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Proteine correlate alla neurodegenerazione e marker di infiammazione a livello intestinale in un modello murino di malattia di Alzheimer

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Farmacia

Laurea Magistrale in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche

Proteine correlate alla neurodegenerazione

e marker di infiammazione a livello intestinale

in un modello murino di malattia di Alzheimer

Relatore:

Dott.ssa Simona Daniele

Correlatore:

Dott.ssa Deborah Pietrobono

Candidato:

Diletta Corci

Anno accademico 2018/2019

SSD: BIO 10/11

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1. INTRODUZIONE ... 5

1.1 LE MALATTIE NEURODEGENERATIVE E MECCANISMI PATOLOGICI ………...6

1.1.1 Aggregazione e ripiegamento proteico ………9

1.1.2 Morte neuronale ……….10

1.2 LA MALATTIA DI ALZHEIMER ………...12

1.3 CARATTERISTICHE NEUROPATOLOGICHE DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER ….13 1.3.1 La proteina Beta Amiloide ……….14

1.3.2 La proteina Tau ………...17

1.3.3 La proteina Alfa Sinucleina ………....19

1.3.4 Eterocomplessi α-sin/Aβ e α-sin/tau ………...21

1.4 SINTOMI DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER ……….23

1.5 DIAGNOSI ………..…….24

1.6 TERAPIA ………26

1.7 RUOLO DELL'INFIAMMAZIONE INTESTINALE NELLO SVILUPPO DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER ………..30

1.7.1 L'asse intestino cervello …...32

1.7.2 Microbioma intestinale e malattia di Alzheimer …...33

1.7.3 L'interleuchina 1β …...34

1.8 PROTEINE COME BIOMARKER PERIFERICI DI MALATTIA E MARKER INFIAMMATORI: NUOVE FRONTIERE DELLA RICERCA ……….36

2. SCOPO DELLA TESI ……….38

3. MATERIALI E METODI ………...40

3.1 SAMP8: MODELLO ANIMALE DI MALATTIA DI ALZHEIMER ………41

3.2 VALUTAZIONE DELLE FUNZIONI COGNITIVE: MORRIS WATER MAZE TEST E TEST COMPORTAMENTALI ………..44

3.3 ISOLAMENTO DI CERVELLO ED INTESTINO DAL TOPO ………45

3.4 DOSAGGIO DELLE PROTEINE TOTALI ………46

3.5 ELETTROFORESI E WESTERN BLOT ………48

3.5.1 Preparazione dei campioni …... 48

3.5.2 Elettroforesi SDS-PAGE …...49

3.5.3 Trasferimento su membrana: elettroblotting …...51

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2

3.6 IL DOSAGGIO IMMUNOENZIMATICO ………53

3.6.1 Quantificazione della proteina alfa sinucleina, α-sin …...56

3.6.2 Quantificazione dell'eterocomplesso α-sin/Aβ …...57

3.6.3 Quantificazione dell'eterocomplesso α-sin/ tau …...58

3.7 ANALISI DEI DATI ……….59

4. RISULTATI E DISCUSSIONE ………..60

4.1 ANALISI WESTERN BLOT …...61

4.1.1 Espressione della proteina α-sin nel cervello e nell'intestino dei topi SAM …...61

4.2.2 Espressione degli eterocomplessi α-sin/Aβ e α-sin/ tau nel cervello e nell'intestino dei topi SAM …...62

4.2 LIVELLI DI OMO ED ETEROCOMPLESSI DI α-SIN NEL CERVELLO E NELL’INTESTINO DEI TOPI SAM ………..63

4.2.1 Concentrazione della proteina α-sin …...64

4.2.2 Concentrazione dell'eterocomplesso α-sin/Aβ …...66

4.2.3 Concentrazione dell'eterocomplesso α-sin/ tau …... 68

4.3 CONCENTRAZIONE DI IL 1-β ………70

5. CONCLUSIONI ……….72

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RIASSUNTO

Le malattie neurodegenerative comprendono un vasto gruppo di patologie che presentano manifestazioni cliniche condivise, come deficit cognitivi e disturbi del movimento. Alla base di esse, si trova la progressiva perdita di neuroni come conseguenza di due distinti meccanismi patologici: 1) deposito cellulare o extracellulare nei tessuti cerebrali di proteine “misfolded”, cioè caratterizzate da un errato ripiegamento (beta-amiloide (Aβ), alfa-sinucleina (α-sin) e tau);

2) aumento dei meccanismi di induzione di morte programmata o apoptosi neuronale.

Tra le malattie neurodegenerative, la malattia di Alzheimer (AD) rappresenta la causa più comune di demenza che progressivamente ed irreversibilmente distrugge la memoria e le funzioni cognitive. Nella malattia di Alzheimer (AD) si hanno depositi di proteina Aβ che formano delle placche extracellulari nel tessuto cerebrale e grovigli neuro-fibrillari insolubili di proteina tau iperfosforilata, localizzati prevalentemente nelle regioni ippocampali e temporali della corteccia cerebrale. Oltre ad alterazioni delle proteine Aβ e tau, nell’Alzheimer sono stati anche individuati depositi della proteina α-sin, che può interagire con le altre proteine portando alla formazione di eterocomplessi (α-sin/Aβ e α-sin/tau). L’accumulo delle proteine “misfolded” sembra verificarsi non solo a livello cerebrale, ma anche nei tessuti periferici, quali sangue e intestino. Nel sangue, in particolare nei globuli rossi, sono stati detectati i livelli delle proteine misfolded e sono in corso diversi studi per valutare se tali livelli possano costituire dei validi biomarker in fluidi più accessibili per la diagnosi della malattia. Per quanto riguarda l’intestino, è stato ipotizzato che alterazioni nel microbioma intestinale siano coinvolte nella malattia. Infatti, l’intestino ed il cervello sono profondamente interconnessi attraverso l’asse intestino-cervello ed una perturbazione nella composizione del microbioma può portare allo sviluppo di infiammazione, condizione in cui i batteri intestinali secernono nell’ambiente circostante alti livelli di fattori che aumentano l’accumulo di proteina Aβ. Questi fattori possono uscire dal tratto gastrointestinale ed aumentare i livelli di citochine pro-infiammatorie, tra le quali IL-1β, andando ad aumentare la risposta infiammatoria dovuta all’accumulo di Aβ cerebrale. Inoltre le citochine e l’amiloide batterica attraversano più facilmente la barriera ematoencefalica, le cui giunzioni non sono più strette, contribuendo a fenomeni di neuroinfiammazione.

Lo scopo del presente lavoro di tesi è stato quello di valutare i livelli di proteina α-sin e dei suoi eterocomplessi (α-sin/Aβ e α-sin/tau) in campioni di cervello ed intestino prelevati da topi SAMP8, modello murino della malattia di Alzheimer, e dai rispettivi topi di controllo SAMR1.

Test comportamentali (Morris water maze test) sono stati eseguiti sui topi a 4, 6 e 8 mesi, in modo da monitorare i deficit cognitivi che compaiono nei topi SAMP8 con la progressione della malattia. Sui campioni di cervello e intestino sono stati quantificati i livelli di proteina α-sin e dei suoi etero complessi α-sin/tau e α-sin/Aβ, per stabilire la presenza di una correlazione tra la quantità di proteina nei diversi compartimenti tissutali e il progredire della malattia. Inoltre sono stati valutati i livelli di IL1-β, marker infiammatorio, per stabilire se può essere considerata un biomarker di neuroinfiammazione.

Per verificare la presenza delle proteine e per quantificarne i livelli nel cervello e nell’intestino sono state utilizzate rispettivamente la tecnica di separazione elettroforetica in SDS-page seguita da Western Blot ed il dosaggio immunoenzimatico ELISA. I dati ottenuti sono stati analizzati al fine di stabilire un eventuale correlazione cervello-intestino relativa alla concentrazione della proteina α-sin e dei suoi eterocomplessi α-α-sin/tau e α-α-sin-Aβ ed il possibile ruolo dell’infiammazione nello sviluppo della malattia di Alzheimer sia in topo sani, SAMR1, che in topi malati, SAMP8.

I risultati ottenuti hanno dimostrato che, i livelli di α-sin nell’intestino aumentano sia in SAMP8 che in SAMR1 ma sono maggiori nei topi con la malattia; invece, a livello cerebrale, si ha una diminuzione significativa dei livelli di α-sin nei topi SAMP8 con il progredire della malattia. A livello intestinale, la concentrazione di α-sin/Aβ diminuisce in modo significativo con il progredire

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della malattia, mentre non si hanno significativi cambiamenti nei topi di controllo; anche a livello cerebrale si ha una diminuzione significativa dei livelli dell’eterocomplesso con il progredire della malattia, mentre si verifica un aumento dei livelli con l’avanzare dell’età nei topi SAMR1. La concentrazione dell’eterocomplesso α-sin/tau non ha mostrato significative differenze tra i gruppi analizzati nello studio, a livello intestinale; invece, a livello cerebrale, si ha una diminuzione significativa nei topi malati. Per quanto riguarda i livelli di IL-1β, a livello cerebrale, nei topi che presentano la malattia si ha un aumento significativo; anche a livello intestinale si ha aumento significativo della citochina con il progredire della malattia.

Da queste osservazioni è stato quindi possibile valutare e confrontare i livelli di proteine che si accumulano a livello centrale e periferico nella malattia di Alzheimer. Questi dati suggeriscono che la proteina α-sin e i suoi eterocomplessi, α-sin/Aβ e α-sin/tau, possono essere coinvolti nella neurodegenerazione e che la disregolazione delle loro concentrazioni nel tratto gastro-intestinale può essere correlata all’insorgenza ed alla progressione della malattia di Alzheimer.

In conclusione lo studio effettuato vuole contribuire ad individuare proteine coinvolte nella neuro degenerazione e potenziali biomarker di infiammazione intestinale nella malattia di Alzheimer in quanto l’analisi a livello intestinale di biomarker sembra essere una via più semplice, economica e meno invasiva sebbene ancora soggetta a studi.

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1.1 LE MALATTIE NEURODEGENERATIVE E MECCANSIMI

PATOLOGICI

Le malattie neurodegenerative comprendono un vasto gruppo di patologie che colpiscono soprattutto i neuroni del cervello umano. I neuroni sono gli elementi costitutivi del tessuto nervoso e, insieme alle cellule gliali, vanno a costituire il Sistema Nervoso, che comprende il cervello e il midollo spinale. Normalmente i neuroni non vanno incontro a riproduzione, perciò, quando vengono danneggiati o muoiono, non possono essere sostituiti dall’organismo. Tali patologie sono debilitanti e non curabili e provocano la degenerazione progressiva e/o la morte delle cellule nervose. Come conseguenza di ciò a livello clinico si manifestano disordini cognitivi, disordini del linguaggio, alterazioni motorie, demenza, disturbi psicologici e del comportamento.

Le principali malattie neurodegenerative sono: la malattia di Alzheimer (AD), la malattia di Parkinson (PD), la malattia di Huntington (HD), la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), la paralisi sopranucleare progressiva (PSP), la demenza frontotemporale (DFT), la Malattia di Creutzfeldt-Jakob (MCJ) e la Malattia di Gerstmann-Sträussler-Scheinker (GSS). Alla base del processo neurodegenerativo si ha la progressiva perdita di specifiche popolazioni neuronali come conseguenza di due distinti meccanismi:

1) deposito cellulare o extracellulare nei tessuti cerebrali di proteine “Misfolded”, cioè caratterizzate da un errato ripiegamento;

2) aumento dei meccanismi di induzione di morte programmata o apoptosi neuronale.

Le più comuni proteine che formano depositi nelle malattie neurodegenerative sono la beta amiloide (Aβ), la proteina tau, l’alfa-sinucleina (α-sin) e la proteina TDP-43 (Matej, 2019). Proprio per il coinvolgimento di tali proteine nei processi neurodegenerativi, alcune malattie vengono anche classificate come Proteinopatie. Le proteine vengono sintetizzate come sequenza lineare di amminoacidi e successivamente subiscono modifiche post-trasduzionali per raggiungere la conformazione necessaria allo svolgimento della propria funzione. Alcune proteine vanno incontro a ripiegamento spontaneamente non appena sintetizzate, mentre altre mostrano un ripiegamento inefficiente diventando inclini ad assumere uno scorretto ripiegamento. Il sistema di controllo delle proteine, presente nell’organismo, si è evoluto negli anni per garantire un adeguato ripiegamento ed un corretto smaltimento delle proteine mal ripiegate. Nonostante ciò, alcune proteine non riescono a raggiungere o mantenere la conformazione necessaria e sono così destinate alla degradazione proteosomiale o lisosomiale (Figura 1).

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Figura 1- Modello di aggregazione e ripiegamento delle proteine. (Kumar et al, 2016)

Le maggiori cause che portano ad uno scorretto ripiegamento delle proteine sono l’invecchiamento, le mutazioni genetiche e cambiamenti dell’ambiente intracellulare come il pH, la temperatura, lo stress ossidativo o la presenza di ioni metallici.

Le proteinopatie si sviluppano a causa dall’alterazione e aggregazione di specifiche proteine (Tabella 1). Le proteine altamente solubili vengono gradualmente convertite in polimeri filamentosi insolubili che hanno la caratteristica struttura a β-foglietto ripiegato. Queste strutture si accumulano nel nucleo o nel citoplasma delle cellule cerebrali colpite o nello spazio extracellulare (Kumar et al., 2016).

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Disease Protein/peptide Characteristic

pathology Most affected regions Neurodegenerative

diseases Alzheimer's disease (AD) Aβ-peptide (1-40/1-42) Amyloid plaque Cortex, hippocampus, forebrain, brain stem Tau Neurofibrillary

tangle Same as above α-synuclein Lewy bodis Same as above Parkinson's

disease (PD) α-synuclein Lewy bodies and neurites Substantia nigra, cortex Parkin (DJ-1,

PINK1) Lewy bodies absent or less frequent

Substantia nigra

Huntington's

disease (HD) Huntingtin Intranuclear inclusions and cytoplasmic aggregates Striatum, other basal gangia, cortex Polyglutamine

diseases Ataxins, Atrophin-1, Androgen receptor

Intranuclear

inclusions Basal ganglia, cerebellum, spinal cord, and brain stem Prion diseases

(kuru, CJD,GSS disease)

Prion protein Spongiform degeneration, amyloid Cortex, brain stem, cerebellum, thalamus and other areas Amyotrophic Lateral scerosis (ALS), Frontotemporal lobar degeneration (FTLD) Superoxide dismutase (SOD1) RNA binding proteins (TDP43, FUS,TAF15) and Ubiquitin Hyaline inclusions, bonnia bodies and axonal spheroids Spinal motor neurons and motor cortex Tauopathies (frontotemporal dementia, frontotemporal lobar degeneration)

Tau protein Pick bodies Frontal and temporal cortex, hippocampus

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1.1.1 AGGREGAZIONE E RIPIEGAMENTO PROTEICO

Il ripiegamento proteico è quel processo mediante il quale una proteina assume la struttura tridimensionale o struttura terziaria a partire dalla struttura lineare o struttura primaria.

Il “misfolding” o errato ripiegamento si verifica per diverse ragioni: mutazioni somatiche, errori trascrizionali, errore del meccanismo di piegatura, errate modifiche post-trasduzionali e modifiche strutturali dovute a cambiamenti ambientali. L’aggregazione si verifica quando proteine parzialmente ripiegate espongono i loro residui idrofobici che si troverebbero all’interno nello stato tridimensionale. I residui idrofobici interagiscono tra loro formando aggregati amorfi, oligomeri e fibrille amiloidi tutti insolubili (Figura 2).

Figura 2- processo di aggregazione proteica (https://www.sciencedirect.com/topics/neuroscience/protein-aggregation)

La presenza di aggregati insolubili è correlata alla progressione della malattia e dati di letteratura suggeriscono che l’aggregazione sia promossa dalle forme prefibrillari che risultano essere anche le più tossiche. Il meccanismo di tossicità non è ancora del tutto chiaro, molto probabilmente però la tossicità è dovuta a caratteristiche strutturali condivise dai precursori fibrillari. È stato ipotizzato che, sebbene ripiegamento ed aggregazione siano due processi distinti, siano in competizione tra

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loro e che un processo sarà favorito per una data catena a seconda delle condizioni ambientali (Kumar et al, 2016).

1.1.2 MORTE NEURONALE

Le malattie neurodegenerative presentano alcune caratteristiche tipiche come la perdita neuronale selettiva, le alterazioni sinaptiche e la neuroinfiammazione. Tuttavia, la regione del cervello che viene colpita differisce tra le diverse malattie (Tabella 1). La perdita neuronale si verifica con morte programmata o apoptosi e sono state suggerite tre ipotesi che possono spiegare come il misfolding e l’aggregazione delle proteine siano correlati alla neurodegenerazione (Figura 3).

Figura 3- Neurodegenerazione associata ad aggregazione e misfolding. (Kumar et al, 2016)

La prima ipotesi è quella della perdita di funzione. Questa ipotesi è applicabile nel caso di HD, PD, TSE e SLA e suggerisce che la morte neuronale sia causata dalla perdita della normale attività della proteina che si esaurisce a causa dell’errato ripiegamento e dell’aggregazione delle proteine. L’esaurimento della superossido dismutasi (SOD1) nella SLA, per errato ripiegamento e aggregazione, potrebbe portare all’accumulo di specie reattive dell’ossigeno supportando l’ipotesi

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della perdita di funzione. Nella malattia di Huntington, i topi omozigoti knockout per huntingtina sono morti precocemente durante lo sviluppo embrionale suggerendo l’ipotesi della perdita funzionale. Al contrario, topi eterozigoti hanno raggiunto l’età adulta con fenotipo normale. La proteina PrPC è coinvolta nella trasduzione del segnale e interagisce con diverse proteine. Le linee cellulari PrP-null sono più suscettibili all’apoptosi. La perdita della funzione della proteina porta a encefalopatia spongiforme trasmissibile (TSE) alterando le vie di segnalazione coinvolte nella sopravvivenza neuronale.

La seconda ipotesi è quella del guadagno di funzione. Questa è l’ipotesi più accettata nella comunità scientifica e suggerisce che un errato ripiegamento e l’aggregazione delle proteine determinino il guadagno di funzione neurotossica. Questa teoria si basa sull’osservazione in vitro della morte neuronale causata da aggregati di proteine mal ripiegate. Inoltre, a supporto di tale tesi, ci sono molti esperimenti su animali transgenici con il gene mutato umano che codifica per la proteina mal ripiegata che ha innescato la neurodegenerazione. Sono stati suggeriti diversi meccanismi per spiegare l’attività neurotossica delle proteine “misfolded” e, a seconda dell’accumulo intra o extracellulare, operano tramite diverse vie. Gli aggregati extracellulari inducono l’apoptosi interagendo con specifici recettori nucleari, mentre gli aggregati intracellulari danneggiano la cellula reclutando fattori di vitalità all’interno degli aggregati stessi. Si ha poi la rottura e la depolarizzazione di membrana che porta alla disregolazione della trasduzione del segnale e all’alterazione dell’omeostasi ionica con conseguente morte cellulare. Inoltre, gli aggregati proteici inducono anche stress ossidativo producendo specie reattive dell’ossigeno che causano ossidazione di proteine e lipidi, aumento del calcio intracellulare e disfunzione mitocondriale.

La terza ed ultima ipotesi è quella della neuroinfiammazione. Secondo questa ipotesi, gli aggregati proteici causano una reazione infiammatoria cronica nel cervello che porta alla neurodegenerazione. Questa tesi è supportata da esperimenti che evidenziano astrocitosi diffusa e attivazione della microglia, cellule gliali deputate alla difesa immunitaria nel sistema nervoso centrale e aumento dei livelli di proteine infiammatorie nel cervello. Inoltre, trattamenti con FANS (farmaci antinfiammatori non steroidei) riducono l’incidenza di insorgenza di Alzheimer in modelli animali e umani (Kumar et al, 2016).

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1.2 LA MALATTIA DI ALZHEIMER

La malattia di Alzheimer (AD) è una neurodegenerazione irreversibile e progressiva che distrugge lentamente la memoria, le capacità di pensiero e, infine, la capacità di svolgere i compiti più semplici. L’Alzheimer è la più comune causa di demenza, colpisce il 50-75% tra gli anziani e solitamente si presenta dopo i 65 anni (Lane, 2018). I sintomi della malattia peggiorano gradualmente negli anni: nella fase iniziale la perdita di memoria è lieve, ma con il progredire della malattia le persone perdono la capacità di portare avanti la conversazione e di reagire nel loro ambiente. La sopravvivenza media è di 8 anni dopo che la malattia ha raggiunto il suo stato avanzato. A livello cerebrale, si hanno complessi cambiamenti durante l’insorgenza e la progressione della malattia. È probabile che i cambiamenti possano iniziare anni prima che compaiano i primi sintomi di perdita di memoria e altri problemi cognitivi. Durante questa fase preclinica sembra che i danni si verifichino soprattutto nell’ippocampo e nella corteccia entorinale, regioni cerebrali essenziali nella formazione dei ricordi. Man mano che i neuroni muoiono, perdono connessioni con altre regioni cerebrali che di conseguenza vengono colpite e vanno incontro a morte. Nello stadio finale della malattia, il danno cerebrale è molto diffuso e si ha una netta riduzione del tessuto cerebrale. Le proteine tipiche della malattia sono la proteina beta amiloide (Aβ), che forma depositi extracellulari nel tessuto cerebrale e la proteina tau che forma dei grovigli intracellulari insolubili (Matej, 2019). Tuttavia, molti studi hanno confermato che nella malattia possono essere coinvolte anche altre proteine. Infatti, recentemente sono stati rilevati dei depositi di proteina α-sinucleina (α-sin) nel 30% dei casi di Alzheimer (Baldacci, 2019). Ad oggi, non esistono trattamenti farmacologici in grado di fermare la progressione della malattia, ma sono disponibili cure in grado di rallentare temporaneamente il peggioramento dei sintomi e di migliorare la qualità di vita del paziente.

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1.3

CATTERISTICHE

NEUROPATOLOGICHE

DELLA

MALATTIA DI ALZHEIMER

Nella malattia di Alzheimer si ha la presenza di placche di proteina beta amiloide extraneuronali e di grovigli neurofibrillari di tau intraneuronali (Figura 4).

Figura 4- Accumulo di proteina tau e Aβ a livello neuronale ed extraneuronale al progredire della malattia. (https://www.nature.com/articles/nrn2967)

Recentemente, è stata individuata anche la presenza di proteina α-sin che può interagire con le altre proteine portando alla formazione di eterocomplessi α-sin/Aβ e α-sin/tau.

Le placche di amiloide o placche senili sono composte principalmente dalla proteina Aβ ripiegata in maniera errata. Ci sono due sottotipi di proteina: Aβ40 e Aβ42 rispettivamente formate da 40 e 42 amminoacidi. Aβ42 risulta essere la più abbondante a causa della sua maggiore insolubilità. Le placche solitamente si sviluppano nell’isocorteccia e successivamente si espandono nelle strutture subcorticali (Lane, 2018). A differenza dei grovigli di tau, i depositi di Aβ si trovano in minore quantità nella corteccia entorinale e nella regione ippocampale (Serrano-Pozo, 2011).

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I grovigli neurofibrillari di tau sono composti da filamenti elicoidali accoppiati di proteina iperfosforilata. Si formano principalmente nella corteccia entorinale e nell’ippocampo per poi diffondersi nell’isocorteccia. Le aree sensoriali, motorie e visive primarie tendono ad essere risparmiate (Lane, 2018). La perdita delle sinapsi neuronali è dovuta alla formazione di grovigli paralleli (Serrano-pozo, 2011).

La proteina α-sin è il precursore di proteine non amiloidogeniche che si trovano nelle placche senili e si trova principalmente a livello presinaptico. È molto abbondante a livello neuronale, soprattutto a livello dei terminali presinaptici. La sua sovraespressione porta a morte neuronale ma il meccanismo con il quale questa morte avviene non è ancora chiaro (Kim, 2003). Anch’essa genera oligomeri, protofibrille e fibrille simili a quelle di Aβ, ma con cinetica più lenta. Gli oligomeri rappresentano la forma tossica di proteina e la componente non amiloide (NAC) dei frammenti fibrillogenici induce effetti tossici (Giacomelli, 2017).

È stato ipotizzato che Aβ, tau e α-sin promuovano l’accumulo reciproco. Diversi studi evidenziano che aggregati di α-sin, a basse concentrazioni, non riescono a formare aggregati a meno che non vi sia la contemporanea presenza di proteina tau. Questa relazione sembra essere reciproca in quanto sembra che anche la proteina α-sin promuova l’aggregazione di tau in vivo (Clinton, 2010).

1.3.1 LA PROTEINA BETA AMILOIDE

La Aβ ha origine dalla proteina APP, amyloid precursor protein, una proteina che ha tre isoforme APP695, APP751 e APP770 contenenti rispettivamente 695, 751 e 770 amminoacidi. L’APP appartiene alla famiglia delle proteine transmembrana (Zhang, 2011) ed è principalmente localizzata intorno alle sinapsi nel tessuto neuronale. Sebbene la sua funzione non sia ancora stata del tutto compresa è stato dimostrato essere fondamentale per la plasticità neuronale e per la formazione delle sinapsi.

Il primo passaggio proteolitico che può portare o no alla formazione di amiloide, si verifica nella regione transmembrana da un gruppo di enzimi chiamati secretasi (α, β, γ): se interviene l’α-secretasi si ha la via non amiloidogenica; se, invece, intervengono la β- e successivamente la γ-secretasi si ha la via amiloidogenica che porta alla formazione della proteina beta amiloide, sottoprodotto del metabolismo di APP (Figura 5). È da notare che entrambi i processi metabolici fanno parte della normale fisiologia umana ma, in soggetti sani si hanno meccanismi post-APP che riescono a smaltire i sottoprodotti. Inoltre, sono state identificate numerose mutazioni che hanno un impatto negativo sulla via metabolica di APP portando alla formazione di Aβ (Mohamed, 2016).

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Figura 5- rappresentazione di APP e delle secretasi nelle membrane neuronali. (Mohamed et al, 2016)

Il sito di scissione APP per la β-secretasi si trova più a monte rispetto a quello dell’α-secretasi. La scissione ad opera dell’enzima produce un frammento APP-beta (β-APP) solubile, più piccolo di α-APP con azione neuroprotettiva ed un frammento CTF-99, che subisce un ulteriore taglio da parte della γ-secretasi e si ha così il frammento Aβ1-40/42 (Figura 6) (Mohamed, 2016). In alcuni soggetti si ha una sovrapproduzione di questo monomero o un maggior livello di Aβ42 che risulta essere tossico per i neuroni e promuove l’aggregazione in fibrille e quindi la formazione di placche di amiloide, coinvolte nella patogenesi della malattia di Alzheimer.

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Figura 6- differenti vie metaboliche di APP (https://informa.airicerca.org/it/2016/04/12/accumulo-amiloide-alzheimer-relazione-pericolosa/)

I polipeptidi di Aβ sono anfipatici, sono cioè caratterizzati dalla presenza di domini polari e non polari e da molti amminoacidi carichi che portano ad una vasta gamma di strutture secondarie e terziarie. I peptidi che terminano nei residui da 38 a 49 sono più idrofobici a causa della maggiore presenza di residui non polari che diminuiscono la solubilità e aumentano l’aggregazione (Roher, 2017). Le strutture oligomeriche di questi aggregati sono considerate le più tossiche di tutte le forme aggregate. La maturazione di questi oligomeri genera singoli filamenti che si uniscono per formare le fibrille (Figura 7), che hanno struttura a β-foglietto antiparallela. La morfologia finale sono i depositi di placche che possono contenere varie forme aggregate.

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Figura 7- formazione di fibrille insolubili di Aβ. (Mohamed et al, 2016)

1.3.2 LA PROTEINA TAU

Tau è una proteina intracellulare associata ai microtubuli che svolge un ruolo essenziale nella loro stabilizzazione e promuove l’assemblaggio della tubulina per regolare le normali funzioni dei neuroni (Jouanne, 2017). I microtubuli trasportano nutrienti, rifiuti e neurotrasmettitori attraverso i neuroni. La proteina tau ha sei isoforme che hanno 3 o 4 domini ripetuti, 3R o 4R (Figura 8), che sono i siti di legame per i microtubuli. Si è ipotizzato che queste isoforme abbiano ruoli e distribuzione distinti all’interno del neurone (Chong, 2018).

3R e 4R sono in rapporto 1:1 nel cervello umano adulto: le forme 3R sono principalmente prodotte durante lo sviluppo, mentre le isoforme 4R sono prodotte in età adulta. Sembra che le forme 4R abbiano un’attività più forte di promozione dell’assemblaggio dei microtubuli (Naseri, 2019).

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Figura 8- Isoforme 3R e 4R della proteina tau. (Choi, 2009)

Modifiche post trasduzionali della proteina interferiscono con i domini 3R o 4R e promuovono l’errato ripiegamento della proteina (Congdon, 2018). Il misfolding porta la proteina a perdere affinità per i microtubuli e a non promuoverne più l’assemblaggio. Una delle più comuni modifiche post trasduzionali è la fosforilazione che porta la proteina ad aggregarsi formando un dimero che a sua volta si aggrega con altri dimeri per formare un oligomero (Chong, 2018). Gli oligomeri si aggregano e formano un’elica accoppiata a filamenti che alla fine porta alla formazione di grovigli neurofibrillari insolubili (Grundke-Iqbal, 1986) (Figura 9).

Figura 9- Processo di formazione dei grovigli neurofibrillari di proteina tau. (https://www.abcam.com/neuroscience/alzheimers-disease)

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Nella malattia, l’equilibrio della forma legata ai microtubuli e non legata cambia e si ha un aumento della forma libera (Figura 10). Il distacco della proteina dai microtubuli è dovuto ad una iperfosforilazione della proteina (Brosch, 2016).

Figura 10- Livelli di proteina tau evidenziati con la PET in pazienti sani, pazienti con MCI con lieve ed alti livelli di tau e pazienti con Alzheimer. (Brosch et al, 2016)

1.3.3 LA PROTEINA ALFA-SINUCLEINA

La proteina α-sin appartiene ad una famiglia di piccole proteine (113-143 amminoacidi) che sono largamente espresse nel tessuto nervoso ed in particolare nei terminali presinaptici, dove regola il rilascio delle vescicole (Wong, 2017). La sua presenza ad alte concentrazioni a livello di neocorteccia, ippocampo e sostanza nigra, zone colpite all’inizio di AD, suggerisce il coinvolgimento della proteina nei processi neurodegenerativi (Kim, 2003). Sono stati identificati tre tipi di proteina, α, β e γ (Wirths, 2002). Le tre sinucleine contengono una sequenza caratteristica di 11 residui, ripetuta sette volte in α-sin, che forma un’α-elica anfipatica che contiene il sito di legame per i fosfolipidi di membrana (Burrè, 2018). Le altre regioni caratteristiche della proteina sono il dominio centrale idrofobico, che è la componente non amiloidogenica, coinvolto nell’aggregazione di α-sin e il dominio C-terminale ricco di cariche negative e residui di prolina,

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che donano flessibilità al polipeptide (Figura 11). La proteina è tradizionalmente considerata come intrinsecamente disordinata, priva di un’unica conformazione ma con struttura α-elica sul dominio N-terminale (Villar-Piquè, 2016).

Figura 11- struttura della proteina α-sin. (http://essays.biochemistry.org/content/56/125.figures-only)

La proteina ha diverse conformazioni tra cui monomeri, tetrameri, oligomeri solubili, fibrille insolubili con struttura a β-foglietto ed aggregati che vanno a formare i corpi di Lewy, gli aggregati patologici di proteina (Figura 12). Al momento della formazione, gli oligomeri subiscono cambiamenti conformazionali che li portano ad essere più compatti e stabili e diventano resistenti alle proteinasi (Wong, 2017). Le proteine intrinsecamente disordinate, come α-sin, hanno sequenze primarie che impediscono l’aggregazione e presentano residui carichi negativamente privi di zone idrofobiche. Nel caso di α-sin, la regione NAC è idrofobica e quindi tende ad interagire con altre proteine formando aggregati ma risulta essere parzialmente schermata dai terminali N- e C- ricchi rispettivamente di cariche positive e negative. Le varie conformazioni della proteina sono stabilizzate da interazioni long-range proprio tra il C-terminale e NAC e tra il C-terminale e l’N-terminale, tali interazioni sono probabilmente idrofobiche e prevengono l’aggregazione. Tuttavia, mutazioni e cambiamenti ambientali possono destabilizzare la struttura della proteina e portare a misfolding e aggregazione (Villar-Piquè, 2016).

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Figura 12- processo di aggregazione della proteina α-sin. (Kingwell, 2017)

La proteina, oltre ad essere implicata nella patogenesi della malattia di Parkinson, sembra essere implicata anche nella malattia di Alzheimer. È stato suggerito che α-sin sia coinvolta nella formazione di anomale sinapsi. Accumuli di proteina sono stati trovati nel cervello di pazienti malati rispetto ai pazienti di controllo soprattutto a livello presinaptico. Ciò potrebbe suggerire che questi depositi siano segnali precoci di sviluppo della malattia (Kim, 2004).

L’interesse per questa proteina è aumentato poiché recenti studi hanno evidenziato che la proteina α-sin potrebbe interagire con le altre proteine coinvolte nella malattia, Aβ e tau, promuovendo la loro aggregazione, aumentando il danno neuronale e accelerando il declino cognitivo (Korff, 2013).

1.3.4 ETEROCOMPLESSI α-SIN/Aβ E α-SIN/TAU

Dati di letteratura riportano che la proteina α-sin interagisce con le altre proteine tipiche della neurodegenerazione come Aβ e tau, producendo oligomeri ibridi detti eteroaggregati (Baldacci, 2019). È stato dimostrato che le proteine Aβ e α-sin formano complessi nel cervello di pazienti malati e in modelli animali transgenici. Ciò fornisce chiare prove della loro diretta interazione. In diversi sistemi cellulari, è stato dimostrato che l’α-sin lega direttamente la proteina tau promuovendone la polimerizzazione, anche a livello assonale. Questi complessi non si trovano

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solamente a livello cerebrale ma sono stati individuati anche in tessuti periferici (Daniele, 2018). L’interazione tra Aβ, tipica della malattia di Alzheimer, e l’α-sin, tipica della malattia di Parkinson, è interessante perché diversi studi hanno dimostrato che le due patologie si sovrappongono in un gruppo eterogeneo di condizioni patologiche denominate come malattia dei corpi di Lewy (LBD). Sebbene studi confermino che l’eterocomplesso sia coinvolto nella patogenesi di LBD, le caratteristiche molecolari e le conseguenze di tale interazione non sono ancora del tutto comprese (Tsigenly, 2008).

Il meccanismo patologico responsabile della graduale transizione da una conformazione altamente funzionale e solubile ad un aggregato insolubile, contenente la struttura a β-foglietto, non è ancora del tutto compreso. L’accumulo di aggregati proteici aumenta con l’età ed i sistemi ubiquitina/proteasoma ed i processi di autofagia perdono la capacità di controllare e degradare i monomeri mal ripiegati (Figura 13).

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23 Interazione tra α-sin e Aβ

La proteina beta amiloide si accumula principalmente nelle regioni extracellulari ma suoi depositi sono stati trovati anche in strutture cellulari come mitocondri ed apparato di Golgi. Questa localizzazione intracellulare permette ad Aβ di interagire con una varietà di proteine intracellulari come l’α-sin. In condizioni fisiologiche, l’α-sin ha una conformazione elicoidale ed è coinvolta nei processi di trasporto delle vescicole. Quando le vescicole sono fuse con la membrana, la proteina si trova nel citosol ed è quindi assente nella membrana sinaptica. In condizioni patologiche con danno neuronale, i livelli di aggregati di α-sin citosolica tendono ad aumentare ed interagiscono con i peptidi Aβ40-42. Le alterazioni strutturali sono maggiori quando l’α-sin interagisce con Aβ42 (Giacomelli, 2017).

Interazione tra α-sin e tau

Sebbene la proteina α-sin sia una proteina presinaptica, studi dimostrano che si trova anche a livello assonale. Osservando il trasporto assonale della proteina nel sistema ottico del ratto è stato dimostrato che le proteine α-sin e tau hanno molte probabilità di interazione a livello dell’assone. La proteina α-sin si lega a livello del dominio delle regioni ripetute della proteina tau. È stato dimostrato che non c’è differenza di affinità di legame tra le isoforme della tau che presentano tre o quattro regioni ripetute e la proteina α-sin. La proteina tau interagisce con l’α-sin a livello dei residui acidi della regione C-terminale (Jensen, 1999).

1.4 SINTOMI DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER

I problemi di memoria generalmente sono uno dei primi segni di compromissione cognitiva che compaiono nella malattia di Alzheimer. Alcune persone che presentano problemi di memoria sviluppano una condizione chiamata compromissione cognitiva lieve (MCI). In MCI, le persone hanno più problemi di memoria rispetto all’età che hanno, ma tali problemi non interferiscono con la loro vita quotidiana. Difficoltà motorie e problemi olfattivi possono essere collegati all’MCI. I soggetti anziani affetti da MCI sono maggiormente a rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer. I primi sintomi della malattia variano da persona a persona. Per molti, si ha il declino di aspetti cognitivi non legati alla memoria come problemi nella ricerca delle parole, problemi di visione, difficoltà di ragionamento e giudizio alterato; per altri, invece, si hanno problemi in aspetti cognitivi

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legati alla memoria. La malattia può essere divisa in tre fasi ed ognuna di queste presenta dei sintomi caratteristici. Il primo stadio è lo stadio lieve dove si inizia ad avere una maggiore perdita di memoria, generalmente a breve termine, ed altre difficoltà cognitive. Generalmente è in questo stadio che viene diagnosticata la malattia.

Il secondo stadio è lo stadio moderato. In questa fase si verificano danni alle aree cerebrali che controllano il linguaggio, il ragionamento, l’elaborazione sensoriale ed il pensiero cosciente. La perdita di memoria peggiora ed i soggetti iniziano a riscontrare problemi nel riconoscere familiari ed amici.

Il terzo stadio è lo stadio avanzato in cui, a livello cerebrale, le placche di Aβ e i grovigli di tau si diffondono in tutto il cervello e il tessuto cerebrale si restringe in modo significativo. La massa muscolare e la mobilità si deteriorano al punto che sono costretti a letto non più capaci di nutrirsi.

1.5 DIAGNOSI

Nella pratica clinica, la diagnosi viene effettuata quando i pazienti presentano deficit nella memoria da oltre 6 mesi con conseguente compromissione della cura di sé e della vita sociale/lavorativa. I deficit della memoria vengono verificati con vari test neuropsicologici tra cui il Mini-Mental State Examination (MMSE). Altri criteri diagnostici essenziali includono la valutazione della presenza di deficit in due o più aree cerebrali cognitive, insorgenza della malattia tra i 40 e i 90 anni, assenza di disturbi sistemici o altre malattie che potrebbero essere correlate al progressivo deficit della memoria, prove di atrofia cerebrale mediante tomografia computerizzata (CT) o imaging a risonanza magnetica (MRI). Il neuroimaging diagnostico con CT o MRI può aiutare ad escludere la presenza di ictus, ematoma subdurale, idrocefalo o tumori che potrebbero portare agli stessi deficit cognitivi dell’Alzheimer. Questo approccio clinico per la diagnosi della malattia è spesso impiegato insieme ai criteri diagnostici per AD stabiliti in letteratura, compresi quelli stabiliti dal Manuale statistico dei disturbi mentali (4° edizione) e quelli dell’Istituto nazionale di neurologia e disturbi comunicativi. In passato venivano usati solo questi ultimi criteri diagnostici e si avevano diagnosi di “probabile malattia di Alzheimer” (Chu, 2012), poiché i criteri si basavano soltanto sui deficit cognitivi che manifestano i soggetti. L’utilizzo di biomarker è stato inserito nei criteri diagnostici per aumentarne la precisione (Reitz, 2011). I principali biomarker che si vanno a ricercare per la diagnosi sono le placche di Aβ e i grovigli di proteina tau. L’imaging diagnostico e il prelievo di liquido cerebrospinale (CSF) sono le tecniche utilizzate per la ricerca di tali biomarker.

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Tale metodo ha due scopi: escludere la presenza di altre malattie ed individuare biomarker specifici per l’AD. Si possono utilizzare la RMI, la PET (topografia a emissione di positroni) e la SPECT (topografia a emissione singolo fotone). La risonanza magnetica si usa per rilevare cambiamenti nelle dimensioni delle regioni del cervello poiché l’atrofia a livello ippocampale è tipica di pazienti con MCI o AD ed è un indicatore diagnostico della malattia. La PET cerebrale permette di valutare il metabolismo del glucosio utilizzando un radio farmaco, il 18F-2-deoxy-2-fluoro-D-glucose (FDG), come marker di metabolismo. Nei pazienti affetti da Alzheimer si osserva una riduzione del metabolismo del glucosio a livello delle regioni parietali temporali e della corteccia cingolata (Figura 6) (Dubois, 2007). In una persona già affetta dalla malattia, la SPECT sembra essere migliore per differenziare la malattia di Alzheimer da altre probabili cause. Sebbene le tecniche di imaging diagnostico disponibili siano molto valide, recentemente è stata sviluppata una nuova tecnica: la PiB-PET. Questa tecnica permette di visualizzare direttamente i depositi di beta amiloide (Figura 14). Il composto utilizzato è il Pittsburgh B (PIB) che è legato al carbonio-11, un radio-tracciante. La molecola utilizzata è in grado di attraversare la barriera emato-encefalica e legarsi selettivamente alle placche di Aβ (Ikonomovic, 2008). Questa tecnica ha una precisione dell’86% nel predire quali persone, già affette da deficit cognitivi lievi, svilupperanno la malattia nei successivi due anni.

Figura 14- Scansione cerebrale PET FVG e PiB-PET. Le frecce indicano le regioni di ipometabolismo del glucosio nella PET FVG o i depositi di Aβ nella PiB-PET. (Cohen et al, 2014).

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Recentemente è stato sintetizzato un nuovo radio farmaco per PET chiamato (E)-4-(2-(6-(2-(2-(2-([18F]-fluoroethoxy) ethoxy) ethoxy) pyridin-3-yl) vinyl)-N-methyl benzenamine o più semplicemente Florbetapir. Questa molecola contiene il radionuclide fluoro-18 e, come il PiB, si lega alla Aβ ma grazie alla presenza del fluoro-18 ha un tempo di emivita più lungo, 110 minuti rispetto ai 20 minuti di PiB. Un altro radio farmaco sintetizzato è il 18F-T807, contenente sempre il fluoro-18. Questo composto si lega selettivamente agli aggregati proteici di tau ed emette positroni, particelle ad alta energia (Villemagne, 2015).

-Prelievo di CSF

Nell’AD si riscontra un abbassamento dei livelli di Aβ ed un innalzamento dei livelli di tau e fosfo-tau nel liquido cefalorachidiano. I risultati del prelievo di CSF hanno una sensibilità dell’85-94% (Hort, 2010). Se il prelievo viene utilizzato in combinazione con l’imaging diagnostico è possibile evidenziare soggetti che stanno sviluppando la malattia. Questa metodologia diagnostica è più disponibile rispetto al neuroimaging sebbene sia una tecnica molto lunga ed invasiva.

1.6 TERAPIA

Ad oggi non esiste una cura per l’Alzheimer, ma alcuni medicinali possono ridurre i sintomi che si manifestano a livello clinico. Tali farmaci hanno azione a livello delle funzioni cognitive, ne ritardano il declino e modulano i cambiamenti comportamentali. Tuttavia, l’interesse terapeutico è limitato a causa degli effetti collaterali e del fatto che trattano solo i sintomi (Jouanne, 2017).

Il sistema colinergico è colpito dalla malattia sin dai primi stadi. Si ha perdita dei neuroni colinergici e perdita della funzione enzimatica di sintesi e degradazione dell’acetilcolina, che porta a perdita di memoria e deterioramento delle funzioni cognitive (Bartus, 1982). L’attenzione si è focalizzata sullo sviluppo di farmaci inibitori dell’acetilcolinesterasi (ChEIs) in maniera da ripristinare la trasmissione colinergica. Il primo farmaco approvato è stato la Tacrina (Figura 15A) nel 1993, però a causa della sua epatotossicità non viene più prescritta. Ad oggi ci sono tre farmaci, inibitori dell’acetilcolinesterasi, approvati per il trattamento della malattia di Alzheimer in fase lieve e moderata: Donazepil (Figura 15B), Rivastigmina (Figura 15C) e Galantamina (Figura 15D) (Farlow, 2002). Tutti gli studi effettuati su questi tre farmaci hanno mostrato benefici sulle funzioni cognitive e sullo svolgimento delle normali attività della vita quotidiana. In genere, gli inibitori dell’acetilcolinesterasi sono bel tollerati. La somministrazione avviene per via orale e sono

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disponibili formulazioni a rilascio prolungato che permettono l’assunzione del farmaco una volta al giorno per quanto riguarda Donazepil e Galantamina e due volte al giorno per Rivastigmina (Tabella 2). Più del 60% dei pazienti risponde al trattamento con ChEIs (Chu, 2012). Il Donazepil è un inibitore non competitivo dell’acetilcolinesterasi, AChE, presenta un’alta selettività sull’attività di quest’ultima ed è il farmaco più prescritto. Studi di farmacovigilanza hanno dimostrato che si ha minor incidenza di disturbi gastro-intestinali con l’assunzione di tale farmaco (Yiannopoulou, 2013). La Rivastigmina è un inibitore non selettivo di AChE, e produce effetti migliori rispetto agli altri inibitori. La Galantamina è un inibitore competitivo e selettivo di AChE ed è in grado di modulare anche i recettori nicotinici.

FARMACO TIPO DI INIBIZIONE DOSAGGIO E DURATA D’AZIONE PRINCIPALI EFFETTI COLLATERALI NOTE

TACRINA Non selettiva per SNC. Agisce sia su AChe sia su BuChe Somministrazione 2-3 volte al giorno. Durata azione 6 h Dolore addominale, neusea, diarrea, epatotossicità Prima acetilcolinesterasi attiva nell’Alzheimer DONAZEPIL Selettivo per il

SNC e AChe Somministrazione 1 volta al giorno. Durata azione 24 h Disturbi gastrointestinali

RIVASTIGMINA Selettiva per il SNC Somministrazione 2 volte al giorno. Durata azione 8 h Disturbi gastrointestinali che tendono a diminuire con trattamento continuato Aumento graduale della dose per minimizzare gli effetti collaterali

GALANTAMINA Agisce sia su AChE sia su BuAChE Somministrazione 1 volta al giorno. Durata azione 24 h Disturbi gastrointestinali

Tabella 2- Principali caratteristiche e somministrazione dei farmaci inibitori delle acetilcolinesterasi. (Adattata da Rang et al, 2012)

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Tuttavia, i benefici indotti da questi farmaci sono solo temporanei, meno efficaci in stadi avanzati della malattia e presentano alcuni svantaggi. Il principale svantaggio di una terapia a lungo termine è l’innalzamento dei livelli di acetilcolina in tutto l’organismo e non sono a livello cerebrale. Si hanno così effetti collaterali a livello gastro-intestinale ed inoltre, gli aumentati livelli di neurotrasmettitore portano ad una maggiore attivazione dei recettori colinergici presinaptici che, agendo come sistemi di controllo a feedback, riducono il rilascio di acetilcolina.

Lo sviluppo di altri farmaci prende in considerazione il ruolo dell’eccitotossicità del glutammato mediata da un’eccessiva attivazione del recettore NMDA, che si ritiene sia coinvolta nella morte neuronale (Klafki, 2006). La Memantina (Figura 715E) è un antagonista non competitivo dei recettori NMDA. Si ipotizza che riduca l’eccitotossicità neuronale indotta da glutammato pur consentendo l’azione fisiologica del neurotrasmettitore. Si usa per il trattamento di AD in fase moderata e grave. In studi clinici, la Memantina ha dimostrato avere un effetto benefico sulle funzioni cognitive e sulla qualità della vita dei pazienti (Chu, 2012).

A B

C D

E

Figura 15- farmaci impiegati nella terapia di AD (A) Tacrina; (B) Donazepil; (C) Rivastigmina; (D) Galantamina; (E) Memantina ( www.wikipedia.it )

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Ad oggi non esiste nessun farmaco in grado di ritardare o addirittura fermare la neurodegenerazione. Sono stati caratterizzati alcuni bersagli come la formazione di Aβ da parte delle β- e γ-secretasi, la neurotossicità indotta da questa proteina così come un certo numero di modelli animali transgenici da AD sui quali è possibile monitorare la progressione della malattia e testare diverse sostanze; tutto ciò fornisce prospettive migliori rispetto al passato e proprio sulla base di queste nuove prospettive sono in corso studi e sperimentazioni cliniche su nuove classi di farmaci (Tabella 3).

TERAPIA NOTE

Inibitori delle β- e γ-secretasi Sperimentazione clinica. Si sono rivelati efficaci ma in molti casi hanno sviluppato tossicità nel sistema immunitario

Inibitori delle chinasi Inibiscono fosforilazione di proteina tau Anticorpi monoclonali per Aβ Sperimentazione clinica

Farmaci antinfiammatori non steroidei (ibuprofene e indometacina)

Riducono tossicità indotta da Aβ

Cliochinolo Amebicida chelante di rame e zinco presenti

nelle placche di Aβ Fattore di crescita nervoso (NGF) Sperimentazione clinica

Tabella 3- strategie terapeutiche possibili o in sperimentazione clinica per contrastare la malattia di Alzheimer. (Adattato da Rang et al, 2012)

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1.7 RUOLO DELL’INFIAMMAZIONE INTESTINALE NELLO

SVILUPPO DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER

Il microbioma intestinale è composto da batteri, funghi, archea, virus e protozoi che vivono in simbiosi con l’ospite umano, contribuendo al metabolismo e all’omeostasi del sistema immunitario (Jandhyala, 2015). Uno strato di cellule epiteliali intestinali (IEC) separa l’ospite da trilioni di microbi ed antigeni, impedendone la traslocazione al di fuori del tratto gastrointestinale dove non sono tollerati. Oltre a IEC, il sistema immunitario del tratto gastrointestinale (GALT) contribuisce all’integrità della barriera intestinale bloccando i microrganismi in quel compartimento cellulare (Hwang, 2012). È stato dimostrato che la perdita di tolleranza ai batteri intestinali causa attivazione della risposta immunitaria, interruzione della barriera e fuoriuscita dei microrganismi dal tratto gastrointestinale (Ramanan e Cadwell, 2016).

Il microbioma intestinale svolge un ruolo fondamentale nella modulazione del segnale bidirezionale dell’asse intestino-cervello (Burokas, 2015). Disbiosi e alterazioni del microbioma contribuiscono allo sviluppo di diverse malattie come la malattia infiammatoria intestinale, il diabete di tipo 2, la sindrome metabolica, l’obesità, allergie, cancro del colon-retto e malattia di Alzheimer (Pistollato, 2019). In particolare, alterazioni del microbioma intestinale possono attivare citochine pro-infiammatorie (Figura 18) e aumentare la permeabilità intestinale, portando ad insulino-resistenza che è anche associata alla malattia di Alzheimer (Bekkering, 2013). Inoltre, i batteri intestinali sono noti per secernere miscele immunogene di amiloide, lipopolisaccaridi (LPS) e altri essudati nell’ambiente che li circonda (Pistollato, 2019). Le amiloidi batteriche potrebbero attivare dei segnali noti per svolgere un ruolo nella neurodegenerazione, mentre il microbioma intestinale potrebbe aumentare la risposta infiammatoria all’accumulo cerebrale di Aβ (Friedland, 2015). Recenti studi hanno evidenziato la presenza di LPS nel cervello di pazienti anziani sani e malati di AD, suggerendo l’intestino come punto di provenienza (Zhao, 2017). A questo proposito, è stato scoperto che in soggetti malati di AD si ha l’interruzione della barriera emato-encefalica (BEE) che rappresenta quindi il punto di ingresso di molecole e batteri nel cervello (Montagne, 2015) (Figura 16). Negli individui anziani si ha un cambiamento nella composizione del microbioma intestinale e si ha una maggiore presenza di batteri Gram negativi che generano più LPS e questo indica il tratto gastrointestinale come potenziale fonte di patogeni cerebrali (Odameki, 2016).

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Figura 16- Patogenesi di AD; rilascio di citochine pro-infiammatorie a livello intestinale, passaggio di LPS e microrganismi dalla BEE che è più permeabile. (Osorio et al, 2019)

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1.7.1 L’ASSE INTESTINO-CERVELLO

L’intestino e il cervello sono profondamente interconnessi attraverso l’asse intestino-cervello. Il sistema nervoso centrale (CNS) e, in particolare, l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene viene attivato in risposta a fattori ambientali. Inoltre, il CNS comunica con il sistema nervoso enterico, con i muscoli intestinali e con la mucosa intestinale attraverso segnali bidirezionali, modulando così la permeabilità, la motilità, la secrezione di muco e l’immunità. Gli input dal CNS modulano le funzioni intestinali, mentre input dall’intestino modulano sintomi specifici (Figura 17).

Figura 17- Comunicazione bidirezionale dell’asse intestino-cervello (https://www.mdpi.com/2076-2607/6/2/35)

Alterazioni di questi segnali bidirezionali possono contribuire alla neuroinfiammazione e alla patogenesi di disturbi del sistema nervoso centrale (Pistollato, 2019). L’asse è controllato dal microbioma intestinale (Petra, 2015) che svolge un ruolo essenziale nel preservare la normale fisiologia intestinale e nel modulare la segnalazione intestino-cervello, contribuendo così alla salute dell’individuo. Quando si hanno perturbazioni del microbiota, che si possono verificare in seguito ad assunzione di antibiotici, cambiamento di regime dietetico, uso di probiotici o uso di FANS, si ha la colonizzazione da parte dei microrganismi patogeni che perturbano l’asse e innescano una risposta infiammatoria dell’ospite. Viceversa, quando si hanno alti livelli di stress, il CNS può

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influenzare la fisiologia intestinale andando a modificare la composizione del microbioma (Pistollato, 2019).

1.7.2 MICROBIOMA INTESTINALE E MALATTIA DI ALZHEIMER

Nell’intestino umano sono presenti quantità infinite di LPS e amiloidi e per questo il microbiota intestinale potrebbe essere coinvolto nella patogenesi di disturbi neurologici amiloidogenici come la malattia di Alzheimer, sebbene non si abbia ancora alcuna conferma (Pistollato, 2019). In particolare, disbiosi e aumento della permeabilità intestinale possono portare ad un complessivo aumento dell’infiammazione sistemica, della neuroinfiammazione e alla disfunzione di specifiche regioni cerebrali quali cervelletto e ipotalamo (Daulatzai, 2014). Il contributo da parte del microbioma alla formazione e diffusione di amiloide diventa ancora più importante durante l’invecchiamento quando le barriere intestinale ed emato-encefalica sono più permeabili a piccole molecole. Per spiegare come il microbiota contribuisce alla patogenesi di AD, è stato ipotizzato che le amiloidi batteriche fuoriescano dal tratto gastro-intestinale e si accumulino a livello sistemico e cerebrale. Ciò potrebbe portare all’aumento di specie reattive dell’ossigeno e all’attivazione del fattore di trascrizione nucleare NF-kB che regola la risposta immunitaria (Zhao, 2015). Inoltre, LPS e amiloide batterica possono fare aumentare il livello di citochine pro-infiammatorie (Pistollato 2019). NF-kB innesca l’attivazione dell’inflammasoma NLRP3 (Figura 18). L’assemblaggio dell’inflammasoma richiede due passaggi: un evento di innesco che è dato dalla traslocazione nucleare di NF-kB e una fase di attivazione indotta da tossine, ferro, danno mitocondriale, DNA citosolico, ATP extracellulare o ROS. L’assemblaggio dell’inflammasoma porta all’attivazione della caspasi-1, che a sua volta scinde pro-IL-1β e pro-IL-18 nella loro forma attiva (Figura 20) (Heneka 2013). IL-18 e caspasi-1 sono associate alla patogenesi di AD, mentre IL-1β interviene nella rottura della barriera emato-encefalica rendendola così più permeabile alle molecole e batteri (Osorio, 2019). Diversi studi hanno dimostrato che la rottura della barriera emato-encefalica è un precoce marcatore della malattia di Alzheimer (Montagne, 2015).

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Figura 18- Attivazione dell’inflammasoma NLRP3 da parte del fattore di trascrizione nucleare NF-kB. (Osorio et al, 2019)

1.7.3 INTERLEUCHINA 1β

L’interleuchina-1 (IL-1) comprende una famiglia di citochine che svolgono numerose funzioni. L’IL-1 si riferisce ad una proteina di 17 kDa che esiste in due isoforme, IL-1α e IL-1β. Le due citochine sono codificate da geni separati ma condividono alcune sequenze amminoacidi che portano ad avere simili azioni biologiche. Per essere resa attiva, l’IL-1β ha bisogno della scissione da pro-IL-1β a IL-β da parte dell’enzima caspasi-1. Tutte la azioni biologiche della citochina sono mediate da un unico recettore cellulare di 80 kDa, il recettore IL-1 di tipo 1 (IL-1RI). Alcuni studi suggeriscono che nel Sistema Nervoso Centrale ci siano altri tipi di recettori per IL-1β (Shaftel, 2008).

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L’IL-1β non è presente nell’organismo in condizioni fisiologiche ma svolge il ruolo di guardiano nei processi infiammatori. È prodotta principalmente da monociti del sangue, macrofagi tissutali, cellule dendritiche della pelle e microglia cerebrale (Garlanda, 2013). Viene sintetizzata nella sua forma inattiva ed in seguito a stimoli esterni, quali agenti patogeni e segnali di pericolo, viene attivata. La sua attivazione è dovuta all’azione della caspasi-1 che a sua volta viene prodotta dall’inflammasoma NLRP3. Durante l’infiammazione, dopo la scissione ed attivazione da parte della caspasi-1, l’IL-1β viene rilasciata nello spazio extracellulare con un meccanismo non ancora chiaro (Vince e Silke, 2016). Una delle ipotesi suggerite è che la citochina venga rilasciata passivamente dopo la piroptosi indotta dalla caspasi-1, sottolineando il legame tra morte cellulare e infiammazione (Ding, 2016). Una volta rilasciata, l’IL-1β si lega al suo recettore IL-1R1, che cambia conformazione del dominio extracellulare. A livello intracellulare, si ha il reclutamento di IL-1RacP (proteina associata a IL-1R1) e l’attivazione dei domini citosolici Toll e IL-1R-simili, che porta al reclutamento di Myd88 (gene di differenziazione mieloide) e IRAK4 (recettore dell’interleuchina-1 chinasi-4). AK4 subisce autofosforilazione e provoca la fosforilazione di IRAK1 e IRAK2, con conseguente reclutamento di TRAF6 (fattore associato al recettore TNF). IRAK1/2 e TRAF6 si dissociano dal complesso recettoriale e attivano NF-kB, che trascrive alcuni geni infiammatori come IL-6, IL-8, MCP-1 e cicloossigenasi-2 (Weber, 2010) (Figura 19).

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1.8 PROTEINE COME BIOMARKER PERIFERICI DI MALATTIA

E MARKER INFIAMMATORI: NUOVE FRONTIERE DELLA

RICERCA

I biomarker possono essere utilizzati a scopi diagnostici o prognostici. I requisiti includono la capacità di misurare un processo patologico, identificare la malattia o misurare la risposta farmacologica ad un trattamento terapeutico. I biomarker devono essere convenienti, economici e soprattutto devono avere una sensibilità alta (> 80%) e una specificità elevata (> 80%) (Gupta, 2013). Per quanto riguarda l’AD sono in studio promettenti biomarker per essere implicati nella pratica clinica. È necessario individuare marker altamente specifici per la malattia poiché i sintomi che si hanno sono molto simili ad altre malattie quali Demenza frontotemporale, Demenza a corpi di Lewy, Malattia di Parkinson e Sclerosi Laterale Amiotrofica. Nella pratica clinica oggi viene utilizzato l’imaging diagnostico per valutare l’atrofia cerebrale tipica della malattia tramite MRI. La diminuzione dell’uptake del glucosio cerebrale è un altro marker importante della malattia e viene valutato tramite la PET che viene anche utilizzata per individuare i depositi di Aβ cerebrali. Tutte queste procedure però hanno dei costi molto elevati e sono disponibili soltanto in centri specializzati. Sebbene i marker di imaging diagnostico siano fondamentali per la diagnosi di AD, è diventato chiaro che altri biomarker periferici possono aiutare nella diagnosi della malattia. Inoltre, marcatori fluidi potrebbero essere più accettati e apprezzati dai pazienti e sarebbero più accessibili (Robinson, 2017). Un altro metodo utilizzato nella pratica clinica è il prelievo di CSF che si ottiene attraverso una puntura lombare, procedura semi-invasiva e lunga, poco apprezzata dai pazienti. Il CSF è a diretto contatto con lo spazio extracellulare del cervello, occupa lo spazio subaracnoideo ed il sistema ventricolare intorno al cervello e rispecchia le modifiche che avvengono nel cervello. Esso contiene molte proteine provenienti dalla secrezione delle vescicole neuronali, tra le quali marker tipici della malattia come la proteina Aβ, la proteina tau e la fosfo-tau (p-tau) e altre proteine (Schaffer, 2015). I livelli delle proteine tipiche della malattia, Aβ, tau e p-tau, vengono misurati con il test immunoenzimatico ELISA. Molti studi hanno evidenziato che i livelli di proteina tau e p-tau aumentano, i livelli di Aβ42 diminuiscono, mentre non si hanno significative diminuzioni dei livelli di Aβ40, data la sua scarsa tendenza ad aggregarsi (Counts, 2016). Poiché, come già discusso in precedenza, l’imaging diagnostico è disponibile solo in centri specializzati e risulta essere molto costoso e il prelievo di CSF è molto lungo ed invasivo, è necessario sviluppare altri metodi di diagnosi che rendano la procedura più economica e accessibile. A questo proposito, i compartimenti periferici stanno attirando l’attenzione dei ricercatori come potenziale fonte di biomarker, in quanto è stato ampiamente dimostrato che la patologia non apporta cambiamenti solo a livello cerebrale,

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ma questi cambiamenti si riflettono anche in zone periferiche. Sono in corso studi per valutare la correlazione tra i livelli di proteine nei globuli rossi (RBC) e il cervello. Idealmente, un biomarker nel sangue dovrebbe essere rappresentativo dei cambiamenti biochimici e patologici che avvengono a livello cerebrale perché il sangue circola in tutti gli organi, compreso il cervello. Inoltre, un certo numero di proteine regolatorie come ormoni, fattori di crescita e molecole infiammatorie sono note per mediare la comunicazione bidirezionale che c’è tra cervello e periferia ed hanno valori alterati nella patologia che sono stati misurati nel sangue (Robinson, 2017). Anche l’alterazione della barriera emato-encefalica ha un ruolo importante nel passaggio delle proteine dal cervello al sangue. Anche in questo caso il metodo di valutazione è il saggio ELISA ed è stato evidenziato che i livelli di Aβ42,tau e p-tau aumentano nei pazienti con AD (Counts, 2016).

La proteina α-sin è stata molto studiata come potenziale biomarker periferico per l’AD e per diversificare tra le varie neurodegenerazioni. Nella malattia di Alzheimer, i livelli di proteina nel CSF sono risultati aumentati rispetto ai controlli sani. La proteina α-sin può interagire in vivo con le altre proteine formando degli aggregati che accelerano la disfunzione cognitiva. Questi aggregati potrebbero costituire nuovi biomarker periferici e la valutazione dei loro livelli potrebbe entrare nella pratica clinica per la diagnosi dell’AD. Studi effettuati su pazienti PD hanno dimostrato che nei globuli rossi i livelli di sin/tau sono uguali ai livelli dei soggetti sani, mentre i livelli di α-sin/Aβ sono più alti (Daniele, 2018).

Considerando l’importanza che l’asse intestino-cervello sta assumendo negli ultimi anni, sarebbe interessante anche andare a valutare i livelli di proteine nel compartimento intestinale e valutare la possibile correlazione con i livelli cerebrali. L’aumento della permeabilità intestinale dovuta ad un’alterazione nella composizione del microbioma intestinale e la rottura della barriera emato-encefalica mediata da IL-1β possono essere coinvolte nella patogenesi di AD. I microrganismi possono muoversi nel flusso sanguigno ed arrivare al cervello dal quale le proteine possono raggiungere i tessuti periferici. Perciò anche l’intestino potrebbe costituire una fonte di marker più accessibile rispetto al cervello.

Concludendo c’è la necessità di individuare nuovi biomarker più accessibili a livello periferico e poiché molti studi evidenziano il coinvolgimento dell’infiammazione intestinale nella patogenesi dell’Alzheimer, c’è anche la necessità di individuare marker di tale infiammazione, come l’IL-1β, per arrivare ad una diagnosi precoce ed efficace della malattia.

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La malattia di Alzheimer, le cui cause sono tuttora sconosciute, ha una diagnosi molto lunga e complessa e ad oggi non sono disponibili trattamenti farmacologici risolutivi. Gli unici trattamenti disponibili sono atti a rallentare la progressione della malattia ma, poiché la diagnosi è molto lunga, spesso non si riesce ad intervenire tempestivamente. Per questo motivo, è necessario individuare molecole e meccanismi coinvolti nell’eziologia e nella progressione della malattia in maniera tale da poter sviluppare trattamenti sempre più mirati ed efficaci. Attualmente per la diagnosi si ricorre all’individuazione di proteine ed aggregati proteici nel liquido cefalorachidiano. Sebbene tale procedura porti ad avere una diagnosi certa, risulta essere molto invasiva, ed è per questo che sono in corso diversi studi per individuare biomarker periferici della malattia. Le proteine che si ricercano sono le proteine Aβ, tau, α-sin ed i loro eterocomplessi, α-sin/Aβ e α-sin/tau: alcuni studi hanno dimostrato che queste proteine non si trovano solo a livello centrale, ma anche a livello periferico, per esempio nei globuli rossi e nell’intestino. Recentemente è stato ipotizzato che alterazioni nel microbioma intestinale siano coinvolte nella malattia, aprendo così alla possibilità di individuare marker specifici dell’infiammazione intestinali, quale l’interleuchina 1β (IL-1β), più accessibili rispetto a marker cerebrali.

Lo scopo del presente lavoro di tesi è stato quello di valutare i livelli della proteina α-sin e dei suoi eterocomplessi, α-sin/Aβ e α-sin/tau, sia a livello cerebrale che a livello intestinale in un modello animale di Alzheimer per stabilire la presenza di una correlazione tra la quantità di proteina nei diversi compartimenti tissutali ed il progredire della malattia. Inoltre, sono stati valutati i livelli di IL-1β come principale marker di neuroinfiammazione sia a livello cerebrale che intestinale, approfondendo così il coinvolgimento della disbiosi intestinale nella malattia di Alzheimer. Infatti, la neuro-infiammazione rende più permeabile la barriera ematoencefalica e la barriera intestinale permettendo così a microrganismi e molecole di muoversi ed accumularsi in vari compartimenti tissutali centrali e periferici. Lo studio effettuato vuole contribuire ad individuare proteine coinvolte nella neurodegenerazione e potenziali biomarker di infiammazione intestinale nella malattia di Alzheimer in quanto l’analisi a livello intestinale di biomarker sembra essere una via più semplice, economica e meno invasiva sebbene ancora soggetta a studi.

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3.1 SAMP8: MODELLO ANIMALE DI MALATTIA DI ALZHEIMER

Nel presente lavoro di tesi sono stati utilizzati topi (Senescence Accelerated Mouse Prone ) SAMP8 e SAMR1. I topi SAMP8 sono utilizzati come modello di malattie neurodegenerative, in quanto presentano significativi e precoci deterioramenti delle funzioni cognitive e delle capacità di apprendimento che si evidenziano anche nell'uomo. I topi SAMR1 sono utilizzati come topi di controllo. Il topo SAM deriva da una colonia riproduttiva della specie AKR/J, dove alcuni di questi topi mostravano caratteristiche di rapido invecchiamento (John E. Morley, 2002). Una selezione fenotipica ha portato allo sviluppo di 9 sottospecie di SAMP e 3 sottospecie di SAMR, ognuna con caratteristici disordini (Figura 1).

Figura 1- Caratteristiche di differenti specie del modello SAMP e SAMR. (Adattata da: Butterfield et al.,2005)

Il topo SAMP8 è caratterizzato da deficit di apprendimento e memoria legati all'età, ed è per questa ragione che viene utilizzato nelle ricerche gerontologiche di demenza (Flood and Morley, 1998). La durata di vita media è di 18.9 mesi per la sottospecie SAMP8 e di 21 mesi per la sottospecie di controllo SAMR1. È stato dimostrato che i topi SAMP8 sviluppano un precoce deficit di apprendimento intorno ai 9 mesi rispetto ai topi SAMR1 che, invece, non presentano deficit di apprendimento fino ai 20 mesi di età (Flood and Morley, 1992). Parallelamente allo sviluppo di deficit di memoria e apprendimento, il topo SAMP8 sviluppa anche altre caratteristiche simili a quelle che si evidenziano nella malattia di Alzheimer e mostra una bassa incidenza di alterazioni fenotipiche legate all'invecchiamento (Flood and Morley, 1998). Questo modello murino risulta quindi essere un buon modello per lo studio di malattie legate al decadimento cognitivo in soggetti anziani. Inoltre, in confronto con topi SAMR1 anziani, i topi SAMP8 mostrano indebolimento dell’apprendimento, emozioni alterate, un ritmo circadiano anormale (Miyamoto, 1997), un aumento dello stress ossidativo (Butterfield et al.,1997) ed una riduzione della durata della vita (Morley, 2002). Dal punto di vista patologico, SAMP8 presenta molte alterazioni dipendenti dall'età

Riferimenti