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L'auto-produzione in ambito agroalimentare tra comunità e mercato

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Academic year: 2021

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3 SOMMARIO INTRODUZIONE ... 5 CAPITOLO I LETTERATURA ... 8 1.1 PRODUZIONE E CONSUMO ... 9 1.2 EUDAIMONÌA E EDONISMO ... 16

1.3 PRATICA, CONSUMO E PRODUZIONE ... 18

1.4 IL CONCETTO DI AUTENTICITÀ NELLE PRATICHE DI CONSUMO ... 21

1.5 CONSUMATORI RESISTENTI ... 30

1.6 SEMPLICITA’ VOLONTARIA ... 36

1.7 IN DIFESA DEL CLIMA ... 41

CAPITOLO II ESPERIENZE ITALIANE DI CONSUMO CRITICO ... 46

2.1 GRUPPI DI ACQUISTO SOLIDALE (GAS) ... 47

2.2 ORTI URBANI E ORTI CONDIVISI ... 49

2.3 ECOVILLAGGI ... 50

2.4 TERRA BENE COMUNE ... 52

CAPITOLO III IL SETTORE AGROALIMENTARE ... 56

CAPITOLO IV METODO ... 64

4.1 ORTI URBANI DI VIA GOITO (LI) ... 65

4.2 MONDEGGI BENE COMUNE – FATTORIA SENZA PADRONI (FI) ... 67

4.3 MOVIMENTO PER LA DECRESCITA FELICE (MDF) – CIRCOLO DI VERONA ... 71

CAPITOLO V RISULTATI ... 77

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INTRODUZIONE

All’interno di un’economia di mercato in cui, generalmente, i ruoli di produttore e consumatore sono ben distinti tra loro e si relazionano in una rete di scambi di tipo monetario, la pratica dell’auto-produzione, di produrre qualcosa per se stessi e non per il mercato, trova difficile collocazione.

Il consumo oggi è un aspetto fondamentale e caratterizzante delle società di cui facciamo parte, la nostra vita è cadenzata da un tempo dedicato al lavoro e uno dedicato al consumo e tramite quest’ultimo spesso troviamo uno spazio nella società, definiamo e mostriamo noi stessi.

È sempre la corsa contro il tempo il fattore che spesso ci fornisce un alibi per ricorrere all’acquisto ogni volta che abbiamo bisogno di qualcosa, che ci spinge a prediligere una confezione di insalata in busta, già lavata e tagliata, piuttosto che impiegare del tempo a curare un pezzo di terreno, seminare, innaffiare quotidianamente il nostro orto per poi raccogliere un cespo di insalata, curarla, lavarla, tagliarla e metterla nel piatto.

Eppure sappiamo molto bene quanto quest’atto di acquisto sia nocivo per noi e per l’ambiente. Una singola busta di insalata prevede l’utilizzo della plastica che è inquinante sia nel suo processo di produzione sia nel suo smaltimento. Per mantenere l’insalata sempre croccante in uno scafale di un supermercato saranno sicuramente stati utilizzati dei prodotti chimici per conservarla, anch’essi inquinanti, sarà stata utilizzata energia per il frigorifero, per il trasporto, per la luce degli espositori, per la produzione della plastica, dei fertilizzanti, degli insetticidi, dei conservanti, per lavare, tagliare e imbustare l’insalata. Inquinamento e spreco di risorse che in questo momento, con una crisi climatica in atto, sarebbe meglio evitare.

Dietro un atto semplice, come quello di coltivare dell’insalata, si possono quindi trovare delle ragioni profonde, un profondo rispetto per l’ambiente, un tentativo

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di emancipazione da un modello produttivo che fatica ad allinearsi alle esigenze del pianeta, un esempio che dimostri che è possibile modificare le abitudini di consumo e lo stile di vita.

Quando la pratica dell’auto-produzione coinvolge più persone questa diventa anche uno strumento di socialità, incentiva lo scambio di conoscenze e competenze e ne crea di nuove.

Come dimostrano le esperienze che si sono volute conoscere conducendo questa indagine, la pratica collettiva di produzione agricola, oltre che avere lo scopo di soddisfare le esigenze alimentari di una comunità al di fuori delle comuni logiche di mercato, può trasformarsi in un vero e proprio atto di lotta politica.

Esperienze come quella degli Orti urbani di Livorno, di Mondeggi e del Movimento per la Decrescita Felice, attraverso piccoli atti quotidiani di cura della terra e di produzione agricola, portano l’esempio di una diversa socialità e di un diverso modo di intendere gli scambi commerciali.

Questi si propongono di recuperare i vecchi saperi contadini, comunemente riconosciuti come più rispettosi nei confronti dell’ambiente e della terra, vogliono unire le forze per costituirsi in una comunità che ricava dal territorio che abita ciò che gli serve per soddisfare i propri bisogni (almeno quelli alimentari) e si battono affinché la terra, dalla quale si può ricavare cibo genuino fondamentale per la salute e il sostentamento, sia un bene comune e accessibile a tutti.

Il modello che queste realtà presentano, tuttavia, non è in totale contrasto con il mercato. Pur rifiutando molte delle logiche che contraddistinguono un’economia di tipo capitalista ricorrono comunque agli scambi commerciali, ma in maniera selettiva. Danno molto valore alla produzione locale e, in genere, prediligono rivolgersi a piccole realtà produttive. Preferiscono un tipo di agricoltura biologica e cercano in ogni caso di instaurare dei legami di conoscenza personale con i produttori ai quali si rivolgono, basando la scelta su un rapporto di fiducia piuttosto che sul prezzo dei prodotti.

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Ciò che sicuramente li distingue è che riconoscono in ogni atto di consumo una responsabilità etica e politica. In quest’ottica ogni scelta di acquisto, di produzione o di scambio è una scelta tra ciò che è giusto, sano, sostenibile e socialmente utile e ciò che non lo è.

Di seguito si riporterà della letteratura che aiuterà a comprendere meglio le pratiche di consumo e produzione e come queste si relazionano tra loro, conciliandosi talvolta in una figura che riassuma allo stesso tempo il ruolo del produttore e quello del consumatore.

Si farà un breve excursus sull’evoluzione del ruolo del consumatore attraverso gli ultimi due secoli mettendo in evidenza i periodi di “rottura” in cui il consumatore ha mostrato resistenza nei confronti del mercato andando a modificare lo scenario produttivo e di consumo.

Prima di presentare i casi di studio, si delineerà un quadro di massima delle attuali resistenze al mercato e delle istanze politiche di maggior rilievo che spingono oggi alcuni consumatori a prediligere un differente stile di consumo e di produzione. Si vedrà quindi in che misura la pratica dell’auto-produzione rientri in questa visione e sia, a volte, strumento di emancipazione da un sistema economico riconosciuto come distruttivo, altre volte ad esso complementare nell’ottica di condurre il sistema produttivo e le pratiche di consumo ad un cambiamento.

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CAPITOLO I

LETTERATURA

Nel periodo immediatamente precedente agli anni Settanta del Novecento, durante quella fase che viene comunemente chiamata “modernismo”, c’era la convinzione che la ragione, il progresso scientifico, il realismo, l’emergente capitalismo industriale e la netta distinzione tra la sfera produttiva e quella di consumo fossero condizioni ottimali da perseguire.

Il modernismo, tuttavia, ha fallito nella sua ricerca di un ordine sociale eticamente ordinato, costruito razionalmente, orientato alla tecnologia, apparentemente progressivo e omologante (Rosenau, 1992). Il progetto modernista ha, piuttosto, reso il consumatore un partecipante riluttante ad un sistema economico esclusivamente razionale che non offre alcun sollievo emotivo, simbolico o spirituale al consumatore (Angus, 1989).

La successiva fase postmoderna, secondo Firat, A. F. e Venkatesh, avrebbe avuto, di conseguenza, la funzione di “re-incantare la vita umana” e liberare il consumatore da uno schema razionale/tecnologico che aveva assunto una valenza repressiva (Firat, A. F., & Venkatesh, A. ,1995)1.

Anche le strutture produttive hanno subito delle modifiche in questa fase postmoderna, nel tentativo di rispondere adattivamente alle nuove richieste del mercato. Il lavoro è cambiato di conseguenza, quelli che erano “lavori per tutta la vita” sono andati in dissolvenza, sancendo la fine del “posto fisso” ed aprendo la scena alla cosiddetta “società dei lavori” che ha portato con sé nuovi processi di

1 Firat, A. F., & Venkatesh, A. (1995). Liberatory postmodernism and the reenchantment of

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flessibilità, rotture della continuità lavorativo-professionale e processi di precarizzazione del lavoro.

Questo cambiamento ha portato trasformazioni anche sociali e soggettive. Oggi ci ritroviamo completamente immersi in un’altra dimensione del lavoro, in presenza oltre che di un corpo unico tra soggetto e lavoro anche di una confusione che porta a considerare ogni lavoro come un’opera e ogni opera come un lavoro, e ogni atto di produzione come espressione di sé2.

1.1 PRODUZIONE E CONSUMO

Produzione e consumo sono aspetti che contraddistinguono le nostre società fin da tempi molto antichi.

La rivoluzione industriale ha spinto molti studiosi ad indagare il ruolo che la produzione ha avuto nel dettare nuove regole nella società, basti ricordare le teorie di Marx sull’alienazione e le classi sociali e la sua visione del proletariato, o meglio della classe operaia, in grado di avere la meglio sulla borghesia prendendo possesso dei mezzi di produzione e imparando a condividerli.

Da allora sono passati diversi anni prima che alcuni studiosi investigassero sul ruolo che ha il consumo negli assetti della società.

La maggioranza della popolazione odierna ha la possibilità di fruire di così tanti beni, che la produzione ha immesso nel mercato, che si può sostenere che il consumo sia oggi (e non la produzione come ha sostenuto Marx) il motore centrale della società.

2 Bertell, L., & Cometti, C. (2016). Lavoro ecoautonomo: dalla sostenibilità del lavoro alla

praticabilità della vita. Elèuthera. Capitolo secondo “l’economia è sorda, ma la vita ci sente benissimo”

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Non si consuma più per mera sopravvivenza, il consumo è diventato una fonte di piacere, è in grado di distinguere le classi sociali3, dona prestigio4, crea legami tra

le persone5, trasmette significati e valori. Il consumo influenza gran parte della

nostra vita, tanto che possiamo parlare di una Società dei Consumi6.

All’interno di questo nuovo assetto della società ha preso forma anche una cultura del consumatore che racchiude in sé gli aspetti socioculturali, esperienziali, simbolici e ideologici del consumo.

I produttori sono ben consapevoli di questa trasformazione della società, infatti, assieme ai loro prodotti, immettono nel mercato sempre nuovi contenuti, ideologie, stili di vita ed emozioni che completano e arricchiscono i beni commercializzati.

Come spesso accade, parallelamente ad una cultura che si può dire “dominante” come quella del consumo, si è sviluppata una contro-cultura di cui Douglas B. Holt, in alcuni sui lavori, traccia i tratti fondamentali e il suo sviluppo nel tempo.7

La contro-cultura di cui parla Holt si forma attorno all’idea che gli sforzi delle compagnie globali di produzione di beni di consumo, nel creare e diffondere un brand, hanno prodotto una cultura del consumatore distruttiva per la società. In questa visione gli operatori di marketing sono “ingegneri culturali”, responsabili di decidere pensieri ed emozioni delle persone attraverso i prodotti che commercializzano.

3 McCracken, Grant (1988). Culture and Consumption. New Approches to the Symbolic Character of

Consumer Good and Activities. Indiana university press, Bloomington

4 Veblen, Thorstein (1899). The theory of the leisure class: An economic study in the evolution of

institutions. Macmillan.

5 Baudrillard, J. (ed. orig. 1970) (1976). La società dei consumi. il Mulino, Bologna. 6 Corrigan, Peter (1997). The sociology of consumption: an introduction. Sage.

7 Holt, Douglas B. (2002). Why do brands cause trouble? A dialectical theory of consumer culture

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I consumatori non sempre hanno accettato passivamente questo tipo di ingerenza e in diversi momenti dell’ultimo secolo hanno manifestato una sorta di resistenza al mercato, attraverso stili di consumo alternativi.

Secondo Holt possiamo individuare tre fasi del rapporto imprese - consumatori che si susseguono ogni volta che una contro-cultura di consumo acquista rilevanza. Da un primo periodo, che va dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Sessanta all’incirca, in cui il mercato ha avuto modo di espandersi servendosi del desiderio di benessere della società, si passa ad un periodo definito postmoderno attraverso l’affermarsi di una controcultura che rifiutava la standardizzazione dei beni di consumo riconosciuti come imposti da una sorta di autorità del brand. La rivoluzione stava nel trattare se stessi come un cantiere, creando una propria immagine di sé, rifiutando i diktat imposti dai brand e scegliendo piuttosto con la propria testa i beni da acquistare e come consumarli. In quest’ottica i brand dovevano essere in grado di presentarsi come risorse culturali, come ingredienti utili per creare la propria immagine attraverso delle scelte individuali.

Nella seconda fase postmoderna le imprese trovano nuove strategie commerciali per farsi riconoscere come apprezzabili dalle nuove esigenze dei consumatori e soprattutto autentiche.

In questi anni si creano nuovi assetti economici e si fa strada la globalizzazione, i consumatori usufruiscono di nuovi mezzi di informazione e vengono ad evidenziarsi delle incongruenze tra l’immagine forzatamente autentica dei marchi sul mercato e il reale comportamento delle compagnie verso i propri dipendenti e le collegate, verso l’ambiente e verso i propri consumatori.

Fu il movimento No Global, che si diffuse verso la fine degli anni Novanta a seguito della grande mobilitazione contro l’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) a Seattle, a denunciare a gran voce, con lo slogan “Our World Is Not For

Sale”, le contraddizioni del mercato globale e a spingere le aziende a trovare

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movimento pose le basi per l’avanzare di una terza fase post-postmoderna in cui, ancora una volta, i brand sono sfruttati come risorse culturali dai loro consumatori, con maggiore attenzione però al comportamento dell’impresa nel suo insieme, ai valori che questa non solo commercializza, ma mette in pratica e con una maggiore attenzione al territorio in cui l’impresa lavora. Ciò che i consumatori vogliono vedere è il modo in cui le imprese trattano le persone quando non sono loro clienti. I brand diventano risorse culturali quando dimostrano di avere senso civico e si comportano come pilastri della comunità.

Figura 1 - Dialectical model of branding and consumer culture. (Holt, Douglas B., 2002)

In questa ultima fase di cui parla Holt, parte dei consumatori si limitano a esprimere i valori di sostenibilità e responsabilità attraverso la semplice scelta di acquisto, altri consumatori invece decidono di farsi in prima persona portatori di tali principi e si mettono in gioco promuovendo ed attuando un consumo critico.

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Naomi Klein, nel suo libro No Logo8, traccia i tratti fondamentali del movimento

No Global. Questo movimento si schierava apertamente contro il neoliberismo e la sovranità dei brand, promuovendo forme di boicottaggio e contro-informazione.

Tuttavia, quello che viene chiamato il Movimento dei movimenti ha una storia piuttosto breve e in molti settori si riposiziona dal livello globale al livello locale. È infatti a livello locale che il consumo critico ha accresciuto la sua diffusione. Si inizia a sostenere che non sia sufficiente dire di no, ma che l’alternativa vada proposta e sperimentata a partire dal livello locale, sapendo dire di sì a quei modelli economici che mirano a ridare dignità e opportunità di lavoro e non danneggiano l’ambiente.

Questo cambio di prospettiva è dovuto in parte ad un altro grande movimento che si afferma in occasione del summit sul clima Cop15 delle Nazioni Unite a Copenaghen, nel dicembre del 2009, il movimento per la giustizia climatica. Con lo slogan usato in questa occasione “System Change, Not Climate Change” si voleva mettere in discussione il paradigma capitalista ritenuto responsabile delle crisi ecologiche e climatiche, ed evidenziare la necessità di dirigersi verso un cambio radicale di modello9. Questa nuova mobilitazione riportò al centro del

dibattito molti dei temi trattati dai movimenti “antiglobalizzazione” ma, se il “Popolo di Seattle” cercava di bloccare le politiche di un’istituzione la cui legittimità era fortemente contestata, a Copenaghen, al contrario, l’obiettivo era quello di forzare le istituzioni ad adottare misure reali contro il cambiamento climatico.

I due movimenti sono frutto, tuttavia, della stessa preoccupazione: l’impellente necessità di un cambio di modello10. Diverse pratiche vengono messe in atto per

8Klein, N. (2002). No Logo: No Space, No Choice, No Jobs.

9 Bond, P. (2010). Climate justice, climate debt, and anti-capitalism: An interview with Patrick Bond. Upping the Anti, 10.

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cercare di cambiare un sistema, percepito come sempre più iniquo nei confronti di numerose persone e dell’ambiente, sperimentando al suo interno un altro sistema dove le reazioni tra i diversi attori, invece di essere costruite e mantenute su giochi di forza orientati alla logica della massimizzazione del profitto individuale, si basano sull’inclusione, la solidarietà e la collaborazione per il bene di una collettività e il rafforzamento della coesione sociale.

Attraverso questa tabella è possibile schematizzare le principali forme di consumo critico sulla base di due dimensioni: l’orientamento al consumo e l’ambito privilegiato di azione.

LIVELLO DI AZIONE ATTEGGIAMENTO VERSO IL CONSUMO

Altro-consumo Anti-consumo

GLOBALE Commercio equo e

solidale Slow fashion

Semplicità volontaria Movimento della

decrescita

LOCALE Slow Food

Gruppi di acquisto solidale (GAS)

Eco villaggi Transition towns

Figura 2 - Principali forme di consumo critico sulla base di due dimensioni: l’orientamento al consumo e l’ambito privilegiato di azione. (Forno, F., & Graziano, P. R., 2016).

Tutte queste esperienze condividono una visione critica dello stile di vita consumistico e individualizzato supportando modelli di vita più semplici e sobri. Il consumo indiscriminato di risorse è infatti considerato il fattore principale a cui ascrivere i cambiamenti climatici e altri problemi ambientali e sociali, mentre l’attenzione eccessiva al prezzo è visto come fattore determinante nel minare la garanzia degli standard lavorativi e nell’alimentare pratiche inedite di sfruttamento dei lavoratori su scala globale.

Maurizio Pallante si fa portavoce in Italia del Movimento della Decrescita Felice, che si propone di contrastare la crescita indiscriminata delle grandi potenze globali

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tramite delle pratiche quotidiane che mirano a ridurre l’impatto ambientale individuale e a determinare una recessione del PIL. Nel suo libro, La decrescita

felice11, Pallante spiega:

“Fare scelte esistenziali nell’ottica della decrescita significa quindi ridurre la quantità delle merci nella propria vita. A tal fine si possono percorrere due vie: 1. Ridurre l’uso di merci che comportano utilità decrescenti e disutilità crescenti, che generano un forte impatto ambientale, che causano ingiustizie sociali (sobrietà);

2. Sostituire nella maggiore quantità possibile le merci con i beni (autoproduzione e scambi non mercantili).

Mettere in circolo il sapere e il saper fare che li caratterizza, può consentire di realizzare un’alternativa concreta alla mercificazione totale che caratterizza la società della crescita.”

Proprio nella pratica dell’autoproduzione si può ritrovare una perfetta sintesi di produzione e consumo. Da una parte la scelta di un individuo di intraprendere questa pratica deriva da scelte politiche e sociali fondate sulla volontà di ridurre il proprio impatto sul clima e sull’ambiente, impegnandosi attivamente nella produzione di beni di consumo riservati solamente ad una cerchia ristretta di persone e non dirette al mercato12. D’altra parte nel produrre per se stessi si

ritrovano dei sentimenti ed emozioni riconducibili al concetto di eudaimonìa, ovvero, come viene definito da Waterman13, il “vivere una vita in maniera

profondamente e pienamente soddisfacente”, potendo ritrovare il piacere

11Pallante, M. (2009), La decrescita felice, Roma, Edizioni per la Decrescita Felice, 24-25. 12Schor, J., & Holt, H. (Eds.). (2011). The consumer society reader. The New Press.

13Waterman, A. S. (1993). Two conceptions of happiness: Contrasts of personal expressiveness

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edonico del consumo associato alla soddisfazione personale di averlo prodotto e riconoscendo il prodotto del proprio lavoro come un’ “estensione” di sé.14

1.2 EUDAIMONÌA E EDONISMO

L’eudemonismo è una teoria etica che trova le sue radici già nella filosofia ellenica. Il termine deriva infatti dal greco ed è composto da εὖ (èu), che è possibile tradurre con “bene” e δαίμων (dàimōn), letteralmente “demone”. Secondo Aristotele il dàimōn sono quelle potenzialità di una persona la cui realizzazione rappresenta la maggiore soddisfazione in vita di cui ciascuno è capace.

Volendo trovare un termine che traduca questo concetto si può parlare di “felicità”, anche se le sfumature di questa traduzione possono comprendere anche la “felicità edonistica”, ovvero la convinzione che si stiano ottenendo le cose importanti che si sono desiderate, assieme al piacere che normalmente accompagna questa convinzione15 o, come la intendeva Aristippo16, la ricerca del

piacere momentaneo che può derivare da qualsiasi bene.

In ambito filosofico si sostiene che l’eudaimonìa sia condizione sufficiente ma non necessaria per la felicità edonistica (Telfer, 1980), questo vorrebbe dire che ogni volta che una persona sente di esprimere al meglio se stesso prova la sensazione di felicità edonistica, ma anche che l’espressione personale non è l’unica fonte di piacere edonistico che si può avere.

Waterman, attraverso i suoi studi, mette in evidenza l’importanza della realizzazione personale e dei valori eudaimonistici come il senso di identità

14Belk, R. W. (1988). Possessions and the extended self. Journal of consumer research, 15(2),

139-168.

15 Kraut, R. (1979). Two conceptions of happiness. Philosophical Review, 87, 167-196. 16 Aristippo di Cirene (435 a.C. circa – 360 a.C. circa), filosofo greco

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personale, l’autorealizzazione, un locus of control interno17 e il ragionamento

morale di principio per la felicità e la salute psicologica di un individuo.

Lo studio di Ryff sul benessere18 amplia la definizione che Waterman dà del

concetto di eudaimonìa, individuando sei caratteristiche che possono condurre all’auto-realizzazione: la crescita personale, la capacità di creare legami, l’autonomia, le relazioni personali, il controllo del proprio contesto e le proprie aspirazioni. Secondo questa definizione la felicità in senso eudemonistico si genera nel lungo periodo e porta a un benessere psicologico che ha effetti positivi sull’organismo.

Semplificando è possibile dire che la felicità edonistica rappresenta la presenza in un determinato momento di sole condizioni positive e l’assenza di eventi negativi che permettono all’individuo di percepire uno stato di benessere, mentre l’eudaimonìa si estende su un più lungo periodo e riguarda la sensazione di vivere la propria vita in maniera pienamente soddisfacente. In questo senso provare una felicità momentanea (edonistica) non vuole necessariamente dire che si stia psicologicamente bene, traguardo che si può raggiungere invece realizzando appieno le proprie potenzialità (felicità eudemonistica).19

Come si è visto, la realizzazione personale può essere raggiunta unendo diversi fattori, in questo percorso possono rientrare in varia misura anche i beni di consumo. Oltre al mero piacere edonistico che si può ricavare dal consumo di un bene, il suo possesso può dimostrare il proprio controllo sugli agenti esterni e sul contesto in cui ci si trova, mentre la creazione di un bene, che sia materiale o

17 locus of control è il grado in cui le persone credono di avere il controllo sugli eventi che incidono sulla propria vita, si dice locus of control interno la convinzione di avere il pieno controllo sulla propria vita.

18 Ryff, C.D., 1989. Happiness is everything, or is it? Explorations on the meaning of psychological

well-being. Journal of Personality and Social Psychology 57: 1069–1081.

19Deci, E. L., & Ryan, R. M. (2008). Hedonia, eudaimonia, and well-being: An introduction. Journal

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immateriale, oltre al controllo sul mondo esterno mette in gioco le proprie capacità e diventa prova tangibile della realizzazione delle proprie potenzialità.20

“Quel che è chiaro è che la felicità non sta nel divertimento, e che solo c’è felicità dove c’è virtù e sforzo, perché la vita non è un gioco. […] Personalmente sono d’accordo con chi pensa che la felicità consiste nella virtù, senza dimenticare quel che dicevamo prima: che abbiamo bisogno di beni materiali, perché è molto difficile fare qualcosa quando si è carenti di risorse.”

(Aristotele, Etica Nicomachea)

Aristotele intendeva per virtù “un abito, un’abitudine che si assimila mediante la reiterazione degli atti simili” per potersi dire “buoni”, si può anche intendere come la “pratica del bene”.

Secondo Aristotele, quindi, per costruire la personalità di un individuo erano necessari assieme pratica e consumo, quando questi aspetti venivano combinati nell’ottica del bene era possibile definire la pratica come virtù e l’individuo era così in grado di raggiungere la felicità.

Pratica e consumo sono in ogni caso due concetti di cui si ha spesso esperienza nella vita di tutti i giorni, per questo motivo è importante a questo punto indagarne meglio il significato e il loro legame.

1.3 PRATICA, CONSUMO E PRODUZIONE

Secondo Reckwitz (2002: 249) con il termine “pratica” possono essere espressi due concetti, il primo deriva dalla parola greca praxis (πρᾶξις) e intende l’insieme delle azioni umane, il secondo traduce invece il termine greco praktikè (πρακτική) e intende un comportamento ripetuto nel tempo che consiste in vari elementi tra

20Belk, R. W. (1988). Possessions and the extended self. Journal of consumer research, 15(2),

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loro interconnessi: forme di attività fisica, forme di attività mentale, oggetti e il loro utilizzo, conoscenze di base, know-how, stati emozionali e conoscenze motivazionali.

In generale si può assumere che una pratica sia il modo ricorrente in cui i corpi vengono mossi, gli oggetti sono utilizzati, le materie sono trattate, le cose sono descritte e il mondo è compreso. Una pratica diventa “sociale” quando è un comportamento o un modo di intendere qualcosa che si manifesta in luoghi e momenti diversi ed è messo in atto da diversi corpi o menti (Reckwitz, 2002: 250). Viene invece correntemente inteso per “consumo” un concetto sincretico (Abbott, 2001) che racchiude in sé i due aspetti contrastanti dell’approvvigionamento di risorse e del loro uso. Come sottolineato da Harvey (Harvey et al., 2001) il consumo non può essere ridotto esclusivamente alla domanda di beni, ma deve essere considerato come parte integrante della maggior parte delle sfere della vita quotidiana.

In questo senso Warde21 (Warde, A., 2005) dà una diversa definizione di consumo

che intende come un processo mediante il quale gli agenti si impegnano nell'appropriazione e nell'apprezzamento a fini utilitaristici, espressivi o contemplativi, di beni, servizi, prestazioni, informazioni o ambienti, acquistati o meno, su cui gli stessi agenti hanno un certo grado di discrezionalità. Secondo questa definizione il consumo non è di per sé una pratica, ma piuttosto un momento presente in quasi ogni pratica.

Così come il consumo, la produzione rappresenta un altro momento all’interno di una pratica. Secondo Hartmann questi due aspetti coesistono all’interno delle pratiche del vivere quotidiano e sono tra loro coordinati attraverso una struttura teleo-affettiva22 che definisce facilitazione (one specific teleoaffective structure

21Warde, A. (2005). Consumption and theories of practice. Journal of consumer culture, 5(2),

131-153.

22 una struttura teleoaffettiva descrive: “a range of acceptable or correct ends, acceptable or

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20 that organizes consumptive and productive moments as acceptable and correct ends with the ambition to help the performance of practices (Hartmann, 2015)).

Secondo questa visione consumo e produzione sono momenti alternativi all’interno delle pratiche quotidiane e lavorano in concerto per la loro realizzazione, in linea con le ambizioni personali.

Per Hartmann i momenti di produzione all’interno delle pratiche consistono nelle attività di creare e di modellare degli oggetti. I momenti produttivi si alternano ai momenti di consumo all’interno delle pratiche, scaturiscono dalla pratica e si muovono secondo il modello della pratica in cui sono inseriti, ma rappresentano anche uno slancio (momentum) per il raggiungimento della performance pratica. Prendendo ad esempio la pratica di suonare la chitarra, i momenti di consumo riguardano non tanto lo strumento in sé (la chitarra) o l’attività di suonare lo strumento, ma vengono consumate principalmente capacità e conoscenze (esperienza e know-how) che possono essere attinte da altri individui in quanto portatori di momenti produttivi (attività specifiche che coinvolgono abilità, giudizio e impegno) orientati alla prestazione generale, così come avviene in qualsiasi forma di artigianato. In questo caso attività di consumo (conoscenze, capacità, impegno) e momenti produttivi, come suonare la chitarra, sono organizzate all’interno della pratica attraverso la facilitazione.

Questi due momenti coesistono, oltre che a livello pratico, anche a livello individuale. Immaginando in quest’ottica consumatori e produttori come estremi di un continuum, si può indentificare come punto intermedio il ruolo del prosumer (Ritzer, 2010; Ritzer et al., 2012; Ritzer and Jurgenson, 2010), in cui il consumatore mette in atto, o è spinto a eseguire, attività che normalmente vengono svolte dalle imprese di produzione, creando per se stesso beni e servizi anziché acquistarli sul mercato (Toffler, 1980). A seconda del momento e del contesto in cui si trova, un individuo può occupare posizioni diverse in questo continuum, come ad esempio

tasks are carried out for the sake of these ends, and even acceptable or correct emotions out of which to do so.” (Schatzki ,2001: 52–3)

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può avvenire all’interno di una famiglia in cui il rapporto tra genitori e figli si basa in un primo momento prevalentemente su attività di produzione (cucinare o lavare la biancheria) per poi manifestarsi principalmente attraverso attività di consumo quando il figlio si allontana da casa.

In generale sembra che il consumatore odierno sia sempre più attivo all’interno del mercato mettendosi in gioco anche attraverso pratiche di produzione, quello che può offrire il mercato in termini di beni e servizi viene utilizzato e ripensato dal consumatore per creare nuovi stili di vita, cultura, identità e, a volte, anche arte.23

Sebbene il ruolo del consumatore sia sempre più vicino a quello del produttore, rimangono ancora due figure distinte in quanto il produttore, in senso stretto, ottiene una rendita dal mercato24, mentre le ragioni che spingono il consumatore

ad attivarsi in un processo produttivo vanno ricercate anche al di fuori della semplice sfera economica.

1.4 IL CONCETTO DI AUTENTICITÀ NELLE PRATICHE DI CO NSUMO

Intorno ai primi anni Settanta del Novecento gli studi di marketing e consumer behavior sono stati investiti dalla rivoluzione postmoderna e il consumatore ha conquistato la libertà di scegliere, di combinare e di trasformare le proposte stilistiche e culturali offerte dal sistema di mercato. Da quel momento hanno cessato di esistere prodotti o marche leader in senso assoluto capaci di imporre stili e tendenze valide su scala globale.

In questo periodo acquista particolare importanza l'idea che un brand debba essere “autentico”, ovvero che la marca debba essere creata, prodotta e

23Holt, D. B. (2002). Why do brands cause trouble? A dialectical theory of consumer culture and

branding. Journal of consumer research, 29(1), 70-90.

24Cova, B., & Dalli, D. (2009). Working consumers: the next step in marketing theory?. Marketing

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distribuita da persone coinvolte e motivate dal sistema di valori associato alla marca stessa e non spinte da finalità puramente utilitaristiche ed economiche. Di pari passo il consumatore non viene più considerato un mero acquirente, che chiede un servizio o una prestazione in cambio di un prezzo pagato, quanto un compagno o un partner che accetta la marca, la sua simbologia e i suoi valori perché li condivide.

Nonostante le nobili intenzioni di una tale rivoluzione nel fare marketing, l’aggressività con cui le imprese hanno iniziato a competere per creare autenticità percepita ha indotto i consumatori a vedere queste tecniche come soluzioni squisitamente commerciali, ragione per cui questo modo di fare branding è progressivamente entrato in crisi.

In ogni caso la ricerca di autenticità, caratteristica della fase postmoderna del consumo, ha in qualche modo segnato le richieste del consumatore di oggi. Per questo motivo è importante riportare alcuni studi in proposito. In particolare si riconoscono due diverse prospettive che, integrate, possono dare un quadro generale di quali siano i processi attraverso i quali un consumatore definisce un oggetto autentico.

Grayson e Martinec (Grayson, K., & Martinec, R., 2004)25 vedono l'autenticità

come una caratteristica intrinseca all'oggetto, che viene trasmessa al consumatore o come icona o come indice, intendendo con “icona” qualcosa che viene associato a esperienze fenomeniche in relazione a quello che il consumatore si aspetta, mentre “indice” si riferisce a cose che si pensa abbiano un collegamento materiale o spazio-temporale con qualcos'altro di importante per il consumatore.

L'iconicità è dunque l'uso di un modello mentale o “figura composita” per valutare se una manifestazione fisica è simile a qualcosa che è indicalmente autentico.

25 Grayson, K., & Martinec, R. (2004). Consumer perceptions of iconicity and indexicality and their

influence on assessments of authentic market offerings. Journal of consumer research, 31(2),

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Prendendo spunto dagli studi di Peirce (Peirce, 1998) sulla semiotica, che associa gli elementi di indicalità con l'esperienza fenomenologica dei fatti e gli elementi di iconicità con l'esperienza fenomenologica basandosi sulla percezione della realtà, gli autori hanno incentrato la loro ricerca sullo studio di due casi specifici che riguardano la percezione di autenticità.

Il primo caso preso in considerazione riguarda la percezione di autenticità da parte dei visitatori della casa natale di W. Shakespeare (vera), il secondo caso riguarda il museo dedicato al personaggio di finzione Sherlock Holmes.

Considerando le interviste tenute al museo di Sherlock Holmes, Grayson e Martinec sono stati in grado di riconoscere che questo veniva visto come autentico perché indice. In particolare si potevano rintracciare percezioni di vera indicalità con gli abitanti, ipotetica indicalità con gli abitanti (riconosciuto che le persone possono a volte, anche se temporaneamente, prendere la prospettiva che un mondo in finzione sia un mondo reale), o vera indicalità con il periodo degli abitanti.

Gli indicatori che gli intervistati usavano per valutare l'autenticità erano di tre tipi. Paragonavano quello che avevano visto con:

• quello che sapevano dalla storia e quello che pensavano fosse realmente accaduto (con la storia);

• quello che sapevano dalla finzione narrativa sugli abitanti o la loro epoca storica (con la finzione);

• cosa sapevano su come le cose del Cinquecento e dell'Ottocento sarebbero dovute apparire ora (con le cose antiche). A questo riguardo è importante rilevare che l'usura degli oggetti può essere falsata.

L'icona non ha una connessione dinamica con l'oggetto che rappresenta, accade semplicemente che ricordi l'oggetto o che scaturisca sensazioni analoghe nella mente dell'osservatore, mentre l'indice è fisicamente connesso con l'oggetto ma la mente che interpreta non ha nulla a che fare con questa connessione.

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Nella loro ricerca, Grayson e Martinec hanno ipotizzato che sia l’iconicità che l’indicalità abbiano una diversa influenza su alcuni dei benefici di cui i consumatori hanno esperienza dal consumo di autenticità. Uno dei benefici del consumo di autenticità è che offre una fuga dalla scarsa genuinità che è tipica della maggior parte delle attuali pratiche di mercato; l’altro è che le cose autentiche danno al consumatore una sensazione di prova evidente e inequivocabile verifica, quindi una prova percepita.

Quando i consumatori credono di essere davanti a qualcosa di autentico si sentono trasportati nel contesto in cui l'oggetto o il posto sono connessi autenticamente, in questo modo si sentono più legati al contesto.

Altra ipotesi è che questi due benefici dell'autenticità siano influenzati in modo diverso da elementi di indicaltà e di iconicità. In particolare gli elementi iconici potrebbero essere maggiormente associati alla percezione di una connessione col passato, mentre gli elementi indicali dovrebbero essere maggiormente associati con la percezione dell'evidenza rispetto alla connessione col passato.

Beverland e Farrelly (Beverland, M. B., & Farrelly, F. J., 2009)26 assumono invece

un’altra prospettiva nei confronti del concetto di autenticità, che intendono legato alle caratteristiche personali del soggetto interpretante.

La loro ricerca aiuta a spiegare la differenza tra concettualizzazione, oggetto ed elementi, dimostrando che il processo di autenticazione di un oggetto è un'esperienza contingente agli obiettivi del consumatore. In questo senso estendono le ricerche precedenti identificando la relazione tra gli obiettivi e gli atti di autenticazione (comportamenti autoreferenziali che rivelano o producono una vera personalità).

26 Beverland, M. B., & Farrelly, F. J. (2009). The quest for authenticity in consumption: Consumers’

purposive choice of authentic cues to shape experienced outcomes. Journal of Consumer Research,

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25

Rose and Wood (Rose, R. L., & Wood, S. L., 2005)27, sulla stessa falsa riga, hanno

raccolto informazioni per capire meglio come le predilezioni personali modellino il modo in cui viene costruita l'autenticità. Il loro intento era individuare ciò che costituisce autenticità esaminando come gli obiettivi sostengano le affermazioni di autenticità, incluse le strategie propositive usate dai consumatori per raggiungere questa affermazione.

I due studiosi hanno trovato che esiste una connessione inseparabile tra la determinazione di autenticità e le aspirazioni personali degli intervistati. Conferendo autenticità agli oggetti commerciali come esperienze, marche ed eventi, i soggetti intervistati hanno realizzato benefici nell'identità, positivi per una caratterizzazione vantaggiosa della loro vera personalità. Sono stati individuati tre benefici personali rilevanti distinti:

• controllo su ciò che li circonda, sulla vita in genere e su se stessi che deriva dall'azione e dal desiderio di avere la meglio sul proprio contesto ambientale;

• connessione con altre persone e contesti per loro importanti come

comunità, luogo, cultura o alla società in genere. Benefici chiave associati con l'idealizzazione della comunità, un arricchimento personale attraverso il sentirsi parte di qualcosa e sentirsi strettamente legati a persone che la pensano allo stesso modo;

• sentirsi virtuosi rappresentando la loro personalità autentica, dando giudizi basati sulla purezza delle motivazioni, espressione della morale dei soggetti. I benefici derivano dal sentimento di virtuosità dato dall'essere ligi alla propria morale e da un arricchimento spirituale che deriva dal vedere i valori universali desiderati messi in pratica.

Si è visto che ognuno degli intervistati rispecchiava norme socioculturali, riflesso dell'interpretazione di ciò che è considerato genuino, reale e/o vero. Gli

27 Rose, R. L., & Wood, S. L. (2005). Paradox and the consumption of authenticity through reality

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26

intervistati applicavano anche standard e strategie del processo di apprendimento ai caratteri nel determinarne l'autenticità.

Anche Pine e Gilmore (Gilmore, J. H., & Pine, B. J., 2007)28 ribadiscono l’importanza

di conferire autenticità a un prodotto o a una marca, sostenendo che questo sia uno dei bisogni più rilevanti per il consumatore postmoderno.

Secondo quanto riportato dai due studiosi i consumatori contemporanei prendono le loro decisioni di acquisto in base a quanto percepiscono “vere” o “fasulle” le varie offerte. Tale percezione deriva direttamente da quanto ogni particolare offerta riesca a ben conformarsi all’immagine che il consumatore ha di sé.

Gli individui, spiegano Pine e Gilmore, vogliono autenticità ma faticano a capire come ottenerla. Le imprese vogliono soddisfare questo bisogno vendendo autenticità ma non possono veramente fornirla. In questa constatazione sta il paradosso dell’autenticità, aspetto fondamentale per il consumatore postmoderno, ma anche concetto puramente astratto e strettamente legato alla diversa percezione di ogni persona.

In linea con gli studi precedentemente citati, Brown et al. (Brown, S., Kozinets, R. V., & Sherry Jr, J. F., 2003)29 sottolineano la necessità di considerare quattro

componenti legate all’autenticità di un brand: allegoria, idillio, aura e antinomia. I manager dovrebbero costantemente considerare il paradosso principale dei brand consolidati bilanciando interventi che reinterpretano (in risposta al cambiamento dei gusti) racconti simbolici, includendo conflitti morali e soluzioni, evocando aspetti di un passato idealizzato nell'immaginario legato al brand e creando un'aura che sia appropriata alla presenza di un potente senso di autenticità come quello che è in grado di suscitare un'opera d'arte originale. Quest'aura è una

28 Gilmore, J. H., & Pine, B. J. (2007). Authenticity: What consumers really want. Harvard Business Press.

29 Brown, S., Kozinets, R. V., & Sherry Jr, J. F. (2003). Teaching old brands new tricks: Retro branding

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27

componente fondamentale del brand perché comunica un senso di autenticità e direttamente riflette i valori principali che rappresentano l'azienda.

Nel tentativo di rispondere al nuovo e sfidante scenario postmoderno alcuni brand hanno adottato nuove tecniche di marketing per apparire degni di fiducia agli occhi dei propri consumatori. Negli anni Novanta sono state messe a punto quattro tecniche, ognuna delle quali mira a far apparire il marchio una risorsa culturale autentica e di rilievo:

Ironic, Reflexive Brand Persona. Questa tecnica venne utilizzata per la realizzazione

della campagna pubblicitaria del Maggiolino Volkswagen nella quale vengono mostrati con umiltà pregi e difetti del prodotto in modo divertente, ricorrendo talvolta all’ironia e dimostrandosi sinceri nel comunicare i fini commerciali della campagna.

Figura 3 - Campaign for Volkswagen Beetle, (DDB), United State,1959; 60

Coattailing on Cultural Epicenters. Una seconda tecnica utilizzata consiste nel

diffondere il brand negli epicentri culturali, fonti di nuova cultura espressiva. Questi posso essere comunità artistiche e della moda, subculture etniche,

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28

comunità professionali e comunità di consumo. Essere in grado di creare delle relazioni credibili e durature con queste comunità permette al brand di essere percepito dalla massa meritevole dello status acquisito al loro interno e questo gli permette di essere riconosciuto come parte attiva nella creazione di cultura, come avvenne per il brand Mountain Dew e le comunità create attorno alla pratica di sport estremi.

Life World Emplacement. Nella visione postmoderna del mondo la cultura

autentica non è il prodotto di specialisti della cultura quanto piuttosto della strada. Con questa tecnica si vuole far credere che il valore del brand nasca da situazioni disinteressate di vita quotidiana molto lontane dagli interessi commerciali. Questo è il caso della campagna dei jeans 501 di Levi’s del 1980 che ha utilizzato le tecniche del cinema vérite´ per dare l’impressione di offrire uno spaccato trasparente della vita quotidiana.

Stealth Branding. Con questa tecnica i brand, anziché esporsi in prima persona in

campagne pubblicitarie per promuovere il marchio e rischiare quindi di dare l’idea di mettere in atto una sorta di coercizione culturale, si affidano a degli influencer sfruttando la popolarità di questi ultimi per far credere che il brand abbia un reale valore culturale.

In generale, gli specialisti del marketing lavoravano in quel periodo con una vasta serie di tecniche che derivavano dal principio fondante del paradigma produttivo post-moderno: i consumatori vedranno il brand come una risorsa rilevante nella costruzione della propria identità solo quando i valori trasmessi saranno percepiti come autentici e quindi originali e disinteressati.

Nonostante i brand manager giochino un ruolo chiave nella creazione di autenticità, il suo mantenimento risiede nella legittimità delle istituzioni consolidate, che parzialmente viene raggiunto attraverso l'uso costante di classificazioni, routine, testi e schemi, molti dei quali derivano dall'interazione quotidiana con la quale i membri della società condividono impressioni.

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29

Alcuni autori (Badot et al., 1993; Cova e Cova, 2002; Silva et al., 2005, Cova, 2005) rivendicano, inoltre, l'esistenza di una possibile “via mediterranea” al marketing management. Le rappresentazioni che questi studiosi offrono del consumatore si basano sul modo latino di vivere del quale viene enfatizzato il lato comunitario, emozionale e non utilitaristico delle sue relazioni. Viene ribadita l'importanza attribuita dagli individui agli spazi di riappropriazione simbolica tramite i quali liberarsi, almeno parzialmente, dei diktat del mercato.

A questi aspetti deve poi unirsi il ruolo centrale della tradizione e del localismo, da intendersi non come un'appartenenza repressiva che schiaccia e deforma, ma come una risorsa che agisce da contrappeso rispetto alle tendenze materialistiche e di progressiva mercificazione dell'interazione sociale che provengono dalla cultura di mercato, intesa in senso positivista.

Il pensiero meridiano (Cassano, 2007) 30 si oppone con decisione al

fondamentalismo della modernità e sostiene la necessità della riscoperta delle tradizioni. Il ritorno a queste ultime non deve tuttavia avvenire in modo aggressivo e in forma di restaurazione, ma in modo da creare nuove forme creative di coesistenza con la modernità, inseguendo l'idea, difficile ma preziosa, di misura. Tale recupero è sicuramente favorito dal contesto culturale che, superata la fase della modernità trionfante, vede l'affermazione del pensiero postmoderno. Questo nuovo pensiero, con la riscoperta di aspetti estetici ed emotivi, con la fine delle cosiddette grandi narrazioni, con il suo senso d'apertura verso gli altri e i diversi, può supportare e accogliere l'affermazione di un approccio mediterraneo al marketing.

Siamo di fronte ad una lettura postmoderna delle tradizioni, una rielaborazione della tradizione sulla base di una sua permanente interazione con la modernità. Ecco allora che emergono le declinazioni pre-moderne di sobrietà riprese in chiave

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postmoderna con il ricorso a nuovi processi produttivi capaci di favorire risparmi di materiali ed energia per la creazione di prodotti semplici, essenziali e modesti. Il pensiero del Sud nasce con la volontà di riscatto, con il desiderio di liberarsi dai cliché e dagli stereotipi che gli sono stati attribuiti dal pensiero dominante e che lo associano da un lato all'incubo della mafia, delle attività illegali e criminali, e dall'altro all'immagine idilliaca del paradiso turistico. Secondo Cassano occorre superare queste convinzioni e fare in modo di ritrovare, esaltandoli, quei valori che esprimono la ricchezza del meridione, quali la creatività, l'apertura agli altri, la fantasia, l'immaginazione e la tolleranza.

Uno dei valori mediterranei su cui viene maggiormente concentrata l'attenzione è quella della lentezza, non immediatamente contrapposta alla velocità tipica dell'era moderna, ma affiancata ad essa in modo da scoprire che una reale evoluzione nasce dalla possibilità di disporre di una molteplicità di tempi.

Recuperare la lentezza può favorire la contemporanea presenza di temporalità diverse e quindi rendere possibile per gli individui la scelta tra questi diversi contesti e, in particolare, riconsiderare il valore del tempo contemplativo, per molto tempo concepito come un lusso31.

1.5 CONSUMATORI RESISTENTI

La rivoluzione culturale degli ultimi anni Sessanta del Novecento ha stravolto i costumi della società distruggendo molti tabù preesistenti e segnando l’inizio di una nuova fase postmoderna. Gli esperimenti messi in atto in quegli anni nel teatro, nell’arte, nella pornografia, nelle preferenze sessuali, nei modi di vivere, nel lavoro, nella moda e nell’igiene avevano come obiettivo il raggiungimento della libertà esistenziale. La rivoluzione era soprattutto personale e consisteva nel

31 Romani, S. (2006). Le marche mediterranee. Nuovi modelli di brand management. In V Congresso Internazionale Marketing Trends.

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31

vedere se stessi come un’opera in costruzione resa autentica attraverso attente scelte di consumo personali, piuttosto che seguendo i diktat imposti dal mercato.32

Firat e Venkatesh (Firat, A. F., & Venkatesh, A., 1995)33 definiscono questa fase

post moderna del consumo liberatoria, poiché le forme di micro-emancipazione e gli stili di consumo sempre più diversificati e creativi che lo caratterizzano rendono il mercato sempre più frammentato permettendo ai consumatori di affrancarsi dalla cultura totalitaria che i professionisti del marketing impongo alla società. La resistenza ai diktat del mercato è ciò che spinge i consumatori post moderni a sperimentare nuove forme di consumo alla ricerca di una propria immagine di sé che possano considerare autentica, ma, allo stesso tempo, si diffonde la convinzione che, per essere socialmente apprezzabili, i contenuti culturali debbano passare attraverso i beni di consumo, giungendo inevitabilmente ad un’evidente contraddizione.

In questo contesto solo i brand che sono in grado di apparire agli occhi dei consumatori come autentici hanno la possibilità di rendere i propri prodotti simboli culturali. Per essere considerati autentici i brand devono apparire disinteressati, ovvero non devono mostrare di avere un interesse economico nella vendita dei propri prodotti, ma essere piuttosto percepiti come creati e diffusi da persone che credono realmente nei valori culturali che il marchio rappresenta. Più i brand si impegnano nel farsi vedere autentici e disinteressati, più i consumatori acquisiscono consapevolezza delle tecniche messe in campo dalle aziende per raggiungere tale scopo. È quello che è successo con la pubblicazione del libro di Naomi Klein No Logo (Klein, N., 1999) in cui l’autrice svela ciò che le aziende cercano accuratamente di nascondere con le loro campagne: lo scopo di lucro. Oltre ad accusare le aziende di nascondere i loro reali interessi economici, il

32Holt, D. B. (2002). Why do brands cause trouble? A dialectical theory of consumer culture and

branding. Journal of consumer research, 29(1), 70-90.

33Firat, A. F., & Venkatesh, A. (1995). Liberatory postmodernism and the reenchantment of

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32

movimento antibranding, di cui la Klein fa parte, incolpa i brand di perpetrare una sorta di discriminazione verso i non-consumatori inducendo i consumatori a credere che solo chi acquista i prodotti di un certo brand possa condividerne i valori culturali trasmessi.

Una delle pratiche utilizzate dal movimento antibranding per mettere in luce le molte contraddizioni dei brand è il culture jamming, pratica molto utilizzata dalla rivista Adbusters (https://www.adbusters.org/), il cui manifesto recita:

“We’re an international collective of artists, designers, poets, punks, writers, directors, musicians, philosophers, drop outs, and wild hearts. Join us to take down broken banks and break the backs of big business. To hold corrupt politicians accountable and wake up a thoughtless, complacent culture; quit following and retweeting, start thinking and talking for ourselves again.

To fight the mental takeover of an ever-present ad industry; dream up a self of your own, live it but never buy or $ell it.

Join us; come together and commit to the sole goal of fucking up every system that keeps you from living your dreams.”

(https://www.adbusters.org/manifesto)

Adbusters da anni invita i propri lettori a cimentarsi nel boicottaggio culturale, modificando i messaggi commerciali delle imprese per mostrare le contraddizioni tra le promesse dei brand e il loro reale comportamento. Di seguito un esempio di

jamming pubblicato il 10 maggio 2019 sul profilo Twitter di Adbusters

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33

Figura 4 - Advertising is legalized lying, Berlin from street-artist Mythos BLN - Maggio 2019

Kalle Lasn (Lasn, K., 2005)34 crede che il movimento situazionista, nato in Italia nel

1957, possa rappresentare idealmente la base teorica dei movimenti postmoderni diffusi negli anni successivi. Secondo questo movimento filosofico-sociologico di stampo anarchico, la creatività delle persone comuni, che capitalismo e comunismo avevano indebolito ma non debellato, aveva un disperato bisogno di essere espressa. Per i situazionisti ognuno è creatore di situazioni, un artista la cui performance è la vita vissuta a modo suo. Diverse volte al giorno, dicevano, ognuno di noi si trova davanti a un bivio e si trova a prendere una decisione, può scegliere se agire, come farebbe normalmente, in maniera automatica, oppure fare qualcosa di un po’ rischioso e folle, ma genuino.

34Schor, J., & Holt, H. (Eds.). (2011). The consumer society reader. The New Press.- Lasn, K. (2005).

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34

I situazionisti parlavano spesso dello “spettacolo” della vita moderna, cioè di come quello di cui prima la gente aveva esperienza diretta, con l’avvento dei media, si sia trasformato in uno show messo in scena da qualcun altro. La vita reale è stata rimpiazzata da esperienze preconfezionate ed eventi creati dai media. Non esiste più l’immediatezza, tutto è “mediato”, tutto è filtrato attraverso altri strumenti, la vita è creazione dei media, sostenevano, lo spettacolo ha rapito le nostre vite, appropriandosi di qualunque cosa avessimo di autentico.

Per svincolarsi dalla cultura di massa che pervade tutte le nostre vite, i situazionisti elaborarono delle vie di fuga. La prima, che si ispirava a idee dadaiste, è la dérive (la deriva): come “un locomotiva senza meta” un dériviste vaga per la città aperto ad ogni esperienza, esponendosi a tutto lo spettro di sentimenti che può incontrare per caso sulla sua via. Solo con questo stato di apertura mentale sarà possibile comprendere cosa realmente si ama e cosa allo stesso modo si odia e quindi essere in grado di vivere al di fuori delle prescrizioni sociali.

Un altro modo per affrancarsi dallo spettacolo della vita è il détournement (deviazione) che consiste nel modificare immagini, ambienti ed eventi sconvolgendo il loro significato. L’Internationale Situationniste, la rivista che i situazionisti pubblicarono dal 1958 al 1969, era un laboratorio a volte profondo, a volte assurdo, di détournement, in cui venivano riscritti i dialoghi dei fumetti, modificate la larghezza delle strade e l’altezza degli edifici nelle fotografie o cambiati i colori per reinterpretare radicalmente gli eventi mondiali.

Gli eroi dei situazionisti erano sfrenati e anarchici, vettori di espressione poetica, vivevano in qualche modo fuori dal tempo, così come i satori secondo la definizioni dei buddisti zen, cioè le “generazioni di poeti, profeti e rivoluzionari, per non parlare di amanti, tossicodipendenti e tutti coloro che in qualche modo hanno trovato il tempo di fermarsi e contemplare il mondo”. Questo desiderio di unità con il mondo, secondo Lasn, è anche il motivo per cui oggi molti culture jammer fanno quotidianamente atti di fede o di coraggio che li portano fuori dalla coscienza strutturata del mercato abbastanza a lungo da avere un assaggio della

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vita reale. Vivendo nel momento, perseguendo il gesto autentico, vivendo vicino al limite: quando l’esperienza è genuina, pensano, è la forza che rende la vita degna di essere vissuta ed è anche ciò che il capitalismo toglie ogni volta che vende la cosa "cool" o l'atteggiamento ribelle del mese.

Il culture jamming, dice Lasn, è, in fondo, soltanto una metafora per fermare il flusso dello spettacolo abbastanza a lungo per avere modo di aggiustare la propria scenografia. Fermare il flusso si basa su un elemento di sorpresa, fare quello che Debord chiamava “rompere la vecchia sintassi” e rimpiazzarla con una nuova che indichi la via per “un modo completamente nuovo di stare al mondo”.

Rifiutare il mercato, la cultura del consumo e il marketing, fa parte, secondo Lasn, del nuovo sogno americano. Secondo l’autore gli americani si sono stufati di essere bombardati dai messaggi promozionali e non considerano più la ricchezza la loro massima aspirazione, ma semplicemente vogliono affrontare la vita pienamente, senza paure e autocensure, inseguendo la felicità e la novità, vivendo ogni giorno come se fosse l’ultimo.

Migliaia di americani oggi abbracciano la “semplicità volontaria” (dal libro di Elgin, D. (1981). Voluntary simplicity: Toward a way of life that is outwardly simple,

inwardly rich. New York: Morrow.) come stile di vita, alcuni abbandonano posti di

lavoro molto remunerativi per spendere più tempo con la famiglia e con gli amici e cimentarsi in attività più appaganti, altri non prendono decisioni altrettanto estreme, ma condividono comunque l’obiettivo di impiegare il proprio tempo non ad arricchirsi ma a coltivare la cultura intesa come lo sviluppo, l'arricchimento e il miglioramento della vita non materiale, con la promessa di riservarsi più tempo, meno stress e più moderazione.

Per i culture jammer la semplicità volontaria non è solo un modo di aggiustare le nostre routine, ma è anche l’arma per combattere una cultura impazzita, un passo verso la rivoluzione che stravolgerà radicalmente lo stile di vita americano.

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Nel libro di E. F. Schumacher “Small is beauty”35, uno dei testi chiave per il

movimento che abbraccia lo stile di vita riconosciuto come “semplicità volontaria”, viene espresso quello che Lasn crede possa essere un’idea talmente semplice da diventare il credo del ventunesimo secolo: “to obtain the maximum of well-being

with the minimum of consumption” (“ottenere il massimo benessere con il minimo

del consumo”).

1.6 SEMPLICITA’ VOLONTARIA

“Voluntary simplicity involves both inner and outer condition. It means singleness of purpose, sincerity and honesty within, as well as avoidance of exterior clutter, of many possessions irrelevant to the chief purpose of life. It means an ordering and guiding of our energy and our desires, a partial restraint in some directions in order to secure greater abundance of life in other directions. It involves a deliberate organization of life for a purpose. Of course, as different people have different purposes in life, what is relevant to the purpose of one person might not be relevant to the purpose of another. . . . The degree of simplification is a matter for each individual to settle for himself”36

Richard Gregg (1977), “Voluntary Simplicity”

Così Richard Gregg, uno studioso degli insegnamenti di Ghandi, definisce la semplicità volontaria. Per Gregg vivere in maniera volontaria vuol dire vivere deliberatamente, intenzionalmente e con uno scopo, essere consapevoli di noi stessi e di come ci muoviamo nella nostra vita, prestando attenzione a come agiamo nei confronti del mondo esterno, ma anche nei confronti di noi stessi (mondo interiore).

35 Schumacher, E. F. (1985). Small is beautiful. Rowohlt Taschenbuch Verlag.

36 Gregg, R. (1977), Voluntary Simplicity, reprinted in Co-Evolution Quarterly, Sausalito, Calif., Summer 1977 (originally published in the Indian journal Visva-Bharati Quarterly in August 1936)

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Per vivere semplicemente occorre tenere a mente lo scopo e ridurre al minimo le distrazioni non necessarie. Ci si deve alleggerire, vivere più leggeri, puliti, aerodinamici. È necessario stabilire una relazione diretta con tutti gli aspetti della propria vita: le cose che si consumano, il lavoro che si fa, i rapporti con gli altri, i propri legami con la natura e il cosmo, etc… Semplicità vuol dire anche essere diretti e onesti in ogni relazione, di qualunque tipo essa sia, e prendere la vita così com’è, nuda e cruda.

Combinando questi due concetti è possibile quindi descrivere la semplicità

volontaria come un modo di vivere più semplice nei confronti del mondo esterno

e più ricco nel mondo interno, un modo di essere in cui l’io più autentico e vivo è portato a contatto diretto e cosciente con la nostra vita. L'obiettivo non è quindi vivere dogmaticamente con meno, ma è vivere in equilibrio per poter avere una vita con grandi propositi, realizzazione e soddisfazione.37

Spesso si confonde uno stile di vita semplice ed ecologico con una vita caratterizzata dalla povertà, dalla riluttanza nei confronti del progresso, dalla predilezione per la vita rurale e dal rifiuto della bellezza. Nonostante alcune tradizioni religiose predichino una vita di estreme rinunce, non è possibile paragonare la povertà alla semplicità. La povertà è involontaria e debilitante, mentre la semplicità è, all’opposto, volontaria e rigenerante. Se la povertà non voluta conduce a stati di inerzia, disperazione ed impotenza, ricercare volontariamente la semplicità conduce ad una migliore consapevolezza di sé, stimola la creatività e invoglia a ricercare nuove opportunità. Storicamente coloro che hanno condotto una vita più semplice sono stati in grado di raggiungere un equilibrio, creativo ed estetico, tra povertà ed eccesso. Invece di concentrarsi sulla ricchezza materiale, chi ha optato per la semplicità volontaria ricercava la ricchezza nelle esperienze.

37 Elgin, D. (2006). Voluntary simplicity and the new global challenge. The environment in

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Abbracciare uno stile di vita ecologico non vuol dire scansare il progresso economico ma, piuttosto, andare alla ricerca di quelle tecnologie che risultano essere più utili e appropriate per costruire un futuro sostenibile. Uno stile di vita più semplice non rappresenta affatto una minaccia al progresso. Secondo lo storico Arnold Toynbee e la sua “Law of Progressive Simplification” 38 la reale

crescita di una civiltà sta nella sua abilità di trasferire quantità crescenti di energia e attenzioni dall’aspetto materiale della vita a quello immateriale e, quindi, accrescere il patrimonio culturale, rafforzare la capacità dei propri membri di provare compassione, senso di comunità e di democrazia.

Non esiste una regola o una formula per la semplicità volontaria, esistono però alcune caratteristiche generali che sembrano accomunare tutti coloro che abbracciano questo stile di vita:

• Il tempo che riescono a risparmiare con uno stile di vita più semplice generalmente viene impiegato per fare delle attività con il partner, i figli e gli amici, come ad esempio campeggiare o passeggiare, condividere i pasti o suonare assieme, oppure viene dedicato al volontariato o all’impegno sociale e politico per migliorare la vita nella comunità.

• Generalmente si adoperano per sviluppare ogni loro potenziale: fisico, emozionale, cognitivo e spirituale.

• Provano un’intima connessione con la terra e la natura.

• Sono sensibili al tema della povertà del mondo, auspicano giustizia sociale e un’equa spartizione delle risorse.

• Si impegnano a ridurre il loro livello personale di consumo: comprano meno vestiti, gioielli e cosmetici, organizzano le vacanze in maniera meno commerciale.

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• Tendono a modificare lo stile di consumo verso prodotti durevoli, che possano essere riparati facilmente, che non siano inquinanti nella produzione e nell’uso e che siano funzionali.

• Generalmente seguono una dieta che includa cibi naturali, salutari e semplici, preferendo una filiera solidale e sostenibile.

• Regalano o vendono gli oggetti che non hanno più un’utilità per loro ma che possono essere utilizzati in maniera più produttiva da altri (vestiti, libri, mobili,… ).

• Generalmente utilizzano il consumo come strumento politico, boicottando i prodotti di quelle imprese le cui azioni e politiche ritengono non essere etiche.

• Prestano molta attenzione ai rifiuti ed evitano di utilizzare tutti quei materiali che non sono biodegradabili o riciclabili.

• Preferiscono impiegarsi in lavori che contribuiscano direttamente al benessere del mondo e che, allo stesso tempo, gli consentano di sfruttare appieno la loro creatività.

• Si adoperano nell’apprendere ogni competenza che li possa aiutare ad essere perfettamente autosufficienti.

• Preferiscono avere una vita a misura d’uomo, un ambiente di lavoro che favorisca il crearsi di un senso di comunità, i rapporti di persona e una rete di sostegno reciproco.

• Tendenzialmente rifiutano le discriminazioni di genere e i ruoli che socialmente vengono attribuiti ai sessi.

• Apprezzano la semplicità delle forme di comunicazione non verbale (il silenzio, il tatto, il linguaggio degli occhi)

• Tendenzialmente scelgono di praticare delle discipline olistiche come lo yoga.

• Si impegnano spesso attivamente in cause compassionevoli come la difesa delle foreste pluviali e la salvaguardia degli animali, preferendo di solito metodi non violenti.

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I batteri hanno una strana storia: “inesistenti” fino a quando è stato inventato il microscopio, poi demonizzati come causa di morte per le infezioni. In realtà la maggior parte

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