challenge e risposta……….17

1.11 Influenze nelle risposte delle aziende………..20

1.12 Affermazioni che guidano i comunicatori d’azienda………..21

(4)

2

2.

Metodo della ricerca……….…28

2.1 Le relazioni causali………...28

2.2 Analisi della covariazione………..32

2.3 Esperimento………34

2.3.1 In cosa differiscono i due approcci?...34

2.4 Vantaggi e limiti dell’esperimento………...36

2.5 Contenuto e struttura del questionario………37

2.6 Informazione sul campione………..40

3.

Risultati della ricerca (analisi dati)………..43

3.1 T-test………43

3.2 Manova……….51

3.3 Regressione lineare multipla……….54

3.4 Mediazione………57

4.

Conclusioni……….62

4.1 Implicazioni teoriche………..62

4.2 Implicazioni manageriali……….65

4.3 Limiti dello studio……….67

(5)
(6)

4

INTRODUZIONE

Una crisi può essere definita come un evento improvviso e inaspettato che minaccia di interrompere le operazioni di un’organizzazione e costituisce una minaccia sia dal punto di vista finanziario sia da quello della reputazione (Coombs, 2007). Non necessariamente la crisi riguarda i prodotti difettosi dell’azienda, che riducono immediatamente la capacità di soddisfare i benefici attesi; può, infatti, essere connessa anche a problemi etici o sociali, riguardanti le cause sposate dall’impresa (Dutta e Pullig, 2011); questo studio infatti analizza crisi connesse alla responsabilità sociale d’impresa. In generale, ciascuna crisi rappresenta una minaccia reputazionale, più o meno forte, per un'impresa. La reputazione è una risorsa intangibile che deriva dalla percezione degli stakeholder sull'essenza e l'operato dell'azienda nel tempo, attraverso i canali di comunicazione disponibili. (Gistri 2018).

Per rispondere alle minacce reputazionali generate da una crisi, è nato il crisis management. Reputazione aziendale e crisis management sono due filoni autonomi della letteratura aziendale che progressivamente sono stati sempre più integrati in ragione di questioni teoriche e sostanziali. Infatti, se da un lato la reputazione costituisce un asset che le imprese utilizzano per il proprio sviluppo, dall'altro è anche vero che la comunicazione, in un’ottica “social”, rende sempre più trasparenti e visibili i processi aziendali. Le eventuali crisi dunque si trasferiscono all'opinione pubblica con crescente facilità, mettendo in discussione gli investimenti effettuati dalle imprese sulla propria reputazione (Gistri 2018). Nel 2004, Fombrun e Van Riel scrivevano che il canale di comunicazione più importante è la stampa; al giorno d’oggi appare ovvio che il canale di comunicazione più importante siano diventati i social media.

Lo studio si apre con una descrizione specifica della teoria alla base del crisis management ovvero la teoria situazionale della comunicazione di crisi (SCCT); questa teoria è anche la teoria su cui lo studio è sviluppato. Successivamente sono descritte le dimensioni della reputazione aziendale e della responsabilità sociale d’impresa, con particolare attenzione per le crisi generatesi proprio da quest’ultima dimensione, le cui imprese non avevano implementato un sistema di gestione di crisi a livello social. Nel capitolo successivo viene descritto il metodo di ricerca utilizzato ovvero quello dell’esperimento, che consiste nello studiare una covariazione fra una variabile X, manipolata volontariamente, ipotizzata causa (indipendente), e una variabile Y ipotizzata

(7)

5 effetto (dipendente). Inoltre, nello stesso capitolo si analizza la struttura del questionario somministrato e del campione oggetto di studio.

Lo studio si propone principalmente di analizzare se una crisi relazionata con la dimensione della responsabilità sociale d’impresa provochi più danni colpendo un’azienda famosa proprio per questo rispetto ad un azienda che non lo è, ed anche di capire quale strategia di risposta, tra apology e compensation, è meglio utilizzare. Per capire ciò, nell’analisi dei dati (cap.3) sono state utilizzate diverse tecniche statistiche quali i t-test, Manova, regressione lineare multipla ed il rapporto di mediazione.

Inoltre, con i dati ottenuti è stato possibile estrarre alcune informazioni da poter utilizzare, a livello di comunicazione, in caso di una crisi. Le implicazioni, teoriche e manageriali, derivanti dallo studio sono discusse invece nel capitolo conclusivo.

(8)

6

Capitolo 1

Reputazione aziendale e come difendersi da una crisi

1.1 Applicazione della teoria situazionale della comunicazione di crisi

(scct)

In tempi di crisi non solo economica, ma anche di fiducia e di credibilità, il tema della reputazione aziendale diventa determinante per il successo delle imprese e per la rassicurazione dei consumatori circa la bontà delle loro scelte; esprime la sintesi di un vasto insieme di segnali che l’impresa trasmette agli stakeholder nel corso del tempo con riferimento al suo agire strategico, in modo sia esplicito che implicito. Gli interlocutori dell’impresa recepiscono e interpretano questi segnali, che per loro costituiscono rilevanti fonti di informazione e di valutazione, e presumono razionalmente il comportamento futuro dell’impresa; maturano conseguentemente le proprie aspettative e giungono infine a formulare le proprie decisioni. La coerenza dei comportamenti dell’impresa con i segnali che ha inviato nel tempo e la conseguente risposta alle attese formulate dai suoi stakeholder determinano la formazione della reputazione aziendale.

La teoria situazionale della comunicazione di crisi (scct) ci fornisce un meccanismo per capire come gli stakeholder reagiranno alla ad una crisi in termini di rischio reputazionale. La scct prevede come le persone reagiranno alla strategia di risposta alla crisi. La reputazione quindi è un “capitale” importante per le aziende.

Dalle considerazioni formulate risulta evidente che la reputazione svolge un duplice ruolo:

– da un lato, costituisce un riduttore di incertezza per gli stakeholder, che ne ricavano un beneficio a fronte della presenza di asimmetrie informative e di un elevato costo per la ricerca di informazioni dirette;

– dall’altro lato, rappresenta per l’impresa un bene strategico intangibile, in grado di generare rendite e vantaggi competitivi di notevole importanza, che si traducono in un significativo miglioramento delle performance aziendali, in modo particolare quelle di natura finanziaria e di tipo sociale. Dalle numerose ricerche, condotte sia in ambito accademico che in quello professionale, emerge, infatti, che una reputazione positiva consente all’impresa di migliorare la percezione della qualità dei beni e dei servizi, di

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7 stabilire un premium price, di influenzare le decisioni di acquisto dei consumatori e, quindi, di accrescere la quota di mercato o di mantenere la fedeltà dei consumatori acquisiti, di ridurre i costi di vendita, di attrarre risorse migliori (forza lavoro maggiormente qualificata, capitali a costi più bassi, collaborazioni con i partner desiderati ecc.), di godere di una più ampia e frequente presenza sui mass media, di creare un forte goodwill che la protegga in caso di crisi.

La dimensione della corporate reputation, che presenta la relazione più stretta con la

brand equity, è quella relativa alla leadership e al successo dell’azienda; poco meno

correlata è la dimensione relativa alla correttezza nei confronti dei consumatori. La responsabilità sociale ha invece la correlazione più bassa (Page & Fearn, 2005).

Prima priorità però, è quella di proteggere gli stakeholders da tutti i possibili rischi in cui può incorrere (fisici, psicologici, finanziari); adattare le informazioni aiuta la persone ad affrontare il rischio psicologico che la crisi comporta, ovvero un forte bisogno informativo perché l’incertezza della situazione produce un alto livello di stress tra gli stakeholders. Oltre a fornire le informazioni su ciò che è successo, gli stakeholders vorranno sapere quali saranno le nuove mosse future per evitare di ricadere in crisi e si aspetteranno di essere trattati con premura ed attenzione.

Solo dopo tutto ciò l’azienda si dedicherà agli asset reputazionali. La teoria situazionale della comunicazione di crisi (SCCT) aiuta, sulla base dell’attribution theory, a valutare il rischio reputazionale ed a formulare strategie di risposta. Questa teoria descrive il modo in cui le persone tendono a spiegare le cause e gli effetti, diretti ed indiretti, degli eventi(crisi) e dei comportamenti umani, specialmente per gli eventi negativi ed inaspettati: una persona ricercherà la responsabilità di un evento e farà esperienza di una reazione emozionale all’evento. Anger(RABBIA) e Sympathy(FASTIDIO) sono le emozioni principali in questa teoria; attribuire responsabilità ed emozioni può servire come motivazione per agire. La teoria dà quindi un fondamento logico per le relazioni tra più variabili usate in scct.

1.2 Fattori che formano il rischio reputazionale

Il rischio reputazionale è tutto il danno che una crisi può infliggere sulla reputazione se non viene fatto niente; è formato da 3 fattori situazionali che sono:

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8 1. GRADO DI CONTROLLO SULLA CRISI DA PARTE DELL’AZIENDA

Questo dipende de quanto gli stakeholders credano che la crisi sia stata causata da azioni dell’azienda; più gli stakeholders danno colpe all’azienda più il rischio reputazionale sarà alto. Le valutazioni iniziali di una crisi si basano sul tipo di crisi; il tipo di crisi dipende da come la crisi è strutturata(framizzata); la struttura di una crisi è incentrata su importanza ed enfasi ed opera su due livelli:

- FRAMES del pensiero (interni)

- FRAMES della comunicazione (esterni) Questi frames derivano dalla teoria del FRAME

La teoria del frame, di Erving Goffman, è una teoria della microsociologia che afferma che la realtà non è unitaria, ma è costituita da un complesso di livelli (frames) innestati, dove ogni frame può essere costruito a partire da un altro frame. Alla base di questo complesso strutturato di livelli, vi è la realtà fisica. I frames possono essere composti attraverso due trasformazioni primarie: il framing, ovvero mettere o togliere cornici ad una realtà per ottenerne un'altra e quindi passare da un livello ad un altro, e il keying, ovvero un processo di trasposizione, come avviene nelle melodie quando si cambia la chiave o anche nelle figure retoriche (in questo modo si ottiene una realtà allo stesso livello). I livelli più bassi in cui si struttura la realtà sociale sono i frameworks, cioè gli insiemi degli oggetti fisici e il mondo sociale delle altre persone. Tutti gli altri livelli di realtà si ottengono a partire dai frameworks, applicando le trasformazioni primarie. Il limite inferiore per la stratificazione della realtà sono i frameworks, mentre non esiste alcun limite superiore.

I FRAMES DELLA COMUNICAZIONE comprendono il modo in cui l’informazione è presentata nel messaggio

I FRAMES DEL PENSIERO riguardano le strutture cognitive che le persone usano quando interpretano l’informazione. I frames della comunicazione aiutano a creare i frames del pensiero ovvero:

- come le persone definiscono i problemi

- le cause dei problemi attribuzione di responsabilità - soluzione ai problemi

I frames evidenziano alcuni fatti o valori rendendoli salienti quando le persone compiono decisioni; chi riceve il messaggio focalizzerà l’attenzione su questi fattori quando formeranno le loro opinioni e daranno il loro giudizio.

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9 I tipi di crisi sono una sorta di frames ed ogni tipo di crisi ha peculiarità differenti. Questi segnali indicano come gli stakeholders dovrebbero interpretare una crisi.

La SCCT, in base a quanta colpa è stata attribuita all’azienda da parte degli stakeholders, individua tre tipi di crisi:

- VICTIM CLUSTER “anche l’organizzazione è vittima della crisi” quindi bassa attribuzione di responsabilità.

Esempi: disastri naturali, rumors, violenza sul posto di lavoro, manomissione del pdt etc

- ACCIDENTAL CLUSTER “le azioni dell’azienda, che hanno portato alla crisi, sono state non intenzionali” quindi rischio reputazionale medio.

Ad esempio: stakeholders che dichiarano che un’azienda opera in maniera inappropriata, errori tecnici che creano disastri/richiami del prodotto

- PREVENTABLE CLUSTER “l’organizzazione, pur sapendo di mettere le persone a rischio, compie azioni inappropriate o viola le leggi” quindi alta attribuzione di responsabilità. NB evento considerato intenzionale.

Ad esempio: errori umani (vedi errori tecnici)

2. STORICO DELLE CRISI PRECEDENTI

Per verificare se ci sono state crisi in nel trascorso aziendale; se ci sono state crisi, ciò può suggerire un problema continuo che necessita di essere “aggiustato”.

3. RELAZIONE CON GLI STAKEHOLDERS PRECEDENTE ALLA CRISI Quanto bene o male è vista un’azienda in base al rapporto con gli stakeholders; se negativa, bisogna cominciare a considerarli più spesso, non solo durante la crisi. N.B. Lo storico delle crisi precedenti e la relazione con gli stakeholders hanno un effetto sia diretto sia indiretto sul rischio reputazionale; influenzano la responsabilità di crisi che è anch’essa influenzatrice del rischio reputazionale.

1.3 Gli step per la valutazione del rischio reputazionale durante una crisi

Solitamente, i managers, allo studio dei fattori situazionali, abbinano un procedimento a due step per poter valutare il rischio reputazionale; il primo step è sicuramente quello di determinare la responsabilità iniziale della crisi. La teoria della SCCT ci dice che ogni

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10 crisi genera delle informazioni specifiche e prevedibili che attribuiscono, in maniera univoca, la responsabilità; in più abbiamo appena visto che ci sono tre cluster che raggruppano i tipi di crisi in base a quanta responsabilità viene attribuita all’ azienda da parte degli stakeholders.

Nel secondo step della valutazione del rischio reputazionale, i managers analizzano lo storico delle crisi (se c’è) e le reputazioni delle relazioni (con stakeholders) precedenti alla crisi, che vengono chiamati fattori intensificanti (che aggravano la situazione) Una crisi di tipo “victim” produce lo stesso rischio reputazionale di una crisi di tipo “accidental” quando c’è uno storico delle crisi e/o una cattiva precedente relazione con gli stakeholders. Analogamente, la presenza di questi due fattori in una crisi “accidental” può creare lo stesso danno di una crisi di tipo “preventable”. I fattori intensificanti quindi, ci illuminano su come i fattori situazionali possono amplificare il rischio reputazionale di una crisi ed alterare la natura della crisi.

La responsabilità di una crisi innesca reazioni affettive; le emozioni operano su un percorso parallelo a quello della reputazione e influenzano, anch’esse, i comportamenti. Forti attribuzioni di responsabilità generano forti sensazioni di rabbia e schadenfreude (gioia derivata da insuccessi/sfortune altrui) nei confronti dell’impresa. Più sono forti negativamente rabbia e schadenfreude meno probabile sarà che gli stakeholders aiutino l’azienda.

Questo modello cerca di connettere gli effetti di una crisi alle intenzioni comportamentali delle persone coinvolte in essa; di fatto, se le crisi alterano le reputazioni e creano reazioni affettive ma non impattano sulle intenzioni comportamentali, allora non ci sarà nessuna ragione per preoccuparsi degli effetti della crisi.

1.4 Come le strategie di risposta alla crisi proteggono dalle reazioni

negative

La SCCT afferma che la comunicazione influenza la percezione delle persone. Le parole usate, le azioni intraprese dal management influenzano il modo in cui le persone percepiscono un’azienda o la crisi; queste percezioni andranno a formare la valutazione della reputazione aziendale così come anche le risposte emozionali degli stakeholders nelle future interazioni con l’azienda. Un’ altra teoria che afferma che la comunicazione influenza la percezione delle persone è la Image Restoration Theory (IRT); è un metodo

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11 descrittivo usato per analizzare casi di crisi. La caratteristica principale di questa teoria è identificare quale strategia di risposta viene utilizzata nel caso oggetto di studio e di scrivere una relazione sull’utilità della strategia di risposta nel suddetto caso. La SCCT attinge a queste strategie di risposta della IRT e le integra in un sistema in grado di predire in che modo gli stakeholder potrebbero reagire alla crisi ed alle strategie di risposta messe in atto per gestire la stessa.

Le strategie di risposta hanno 3 obiettivi principali in relazione al proteggere la reputazione aziendale ovvero:

1. Riparare la reputazione/ Ridurre attribuzione di responsabilià 2. Cambiare la percezione delle organizzazioni in crisi

3. Ridurre l’effetto dei comportamenti negativi generati dalla crisi

I crisis managers usano queste strategie di risposta per stabilire un frame o per rinforzarne uno già esistente. Nella maggior parte delle volte sono i new media che sono gli incaricati di agire su questi frame. “Ora, qualche persona in più, forse capirà perché Berlusconi ha creato Mediaset”.

1.5 Le strategie di risposta alla crisi

“Non esiste una lista perfetta delle strategie di risposta ad una crisi”, però si può sempre creare una lista che contenga delle strategie per lo meno utili.

1.5.1 STRATEGIE DI RISPOSTA PRIMARIE STRATEGIE DI NEGAZIONE (Denial)

Questa strategia cerca di opporre un frame preciso della crisi; cerca di rimuovere qualsiasi connessione tra l’organizzazione e la crisi. In crisi di tipo rumors o challenge l’azienda deve sostenere che la crisi non è reale. L’azienda nega la verità del rumor o rifiuta l’accusa di condotta immorale. N.B. Se gli stakeholders accettano il frame di rifiuto della non-crisi, l’azienda eviterà ogni altro tipo di danno reputazionale.

Attaccare chi accusa: i manager delle crisi si fronteggiano con la persona o con il gruppo d’interesse che accusa l’azienda.

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Capro espiatorio: le aziende danno la colpa a persone o gruppi di persone esterni all’ azienda per lavarsene le mani

STRATEGIE DI RIDUZIONE (Dimnish)

Scusa: i manager minimizzano la responsabilità dell’azienda dichiarando di non averlo fatto apposta o di non avere il controllo degli eventi che hanno generato la crisi. Affermano appunto un frame di crisi accidentale anche perché più facile e meno costoso da affrontare di una crisi intenzionale.

Giustificazione: minimizzare il danno avvertito dagli stakeholder

Le strategie di riduzione sostengono che una crisi non è così male come le persone pensano oppure che l’organizzazione non ha il controllo sulla crisi. I managers hanno bisogno di prove evidenti per supportare ciò e, anche se le hanno, potrebbero comunque fallire.

Il fallimento solitamente si ha quando i news media o, nel caso delle crisi on-line, le persone che postano continuamente messaggi, rifiutano il frame proposto dai managers e continuano a pensare con il proprio frame. Di fatto, le strategie di risposta, vengono usate per definire un frame iniziale o rinforzare/sostituire il frame precedente.

Agli stakeholders gli verranno presentati diversi frame, e loro sceglieranno in base a quello di cui avranno più fiducia. Questo tipo di strategia è più efficace quando rinforza un frame preesistente.

STRATEGIE DI RISTRUTTURAZIONE (Re-building)

Apology: l’azienda accetta la responsabilità per la crisi e chiede di essere perdonata. Accettare la responsabilità è il fulcro centrale di questa strategia che è anche quella che causa più conseguenze sul piano finanziario.

Compensation: l’azienda offre denaro o regali alle vittime. Sympathy: esprimere preoccupazione per le vittime.

Alcuni indizi indicano che compensation e sympathy, due strategie meno costose, sono efficaci quanto l’apology nel formare la percezione degli interessati perché esse si concentrano sui bisogni delle vittime.

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13 Per cambiare la percezione verso un’azienda in crisi, la chiave è quella di compensare i fatti negativi della crisi con passati o attuali buoni lavori portati a termine e con successo dall’azienda.

Le strategie di ristrutturazione sono la strada principale da percorrere per creare nuovi assets reputazionali; provando a migliorare la reputazione aziendale offrendo forme di aiuto, materiali o simboliche, alle vittime della crisi. Generalmente, queste strategie vengono usate in crisi che presentano un rischio reputazionale molto alto come nelle crisi intenzionali o nelle crisi accidentali che presentano uno storico di crisi o non buoni rapporti con gli stakeholders.

1.5.2 STRATEGIE DI RISPOSTA SECONDARIE STRATEGIE DI RINFORZO (Bolstering)

Bolstering: l’azienda prega gli stakeholders di rimanere, e gli affianca a ciò i cosiddetti reminder.

Reminder: l’azienda ricorda agli stakeholder tutti i bei lavori realizzati insieme per attivare un ricordo positivo

Victimage: l’azienda ricorda agli stakeholders che anch’essa è vittima della crisi

Tutte queste strategie sono utilizzate al meglio quando sono posizionate in supplemento alle strategie primarie.

Sarebbe difficile concludere che la risposta migliore alla crisi sia la strategia di rebuild, ma non sempre è così. Perché? Più è accomodante la strategia, più costosa sarà per l’azienda. La ricerca ha dimostrato che usare troppe strategie accomodanti non produce grandi benefici per le aziende; gli stakeholders potrebbero pensare che la situazione è peggio di quella che è!

N.B. Se un’azienda non può utilizzare una particolare strategia di risposta, per mancanza di determinate caratteristiche, potrà optare per la migliore strategia che viene dopo (o comunque quella meno costosa per affrontare al meglio la situazione); ovviamente si ridurrà l’efficacia per la riparazione della reputazione.

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1.6 La corporate social responsibility: asset o rischio reputazionale?

Il CSR è una pratica di business molto comune studiata in varie discipline, attraverso differenti approcci. L’idea che un’azienda abbia delle responsabilità verso la società, oltre al fatto di creare profitti per gli stakeholders, era nell’aria già da diverso tempo.

Anche se le definizioni di CSR sono varie, generalmente indicano un focus sui valori condivisi tra le varie aziende è la società; è la responsabilità di un’azienda per il suo impatto sociale.

Le crisi sono tipicamente considerati eventi che minacciano gli asset reputazionali di un azienda, ragion per cui si è andata creando una discreta letteratura sulla comunicazione di crisi in cui il punto principale è cercare di capire come difendere la reputazione durante una crisi.

Crisi (Coombs def.): la crisi è la percezione di un evento imprevedibile che minaccia importanti aspettative degli stakeholders come salute, sicurezza, ambiente e problemi finanziari che possono seriamente intaccare le performance e generare risultati negativi. Intraprendere iniziative di CSR è una caratteristica su tutte le liste delle disposizioni favorevoli considerate asset durante una crisi; queste disposizioni servono a controbilanciare l’impatto negativo potenziale di una crisi.

Studi sperimentali hanno dimostrato che un’azienda in crisi ha risultati migliori su tutti gli indicatori post-crisi quando la compagnia è ben conosciuta per essere socialmente responsabile.

N.B. Dato che il CSR interagisce con altri fattori situazionali, non è detto che esso diventi automaticamente un benefit. Uno di questi fattori, ripreso sulla falsa riga dei fattori situazionali di una crisi, sono le azioni di CSR effettuate prima della crisi.

Come con le relazioni con gli stakeholders precedenti alla crisi, anche in questo caso le aziende con lunghe storie di CSR hanno tratto grandi benefici rispetto alle aziende concorrenti con una storia più corta.

Occorre precisare che il CSR è un asset in caso di crisi Corporate Ability (CA) ed è un rischio potenziale in una CSR-based challenge. La CA in parole povere, non è altro che l’abilità, percepita dai consumatori, di un’azienda nel produrre e distribuire beni o servizi.

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1.7 La corporate social responsibility vista come rischio di una crisi

Quasi tutti gli studi effettuati sul CSR e le crisi hanno sempre considerato il csr come un asset/bene durante una crisi. Il csr come rischio di una crisi è una funzione diretta dell’aumento di importanza del ruolo del csr nel reputation management.

La CSR gioca un ruolo molto importante nella creazione della reputazione aziendale: uno studio dell’institute of reputations afferma che il 42% della reputazione di un’azienda è basato sulle percezioni sugli sforzi in CSR. Le percezioni, in questo caso, sono collegate ad importanti outcomes tipo il “word of mouth” (wom) ovvero il passaparola.

Se le aziende non dimostrano i giusti interessi sociali o ambientali, le loro reputazioni potrebbero venir danneggiate; gli stakeholders sono molto più attenti a ciò.

Y.J. Sohn e R.W. Lariscy hanno ridefinito la crisi reputazionale come un “evento maggiore che ha il potenziale di minacciare le percezioni collettive e le opinioni degli stakeholders più rilevanti”.

Ma come può la CSR creare il rischio per una crisi se la CSR viene tipicamente considerata come un asset(bene) per l’azienda? Innanzitutto è opportuno distinguere tra crisi di tipo CA e di tipo CSR.

Crisi CA: evento critico che influenza negativamente la reputazione di un’azienda associata ai prodotti/servizi distribuiti, alle innovazioni tecnologiche ed alla leadership industriale.

Crisi CSR: evento maggiore che minaccia la reputazione associata a norme e valori tanto cari alla società e socialmente attesi. Queste crisi danneggiano molto di più la fiducia degli stakeholders.

Impegnandosi pubblicamente in sforzi in csr per accrescere il valore dell’azienda, i manager possono creare nuovi rischi per una eventuale crisi. Quando il csr si integra alla reputazione aziendale e diventa una pubblica aspettativa, allora le percezioni di comportamenti sociali irresponsabili diventano minacce alla reputazione.

1.8 La csr-based challenge e la creazione di una crisi

Otto Lerbinger fu il primo ad indentificare questo tipo di challenge; in questo tipo di crisi, non c’è nessun evento specifico scatenante; basta solo che uno specifico gruppo di

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16 stakeholders inizi a manifestare pubblicamente che l’impresa si sta comportando in modo irresponsabile. Ciò può scatenarsi in una vera e propria crisi se anche altri gruppi di stakeholders iniziano ad appoggiare la “challenge” iniziale.

A questo punto è importante distinguere tra le crisi csr-based e le crisi che possono venire a crearsi dal concetto di “green-washing”. In entrambi i casi, un comportamento irresponsabile può esporre pubblicamente l’impresa e danneggiare la reputazione. Il green-washing non è altro che l’abilità da parte di un’azienda di ingannare gli stakeholders con annunci di benefici ambientali o miglioramento di performance che non sono affatto veritieri; l’azienda ingigantisce il suo impegno in responsabilità ambientale. L’azienda quindi viene vista come “ipocrita” quando si scopre che non è così attenta all’ambiente di come si pensava.

Al contrario, in una csr-based challenge si può creare una crisi semplicemente ridefinendo le pratiche di csr come irresponsabili; l’impresa viene criticata perché le azioni compiute fino a quel momento, magari sono obsolete o non bastano più e quindi devono “impegnarsi di più”.

1.9 Irresponsabilità sociale d’impresa

Lange e Washburn hanno utilizzato la attribution theory per cercare di spiegare come sono formati i punti di vista degli stakeholders in riguardo ai comportamenti irresponsabili (Modello CSIR). Si comincia con l’ipotesi che le persone fanno analisi spontaneamente (sense making) e dopo questo cercano un colpevole/responsabile. Questo modello si basa su 3 punti fondamentali:

1. Gli stakeholder riconoscono che c’è un outcome sociale indesiderato 2. Gli stakeholders percepiscono l’azienda come responsabile di ciò

3. Gli stakeholders non devono pensare che le vittime siano complici in ciò; se le vittime sono complici in ciò, allora la responsabilità diminuisce, e di molto. Esso rappresenta un tentativo, da parte degli stakeholders, di provare a controllare il senso dei comportamenti aziendali.

1.10 Challenge e risposta

Ad una csr-based challenge, i manager possono rispondere in modi diversi. Per capire come i manager possano rispondere è opportuno spiegare la retorica dell’agitazione e del

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17 controllo che è una struttura teorica sviluppato in studi sui movimenti sociali per capire come rispondevano le istituzioni alle proteste.

La PETIZIONE segna l’inizio dell’interazione di agitazione e controllo; per una csr-based challenge si ha una petizione quando lo sfidante chiede all’azienda di correggere quei comportamenti che ritengono socialmente irresponsabili. Un fallimento della petizione può minare la credibilità dello sfidante. L’azienda in queste occasioni può affermare di essere stata accusata ingiustamente perché avrebbe apportato i cambi, se gli fosse stato detto normalmente e senza proteste.

L’AGITAZIONE si ha quando gruppi esterni alle istituzioni, cercano di cambiare le istituzioni stesse. Gli stakeholders sfidanti, di solito, sono al di fuori delle posizioni decisionali dell’azienda, quindi unacsr-based challenge è una forma di agitazione. Quando le aziende rifiutano la challenge, allora gli sfidanti possono ricorrere a tecniche extra istituzionali proprio per aumentare la consapevolezza riguardo questo problema sociale e quindi ottenere il supporto. Una delle tecniche extra istituzionali più usate negli ultimi anni sono i social media che hanno avuto un impatto molto forte nel supporto agli sfidanti, ma non solo. Queste tecniche sono più simili alla teoria della promulgazione dell’agitazione. La PROMULGAZIONE cerca di rendere le persone consce di un problema e crea supporto sociale per lo sfidante; viene utilizzata solo quando la petizione fallisce. Essa crea una situazione nel quale le istituzioni devono decidere come risponderanno alla sfida.

Ci sono 4 strategie di controllo:

1. AVOIDANCE: questa strategia cerca di far capire agli stakeholders che si sbagliano.

2. SUPPRESSION: comprende gli sforzi compiuti per far zittire il portavoce degli agitatori

3. ADJUSTMENT: quando vengono apportati dei cambi negli obiettivi, nelle strutture o nel personale.

4. CAPTITULATION: significa apportare tutti i cambi richiesti dagli agitatori Le strategie di risposta ad una crisi csr-based sono relazionate alla comunicazione di crisi ma seguono la dinamica della teoria dell’agitazione e controllo. Queste strategie derivano dalle strategie di risposta della image restoration theory e della teoria del controllo.

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18 L’image restoration theory è una teoria unica perché integra l’apology con l’account analysis che ovvero la spiegazione del perché dei nostri comportamenti agli altri che può essere usata nelle strategie di risposta. Di seguito una tabella con le strategie di risposta dell’image restoration theory e della teoria del controlla associate alle strategie di risposta di una csr-based challenge.

Tab.1 IMAGE RESTORATION THEORY STRATEGIE DI CONTROLLO RISPOSTE AD UNA CSR-CHALLENGE Silenzio Refusal

Negare Avoidance Refutation

-Negare con le prove -Contestare

Attaccare chi accusa Suppression Repression

Defeasibility Recognition/reception

Azioni correttive Adjustment Revision

Azioni correttive Capitulation Reform

Le strategie di risposta a disposizione dei manager, quando si trovano ad affrontare una CSR-based challenge sono quindi 6:

1. REFUSAL (Rifiuto)

Avviene quando i manager ignorano la challenge e non danno risposta. Non è presente una strategia di controllo equivalente in quanto, ignorando la challenge, non c’è niente da controllare. Anche se la strategia equivalente dell’image restoration theory è il silenzio, Benoit (il padre di queste teoria)) è più incline a strategie proattive.

2. REFUTATION (Confutazione)

Cerca di dimostrare che la challenge è inutile e si riflette con la strategia dell’avoidance, dove si contro persuadono gli sfidanti per mantenere la situazione attuale dell’azienda. Solitamente i managers, in questi casi, affermano di essere conformi con le aspettative dei propri stakeholders e per questo non necessitano

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19 alcuna modifica. Le due sotto-categorie della strategia di refutation sono la negazione con le prove e la contestazione.

Nel primo caso, l’azienda comunica che non c’è nessuna violazione e fornisce delle prove su come l’azienda stia compiendo con le aspettative degli stakeholders. È questa un’evoluzione della risposta di negazione della image restoration theory. I managers possono quindi affermare che la situazione si è creata perché non si era a conoscenza di ciò oppure perché si sono fraintesi i comportamenti dell’azienda.

La contestazione invece può generare dibattiti riguardo ai meriti di queste rivendicazioni; se il gruppo di stakeholders che sostiene la causa è ristretto, i managers possono sostenere il fatto che la maggior parte degli stakeholders è soddisfatta riguardo le aspettative derivanti dalle azioni di csr dell’azienda e quindi sostenere l’invalidità della challenge.

3. REPRESSION (Reprimere)

Comprende gli sforzi per frenare l’espansione della challenge ed è simile alla strategia suppression della teoria del controllo ed alla strategia di attaccare lo sfidante della image restoration theory. Minacciare gli sfidanti con una causa legale è una tipica strategia utilizzata dalle aziende per zittire le critiche degli sfidanti (il costo di una causa può essere la sola causa di rinuncia alla challenge da parte dello sfidante).

Ciononostante la strategia di repression si può rivelare una vittoria pirrica; in più, delle tattiche di repressione così dure, possono generare delle ripercussioni perchè gli stakeholder possono essere dispiaciuti per delle così dure risposte (causa legale).

4. RECOGNITION/RECEPTION

Questa strategia si applica quando l’azienda riconosce il problema e le preoccupazioni delle parti interessate. Tuttavia, l’azienda non si compromette per cambiare le cose ed il tutto può anche finire li.

Questa teoria presenta delle similitudini con la strategia della Defeasibility dell’image restoration theory di Benoit: Si riconosce che c’è una crisi ma l’azienda si distanzia da essa e fa molto poco per indirizzare le colpe (vaghi).

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20 5. REVISION

Questa strategia si utilizza quando i manager fanno modifiche “minori” comunque coerenti con le richieste degli sfidanti. In effetti qualche cambio c’è ma non è esattamente il cambio richiesto dai challengers; inoltre, i managers non riconoscono che il cambio apportato sia frutto delle richieste derivanti dagli sfidanti.

Questa strategia è praticamente uguale alla tecnica dell’adjustement delle strategie di controllo ed alla azioni correttive della image restoration theory.

6. REFORM

Succede quando i managers riconoscono il problema e si impegnano per risolverlo con ogni mezzo insieme anche all’aiuto degli stakeholders per non incorrere in un outcome sociale indesiderato. In questo caso la challenge è legittimata perché c’è una collaborazione tra azienda e sfidanti per cambiare i comportamenti dell’azienda.

Grazie a questa collaborazione, anche gli altri stakeholders potranno tranquillizarsi del fatto che la soluzione sicuramente andrà a correggere gli attuali comportamenti indesiderati.

Questa strategia si riflette in quella della capitulation dove l’azienda cede a tutte le richieste degli sfidanti.

1.11 Influenze nelle risposte delle aziende

Quando si è nella fase iniziale della CSR-based challenge, l’importanza del challenger gioca un ruolo molto importante per i manager dell’azienda sfidata; più è importante lo sfidante, più sarà data priorità alle sue affermazioni. Il professor Ronald K. Mitchell, nel suo libro sulla teoria degli stakeholders, ha classificato l’importanza degli stessi sulla base di 3 fattori: potere, legittimazione ed urgenza. Più fattori possiedono, più sono in grado di attirare l’attenzione delle aziende. Quando si comincia una challenge, il primo fattore che viene fuori di solito è l’urgenza infatti comunicando la challenge, gli sfidanti indicano che la sfida è importante e che l’azienda dovrebbe subito fare qualcosa al riguardo. Se gli sfidanti dimostrano solo il fattore dell’urgenza, sicuramente avranno poca rilevanza per i manager a cui spetta valutare ciò. I challenger però possono provare ad aumentare

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21 la loro importanza dimostrando che le affermazioni fatte sono legittime: possono affermare che le loro preoccupazioni ed i cambi richiesti potrebbero essere condivisi da altri stakeholder e se i manager credono in ciò, allora riconoscono la legittimità della sfida. Se i manager invece non dovessero riconoscere ciò e gli sfidanti ricevessero l’appoggio di altri stakeholders, allora lo sfidante acquisterebbe anche il potere e la challenge acquisterebbe una rilevanza tale per cui i managers non possano più tentare di nasconderla. Prendere delle decisioni per i managers quindi non è di certo una passeggiata; di fatto essi non prendono decisioni in uno spazio vuoto, qualsiasi decisione prendano porterà automaticamente a delle conseguenze. Ogni challenge richiede dei cambi nei comportamenti finora adottati ed ogni cambio di questo tipo comporta dei costi materiali. I managers devono quindi determinare se l’azienda può permettersi di apportare i cambi richiesti; anche una challenge grave può essere rifiutata se i costi associati all’ applicazione dei cambi sono proibitivi. Anche la strategia aziendale diventa una limitazione al momento di valutare se applicare i cambi richiesti perché i managers non vogliono applicare cambi che violino la core strategy dell’azienda.

1.12 Affermazioni che guidano i comunicatori d’azienda

Basandosi sulla valutazione dello sfidante e sui cambi proposti, si è arrivati a poter fornire delle linee guida per i managers che tentano di gestire il rischio creato da una CSR-based challenge.

1. Le aziende dovrebbero limitarsi all’uso della strategia refusal solo nelle situazioni in cui la challenge è illegittima.

2. Le aziende dovrebbero limitarsi all’uso della refutation strategy in situazioni dove la challenge sia, di fatto, sbagliata, illegittima, troppo costosa oppure contraria alla strategia aziendale.

3. Le aziende dovrebbero utilizzare una strategia di tipo repress in circostanze in cui la challenge dica il falso e quindi danneggi l’azienda.

4. Le aziende dovrebbero utilizzare la strategia di recognition/reception quando il challenger sia legittimo ed abbia molto potere e l’azienda non possa affrontare i costi per apportare i cambi richiesti o questi ultimi siano contrari alla strategia aziendale.

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22 5. Le aziende dovrebbero utilizzare le strategie di revision/reform qualora lo sfidante abbia tutti e 3 i fattori d’importanza ed i cambi richiesti siano ad un costo non troppo esagerato ed in linea con le strategia aziendale.

1.13 Esempi di csr-based challenge

-Burberry’s

Nel Gennaio del 2014 l’azienda Inglese Burberry ha annunciato che entro il 2020 qualsiasi prodotto dell’azienda non conterrà più elementi chimici tossici. Anche se non comunicato dalla stampa, questo impegno da parte dell’azienda inglese è stato provocato dalle pressioni provocate dalla campagna “Little monsters”, orchestrata dalla onnipresente Green Peace; Più di 10000 tweets, migliaia di post su Facebook e sit-in di protesta in 6 Nazioni differenti, tutti chiedendo all’azienda di “disintossicare” i prodotti, hanno portato Burberry’s ad impegnarsi in ciò in brevissimo tempo.

- Pasta Barilla

Non molto tempo fa, l’azienda italiana Barilla era semplicemente l’ennesima grande società entrata in conflitto con i movimenti per i diritti LGBT: un guaio che si era procurata quando il patron Guido Barilla aveva detto che non avrebbe mai mostrato una coppia gay all’interno di una pubblicità del marchio Barilla. Se questo non fosse piaciuto ai gay, aveva aggiunto, che mangiassero qualcos’altro.

Ma a dimostrazione di come questa uscita si sia rivelata dannosa, nell’anno successivo a questa dichiarazione la Barilla ha cambiato completamente posizione, estendendo tutele sanitarie ai propri lavoratori transgender e alle loro famiglie, donando soldi a cause pro gay e mostrando una coppia di lesbiche in un sito Internet promozionale.

Barilla è passata dal sembrare insensibile ai diritti LGBT a diventare un modello esemplare: recentemente ha ricevuto un punteggio pieno da un’associazione LGBT che dà un voto a ciascuna società in base alla loro attitudine positiva verso i gay e ha aderito a Parks, un’associazione composta esclusivamente da datori di lavoro che vogliono “realizzare al massimo le opportunità di business legate allo sviluppo di strategie rispettose della diversità”. Quella di Barilla è un’inversione di marcia che mostra come le grandi società – che tipicamente cercano di evitare controversie di questo tipo – siano sempre più costrette a prendere una posizione nella battaglia culturale in merito ai diritti

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23 dei gay e al matrimonio fra persone dello stesso sesso; e quanto lo schieramento filo-LGBT sia oggi in vantaggio.

Spiega Mary-Hunter McDonnell, professoressa di strategia commerciale alla Georgetown University, che il problema per queste società non è il profitto a breve termine: le campagne di boicottaggio raramente condizionano le entrate in maniera diretta. Piuttosto però «minacciano l’immagine pubblica di una certa società e la sua reputazione»: se un certo brand viene “marchiato”, può essere seriamente danneggiato. Bob Witeck, consulente di crisi societarie specializzato sui problemi legati ai gay, ha detto che in passato le società dovevano stare attente a non infastidire le associazioni che si opponevano agli omosessuali. Vent’anni fa Witeck aiutò American Airlines a superare le critiche che gli erano arrivate per aver deciso di fare campagne pubblicitarie rivolte ai gay. Il suo consiglio, all’epoca, fu spiegare a chi si era opposto che aveva semplicemente fatto una scelta conveniente dal proprio punto di vista economico.

Più di recente l’opinione generale è cambiata a tal punto che oggi è una cosa positiva, per una società, essere considerata favorevole alla causa LGBT: particolarmente dai clienti giovani, che secondo Witeck potrebbero aver interpretato la posizione passata di Barilla come “stupida e arretrata”. Starbucks, Nike e Microsoft, per esempio, nel 2012 hanno supportato la campagna per legalizzare il matrimonio gay nello stato di Washington. Nel caso di Barilla – una società di 130 anni con sede a Parma, che attualmente è il più grande produttore mondiale di pasta – ci fu una grande polemica quando nel settembre 2013 Guido Barilla disse a una radio italiana: «Non farei uno spot con una famiglia omosessuale, ma non per mancanza di rispetto verso gli omosessuali che hanno il diritto di fare quello che vogliono senza disturbare gli altri, ma perché non la penso come loro e penso che la famiglia a cui ci rivolgiamo noi è comunque una famiglia classica». Aggiunse: «Se ai gay piace la nostra pasta e la comunicazione che facciamo mangeranno la nostra pasta, se non piace faranno a meno di mangiarla e ne mangeranno un’altra». Le dichiarazioni di Barilla circolarono in tutto il mondo e provocarono boicottaggi anche negli Stati Uniti, dove la società controlla il 30 per cento del mercato di pasta (e dove ha venduto prodotti per 430 milioni di dollari nel 2013). L’Università di Harvard aveva rimosso Barilla dalla propria mensa, le associazioni LGBT avevano invitato a consumare pasta prodotta da altri marchi e gli avversari di Barilla colsero l’occasione per mostrarsi

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24 più progressisti (la divisione tedesca della pasta Bertolli pubblicò su Facebook un’immagine con una didascalia che promuoveva “pasta e amore per tutti!”).

Guido Barilla si è scusato diverse volte in video a seguito dello scandalo. In un comunicato si è scusato nuovamente, aggiungendo: «sono fiero di dire che alla fine di queste discussioni abbiamo tutti imparato molto riguardo la definizione e il significato di “famiglia”, e negli scorsi anni abbiamo lavorato duro per far sì che quel pensiero fosse riflesso a tutti i livelli della nostra società».

Alcuni degli attivisti gay che hanno lavorato con Guido Barilla in seguito alle sue dichiarazioni hanno detto che il suo pentimento è sincero. David Mixner, un rispettato attivista LGBT e scrittore che ha lavorato come consulente di Barilla, ha detto che Guido Barilla «era sconvolto dalle conseguenze e dalle sue convinzioni personali». Mixner ha definito che le recenti iniziative di Barilla sono «lo sforzo più completo per rimediare a una gaffe al quale io abbia mai preso parte».

Seth Adam, un portavoce di GLAAD, un gruppo per i diritti LGBT che ha incontrato Barilla, ha detto che è importante riconoscere quando una persona ha attraversato «un’evoluzione» a favore dei diritti dei gay. Ha aggiunto Adam: «non sto concedendo a chiunque la facoltà di fare affermazioni discriminatorie. Penso che sia positivo impararne delle cose, e credo che possiamo vederne gli effetti sia sui politici sia sulle persone di tutti i giorni».

Il Corporate Equality Index, compilato annualmente da Human Rights Campaign (la più grande associazione pro LGBT degli Stati Uniti), è basato sulle politiche interne e l’immagine di ciascuna azienda. Barilla, ad un anno e mezzo dalla dichiarazione ha ottenuto un punteggio di 100/100: notevole, dato che delle 781 società che hanno chiesto di essere valutate meno di metà hanno ottenuto un punteggio pieno. Addirittura Barilla, negli anni successivi, è arrivata a non chiedere di essere valutata.

Deena Fidas, direttrice delle politiche sul posto di lavoro per HRC, ha detto che «è piuttosto inusuale, per un’azienda, passare da un estremo all’altro nel giro di un anno. Alcune persone potranno speculare sulle motivazioni di Barilla: alla fine, però, è un fatto che la società abbia adottato pratiche inclusive nei confronti degli omosessuali che solo un anno fa erano inesistenti».

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25 Talita Erickson, capo della divisione aziendale che si occupa della “diversità”, ha detto che la società ha dimostrato la sua sincerità attraverso i fatti. Ha spiegato che la sua copertura sanitaria include ora la cure per il trattamento necessario ai transgender. Ha istituito un corso per il rispetto della diversità che tutti i suoi ottomila dipendenti frequenteranno. Ha esteso le sue politiche anti discriminatorie per coprire le persone omosessuali e transgender. La società ha anche versato soldi alla Tyler Clementi Foundation, un’associazione contro il bullismo fondata dai genitori di uno studente gay della Rutgers University, morto suicida; e ha mostrato una una coppia lesbica proprio in un sito che promuove l’abitudine delle famiglie di mangiare assieme.

Ma quindi una coppia omosessuale comparirà mai in una pubblicità televisiva? Non subito, ha detto Erickson, spiegando che la società non vuole apparire frettolosa in seguito alle critiche: «per quello che ne so siamo assolutamente disponibili a mostrare membri della comunità LGBT nelle nostre pubblicità, in futuro. Accadrà gradualmente».

Questo è un caso esemplare di capitulation anche se Barilla è cmq riuscita ad ottenere degli sconti.

-Volkswagen

Questa settimana Volkswagen ha guadagnato il titolo di leader mondiale sulle vendite superando Toyota, raggiungendo i 10 miliardi e 300 milioni di auto vendute. Una notizia che, senza dubbio, sorprende molti, soprattutto calcolando lo scandalo che ha dovuto affrontare nel 2016 per il trucco ai misuratori di emissioni.

La scoperta di questo inganno non è tanto grave quanto il fatto che il gruppo, nella pubblicità, si vantava del suo impegno nella cura dell’ambiente. Le prime conseguenze dello scandalo fecero cadere la testa CEO della compagnia, Martin Winterkorn, che, dopo aver ammesso l’errore, si dimise dall’incarico. Da allora la compagnia ha intrapreso un duro e lungo cammino volto a recuperare la propria reputazione con una strategia di PR che ha eliminato il famoso slogan “Das Auto” e qualsiasi riferimento a motori eco-sostenibili.

A questo si sommò la creazione di un “consiglio di integrità e questioni legali” guidato da Christine Hohmann Dennhardt e lungi dal ridurre le spese pubblicitarie, la compagnia rafforzò la comunicazione con intense misure di mediazione e una campagna che puntava sulla storia della azienda.

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26 I risultati parlano da soli. Volkswagen ha registrato un aumento della consapevolezza di 5 punti nel gennaio 2016. Cosicché, quantunque alcuni dati siano sempre inferiori a prima della crisi, il suo punteggio per quanto riguarda la qualità del prodotto è 10 punti più alto rispetto al 2015.

“Il lavoro di Volkswagen per la ricostruzione della sua reputazione nel corso degli anni ha contribuito a migliorarla e ad assicurare una posizione di leader mondiale” spiega Nial Quinn, vice direttore delegato e capo della Reputation Agency.

Il caso Volkswagen evidenzia l’importanza di investire nella costruzione della reputazione e coloro che lo fanno affrontano meno pregiudizi e recuperano più rapidamente la reputazione rispetto a chi non adotta certe tecniche di branding.

“Anche se la pubblicità può aiutare a superare le crisi delle aziende, Volkswagen aveva bisogno di una strategia precisa e pianificata di PR per risolvere la questione data la sua complessità” aggiunge Quinn. C’è da notare come Volkswagen sia cresciuta di un 14,1% nel mercato cinese, dove sicuramente si vendono solo veicoli diesel, quelli incriminati a causa delle emissioni.

Questo caso, personalmente parlando, è un buon punto di partenza per far capire un po’ al mondo intero come l’eccesso informativo ci sta rendendo degli individui sempre meno interessati alla conoscenza profonda delle cose o possiamo anche chiamarlo “disturbo dell’attenzione” con o senza iperattività.

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Cap. 2

M

etodo della ricerca

Per analizzare le relazioni causali che intercorrono tra i vari tipi di crisi, le strategie di risposta e tutti gli stakeholder interessati in termini d’impatto sui consumatori, è stato effettuato un esperimento. Di seguito, prima di analizzare il tipo di ricerca eseguita ed analizzare il questionario somministrato, sono riprese le logiche sottostanti a tale metodologia.

2.1 Le relazioni causali

Da sempre gli uomini si sono posti domande sulle cause di quanto nel mondo circostante accadeva: sia che si trattasse dell’influenza degli astri sugli avvenimenti terreni, o dell’azione della pioggia sulla crescita del grano, fin dai tempi più remoti essi hanno cercato di capire come un fenomeno potesse influenzarne un altro. Tuttavia, malgrado l’appartenenza del concetto di «causa» all’idea stessa di «scienza», esso sembra uno dei più controversi sul piano filosofico e uno dei più difficili da tradurre in termini operativi; uno dei più esposti a quel «divario tra il linguaggio della teoria e quello della scienza che non può mai essere colmato in maniera del tutto soddisfacente» (Blalock 1961). Problema, questo, presente in tutte le scienze, ma in maniera particolare nelle scienze sociali, che solo in casi assai rari possono avvalersi dello strumento principe per valutare empiricamente una relazione causale: l’esperimento (Corbetta 2003)

In generale possiamo dire che è opinione condivisa il fatto che «il pensiero causale appartiene completamente al livello teoretico e che le leggi causali non possono mai essere dimostrate empiricamente» (Blalock 1961); è per questo che viene spesso utilizzato il concetto di «previsione» (in luogo di causazione), soprattutto dagli statistici, per aggirare l’obiezione empirista alla stessa idea di causa.

Per poter corroborare empiricamente un’ipotesi di relazione causale fra due variabili, bisogna poter disporre di elementi empirici su tre aspetti: la covariazione fra variabile indipendente e dipendente, la direzione della causalità ed il controllo su altre possibili cause. Occorre però procedere alla relativa distinzione fra variabili dipendenti e variabili indipendenti. In una relazione asimmetrica tra due variabili, quando cioè una variabile influenza un’altra, chiamiamo variabile indipendente la variabile che influenza, e variabile dipendente la variabile che è influenzata. Nella relazione fra classe

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29 sociale e orientamento politico, la classe è la variabile indipendente, e l’orientamento politico è la dipendente. Se la relazione di dipendenza è di tipo causale, la causa è la variabile indipendente e l’effetto è la variabile dipendente. In una relazione bivariata, indicheremo con X la variabile indipendente e con Y la dipendente.

 Covariazione fra variabile indipendente e dipendente. Occorre innanzitutto poter osservare una variazione della variabile indipendente, di quella cioè che sul piano teorico si ipotizzi essere la «causa». Per esempio, se si vogliono avere elementi empirici a conferma dell’affermazione teorica che l’individualismo sociale produce un alto tasso di suicidi, bisognerà poter osservare situazioni (società, gruppi sociali) a differente grado di individualismo (per esempio, società protestanti e società cattoliche; persone inserite o meno in una rete di relazioni sociali, come i coniugati con figli e i non coniugati, ecc.). Non si potrebbe procedere a osservazioni empiriche sull’influenza della coesione sociale sul tasso di suicidio se si osservassero situazioni nelle quali la variabile indipendente (coesione sociale) sia costante. Contemporaneamente al variare della variabile indipendente, occorre poter osservare una variazione della variabile dipendente. Nel linguaggio statistico, si dice che si deve poter osservare una «covariazione» fra le due variabili: al variare dell’una varia anche l’altra. Se la teoria afferma l’esistenza di un nesso causale fra individualismo sociale e tasso di suicidio, dobbiamo poter osservare che nelle società a più alto grado di individualismo c’è anche un più alto tasso di suicidi.

 Direzione causale. Bisogna, in qualche modo, essere in grado di osservare che al variare della variabile indipendente consegue una variazione della variabile dipendente, ma che non è vero il contrario. Si può stabilire empiricamente questo fatto sostanzialmente in due modi. Mediante la manipolazione della variabile indipendente: se il ricercatore è in grado di far variare con la sua azione la variabile X, e a seguito di questo atto osserva una variazione della variabile Y, non ci sono dubbi sul fatto che – se esiste un nesso causale – la sua direzione va da X a Y e non viceversa.

Questa strada è percorribile solo nel caso dell’esperimento, il quale, prevede la possibilità di una variazione artificiale (manipolazione) di una delle due variabili. Quando non cisi può servire di questa possibilità, si può stabilire la direzione del

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30 nesso causale mediante il criterio della successione temporale, il quale nasce dall’osservazione che la variazione della variabile indipendente X precede la variazione della dipendente Y. Se si afferma che una socializzazione impregnata di valori religiosi (X) genera in età adulta un atteggiamento più intollerante verso le ideologie diverse (Y), il fatto che la prima variabile preceda nel tempo la seconda stabilisce la direzione del nesso causale. Così la covariazione fra titolo di studio e retribuzione del lavoro, se osservata e interpretabile in senso causale, non può essere letta se non nella direzione che il titolo di studio influenza le caratteristiche della successiva posizione occupazionale. Va aggiunto che alcune direzioni causali sono da escludersi per impossibilità logica. Se si afferma che esiste un nesso causale fra classe sociale e orientamento politico, esso può esistere solo nella direzione che va dalla prima variabile alla seconda (non è pensabile che un individuo, a seguito di una modifica delle sue propensioni politiche, passi da una classe sociale a un’altra).

 Controllo delle variabili estranee. Bisogna poter escludere la variazione, simultanea al variare della variabile indipendente, di altre variabili a essa correlate che potrebbero esse loro stesse, invece che la variabile indipendente studiata, le cause del variare della dipendente. Se il tasso di suicidi nelle regioni aumenta passando da regioni cattoliche a regioni protestanti, ma se tutte le regioni protestanti analizzate sono tedesche e quelle cattoliche sono francesi, non si è in grado di dire se la causa del differente tasso di suicidi è la religione o la nazionalità.

Va osservato che questo terzo elemento osservativo è assolutamente necessario per poter parlare di controllo empirico della relazione causale. In particolare va sottolineato che l’osservazione empirica del solo primo aspetto, quello della covariazione, non è sufficiente per poter parlare di causazione. C’è una sorta di slogan in proposito, che dice che covariazione non significa causazione (The Oxford Handbook of Causation 2009 e Immanuel Kant prima). Non solo i due concetti sono ben distanti sul piano della loro collocazione: il concetto di causalità appartiene all’ambito teorico, mentre quello di covariazione a quello empirico. Ma una covariazione non può mai essere adottata come unica prova empirica a sostegno dell’esistenza di una relazione causale. In altre parole, può esistere covariazione senza che esista causazione.

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31 Insomma, se è vera l’affermazione teorica che X è causa di Y, allora si dovrebbe poter osservare, sul piano empirico, che una variazione di X – tenendo costanti tutte le altre possibili cause di Y– è accompagnata da una variazione di Y. Ma come si può tenere costanti tutte le altre possibili cause di Y? La risposta è diversa a seconda che ci muoviamo secondo la logica dell’analisi della covariazione oppure secondo quella dell’esperimento.

Gli scienziati hanno a disposizione due tecniche base per controllare empiricamente un’affermazione causale (Corbetta 2003): l’analisi della covariazione nel suo naturale realizzarsi e la situazione artificiale dell’esperimento. Occorre sottolineare due aggettivi: naturale per l’analisi della covariazione, consistente nell’analizzare le covariazioni così come si presentano nelle situazioni sociali non manipolate dal ricercatore; artificiale per l’esperimento, in quanto si realizza in laboratorio e la variazione della variabile indipendente è prodotta dal ricercatore.

Esempio: lo stesso interrogativo (l’impatto della propaganda televisiva sugli orientamenti

politici dei cittadini) viene affrontato con le due differenti procedure, servirà per chiarire i due modi di affrontare il problema. Si consideri una situazione in cui ci sono due candidati A e B alla presidenza della nazione, che si sono serviti nel corso della campagna elettorale della televisione per comunicare i propri programmi e acquisire il consenso degli elettori. È noto che il voto è influenzato da una infinità di variabili «indipendenti», quali l’età, il genere, l’istruzione, la classe sociale, la religione, l’orientamento politico familiare, ecc.; si prenda in ipotesi di non essere interessati all’impatto di queste variabili, ma solo all’influenza della propaganda televisiva. Se dunque X è la variabile «esposizione alla propaganda televisiva», per semplicità dicotomizzata nelle due alternative «ha seguito/non ha seguito la campagna elettorale in televisione», e Y è la variabile dipendente «voto» anch’essa dicotomizzata in «voto per il candidato A/voto per il candidato B», lo scopo del ricercatore è quello di mettere in relazione le variazioni delle due variabili X e Y, per verificare se al variare dell’esposizione alla propaganda televisiva X varia anche il voto Y.

2.2 Analisi della covariazione

Nel caso di un disegno di ricerca impostato secondo la logica dell’analisi della covariazione, si tratterà di intervistare un campione di soggetti, di fare alcune domande sulle caratteristiche sociodemografiche di base (per esempio, sulle variabili sopra

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32 menzionate come età, genere, istruzione, ecc.), di chiedere se e quanto hanno seguito la campagna elettorale in televisione e per quale candidato hanno votato. Se esiste una correlazione fra le due variabili, nel senso che fra i più esposti alla propaganda televisiva esiste anche una maggior frequenza di voto per il candidato conservatore A, si può affermare che la televisione ha giocato a favore di questo candidato, cioè che la propaganda politica in televisione ha influenzato il voto nella direzione del candidato A. Certamente non si è nelle condizioni di poter affermare una cosa del genere (Corbetta 2003). Infatti, i due gruppi di cittadini, quelli che hanno guardato la televisione e quelli che non l’hanno guardata, non sono diversi fra loro solo per questa variabile: probabilmente coloro che guardano di più la televisione sono persone che vivono di più la casa, donne piuttosto che uomini, anziani piuttosto che giovani, ecc. Per esempio, se le persone che guardano di più la televisione sono più anziane della media, non possiamo sapere, a partire dalla correlazione osservata fra esposizione alla televisione e voto per A, se la vera causa che orienta il voto è l’età o l’esposizione alla propaganda televisiva. Le due variabili sono infatti «confuse»: quelli che guardano di più la televisione sono anche più anziani. Essi votano per A perché sono più anziani o perché guardano di più la televisione? Pur osservando nei dati una covariazione fra X (esposizione alla propaganda televisiva) e Y (voto), può darsi che il vero elemento causante sia l’età, la quale influenza entrambe le variabili X e Y: l’età influenza l’ascolto televisivo (i più anziani guardano di più la televisione) e l’età influenza il voto (i più anziani sono più conservatori). In questo caso la covariazione fra esposizione alla propaganda televisiva e voto rappresenterebbe un classico esempio di quella che in sociologia viene chiamata relazione spuria. Per relazione spuria si intende una covariazione fra due variabili X e Y, che non deriva da un nesso causale fra loro, ma dal fatto che esse sono entrambe influenzate da una terza variabile Z (nell’esempio precedente l’età); il variare di Z provoca (per un’azione causante) la variazione simultanea di X e Y senza che fra queste ultime ci sia un nesso causale.

In un caso come questo il ricercatore dispone di due modi per accertarsi che la relazione fra X e Y non sia di fatto dovuta all’azione esterna di Z sulle due variabili: a) la procedura del controllo, cioè della trasformazione delle variabili estranee in costanti, e quella b) della depurazione, cioè della determinazione per via matematica e della conseguente eliminazione degli effetti delle variabili estranee.

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33 Nel primo caso si tratta di tenere sotto controllo le variabili di potenziale disturbo. Se le persone che guardano di più la televisione sono mediamente più anziane di quelle che non la guardano, per cui la variabile Z (età) disturba la relazione fra X (esposizione alla propaganda televisiva) e Y (voto), basterà trasformare la variabile Z in costante per eliminarne l’effetto. Come? Analizzando la covariazione fra X e Y in gruppi di pari età. Per esempio, si può distinguere gli intervistati in giovani, adulti e anziani, e all’interno di questi tre gruppi andare a vedere la covariazione fra esposizione alla propaganda televisiva e voto. Se la relazione rimane (in tutti e tre i gruppi c’è questa covariazione), non si può più avere il sospetto che chi ha guardato di più la televisione sia anche più anziano, in quanto si sono confrontati fra loro gruppi in cui l’età era costante. Naturalmente la procedura si fa complessa se vogliamo tenere sotto controllo contemporaneamente molte variabili, in quanto ci troveremmo a fare confronti fra gruppi sempre più piccoli di casi.

Quest’ultimo problema può essere superato mediante il ricorso alla depurazione (a volte chiamata anche «controllo statistico») degli effetti delle «terze variabili» Z. Depurazione che viene effettuata per il tramite di elaborazioni statistiche: con la tecnica della correlazione parziale se la variabile estranea da controllare è una sola, e della regressione multipla (o tecniche consimili di statistica multivariata) se le variabili da tenere sotto controllo sono più d’una. Senza entrare nel dettaglio di queste procedure di statistica multivariata, diciamo che per tenere sotto controllo le «terze variabili» non è necessario che le teniamo fisicamente «sotto controllo», si analizza la relazione fra X e Y quando esse assumono valori costanti. Infatti se si conoscono (e possiamo calcolarle dai dati) le relazioni delle terze variabili fra loro e con la variabile dipendente, possiamo calcolare la correlazione esistente fra X e Y tenendo conto di questi effetti, ottenendo così una misura della correlazione fra X e Y depurata dalle azioni delle variabili estranee.

2.3 Esperimento

Supponiamo che il ricercatore, sempre di fronte allo stesso interrogativo teorico («La propaganda televisiva influenza il voto?»), abbia impostato un disegno di ricerca avente le seguenti caratteristiche. Abbia scelto un campione di 200 cittadini; li abbia suddivisi poi a caso (per esempio, mediante estrazione a sorte) in due gruppi, ognuno di 100 persone, chiedendo a un gruppo di seguire in televisione la campagna elettorale, e all’altro

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