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Progettazione e sintesi di nuovi derivati 5,6-diidropirimido[4,5-f]chinazolinici quali potenziali inibitori del recettore del fattore di crescita dell‘endotelio vascolare (VEGFR2)

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Corso di Laurea Magistrale in Farmacia

Progettazione e sintesi di nuovi derivati

5,6-diidropirimido[4,5-f ]chinazolinici quali potenziali

inibitori del recettore del fattore di crescita

dell’endotelio vascolare (VEGFR2)

Relatori: Candidato:

Prof.ssa Sabrina Taliani Elena Petroni

Dott.ssa Elisabetta Barresi

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Sommario

Introduzione

... 3

CAPITOLO 1 – IL TUMORE ... 4

1.1 Neoplasia ... 4

1.2 Incidenza del cancro ... 5

1.3 Basi molecolari dei tumori ... 8

1.4 Nascita, crescita e persistenza dei tumori ... 11

1.5 Tipologie di tumore ... 13

1.6 Principali cause del cancro ... 14

1.7 Terapia tumorale ... 17

1.8 Angiogenesi tumorale ... 18

CAPITOLO 2 - PROTEINE TIROSINA CHINASI ... 21

2.1 Proteine chinasi e tumore... 21

2.2 Famiglia del VEGF ... 23

2.3 Recettori del fattore di crescita dell’endotelio vascolare

(VEGFR) ... 27

2.4 Terapia antiangiogenica nel trattamento dei tumori: inibitori di

tirosina chinasi (TKI) ... 32

CAPITOLO 3- TERAPIA ANTI-ANGIOGENICA ... 33

3.1 Sistema VEGF/VEGFR come target per la terapia

anti-angiogenica ... 33

3.2 Inibitori dei recettori tirosina chinasi (RTKI) ... 34

3.3 Meccanismo d’azione degli inibitori delle tirosina chinasi... 39

Introduzione alla Parte Sperimentale

... 47

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Introduzione

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CAPITOLO 1 – IL TUMORE

1.1 Neoplasia

Il termine neoplasia, deriva dal greco “neos” (nuovo) e “plassein” (formare), significa neoformazione, produzione di un tessuto nuovo, prima inesistente. Termini analoghi: cancro, dal latino “cancrus” (granchio) per via della tendenza delle propaggini del tessuto neoplastico a ramificarsi dalla massa principale e ad insinuarsi nei tessuti circostanti, proprio come le chele e le zampe di un granchio si dipartono dal corpo dell’animale; tumore “tumor” (tumefazione), propriamente qualsiasi alterazione che porti al rigonfiamento o alla tumefazione di una parte del corpo (anche una semplice e benigna infiammazione provoca un “tumore”), ma questo termine ha ormai abbandonato il suo significato esteso di rigonfiamento ed è passato a significare in modo particolare una tumefazione cancerosa. [1]

Questa nuova formazione prende origine quasi sempre da una sola cellula somatica dell’organismo, colpita da una serie sequenziale di mutazioni genomiche, trasmissibili alla progenie cellulare (Figura 1). Le alterazioni a carico del genoma in grado trasformare una cellula normale in cellula neoplastica sono quasi sempre di tipo strutturale (mutazioni) e meno frequentemente di tipo epigenetico. Esse si manifestano con una serie di effetti fenotipici, consistenti sia nella formazione comparsa di funzioni abnormi, cioè assenti nelle cellule normali, che nella perdita o riduzione di altre funzioni che sono, invece, costantemente presenti in queste.

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Tutti i citotipi dell’organismo possono andare incontro alla “trasformazione neoplastica” quando hanno accumulato nel proprio genoma un certo numero di danni a carico di determinati geni, seguito da uno stimolo proliferativo. La maggior parte dei tumori ha però origine epiteliale. [3]

1.2 Incidenza del cancro

La probabilità di un soggetto di sviluppare una forma specifica di tumore può essere calcolata disponendo dei dati di incidenza e di mortalità di una nazione. Chi risiede negli Stati Uniti, ad esempio, ha una possibilità su cinque di morire di cancro. Si stima che nel 2008 vi siano stati circa 1.437.180 nuovi casi di tumore e che 565.650 decessi, pari al 23% di tutte le morti, siano stati causati da neoplasia; questo tasso di mortalità è superato solo da quello delle malattie cardiovascolari.[4] (Figura 2).

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Da tenere presente è anche la distribuzione dei tumori di determinati organi nelle varie aree geografiche. Sono state individuate regioni geografiche ad alta e bassa incidenza di tumori di un determinato organo. Si portano due esempi:

• il carcinoma cutaneo ha un’elevata incidenza in Australia, dove l’esposizione al sole è un’abitudine comune.

• i giapponesi residenti in Giappone presentano un’elevata incidenza del carcinoma dello stomaco e una bassa incidenza dei tumori della prostata e della mammella, mentre i giapponesi residenti negli Stati Uniti da almeno un paio di generazioni perdono questa caratteristica ed assumono quella della popolazione americana, nella quale il tumore dello stomaco ha una bassa incidenza, mentre è elevata quella dei carcinomi della prostata e della mammella. Questo fenomeno assume un significato generale tra tutte le popolazioni emigrate.

A questi dati dimostranti l’importanza dei fattori ambientali nella comparsa delle neoplasie si aggiungono quelli dimostranti che nel corso degli anni nell’ambito di una stessa popolazione si modifica l’incidenza di determinate localizzazione neoplastiche: per esempio, il carcinoma dello stomaco, che era frequente nelle popolazioni europee fino alla fine degli anni quaranta del secolo scorso, è diventato alquanto raro. Nel contempo, è aumentata notevolmente l’incidenza e la conseguente mortalità del carcinoma polmonare, che però appare indirizzarsi verso una riduzione dopo gli anni ’80. (Figura 3)

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Per quanto riguarda l’incidenza dei tumori in funzione dell’età, è stato dimostrato che essa inizia ad aumentare dopo i 30 anni: negli USA il 50% di tutte le neoplasie interessa persone che hanno superato i 65 anni. La progressione dell’incidenza con l’età può essere spiegata dall’accumulo di mutazioni somatiche associate alla comparsa di neoplasie maligne, ma anche al declino dell’immunocompetenza che si accompagna all’invecchiamento.

Questo non significa però che la popolazione infantile sia risparmiata: prendendo in considerazione ancora gli Stati Uniti, è stata calcolato che il cancro è la causa di poco più del 10% delle morti complessive nei bambini al di sotto dei 15 anni. I tumori che predominano tra gli infanti sono però significativamente differenti da quelli degli adulti. Le leucemie acute e le neoplasie primitive del sistema nervoso centrale determinano il 60% circa delle morti infantili per tumore; i carcinomi sono invece straordinariamente rari. (Figura 4)

Figura 4. Mortalità per patologie neoplastiche negli uomini (grigio) e nelle donne

(azzurro) per fasce di età da 0 a 85+ anni.[6]

La distribuzione dei tumori per sesso indica che i due sessi vengono colpiti in maniera praticamente uguale dai tumori. Tuttavia, se l’incidenza viene messa in rapporto con l’età, il comportamento è differente nei due sessi: al di sotto dei 10 anni l’incidenza è maggiore nei maschi, mentre per l’età tra i 20 e i 60 anni essa è più elevata nelle donne, soprattutto nel periodo compreso tra i 35 ed i 50 anni, a

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causa della notevole incidenza nel sesso femminile, durante il periodo della fecondità, dei tumori della mammella e di quelli del collo e del corpo dell’utero. Al di sopra dei 60 anni, invece, l’incidenza tende ad essere significativamente maggiore nei maschi.

Anche per quanto riguarda la distribuzione dei tumori per sede anatomica esistono delle differenze in rapporto al sesso (Tabella 1).[3]

Tabella 1. Incidenza preferenziale di tumori nei due sessi.

TUMORI CHE COLPISCONO PREFERENZIALMENTE LE

DONNE

TUMORI CHE COLPISCONO PREFERENZIALMENTE GLI UOMINI

Tumori della tiroide

Tumori dell’apparato riproduttivo

Tumori dell’apparato respiratorio

Tumori del tratto superiore dell’apparato digerente

Tumori dello stomaco Leucemie

Linfomi

Tumori dell’età infantile

In generale, in Italia, nel periodo 2006-2016, è stata registrata una diminuzione di incidenza dei tumori nel sesso maschile (-2.5% per anno), legata principalmente alla riduzione dei tumori del polmone e della prostata, ed un lieve calo anche per i tumori femminili (-0.7% per anno).

1.3 Basi molecolari dei tumori

Il danno genetico o mutazione non letale rappresenta il fulcro della cancerogenesi. Un tumore è il risultato dell’espansione clonale di un singolo precursore cellulare che ha subito lesioni genetiche (i tumori hanno origine monoclonale).

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1) i proto-oncogeni (Figura 5) che promuovono la crescita, generalmente subiscono mutazioni con acquisto di funzione, generando gli oncogeni, le loro controparti mutate, caratterizzati dalla capacità di promuovere la crescita cellulare in assenza dei normali segnali. I loro prodotti, chiamati oncoproteine, somigliano ai prodotti normali dei proto-oncogeni, però sono spesso privi di importanti elementi regolatori interni e la loro produzione nelle cellule trasformate non dipende da fattori di crescita o da altri segnali esterni. In questo modo la crescita cellulare diventa autonoma;

Figura 5. Geni proto-oncogeni[7]

2) i geni oncosoppressori (come RB o p53) (Figura 3) che inibiscono la crescita, codificano per proteine che producono una rete di controlli atti a prevenire la crescita incontrollata, essi subiscono mutazioni recessive con perdita di funzione;

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3) i geni che regolano la morte cellulare programmata (apoptosi), che rappresenta un ostacolo che deve essere superato affinché si sviluppi il cancro. La morte cellulare per apoptosi è una risposta fisiologica a diverse condizioni patologiche che potrebbero contribuire allo sviluppo di masse maligne qualora le cellule rimanessero vitali (Figura4);

Figura 4. Processo della morte cellulare programmata [8]

4) i geni coinvolti nella riparazione del DNA

La cancerogenesi è un processo multifasico e progressivo a livello fenotipico e genetico, che deriva dall’accumulo di successive mutazioni.

E’ ormai chiaro che i tumori diventano progressivamente più aggressivi con il passare del tempo e acquisiscono un maggiore potenziale di malignità. Questo fenomeno è definito progressione tumorale e non è semplicemente il prodotto dell’aumento di volume del tumore; accurati studi clinici e sperimentali hanno chiarito che la crescente malignità è spesso acquisita in maniera esponenziale. A livello molecolare, la progressione tumorale e l’eterogeneità associata derivano dall’accumulo di mutazioni genetiche indipendenti nelle diverse cellule, che generano sottocloni con capacità diverse di accrescersi, invadere, metastatizzare e resistere (o rispondere) alla terapia. Alcune di queste mutazioni possono essere letali, mentre altre possono promuovere la crescita cellulare agendo su proto-oncogeni o geni onco-soppressori. Quindi, nonostante la maggior parte delle

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neoplasie maligne sia di origine monoclonale, nel momento in cui il tumore diventa clinicamente evidente, le sue cellule presentano un’estrema eterogeneità. Nel corso della progressione, le cellule tumorali sono sottoposte a pressioni selettive e non. Le cellule altamente antigeniche, ad esempio, possono essere distrutte dalle difese dell’ospite, mentre quelle con ridotto fabbisogno di fattori di crescita vengono selezionate positivamente. Un tumore in accrescimento, pertanto, tende a essere ricco di sottocloni dotati di particolari potenzialità in termini di sopravvivenza, crescita, invasione e metastatizzazione.[4]

1.4 Nascita, crescita e persistenza dei tumori

La replicazione cellulare è un meccanismo finemente regolato e costituito da vari stadi. Quando un gene che regola il ciclo cellulare subisce una mutazione, la cellula ha la possibilità di crescere e replicarsi in maniera incontrollata. Una sola mutazione nei geni che controllano il ciclo cellulare non è in grado di generare un tumore, ma sono necessarie più mutazioni, in numero variabile secondo il tipo di tumore.[9] Un problema fondamentale nella biologia dei tumori è la comprensione dei fattori che ne influenzano la crescita e il ruolo di tali fattori nell’evoluzione clinica e nelle risposte terapeutiche. Si può calcolare che la cellula originaria trasformata debba andare incontro ad almeno 30 duplicazioni per produrre 109 cellule (del peso di

circa 1g), che corrispondono alla massa più piccola individuabile clinicamente; ma sono necessari solo 10 ulteriori cicli di duplicazione per produrre un tumore contenente 1012 cellule (del peso di circa 1Kg), che di solito equivale alla

dimensione massima compatibile con la vita. Nel momento in cui un tumore solido viene individuato clinicamente, esso ha già completato buona parte del suo ciclo vitale.

La velocità di crescita di un tumore è determinata da tre fattori principali: il tempo di raddoppiamento delle cellule tumorali, la frazione delle cellule tumorali che sono nel pool replicativo e la velocità con cui le cellule vengono liberate o perdute. Poiché nella maggior parte dei tumori il controllo del ciclo cellulare è sovvertito, le cellule tumorali possono essere attivate a entrare nel ciclo cellulare più facilmente

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in assenza delle usuali limitazioni; tuttavia il tempo totale necessario per completare il ciclo cellulare è uguale o maggiore rispetto a quello delle corrispondenti cellule normali.

La percentuale di cellule all’interno della popolazione neoplastica inclusa nel pool proliferativo è definita frazione di crescita. Durante la prima fase, submicroscopica, di crescita tumorale, la maggior parte delle cellule trasformate si trova nel pool proliferativo. Con il progredire della crescita del tumore, un numero sempre maggiore di cellule lascia il pool proliferativo per effetto di fenomeni di distacco, mancanza di sostanze nutritive, necrosi, apoptosi, differenziazione e ritorno alla fase non proliferativa del ciclo cellulare (G0) (Figura 5). Nel momento in cui un

tumore diventa clinicamente evidenziabile, pertanto, la maggior parte delle cellule non è più nel pool replicativo. Persino in alcuni tumori a rapida crescita, la frazione di crescita non supera, nella migliore delle ipotesi, il 20% circa.

Figura5. Ciclo cellulare[10]

In definitiva, la crescita progressiva dei tumori e la velocità con cui questi si accrescono sono determinate da un eccesso di produzione di cellule rispetto alla perdita cellulare.

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È noto, inoltre, che la persistenza dei tumori, anche quando lo stimolo scatenante è terminato, deriva dalle alterazioni genetiche ereditabili che vengono trasmesse alla progenie delle cellule tumorali. Queste modificazioni genetiche permettono un’eccessiva e sregolata proliferazione che diventa autonoma (ossia indipendente dagli stimoli fisiologici di crescita), sebbene i tumori rimangano in genere dipendenti dall’ospite per la nutrizione e l’apporto ematico. [4]

1.5 Tipologie di tumore

I tumori in riferimento alle caratteristiche morfologiche, alle modalità di accrescimento e di comportamento nei riguardi dei tessuti vicini a quelli in cui sono insorti e dell’intero organismo, vengono suddivisi in due gruppi: tumori benigni e tumori maligni.

I tumori benigni sono costituiti da cellule che, pur esibendo autonomia moltiplicativa, mantengono pressoché inalterate le loro caratteristiche morfologiche e funzionali. Essi si accrescono generalmente più lentamente dei tumori maligni e rimangono costantemente localizzati nel sito di insorgenza senza invadere i tessuti confinanti, che tuttavia possono subire dei fenomeni di compressione. L’autonomia dei tumori benigni si manifesta non solo con l’incapacità a sottostare ai meccanismi di controllo della proliferazione cellulare, ma anche con quella di sfuggire ai meccanismi omeostatici che regolano alcune loro funzioni. Quindi non sono invasivi, non diffondono a distanza e, una volta asportati, non recidivano.

I tumori maligni sono indicati generalmente con il termine cancro, dalla parola latina per “granchio”, in quanto aderiscono in maniera tenace a qualsiasi superficie con cui entrano in contatto, proprio come fa il crostaceo. Sono costituiti da cellule caratterizzate da atipia morfologica. Essa si manifesta con deviazione della forma e delle dimensioni delle cellule e degli organuli cellulari. L’accrescimento è costantemente più rapido di quello dei tumori benigni. Peculiare è il comportamento nel riguardo dei tessuti limitrofi, che vengono dapprima infiltrati e quindi distrutti dalle cellule tumorali, che nel corso della loro proliferazione gradualmente sostituiscono quelle normali, fenomeno noto come invasività neoplastica. Questa

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non si arresta di fronte alle pareti dei capillari linfatici e sanguigni e delle venule, che possono essere invase e superate, con la conseguenza che le cellule tumorali raggiungono il circolo linfatico o sanguigno dando inizio alla metastatizzazione, che comporta la formazione a distanza di tumori secondari, definiti metastasi. Un’altra caratteristica dei tumori maligni è la possibilità della recidiva, cioè la ricomparsa nella stessa sede anatomica di un tumore con le stesse caratteristiche di quello rimosso chirurgicamente. I tumori maligni infine danno luogo alla cachessia neoplastica, cioè ad un progressivo e rapido decadimento dell’organismo, provocata dalla produzione e liberazione di diverse molecole da parte delle cellule neoplastiche.

1.6 Principali cause del cancro

La patogenesi del cancro coinvolge fattori genetici e ambientali, anche se questi ultimi sembrano essere maggiormente coinvolti nello sviluppo dei maggiori tumori sporadici. In un ampio studio è stato osservato che la percentuale di rischio da cause ambientali era del 65%, mentre i fattori ereditari contribuivano in misura variabile dal 26 al 42% (Figura 6).[3]

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Le cause esogene o ambientali sono rappresentate dall’esposizione ad: ➢ agenti chimici:

1) composti chimici inorganici tra cui i metalli pesanti, come, cadmio, cromo e nichel in particolare, sono considerati cancerogeni per le loro proprietà di formare sali insolubili con i fosfati organici. Se questi sali si formano con i fosfati degli acidi nucleici si può determinare un’alterazione dell’attività e della stabilità dei geni codificati negli acidi nucleici stessi. Di particolare importanza anche l’asbesto (amianto) un silicato fibroso in grado di provocare un tipo particolare di tumore, il mesotelioma pleurico.

2) sostanze alchilanti, molecole capaci di legarsi avidamente ad altre molecole attraverso atomi molto reattivi, come fluoro, cloro, bromo e iodio. Tra questi si ricordano anche i gas nervini.

3) composti chimici organici come idrocarburi policiclici, ammine aromatiche, nitrosammine, alfatossine, polivinilcloruro.

➢ agenti fisici: per es. le radiazioni, che non sono altro che una forma di energia: l’applicazione di una quantità eccessiva di energia su un qualsiasi sistema biologico è causa di turbamento degli equilibri.

➢ agenti biologici: numerosi virus oncogeni, possiedono geni virali che sono degli oncogeni, che una volta iniettati nelle cellule ospiti entrano in azione e trasformano la cellula ospite in una cellula neoplastica; ed un solo batterio, che è lo Helicobacterpylori.

➢ stile di vita:

(I) fumo di tabacco e in particolare il fumo di sigaretta è la più importante causa nota del cancro. Il fumo di sigaretta contiene molte più sostanze carcinogene del fumo di pipa o di sigaro. Le patologie causate dal fumo comprendono il cancro del polmone, le patologie cardiovascolari in genere (la cardiopatia coronarica, ischemia in particolare) e la broncopneumopatia cronico ostruttiva.

(II) l’alcool è un fattore molto importante per la carcinogenesi di bocca, esofago, colon e fegato e altri organi, tanto da solo quanto in associazione ad altri fattori (fumo, dieta, ecc.). L’etanolo penetra rapidamente nelle cellule, si diffonde e rende più fluide tutte le membrane, forma metaboliti reattivi come l’acetaldeide, provoca un cambiamento dell’equilibrio ossidazione/riduzione durante il metabolismo

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dell’etanolo nel fegato, può avere effetti chimici sui tessuti e influenza il metabolismo degli acidi biliari.

(III) la dieta è di grande importanza. E’ stato provato per esempio da numerosi studi che l’eccessivo consumo di grassi e il ridotto consumo di fibre hanno un ruolo determinante nello sviluppo dei tumori di colon, mammella, utero, ovaio e prostata. (IV) gli additivi alimentari che sono largamente usati per conservare i cibi e conferire loro colore, consistenza e aromi che ne aumentino l’appetibilità. Tra questi troviamo alcune sostanze molto sospette come la saccarina e i nitriti. La saccarina ad alte dosi provoca sperimentalmente il cancro della vescica nei ratti e può fungere da co-carcinogeno. I nitriti sono impiegati come conservanti dei cibi da oltre un secolo. Essi si possono trasformare in carcinogeni; sono assai frequenti come semplici componenti dei cibi vegetali, pertanto i nitriti usati come additivi costituiscono solo il 10% circa dei nitriti che assumiamo con la dieta.

(V) l’attività sessuale e le conseguenti eventuali gravidanze possono determinare dei cambiamenti, soprattutto nell’organismo femminile, che si possono riflettere sull’incidenza dei tumori. I fattori sessuali variano molto tra le diverse comunità e possono evidenziare pratiche sia negative, come i rapporti promiscui e frequenti che si correlano con un’alta frequenza di cancro del collo dell’utero, sia positive, come il numero delle gravidanze e la durata prolungata dell’allattamento, che si correlano con una ridotta frequenza del cancro mammario. Gravidanza e parto avrebbero un effetto benefico anche sui tumori dell’ovaio e dell’utero.

(VI) le esposizioni professionali. (VII) l’inquinamento ambientale

(VIII) i prodotti industriali che ci vengono proposti quotidianamente in grande quantità: detergenti, coloranti, tinture per capelli e tantissimi altri che contengono molte sostanze cancerogene.

(IX) i medicamenti e le pratiche mediche non sono del tutto prive di rischi per la salute dei pazienti. Radiazioni e farmaci sono largamente impiegati a scopo diagnostico e terapeutico.

(X) i fattori geofisici che comprendono soprattutto le radiazioni ionizzanti e le radiazioni ultraviolette. Possono provocare tumori della cute o degli organi interni; il melanoma è un tumore la cui incidenza sta aumentando notevolmente.

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(XI) le infezioni anche se nel complesso l’influenza di queste sullo sviluppo dei tumori è comunque abbastanza limitata. [1]

Le cause endogene o genetiche, cioè insite nell’organismo, sono rappresentate da: • età;

• mutazioni che vengono trasmesse dai genitori alla prole;

• mutazioni che intervengono nel corso della vita per errori nella duplicazione del DNA;

• squilibri ormonali di vario tipo;

• agenti mutageni che si formano nell’organismo e che non vengono neutralizzati, tra i quali i ROS sono i più attivi.[4]

1.7 Terapia tumorale

La terapia tumorale si basa su diversi approcci: • Trattamento chirurgico

• Radioterapia • Chemioterapia

Nel primo caso la massa tumorale è rimossa mediante intervento chirurgico. Ciò è possibile qualora il tumore sia ben localizzato e non in fase di metastasi.

La radioterapia, usata da sola o associata a chirurgia/chemioterapia è una modalità di trattamento localizzato del tumore che vede l’utilizzo di radiazioni ionizzanti. La chemioterapia invece si basa sulla somministrazione sistemica di farmaci antitumorali sia sul tumore localizzato sia su quello metastatico. Il principale problema legato a tale terapia è la mancata selettività di azione del farmaco che non agisce solo sulle cellule malate ma anche su quelle sane, principalmente sui tessuti in rapida proliferazione come il midollo osseo, la mucosa orale, il bulbo pilifero, l’ovaio ed il testicolo. La chemioterapia inoltre può avere altri effetti collaterali importanti, quali disturbi intestinali di una certa rilevanza ed effetti estetici non trascurabili.[11]

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La ricerca farmaceutica è pertanto dedicata all’individuazione di nuovi farmaci capaci di agire selettivamente sui tessuti malati per la messa a punto di nuove strategie terapeutiche antitumorali.[9]

1.8 Angiogenesi tumorale

L’angiogenesi è un processo molto complesso regolato da diversi agenti come: fattori di crescita per l’endotelio, proteine della matrice ed i loro recettori sulle cellule endoteliali, enzimi litici che permettono la penetrazione dei vasi del parenchima e molecole di adesione giunzionali. I possibili target terapeutici sono pertanto molteplici.

L’angiogenesi può essere divisa in una fase, detta di sprouting e in una fase di risoluzione. La fase di sprouting si divide in 6 processi:

• permeabilità vascolare incrementata e deposizione extravascolare; • smontaggio della parete del vaso;

• degradazione della membrana basale;

• migrazione cellulare e invasione della matrice extracellulare; • proliferazione delle cellule endoteliali;

• formazione del lume capillare.

La fase di risoluzione è costituita da 5 processi:

• inibizione della proliferazione delle cellule endoteliali; • cessazione della migrazione cellulare;

• ricostituzione della membrana basale; • maturazione di complessi giunzionali;

• assemblaggio della parete del vaso, compreso il reclutamento e la differenziazione di cellule muscolari lisce e pericliti (entrambe cellule murali). [12]

Numerose caratteristiche distinguono i vasi formatosi durante i processi fisiologici, da quelli formatosi nelle patologie. Lo switch angiogenetico, un rapido aumento della formazione di vasi a supporto della crescita tumorale è dato da:

- espressione tumorale oncogeno-mediata di proteine angiogeniche, quali fattore di crescita dell'endotelio vascolare (VEGF), fattore di crescita dei fibroblasti (FGF),

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fattore di crescita derivante dalle piastrine (PDGF), fattore di crescita endoteliali (EGF), acido lisofosfatico (LPA) e angiopoietina (Ang);

- stress metabolico; - mutazioni geniche; - risposta immune; - ipossia.

L’angiogenesi tumorale perciò dipende dal tipo di tumore, dal sito, dal decorso e dallo stadio della malattia e contribuisce alla crescita del tumore, all’invasione e alla formazione di metastasi.[13]

Per i tumori solidi possiamo pensare a un susseguirsi di fenomeni precisi che potrebbero essere modulati in maniera diversa. I tumori iniziano come piccoli aggregati cellulari che raggiungono il diametro di pochi millimetri. Possono restare silenti per diversi anni fino a quando un ulteriore mutazione genetica può indurre una proliferazione incontrollata. La proliferazione della massa tumorale induce una condizione ipossica delle cellule perché l’apporto di ossigeno e nutrienti ottenuto per diffusione dai vasi circostanti è insufficiente.

L’ipossia attiva una serie di fattori trascrizionali chiamati HIF (Hypoxia Inducile Factor) che legano il promotore di geni diversi inducendo la loro trascrizione. Uno dei geni dipendenti dall’ipossia è il VEGF. Questo ha un significato biologico molto chiaro perché è in condizioni di ipossia che l’organismo ha bisogno di aumentare la vascolarizzazione e quindi di produrre un fattore di crescita specifico per le cellule endoteliali. Il VEGF prodotto dalle cellule tumorali induce la proliferazione delle cellule endoteliali dei vasi contigui che cominciano a crescere, a diramarsi e a formare nuove strutture vascolari in collegamento con i vasi preesistenti che penetrano e si organizzano all’interno del tumore. Questi vasi hanno caratteristiche diverse dei vasi costitutivi da cui originano. I vasi, nel penetrare il tumore, cominciano a dilatarsi, sono spesso fenestrati e fortemente permeabili e presentano una forte instabilità. Spesso, non vi sono cellule mesenchimali attorno all’endotelio, almeno nelle fasi iniziali della angiogenesi tumorale e questo rende i vasi particolarmente fragili ed emorragici. In realtà, la instabilità e l’alta permeabilità di queste strutture è un vantaggio per il tumore,

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perché il passaggio di nutrienti è facilitato come pure la eventuale penetrazione delle cellule tumorali nel circolo ematico e la loro disseminazione (Figura 7).

Figura 7. Sviluppo di nuovi vasi promosso dal processo angiogenetico[14]

Nelle fasi successive dell’angiogenesi, però, almeno nelle zone periferiche, i vasi tumorali possono stabilizzarsi e spesso si nota la presenza di periciti. Così negli stadi precoci della vascolarizzazione del tumore è possibile inibire o indurre la regressione dei vasi più facilmente e l’inibizione del solo VEGF ha effetti marcati. Tuttavia nelle fasi più avanzate questo è più difficile, diversi fattori di crescita e antiapoptotici intervengono a stabilizzare i vasi tumorali e inibire l’angiogenesi è molto più complicato.

Un altro evento importante è la cosiddetta linfoangiogenesi. Questa si sviluppa un po’ più tardivamente della angiogenesi a partire dai vasi linfatici intorno al tumore. Il fattore di crescita importante in questo processo è il VEGF-C che si lega a un recettore specifico delle cellule linfatiche chiamato VEGFR3. Un aumento dello sviluppo dei vasi linfatici attorno ai tumori è ritenuto importante per la metastatizzazione; per questo, se si inibisce lo sviluppo del sistema linfatico tumorale si possono ridurre le metastasi in maniera molto marcata. Tuttavia, la presenza di vasi linfatici può ridurre l’accumulo di liquido all’interno dello stroma tumorale e quindi esercitare un’azione benefica nel ridurre l’espansione della massa tumorale e il suo effetto di compressione.

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Sebbene il quadro sia piuttosto complesso, la possibilità di inibire l’angiogenesi per ridurre la crescita o la disseminazione tumorale resta un approccio promettente. Questo perché, al contrario delle cellule tumorali, le cellule endoteliali sono geneticamente stabili. E’ pertanto più facile predirne il comportamento ed aspettare che non sviluppino resistenza ai farmaci. Inoltre le cellule endoteliali sono in numero molto ridotto rispetto alle cellule tumorali e bloccando la loro proliferazione si possono ottenere effetti generali su tutta la massa tumorale. Infine, la terapia antiangiogenica, per gli effetti collaterali ottenuti, può essere associata ad altre terapie dirette contro le cellule tumorali e può quindi essere considerata un approccio complementare a quelli già esistenti.[12]

CAPITOLO 2 - PROTEINE TIROSINA CHINASI

2.1 Proteine chinasi e tumore

Le isoforme del VEGF, come scritto in precedenza, e in più anche i loro recettori tirosin chinasici (che fanno parte della famiglia delle proteine chinasi), sono stati presi in considerazione come attraenti bersagli per l’inibizione dell’angiogenesi e quindi sono un valido target per la terapia antitumorale.[13] In particolare queste

proteine possono provocare l’insorgenza del cancro in seguito all’acquisizione di forme anomale o ad una loro iperespressione.[9]

Le proteine chinasi (PK) vengono classificate in numerose famiglie, distinte a seconda della loro struttura e funzione (Figura 8).

Queste proteine catalizzano il trasferimento del -fosfato dell’ATP su un residuo di serina, treonina o tirosina con liberazione di ADP. A seconda del residuo fosforilato possiamo dividere le chinasi in tre categorie:

• serina/treonina chinasi • tirosina chinasi

• chinasi a doppia specificità, in grado di fosforilare tutti e tre i residui. La prima categoria è la più abbondante.

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Figura 8. Recettori tirosina chinasi umani[15]

Il sito di legame per l’ATP è generalmente ben conservato in tutte le chinasi, mentre varia notevolmente il sito di riconoscimento tra le chinasi ed i loro substrati. L’introduzione di un gruppo fosfato nella struttura terziaria di una proteina crea l’opportunità di formare nuovi appaiamenti elettrostatici e legami a idrogeno che possono determinare una riorganizzazione locale della proteina anche molto significativa. Ne deriva che la fosforilazione è una delle modificazione post-traduzionali più rilevanti per modulare le interazioni proteina-proteina nella cellula, giocando un ruolo fondamentale in tutte le vie di trasduzione di segnali inter e intracellulari.

Esistono 91 proteine tirosina chinasi (PTK) nel genoma umano, 59 di esse sono dei recettori transmembrana, e sono suddivise in 19 famiglie classificate sulla base del gene da cui derivano (AATYK, ALK, AXL, DDR, EGFR, EPH, FGFR, INSR, MET, MUSK, PDGFR, PTK7, RET, ROR, ROS, RYK, TIE, TRK e VEGFR). [15] Tutti i recettori tirosin chinasici (RTK) hanno struttura molecolare simile, con una regione per il ligando nella zona extracellulare, composta da una sequenza di domini N-terminali e sette domini immunoglobulinici, un singolo segmento transmembrana e una porzione intracellulare costituita da un segmento juxtamembrana (JM), un dominio tirosinchinasico (TKD), una coda C-terminale e un sito di attivazione. [13]

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La regolazione fisiologica di questi recettori è importante per capire come il loro malfunzionamento possa essere collegato alla cancerogenesi. Le PTK innescano vie di trasduzione del segnale all’interno della cellula e per ottenere ciò, il legame del ligando al recettore, ne determina l’oligomerizzazione che è richiesta per l’autofosforilazione della subunità della proteina su residui di tirosina. Questa modificazione amplifica l’attività chinasica del recettore e media il suo legame con proteine citoplasmatiche in grado di trasdurre il segnale più a valle su altri componenti della cascata di trasduzione del segnale. La sovrapproduzione di tali recettori o riarrangiamenti cromosomici che causano la formazione di proteine di fusione tra una parte del recettore e altre proteine in grado di indurre una funzione di oligomerizzazione, sono stati trovati in molti tumori nell’uomo.

Si ritiene che l’attività che causa l’insorgere del fenotipo tumorale sia riconducibile a un’aumentata o costitutiva attività chinasica, che porta ad alterazioni sia quantitative che qualitative nella trasduzione del segnale o nei substrati a valle nella cascata.

Le 32 tirosina chinasi che non agiscono come recettori sono localizzate nel citoplasma e suddivisibili in 11 famiglie (ABL, ACK, CSK, FAK, FRK, JAK, SRC-A, SRC-B, TEC e SYC). Il mancato funzionamento di circa la metà di esse è collegato, nuovamente, all’insorgenza di tumori. [15]

2.2 Famiglia del VEGF

I VEGF appartengono alla famiglia dei supergeni PDGF, caratterizzati da 8 cisteine conservate e sono omodimeri. Questa famiglia comprende proteine di circa 34-46 KDa che sono: VEGF-A, VEGF-B, VEGF-C, VEGF-D e PLGF (fattore di crescita placentare).

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VEGF-A regola l’angiogenesi e la permeabilità vascolare attivando due recettori VEGFR-1 e VEGFR-2. VEGF-B ha una funzione ancora non del tutto definita. VEGF-C e VEGF-D attivano il recettore VEGFR3, regolando principalmente la linfoangiogenesi. VEGF-E è codificato da un virus. Infine, un’ultima variante dei componenti di questa famiglia è espressa nel veleno del serpente habu (Trimeresurus flavoviridis). [16]

Figura 9. Specificità di legame VEGF e complessi di trasduzione VEGFR[17]

VEGF-A

VEGF-A è una proteina omodimerica di 45 kDa, ed è la forma maggiormente espressa. E’ un fattore di sopravvivenza per le cellule dell’endotelio vascolare; l’mRNA e la proteina stessa sono espressi in molti tessuti e organi (in particolare nei polmoni, nel surrene, nel cuore e nei reni), ma anche in un’ampia varietà di tumori umani, motivo per il quale rappresenta un importante target anti-tumorale. Attraverso lo splicing alternativo consiste di diversi sottotipi come: VEGF-A121, 165, 189, 206.

VEGF-A165 ha una debole affinità per i materiali acidi come eparina e neuropilina-1; quest’ultima è una proteina coinvolta nella regolazione delle cellule neuronali. VEGF-A189 ha una forte affinità per l’eparina; ne ritroviamo la maggior parte a livello della superficie cellulare e nella matrice extracellulare.

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Tra i vari sottotipi l’isoforma VEGF-A165 è più la più importante dal punto di vista qualitativo e la più presente quantitativamente.

Di recente, è stato rinvenuto negli esseri umani VEGF-Axxxb. Questa scoperta è stata

fatta notando che VEGF-Axxxb attiva il recettore, ma più debolmente rispetto alla

famiglia dei VEGF-A, suggerendone una possibile competizione con gli altri. Vari esperimenti hanno indicato che la perdita di un singolo allele VEGF-A nei topi provoca malformazioni vascolari e morte.

Il VEGF-A è in grado di legarsi a VEGFR1 e VEGFR2. [16]

VEGF-B

Il ruolo dettagliato di VEGF-B rimane ancora poco chiaro. E’ espresso insieme ad altri geni mitocondriali, codificati a livello nucleare, in molte condizioni fisiologiche dei topi, indicandone in particolare un ruolo nel metabolismo.[18] Il VEGF-B presenta due isoforme; entrambe si legano ai recettori VEGFR1 e neuropilina-1 (NRP-1), i quali sono espressi principalmente nelle cellule endoteliali vascolari del sangue.

La capacità di VEGF-B di indurre l’angiogenesi è molto scarsa nella maggior parte dei tessuti; questa sua caratteristica lascia un po’ perplessi, per il fatto che il PIGF (fattore di crescita placentare) che si lega ai suoi stessi recettori induce l’angiogenesi e l’arteriogenesi in diversi tessuti. Sembra, tuttavia, che il VEGF-B sia un fattore di crescita con effetti trofici e metabolici più specifici e il suo legame con il recettore mostra delle minime, anche se importanti, differenze rispetto al PIGF. VEGF-B ha il potenziale per indurre la crescita dei vasi coronarici e l’ipertrofia cardiaca, che possono proteggere il cuore dal danno ischemico e dall’insufficienza cardiaca. E’ inoltre abbondantemente espresso nei tessuti che presentano un metabolismo energetico elevato come il cervello: in particolare è presente nell’ippocampo e nella corteccia cerebrale, il cuore e i reni e ha un ruolo nella neuroprotezione.

A differenza degli altri membri della famiglia dei fattori di crescita dell’endotelio vascolare non ha un ruolo chiaro nella progressione del tumore. [19]

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VEGF-C

Viene prodotto come pre-pro-proteina e successivamente è sottoposto a maturazione proteolitica. VEGF-C è espresso durante l’embriogenesi e si trovano alti livelli di mRNA di VEGF-C principalmente a livello del cuore umano adulto, delle ovaie, della placenta, del muscolo scheletrico e dell’intestino tenue; non è stato rilevano a livello cerebrale. E’ espresso anche in varie tipologie di neoplasie umane: è prevalentemente concentrato a livello delle cellule endoteliali del sistema linfatico, dove stimola la linfoangiogenesi, mediante il legame con VEGFR3. Inoltre è stato dimostrano che agisce sulle cellule endoteliali vascolari, mediante il collegamento con VEGFR2. Quindi ha un ruolo essenziale sia nella formazione dei vasi linfatici sia nell’angiogenesi.

VEGF-D

Questo fattore è strutturalmente molto simile a VEGF-C. Codificato come pre-pro-proteina. VEGF-D è espresso dopo la nascita, in fase adulta; il colon, il cuore, le cellule mesenchimali dei polmoni e della pelle, i muscoli scheletrici e l’intestino tenue contengono alti livelli di questo fattore; è presente poi in basse concentrazioni a livello del cervello. Anch’esso come l’isoforma C si lega a VEGFR2 e VEGFR3 stimolando di conseguenza la linfoangiogenesi e l’angiogenesi.

VEGF-E

Con questo termine viene indicato un gruppo di proteine che presentano caratteristiche simili al VEGF-A. Sono codificate da alcuni ceppi di Orf parapoxvirus, che colpisce capre, pecore e occasionalmente umani.

VEGF-E possiede circa il 25% di amminoacidi uguali al VEGF presente nei mammiferi; si lega con elevata affinità a VEGFR2 e neuropilina-1, ma non a VEGFR1 e VEGFR3. Principalmente il legame con i suoi recettori induce permeabilità vascolare e ha azione angiogenica. [20]

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2.3 Recettori del fattore di crescita dell’endotelio vascolare

(VEGFR)

La famiglia di recettori per VEGF è composta da tre proteine chinasi, VEGFR1, VEGFR2, VEGFR3 e due recettori non proteici, la 1 e la neuropilina-2. [21]

I VEGFR sono lontanamente imparentati con la famiglia dei PDGFR (recettori per il fattore di crescita derivato dalle piastrine); tuttavia sono unici per quanto riguarda la struttura e il sistema di segnalazione. A differenza dei membri della famiglia PDGFR che stimolano la via P13K-Akt per la proliferazione cellulare, i VEGFR e in particolare VEGFR2 che è il principale trasduttore di segnale per l’angiogenesi, utilizzano preferenzialmente la via PLC-PKC-MAPK. [16]

Il legame di VEGF-A alla porzione extracellulare di VEGFR2 causa la dimerizzazione del recettore e l’attivazione della sua porzione citoplasmatica ad attività tirosinchinasica. Nel dimero ciascun recettore fosforilerà la controparte, determinando la fosforilazione di numerosi residui di tirosina appartenenti alle code citoplasmatiche di entrambi i recettori. I residui di fosfotirosina diventano quindi siti per il legame diretto o indiretto di molecole dotate di domini di tipo SH2 (Src

homology 2) coinvolte nella trasduzione del segnale intracellulare.

Tra i segnali di trasduzione attivati dall’interazione VEGF-A/VEGFR2 ricordiamo: a) l’attivazione della fosfoinositide 3-chinasi (PI3K) e della “focal adhesion kinase” (FAK) con conseguente riorganizzazione del citoscheletro e delle placche focali di adesione che favoriscono la migrazione endoteliale;

b) l’attivazione della chinasi citoplasmatica Akt, sempre conseguente all’attivazione di PI3K, che favorisce la sopravvivenza delle cellule endoteliali inibendo i segnali di morte apoptotica mediati da Bad e dalla caspasi 9;

c) l’attivazione di Akt induce inoltre aumento di permeabilità vascolare mediante la produzione di ossido nitrico (NO) conseguente all’attivazione dell’enzima NO sintasi inducibile;

d) l’attivazione della via delle mitogen-activated protein kinases” (MAPKs) con conseguente stimolazione della proliferazione cellulare;

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e) l’attivazione della fosfolipasi C-γ (PLC-γ) che porta alla produzione della prostaciclina PGI2. [22]

Questa famiglia di recettori si ritrova principalmente a livello del sistema vascolare; negli ultimi anni, grazie all’utilizzo di metodi di studio più sofisticati, è stato notato che sono presenti anche a livello di cellule non endoteliali, come monociti, macrofagi, cellule dendritiche, cellule della muscolatura liscia vascolare e in diversi tipi di cellule tumorali umane.

VEGFR1

Il VEGFR1 (Figura 10) è una glicoproteina di 180-185 kDa che viene attivata in seguito al legame con VEGF-A, VEGF-B, e PIGF. Attiva inoltre p85, PI3K, PLCγ, SHP2, Gbr2, anche se per questi ultimi resta ancora da delineare le risposte che provoca a valle.

Presenta una particolare conformazione del sito intracellulare ad attività tirosin-chinasica, diversa dagli altri recettori della famiglia. Una caratteristica interessante, ma ancora poco chiara, è il fatto che i suoi ligandi VEGF-A, VEGF-B e PIGF pur legandosi al medesimo sito a livello del recettore, provochino risposte differenti. E’ stato ipotizzato che siano in grado di determinare fosforilazioni diverse tra loro e da ciò deriverebbero i differenti segnali a valle.

La sua espressione è regolata dall’ipossia. [17]

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VEGFR2

Il VEGFR2 (Figura 11), noto anche come KDR nell’uomo, è una glicoproteina di 210-230 kDa che lega il VEGF-A con affinità 10 volte minore rispetto al VEGFR1, ma anche VEGF-C e VEGF-D. Il legame del ligando coinvolge i domini extracellulari Ig-like 2 e 3 del VEGFR2. Questo recettore è espresso prevalentemente nelle cellule endoteliali vascolari e nei loro precursori embrionali, con livelli di espressione più alti durante la vasculogenesi e l’angiogenesi embrionali. Il VEGFR2 si trova anche in una vasta gamma di cellule non endoteliali, come quelle del condotto pancreatico, megacariociti e cellule emopoietiche.[23] L’espressione di tale recettore è indotta in concomitanza con l’angiogenesi attiva, come per esempio nell’utero durante il ciclo riproduttivo e nei processi patologici associati a neo-vascolarizzazione come il cancro. [24] E’ noto che il VEGFR2 trasduce l’intera gamma di risposte del VEGF nelle cellule endoteliali, ad esempio la regolazione della sopravvivenza endoteliale, proliferazione, migrazione e formazione del condotto vascolare.

L’extravasazione VEGF-A indotta di proteine o globuli bianchi è mediata dal VEGFR2 in vivo. L’apertura transitoria cellula-cellula endoteliali, in risposta al VEGF, è ben documentata in vitro e coinvolge la dissoluzione di strette e aderenti giunzioni, così come la generazione di NO.

Di questo recettore in particolare è stata risolta la struttura del core. Il nucleo ha la caratteristica struttura bilobata osservata in tutte le proteine chinasi. Il sito attivo è localizzato nella fessura tra i due lobi. Il lobo più piccolo N-terminale ha una struttura prevalentemente a foglietto β antiparallelo. Il lobo più grande C-terminale che in natura è prevalentemente a α-elica, contiene il ciclo catalitico e il segmento di attivazione.

Hanks e colleghi hanno individuato 12 sottodomini con gli amminoacidi conservati e in particolare è stato descritto il ruolo di tre amminoacidi:

- Lys868: nell’enzima attivato, è un residuo invariato che forma coppie di ioni con l’α e β-fosfati dell’ATP e con Glu885 dell’α-elica C. Nell’enzima inattivo, che manca di ATP legato, Lys868 si lega invece ad un segmento di attivazione fosfotirosina ed è lontano da Glu885.

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- Asp1028: orienta il gruppo tirosinico della proteina substrato in uno stato cataliticamente competente.

Asp1046: è la parte dell’ansa che si lega a Mg2+, che a sua volta coordina i gruppi

β e γ-fosfato dell’ATP; Asp1046 si lega anche all’α-fosfato.

All’interno di ogni lobo c’è un segmento polipeptidico che può assumere orientamenti attivi e inattivi. Nel piccolo lobo N-terminale, questo segmento è dell’α-elica C che ruota e trasla rispetto al resto del lobo, formando o rompendo parti del sito catalitico. Il lobo C-terminale differisce negli enzimi attivi e inattivi. Nelle proteine chinasi che sono nello stato inattivo, l’ansa di attivazione è posizionata in modo da impedire che la proteina substrato leghi e fosforili il segmento di attivazione e si stabilizzi nella sua conformazione attiva.

Esistono due tipi di cambiamento conformazionale associati alle proteine chinasi. Il primo riguarda l’interconversione di stati inattivi ed attivi; l’inattivazione-attivazione comporta cambiamenti nella posizione dell’αC elica nel lobo N-terminale e la conformazione del segmento di attivazione nel lobo C-N-terminale. L’ATP e la proteina substrato si legano nella conformazione aperta, la catalisi avviene nella conformazione chiusa, l’ADP ed il substrato fosforilato vengono rilasciati durante la progressione allo stato aperto che completa il ciclo.[25]

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VEGFR3

Il VEGFR3 (Figura 12) è attivato dal legame con VEGF-C e VEGF-D. Si concentra soprattutto a livello dei linfonodi delle cellule endoteliali plasmatiche ed esercita le sue maggiori funzioni a questo livello. In diverse neoplasie la sovra espressione di VEGF-C e VEGF-D è infatti associata alla linfoangiogenesi e promuove la diffusione delle metastasi. VEGFR3 è stato ritrovato anche in cellule non endoteliali come osteoblasti, progenitori neuronali e macrofagi.

La sua struttura è simile a quella degli altri due recettori precedentemente descritti; l’unica differenza è il fatto che il dominio extra-cellulare è scisso a livello del quinto dominio immunoglobulino-simile in due polipeptidi tenuti insieme da un ponte disolfuro. [26]

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2.4 Terapia antiangiogenica nel trattamento dei tumori: inibitori

di tirosina chinasi (TKI)

Gli studi sull’angiogenesi si basano sul presupposto che la progressione del tumore possa essere arrestata da agenti anti-angiogenici. Sono stati analizzati diversi parametri fisiologi, misurazione della pressione arteriosa sistemica, analisi genotipiche, (es. VEGF e interleuchina), marcatori circolanti, (es. i livelli plasmatici di VEGF), marcatori tissutali, (es. densità del microambiente tumorale) in vari pazienti, allo scopo di individuare possibili candidati all’utilizzo di agenti anti-angiogenesi. Purtroppo ci sono ancora alcune problematiche da risolvere per quanto riguarda l’utilizzo di questi composti.

Un primo limite è rappresentato dal fatto che la terapia ha principalmente effetti citostatici e di riportare alla normale vascolarizzazione del tumore; questo determina principalmente una stabilizzazione delle dimensioni della massa tumorale piuttosto che una sua riduzione. A ciò si aggiunge il fatto che aver compreso che l’aumento spropositato della concentrazione di un fattore, come VEGF, in diversi tumori, sia collegato alla sua crescita non aiuta in quanto rimangono non chiari fino in fondo il meccanismo con cui questo fattore causa la malattia.

Il secondo problema risiede nel fatto che il cancro ha una natura molto eterogenea; il tumore primario potrebbe essere diverso dalle sue metastasi, oppure la sua natura potrebbe cambiare con la progressione della malattia. Da ciò un campione, per effettuare una biopsia, prelevato precedentemente al primo trattamento, potrebbe non riflettere le condizioni presenti al trattamento successivo. Ed è impossibile eseguire ripetute biopsie, cioè prima e dopo il trattamento.[27]

Il terzo problema risiede nel fatto che le terapie anti-angiogeniche potrebbero avviare una serie di meccanismi di difesa microambientali, che contribuiscono all’eventuale inefficacia dei farmaci e conducono a una forma tumorale più aggressiva e a un fenotipo tumorale invasivo con maggiore capacità di metastatizzare.[28]

Comunque sia, nonostante questi limiti, stanno emergendo numerosi agenti candidati per una terapia antiangiogenica del cancro, accompagnati ovviamente da

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studi per la comprensione della loro sicurezza, dei rapporti costo-beneficio, e del potenziale sviluppo di resistenza.

CAPITOLO 3- TERAPIA ANTI-ANGIOGENICA

3.1 Sistema VEGF/VEGFR come target per la terapia

anti-angiogenica

L’inibizione del sistema VEGF/VEGFR è un approccio terapeutico che sempre di più viene preso in considerazione per il trattamento del cancro e costituisce nella pratica clinica il principale bersaglio per la terapia anti-angiogenica.[21] Riducendo l’espressione di VEGF o di VEGFR, andando a interrompere il percorso di trasduzione o esaurendo il fattore di crescita nei tumori, gli inibitori faranno da freno per l’angiogenesi tumorale e di conseguenza interromperanno l’apporto di sangue per arrivare a una soppressione della crescita e dello sviluppo della neoplasia. Molecole che hanno come target il recettore di crescita dell’epitelio vascolare, rappresentano un approccio che gode di un grande successo terapeutico, in particolar modo perché il complesso VEGF/VEGFR è uno dei tanti fattori pro-angiogenici anche nel caso di un’angiogenesi tumorale. [13]

Le attuali strategie per inibire la trasduzione del VEGF possono essere suddivise in quelle che mirano a legare il ligando VEGF, in modo da bloccare la possibile interazione con i recettori (anticorpi, peptidi, ribozimi e recettori solubili), e quelle che invece hanno come bersaglio diretto i recettori (anticorpi o piccole molecole inibitrici delle tirosine chinasi).

Sono diversi i bloccanti del VEGF che sono stati approvati per l’uso clinico nel cancro e nelle malattie degli occhi. Il trattamento con gli inibitori del VEGF generalmente prolunga la sopravvivenza in pazienti responsivi di qualche mese. Tuttavia, nonostante questi successi, si è constatato che la terapia è più impegnativa del previsto; in alcuni tumori il blocco del recettore tirosin-chinasico è efficace in monoterapia, ma questa fallisce, oppure si può avere lo sviluppo di una tossicità in altri casi. Il motivo di questo non è ancora chiaro e pone l’accento sul fatto che l’efficacia dell’inibizione del processo angiogenico dipende dal contesto, dalla dose

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e dai tempi di somministrazione dei farmaci. Inoltre la maggior parte delle nuove molecole anti-angiogeniche non è riuscita a confermare i risultati pre-clinici incoraggianti, quando testate nei trials clinici; la differenza tra l’efficacia pre-clinica degli agenti anti-angiogenici e l’attività osservata in fase di sperimentazione clinica, dipende probabilmente dal modello pre-clinico utilizzato, dalla tipologia di tumore clinicamente trattato e dal programma scelto nella metodologia pre-clinica e clinica.

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3.2 Inibitori dei recettori tirosina chinasi (RTKI)

- Terapia con anticorpi

Diverse strategie sono state progettate per interagire con il complesso VEGF/VEGFR. Clinicamente quella che ha avuto più successo fino ad ora è stata quella che prevede l’utilizzo di anticorpi.[15] Altri trattamenti includono: recettori solubili, TKI a basso PM, oligonucleotidi, aptameri e interferenza di DNA.[30]

Gli anticorpi agiscono legandosi al dominio presente sul recettore adatto alla loro struttura e in questo modo interrompono l’interazione ligando/recettore e quindi l’attivazione del recettore. Oltre all’effetto inibitorio sulla crescita, mediante un legame con specifici bersagli sulla superficie delle cellule tumorali, questi anticorpi probabilmente provocano anche citotossicità cellulo-mediata anticorpo-dipendente. La maggior parte degli anticorpi attualmente in uso clinico sono del sottotipo IgG1.

Possono essere chimerici ximab), umanizzati zumab) o completamente umani (-mumab) per minimizzare la risposta autoimmune. Gli anticorpi monoclonali sembra che esplichino meglio la loro funzione quando vengono associati ad altri approcci terapeutici, come la chemioterapia.[31]

Il primo anticorpo approvato dalla US FDA (Food and Drug Administration) per l’uso nella terapia anti-tumorale, è stato il Rituximab (Figura 13), nel 1997, per le cellule B del linfoma non-Hodgkin e cellule B leucemiche. Nel 1997 il Trastuzumab fu approvato per l’inibizione di HER2 (recettore 2 per il fattore di crescita epidermico umano) nel tumore al seno.[32]

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Figura 13. Struttura tridimensionale Rituximab[33]

Attualmente l’inibitore dell’angiogenesi in fase clinica più avanzata è rappresentato dal Bevacizumab. Il Bevacizumab (Figura 14) è un anticorpo monoclonale IgG1

umanizzato che lega tutte le forme del VEGF-A e ne impedisce il legame ai recettori bersaglio. E’ un farmaco antiangiogenico, che è risultato in grado di inibire la formazione di vasi sanguigni nei tumori. Può essere associato ad altri farmaci anti-tumorali come 5-FU, oxaliplatino e irinotecano nel trattamento del cancro colon rettale metastatizzato, con buona efficacia e tollerabilità. Per lo stesso tumore la FDA ha formalmente approvato bevacizumab in associazione con un qualsivoglia schema terapeutico contenente fluoropiridine; il bevacizumab è ora autorizzato in associazione a chemioterapia per il trattamento del carcinoma mammario o polmonare non a piccole cellule metastatizzato (ed è in corso di sperimentazione con utili risultati nel carcinoma ovarico). Un possibile vantaggio potrebbe essere quello di non aggravare la tossicità dei principali chemioterapici citotossici. I principali effetti sfavorevoli variano da ipertensione a eventi tromboembolici arteriosi, disturbi della cicatrizzazione, perforazioni gastrointestinali, proteinuria.[34]

Il CDP791 è stato studiato nella fase I di sperimentazione clinica e sembra che bersagli specificatamente il VEGFR2; ha dimostrato tossicità accettabile.[35] Inoltre l’IMC-1121, un anticorpo chimerico contro VEGFR2 è stato valutato in trials

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clinici preliminari. Sfortunatamente metà dei pazienti trattati con IMC-1121 ha sviluppato anticorpi antichimerici e quindi lo studio clinico è stato interrotto.

Figura 14. Struttura tridimensionale Bevacizumab[33]

Però, dato che i risultati positivi di questo farmaco erano evidenti, l’anticorpo in forma chimerica è stato completamente umanizzato a IMC-1121B (Ramucirumab) (Figura 15), il cui studio è stato ulteriormente approfondito, risultando l’inibitore specifico per il VEGFR2 più avanzato clinicamente. E’ stata dimostrata una efficacia impressionante negli studi di fase I e II e, anche in confronto agli altri farmaci della stessa classe, sembra essere il più attivo, quando si prendono in considerazione le risposte tumorali, la stabilità delle dimensioni del tumore e la sua aggressività, per periodi estesi in popolazioni di pazienti pre-trattati. Il Ramucirumab mostra attività dopo che i pazienti sono stati esposti ad altri agenti anti-angiogenici; ciò probabilmente indica che il farmaco provoca un’inibizione più potente dell’angiogenesi, quando VEGFR2 viene bloccato direttamente.[36]

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Figura 15. Ramucirumab[33]

-Piccole molecole RTK-inibitrici

Farmaci che bloccano in modo esteso un unico fattore di crescita, come Bevacizumab o Ramucirumab, si sono dimostrati efficaci, ma portano all’instaurarsi di resistenza, probabilmente proprio per il fatto di avere un singolo bersaglio; ciò può dare infatti come conseguenza la rivascolarizzazione del tumore, dovuta ad altri fattori pro-angiogenici.

Piccole molecole inibitrici delle tirosina chinasi (TKI), sono state sviluppate e sottoposte a trials clinici, dato che presentano diversi vantaggi: sono disponibili per via orale, sono più versatili nei confronti dell’obbiettivo da inibire, sono meno costose e possono traslocare attraverso le membrane plasmatiche e interagire con il dominio citoplasmatico dei recettori di superficie cellulare. La specificità per il target può differire molto e a tal proposito sono stati sviluppati svariati composti che hanno mostrato livelli variabili di efficacia e attività e di conseguenza differenti effetti collaterali, collegati anche alla diversa tipologia di tumore trattato. La maggior parte degli inibitori dei recettori tirosin-chinasici (RTKI) include composti che legano il dominio chinasico, competendo con il normale substrato, ATP, prendendo di mira il sito di legame di questa molecola nella sua conformazione attiva, in cui l’ansa di attivazione viene fosforilata.

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1) Regione dell’adenina: è una porzione idrofobica, anche chiamata regione cerniera. Accoglie l’anello purinico dell’ATP che forma legami ad idrogeno con la catena polipeptidica: questi vedono coinvolti l’atomo di azoto in posizione 1, il gruppo amminico in posizione 6, che si comportano rispettivamente come accettore e donatore di idrogeno, e l’idrogeno legato al C2 dell’adenina. In aggiunta a queste interazioni polari, l’adenina forma anche delle interazioni non polari con residui idrofobici localizzati a livello dei lobi N-terminale e C-terminale.

2) Regione dello zucchero: qui si posiziona il ribosio dell’ATP, il cui gruppo 2’-OH forma un legame ad idrogeno con un residuo polare generalmente di serina, aspartato, glutammato o glutammina.

3) Regione del fosfato: accoglie il gruppo trifosfato ed è principalmente costituita da un loop flessibile ricco di glicina e da una struttura ad α-elica che orienta correttamente il gruppo fosfato dell’ATP per la catalasi. Nella maggior parte delle strutture cristalline ATP-chinasiche, ritroviamo un legame ad idrogeno tra il gruppo fosfato in posizione α e β dell’ATP e la Lys295. Il gruppo fosfato in γ interagisce invece con il residuo di Arg388.

4) Regione nascosta: consiste in una tasca idrofobica di dimensioni variabili, opposta alla regione dello zucchero e non occupata dalla molecola di ATP. A livello di questa regione vengono identificate le più significative differenze strutturali e sequenziali tra i componenti della superfamiglia delle chinasi.

5) Regione accessibile al solvente: le dimensioni di questa regione dipendono dall’assenza o dalla presenza di residui di glicina che causano una variazione conformazionale della proteina a questo livello. Anche questa regione può essere sfruttata per aumentare l’affinità del ligando verso la proteina e modulare le proprietà ADME.

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Tabella 2. Confronto tra anticorpi e inibitori delle tirosina chinasi[37]

3.3 Meccanismo d’azione degli inibitori delle tirosina chinasi

Elementi chiave presenti nella composizione delle tirosina-chinasi regolano la loro attività enzimatica e di conseguenza sono essenziali per far esplicare in modo corretto le loro funzioni.

I domini catalitici delle tirosina chinasi presentano una struttura e una sequenza altamente conservate. Il dominio chinasico è costituito da una struttura bilobata. Il lobo N-terminale, di dimensioni più piccole, contiene un filamento β antiparallelo e un’α-elica che prende il nome di elica C, mentre il lobo C-terminale, più grande, ha una struttura prevalentemente elicoidale e presiede alla reazione catalitica. All’interfaccia tra i due lobi è presente una profonda fessura chiamata regione cerniera o hinge region nella quale trova alloggio la molecola ATP. Elementi fondamentali per la regolazione dell’attività enzimatica delle chinasi sono il segmento A nel lobo C-terminale e la C elica nel lobo N-terminale. Il segmento A contiene il motivo DFG (aspartato-fenilalanina-glicina), il loop di attivazione (A-loop), il P+1 ed altri elementi strutturali secondari. Quando la proteina si trova nello stato attivo, il segmento A adotta una conformazione aperta dalla fosforilazione agendo da piattaforma per il legame substrato. Il motivo DFG è così tenuto in una conformazione appropriata per il legame dello ione metallico alla catena laterale dell’aspartato. Questo stato attivo dell’anello è molto simile in tutte le strutture conosciute delle chinasi attive. Esiste invece una grande diversità nelle conformazioni di questo sito nelle chinasi inattive nelle quali può esserci un diverso orientamento dei due lobi o dell’elica C, uno spostamento del loop di attivazione

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oppure una diversa conformazione del motivo DFG tale per cui l’aspartato non può più legarsi allo ione Mg++. [38]

Gli RTKI generalmente instaurano legami a idrogeno con la regione dell’adenina ed interazioni idrofobiche intorno alla porzione purinica della molecola. I vari membri della famiglia delle chinasi presentano una elevata similarità della sequenza del sito di legame dell’ATP e questo spesso porta ad inibitori con scarsa selettività e con effetti collaterali indesiderati, che ne limitano l’impiego clinico. Da ciò deriva una ricerca di inibitori più specifici, nel tentativo di ridurre al minimo il rischio di effetti collaterali. Tuttavia, il rischio di una minore efficacia a causa della ridondanza di varie vie di trasduzione ha recentemente incrementato l’interesse verso farmaci multi-target (MTDD), ipotizzando che la modulazione di differenti bersagli, posso fornire maggiore efficacia e sicurezza terapeutica.

Tra gli inibitori diretti al sito dell’ATP, i derivati indolin-2-onici, identificati nel 1993, rappresentano una classe importante di agenti anti-angiogenici.

Il derivato ossindolico Sunitinib 1 (SU11248) è un inibitore di chinasi associate a vari recettori, ma quelle inibite più selettivamente sono PDGFR-α, PDGFR-β, VEGFR-1, VEGFR-2, VEGFR-3, c-kit, Kit, Flt3, RET e CSF-1R. E’ approvato per il trattamento del carcinoma renale avanzato e nei sarcomi gastrointestinali che progrediscono dopo Imatinib, o in caso di intolleranza a Imatinib.[34]

Il Sunitinib 1 è caratterizzato da una struttura indolinonica 5-fluoro-sostituita e portante un gruppo dietilamminoetilico che gli conferisce una buona solubilità. La struttura co-cristallina a raggi X del dominio catalitico del recettore dell’FGF con svariati oxindoli, suggerisce che il composto si lega a livello della tasca dell’ATP, con il sistema indolin-2-onico che partecipa al fondamentale legame a idrogeno donatore/accettore con il carbonile del Glu-915 e l’NH della Cys917, residui tipici della hinge region del VEGFR2.

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Altro composto è il Sorafenib 2, simile al Sunitinib 1, in quanto inibitore a basso peso molecolare di numerosi recettori chinasici, tra cui VEGFR2 e VEGFR3, il fattore di crescita di origine piastrinica-β (PGFR-β) e la chinasi Raf. Inizialmente è stato approvato per il trattamento del carcinoma renale avanzato, grazie ad uno studio di fase II che dimostra un miglioramento di circa il 50% dei pazienti trattati con Sorafenib 2, rispetto al 18% dei pazienti trattati con placebo; recentemente, è stato approvato anche per il trattamento del carcinoma epatocellulare in fase avanzata. Attualmente si sta studiando Sorafenib 2 in associazione con Gemcitabina. Ad ora questa associazione ha dato un parziale esito positivo soltanto nel caso di cancro ovarico, mentre esito non confermato nel caso di tumore al pancreas. E’ stato notato però che gli effetti collaterali in seguito all’utilizzo di questi due farmaci sono diversi, ma di intensità e gravità tollerabile. [34,37]

Sorafenib 2

Un’altra importante classe di inibitori angiogenici è rappresentata dalle Anilinoftalazine, scoperte da Novartis. Questi composti risultano essere selettivi per il VEGFR umano.

Il derivato Valatinib 3 (PTK787/ K 222584) è una piccola molecola con attività inibitoria su tutti i VEGF; anche se leggermente più potente nei confronti di VEGFR2, ha attività anche nei confronti di PDGFR. Studi preclinici hanno dimostrato che questo farmaco induce la riduzione dell’angiogenesi in maniera dose-dipendente, dopo somministrazione orale. Il composto è ben tollerato e sono stati osservati lievi effetti cardiovascolari. L’associazione con gemcitabina ha portato ad una maggiore inibizione della crescita del tumore pancreatico, riduzione delle metastasi e aumento della sopravvivenza dell’animale. Attualmente è in fase III di trials clinici su pazienti con tumori diversi; in genere, dopo aver ricevuto

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Valatinib 3, gli interessati hanno presentato gli stessi effetti collaterali: nausea (47%), affaticamento (39%), vomito (36%) e vertigini (34%). Comunque sia Valatinib 3 è stato nella maggioranza dei casi ben tollerato e somministrato anche in associazione a chemioterapia.[37] Secondo alcune ipotesi il farmaco non

formerebbe legami a idrogeno diretti con i residui della hinge region, ma occuperebbe le regioni idrofobiche del sito di legame. Parte dell’anilina è situata in una tasca idrofobica, mentre il biciclo ftalazinico instaura contatti idrofobici con altri amminoacidi. Sebbene non venga stabilito nessun legame a idrogeno diretto con la hinge region, il gruppo NH dell’anilina forma legami a idrogeno mediati dall’acqua con Glu915 e Cys917 della regione cerniera del VEGFR, mentre l’azoto piridinico viene reclutato per formare un legame a idrogeno con la Lys1060, un residuo chiave dell’attivazione della chinasi.

Valatinib 3

Nell’ambito delle Anilinochinazoline, opportune modifiche dei sostituenti hanno condotto all’identificazione del Vandetanib 4 (ZD-6474, Astrazeneca), un nuovo farmaco inibitore delle tirosina chinasi, che presenta notevole attività agonista verso il VEGFR2, VEGFR3 e, in minor misura, verso EGFR. Questo composto inibisce due percorsi chiave nella crescita tumorale: angiogenesi tumorale dipendente da VEGFR e proliferazione e sopravvivenza delle cellule tumorali EGFR-dipendenti. In un modello preclinico per carcinoma pancreatico avanzato, Vandetanib 4 dimostra una significativa attività antiangiogenica, inibizione della crescita del tumore primitivo e riduzione del numero di metastasi. Studi di fase I, in pazienti con tumore solido avanzato hanno dimostrato che il farmaco è ben tollerato, quando

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