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INDICE
Riassunto………...4 Epidemiologia………...7 Fattori di rischio………8 Chemioprevenzione………...………….10 Screening………..………..11 Diagnosi………..…………13 Anatomia patologica……….…………..17 Stadiazione………..…………17 Opzioni terapeutiche………..……….20 Prostatectomia radicale………...………21 Radioterapia………23 Brachiterapia……….………..25Terapia medica ormonoterapia………...………26
Blocco androgenico totale………..28
Gestione terapia ormonale………..………29
Ormonoterapia adiuvante………30
Ormono terapia neoadiuvante………...………..32
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Terapia ormonale di seconda linea………...……..34
Chemioterapia……….……35
Immunoterapia………40
Targhet therapy……….………..…………41
Chemioterapia metronomica………...…………42
Associazione tra chemioterapia standard e chemioterapia metronomica…………...………45
Terapia tra difosfonati, inibitori RANKL e terapia radio-metabolica………46
Abiraterone acetato: razionale dello studio………...…….51
Sviluppo clinico……….…….54
Progressione biochimica e radiologica………...……67
Abiraterone acetato nel controllo dei sintomi relativi alle metastasi ossee………67
Abiraterone nel controllo della fatigue………...……69
Abiraterone pre-chemioterapia………...…70
Abiraterone nella malattia viscerale………...…72
Abiraterone nel sottogruppo do pazienti mPRPC di età > 75 anni dopo trattamento con docetaxel……….………73
Nuove aree di sviluppo………...……74
Obiettivo dello studio……….……75
3 Criteri di esclusione………77 Risultati……….79 Discussione……….……82 Tabelle e grafici…..………....86 Bibliografia………...100
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RIASSUNTO
Il carcinoma della prostata è la seconda neoplasia più diagnosticata al mondo e sesta causa di morte con il 14% di nuovi casi l’anno e il 6% dei decessi cancro-correlati. In Italia l’incidenza è di 33.000 nuovi casi l’anno.
Data la spiccata ormonodipendenza, il blocco androgenico, ovvero la riduzione dei livelli di testosterone tramite varie tecniche di manipolazione ormonale, permette l’arresto della proliferazione cellulare e l’incremento dell’apoptosi. La terapia ormonale rappresenta quindi il trattamento di scelta iniziale nei pazienti con malattia metastatica. Tuttavia dopo un periodo di tempo di circa 2-3 anni, si instaura all’interno delle cellule neoplastiche un meccanismo di resistenza che rende la neoplasia refrattaria al trattamento. Oggi il termine malattia ormono refrattaria è stato sostituito da malattia resistente alla castrazione indicando quelle neoplasie in progressione nonostante che i livelli di testosterone siano nel range di castrazione (< 50 ng/dl).
Oggi, oltre ai farmaci inibitori dell’asse ipotalamo-ipofisario come gli RH-LH agonisti che inibiscono la sintesi di testosterone a livello dei tessuti testicolari abbiamo a disposizione dei farmaci, primo tra tutti l’abiraterone acetato, che bloccano la sintesi degli androgeni non solo a livello del tessuto testicolare ma anche surrenale e delle cellule prostatiche neoplastiche.
Abiraterone acetato è un inibitore dell’enzima CYP17, analogo competitivo, selettivo, irreversibile e ad alta affinità. Il farmaco è co-somministrato con il prednisone in modo da limitare gli effetti tossici da eccesso di mineralcorticoidi dati dall’abiraterone. Il farmaco è stato testato attraverso uno studio registrativo di fase III che prende in considerazione pazienti, tutti con malattia metastatica e trattati precedentemente con docetaxel.Lo studio prevedeva la somministrazione di abiraterone associato a prednisone in un gruppo di
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pazienti mentre in un altro gruppo placebo più prednisone. La sopravvivenza libera da malattia (PFS) è stato l’obiettivo primario ottenedo un vantaggio di + 3,9 mesi nei pazienti in trattamento con abiraterone più prednisone. Dopo i risultati dello studio registartivo il farmaco è stato approvato dalla FDA e dall’EMA e nell’Aprile del 2013 anche dall’AIFA. E’ stato successivamente attivato un protocollo Exspanded Access a cui ha partecipato anche la AOU di Pisa, nel periodo compreso tra agosto 2011 e novembre 2012,arruolando 52 pazienti precedentemente trattati con docetaxel.
Il nostro,è uno studio osservazionale che, valutando in origine pazienti inseriti nel protocollo Expanded Access (EAP) trattati con abiraterone acetato, si estende ad un ulteriore gruppo di pazienti con le stesse caratteristiche seguiti presso il nostro centro dopo la messa in commercio del farmaco.
Lo scopo dello studio è stato valutare l’efficacia, l’attività e la sicurezza del farmaco in termini di sopravvivenza libera a progressione (PFS), risposta biochimica a 12 settimane di trattamento, risposte obiettive, incidenza degli eventi scheletrici profilo di tossicità, controllo del dolore e sopravvivenza globale. Abbiamo ottenuto una PFS mediana pari a 10,1 mesi con un range tra 7,2 e 12,9 mesi; una riduzione dei valori del PSA nella maggior parte dei pazienti (56 su 78); le risposte obiettive secondo i criteri RECIST sono state:12 dei pazienti hanno avuto una risposta completa,19 una risposta parziale, 15 una stabilità della malattia e 9 sono andati incontro a progressione; nella valutazione degli eventi scheletrici abbiamo osservato una bassa incidenza infatti si sono verificati solo in 6 pazienti ed è stata osservata una riduzione del dolore superiore del 30% in oltre la metà dei pazienti. Non sono state osservate tossicità tali da sospendere il trattamento ma quasi esclusivamente tossicità di grado lieve-moderato, in particolare astenia in quasi la metà dei pazienti.
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Possiamo quindi concludere che i risultati del nostro studio sono perfettamente in linea con quelli dello studio registrativo nonostante la nostra sia una casistica di pazienti di numero limitato e non attentamente selezionati come quelli dello studio registrativo.
7 EPIDEMIOLOGIA
Il carcinoma della prostata è la seconda neoplasia più diagnosticata al mondo e la sesta causa di morte cancro-correlata nell’uomo con il 14% del totale di nuovi casi e 6% del totale di decessi cancro correlati.
C’è una notevole distinzione, in base ai paesi economicamente sviluppati e quelli in via di sviluppo: nei primi il carcinoma della prostata è la più comune neoplasia diagnosticata e la terza causa di morte con un rischio cumulativo e di mortalità per tutti i pazienti di età compresa tra 0-74 anni rispettivamente del 7,8% e dello 0,9%; nei secondi rappresenta la sesta neoplasia diagnosticata e la sesta causa di morte cancro-correlata, con un rischio cumulativo di ammalarsi e di mortalità pari rispettivamente all’1,4% e allo 0,5% [1].
Il tasso di incidenza del carcinoma prostatico nei paesi della Comunità Europea statisticamente è di 55 casi per 100.000 mentre, il tasso di mortalità è di 22,6 decessi per 100.000 individui. In Italia l’incidenza è intorno a 33.000 nuovi casi ogni anno [2]: il rischio cumulativo di ammalarsi per carcinoma prostatico per tutti i pazienti di età compresa tra 50 e 74 è del 3,9% mentre il rischio di mortalità è del 1,2% [3]. Da oltre un decennio nei paesi industrializzati occidentali, negli Stati Uniti ed in Canada l’incidenza ha subito dapprima un rapido aumento di circa dieci volte per poi ridursi e stabilizzarsi a circa 1,5-2 volte rispetto all’attesa, mentre la mortalità appare stabile. Questa differenza è attribuibile all’introduzione del PSA (Prostate Specific Antigen) come metodica di screening di massa, che ha portato ad una sovradiagnosi di tumori della prostata non destinati a manifestarsi clinicamente nella vita ma a restare “latenti”. Questi ultimi vengono riscontrati in corso di autopsia nel 30% dei soggetti con età superiore ai 50 anni e nell’80% dei soggetti con età superiore a 80 anni deceduti per altre cause non attribuibili al carcinoma prostatico [4].
8 FATTORI DI RISCHIO
L’eziologia del carcinoma prostatico è multifattoriale ed è il risultato di una complessa interazione di fattori genetici e ambientali. L’età avanzata e la presenza di ormoni androgeni biologicamente attivi nel sangue circolante e nel tessuto prostatico rappresentano i fattori causali più rilevanti.
ETA’
L’incidenza aumenta con l’età, generalmente insorge in soggetti con età superiore ai 50 anni e aumenta con l’invecchiamento [5].
RAZZA
La razza nera è a più rischio per i più elevati livelli circolanti di androgeni, di DHT e di 5-reduttasi. Inoltre gli afroamericani sembrano sviluppare focolai di carcinoma più indifferenziati e a più rapida crescita con una mortalità cancro-correlata superiore a 2-3 [6].
FATTORI ORMONALI
Gli elevati livelli di testosterone e Insuline-like growth factor (IGF-1) esercitano un ruolo importante essendo il carcinoma prostatico androgeno dipendente [7].
FAMILIARITA’
In circa il 25% dei pazienti vi è una storia familiare positiva di tumore della prostata. Il rischio relativo (RR) di sviluppare malattia in un soggetto con parente di primo grado affetto da carcinoma prostatico è di circa 2 e sale a circa 5-11 se vi sono due o più parenti di primo grado affetti [8].
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Il 9% circa dei tumori della prostata sono ereditari e il 43% si presenta in soggetti con età inferiore ai 55 anni. Diversi sono i geni individuati probabilmente responsabili di una maggiore suscettibilità al carcinoma prostatico nonché alterazioni cromosomiche come mutazioni puntiformi, Loss of heterozigosity come quelle del braccio q del cromosoma 1,16,17,13, oltre che del cromosoma X e polimorfismi di geni (vitamina D e i recettori degli androgeni) [9][10][11].
Recentemente si è evidenziato come i geni appartenenti alla famiglia dei fattori trascrizionali, ETS (ERG,ETV,ETV4) fossero iperespressi, in modo esclusivo, in campioni bioptici di metastasi linfonodali di pazienti affetti da tumore prostatico. Si è pertanto ipotizzato che l’iperespressione potesse essere correlata ad un processo di traslocazione genica, essendo stato identificato un prodotto di fusione genica tra la regione 5’ non tradotta del gene TMPRSS2, codificante per una serina proteasi di membrana specifica della prostata, e gli oncogeni ERG ed ETV1. Il promotore di TMPRSS2 è stato precedentemente dimostrato contenere elementi responsivi agli androgeni. I geni ottenuti da questa fusione (TMPRSS2:ERG e TMPRSS2 :ETV) sono stati identificati in modo specifico in tessuti tumorali prostatici ma non in campioni di iperplasia prostatica benigna [12].
Sono state dimostrate anche fusioni tra TMPRSS2 e ETV che compaiono però più raramente [13]. I vari studi hanno però dimostrato che in circa il 50% dei tumori sia presente la fusione TMPRSS2-ERG, mentre ETV4 ed ETV1 sembrano implicati rispettivamente nell’1% e nel 10% dei casi. Successivamente è stato scoperto un quarto membro appartenente alla stessa famiglia, ETV5 implicato negli stessi riarrangiamenti genetici [14].
Altre alterazioni genetiche sono quelle del gene oncosoppressore PTEN che risulta essere perso o mutato nel 70% delle neoplasie prostatiche coinvolto nella cascata di trasduzione dei segnali intracellulari che aumentano la sopravvivenza e la proliferazione cellulare [15].
10 DIETA
E’ stata confermata da numerosi studi la notevole importanza dell’alimentazione: diete ricche di carni rosse e di grassi e povere di frutta, verdura e cereali con deficit di vitamina A ed E, oligoelementi e antiossidanti come licopene presente nei pomodori, sembrano responsabili di una più alta incidenza del tumore [16] [17].
CHEMIOPREVENZIONE
L’idea della chemioprevenzione fu proposta nel 1970, si affida all’utilizzo di sostanze naturali o sintetiche al fine di invertire, arrestare o prevenire la formazione del carcinoma. Molti sono gli studi che valutano il ruolo di diverse sostanze naturali come i fitoestrogeni (genisteina, lignani), la vitamina E, i licopeni, i polifenoli del the, minerali come selenio e zinco e altri sono ancora in corso.
Gli studi epidemiologici e di laboratorio condotti sino ad ora, suggeriscono che alte dosi di vitamina E e/o selenio e/o vitamina D riducano il rischio di carcinoma prostatico. Nel panorama della chemioprevenzione si stanno affacciando anche gli inibitori della lipossigenasi che sembrano interferire con i meccanismi necessari per l’accrescimento neoplastico [18]. La tipica dieta occidentale, ricca di grassi animali, sembra invece avere effetto promuovente la crescita tumorale tramite una prolungata stimolazione androgenica pertanto negli ultimi anni sono stati condotti degli studi sull’uso degli inibitori della 5-alfa-reduttasi come la Finasteride e la Dutasteride con però risultati controversi. Infatti è stato riscontrato un aumento dei tumori prostatici ad alto grado. Altre molecole promettenti sono la vitamina D; gli isoflavonoidi della soia e le catechine del the verde.
Le strategie della medicina preventiva possono essere divise in prevenzione primaria, secondaria e terziaria. La prevenzione primaria valuta l’insorgenza della malattia in
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individui altrimenti sani. La prevenzione secondaria è focalizzata sul trattamento di individui con una condizione pre-maligna o malattia latente, mirando a fermare la progressione della malattia ad evidenza clinicamente maligna. La prevenzione terziaria riguarda la prevenzione di recidive o di progressione della malattia in individui con malignità nota o precedentemente trattata [19].
SCREENING
Poiché non è prevedibile per ora poter ottenere una riduzione di incidenza della malattia con la prevenzione primaria,ovvero tramite (modificazione della dieta e dello stile di vita) non vi è dubbio che la prevenzione secondaria rimanga uno strumento utile per influire sulla storia naturale della malattia e ridurne la mortalità. Il mezzo più confacente per la prevenzione secondaria è lo screening di massa, mentre il test che viene più utilizzato perché migliore in termini di accuratezza, di costi e di convenienza è il dosaggio periodico del PSA, una serino-proteasi della famiglia delle callicreine prodotta prevalentemente, ma non esclusivamente dalla prostata.
Due studi prospettici controllati, randomizzati, sono stati eseguiti al fine di valutare la possibile efficacia in termini di riduzione della mortalità e rapporto costo/ beneficio del PSA come test di screening. Nello studio europeo (ERSCP) sono stati valutati 182.000 individui di età compresa tra i 50 e i 74 anni, randomizzati ad essere sottoposti al dosaggio di PSA (in media ogni 4 anni) o a far parte del gruppo di controllo. Dopo un follow-up di circa 9 anni l’incidenza cumulativa della malattia è risultata essere dell’8,2% nel gruppo di screening e del 4,8% in quella di controllo, con un rapporto nel tasso di mortalità cancro correlata tra i due gruppi pari a 0,80.
Tuttavia la differenza nel rischio assoluto di morte è risultata essere 0,71 morti per 1000 uomini; ciò significa che 1400 uomini dovrebbero essere sottoposti a screening e 48 casi
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addizionali dovrebbero essere trattati per prevenire una singola morte per cancro della prostata.
Le conclusioni dello studio hanno messo in evidenza come ad un decremento del tasso di mortalità pari al 20%, screening con PSA è risultato associato a un elevato rischio di sovra diagnosi, dell’ordine di 50% [25].
Lo studio americano “The Prostate, Lung, Colorectal, and Ovarian Cancer Screening Trial” (PLCO) ha arruolato 76.693 uomini randomizzati ad essere sottoposti a dosaggio annuale del PSA ed esplorazione rettale o a controllo. Dopo un follow-up medio di sette anni il tasso di mortalità è risultato molto basso e non è stata rilevata nessuna differenza statisticamente significativa nei due gruppi di controllo [26]. In base ai dati relativi ai due studi si può quindi affermare che ad oggi, non vi è indicazione a sottoporre indiscriminatamente la popolazione maschile asintomatica. Nel 2010, l’American Cancer Society ha aggiornato le proprie linee guida per la diagnosi precoce del carcinoma prostatico indicando, per i soggetti a medio rischio di sviluppare la malattia, l’età di 50 anni come target di screening; per i soggetti a più alto rischio ( afro-americani, familiari di primo grado con diagnosi di malattia prima dei 65 anni) l’età indicata è di 45 anni, riducendosi a 40 anni per chi ha più familiari affetti da cancro prostatico.
Lo studio PLCO rischia però di essere poco informativo circa l’efficacia di invitare a screening una popolazione libera dallo screening stesso, rispetto a non invitarla, prova ne è il fatto che gli autori, nel più recente aggiornamento dei risultati dello studio, del 2012, giungono a concludere che, dopo 13 anni di follow-up, non vi sono differenze di mortalità tra uno screening di tipo organizzato ed uno opportunistico, e non fra uno screening organizzato e non fare nulla [27]. I risultati dello studio ERSPC devono considerarsi ancora preliminari, in relazione alla durata limitata del follow-up. Una revisione dei dati di mortalità del trial ERSPC, pubblicata nel marzo 2012, conferma una riduzione della
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mortalità specifica del 21%, e riporta una riduzione del 29% dopo aggiustamento per la non-compliance (intention to screen), ma continua ad evidenziare anche un tasso rilevante di sovra diagnosi; infatti a 11 anni di follow-up, per prevenire un decesso da cancro della prostata, è necessario invitare allo screening 1.055 uomini e sottoporre 37 pazienti a un trattamento non necessario.
Lo screening comporta:
1.dosare il PSA ed eseguire la DRE.
2.se il PSA < 2,5 ng/ml l’intervallo di screening è ogni due anni.
3.se PSA >_2,5 ng/ml lo screening è prima dei due anni.
4.PSA tra 2,5 e 4 ng/ml la scelta dello screening è basata sui fattori di rischio individuali.
5.se il PSA > 4 ng/ml è indicata la biopsia per individui con rischio medio alto [28].
DIAGNOSI
La diagnosi di carcinoma prostatico si basa sulle seguenti indagini:
Esplorazione rettale.
Dosaggio del PSA.
Tecniche di imaging (ecografia trans rettale,TC,MRI).
14 ESPLORAZIONE RETTALE
L’esplorazione rettale (ER) è il primo approccio diagnostico al paziente che presenta sintomatologia riferibile ad una patologia prostatica. Vista la posizione in cui insorge spesso il nodulo neoplastico può essere spesso rilevato con la semplice palpazione. Non può essere utilizzata come unica metodica diagnostica, in quanto presenta bassi livelli di sensibilità e basso valore predittivo positivo specialmente nella diagnosi precoce del tumore.
DOSAGGIO DEL PSA
Il PSA è presente in circolo sia in forma libera che legato ad inibitori enzimatici come la antichimotripsina e l’alfa-2 macroglobulina. I metodi immunometrici di dosaggio del PSA totale misurano una miscela di isoforme rappresentate dal PSA libero e quello legato all’antichimotripsina.
Il PSA può trovarsi elevato in circolo sia in presenza di malattia maligna che in presenza di forme benigne o dopo l’esecuzione di alcune manovre diagnostiche come la biopsia prostatica, la cistoscopia e l’ER mentre può trovarsi ridotto in seguito all’assunzione di farmaci ad esempio inibitori di 5 alfa reduttasi come la Finasteride utilizzati nel trattamento dell’ipertrofia prostatica benigna o valutati in programmi di farmaco prevenzione.
Il valore soglia più utilizzato è pari a 4 ng/ml tuttavia, vi è una sovrapposizione fra soggetti con neoplasia confinata all’organo e soggetti con ipertrofia prostatica che presentano spesso valori compresi tra 4 e 10 ng/ml. Al contrario circa il 20% dei pazienti con neoplasia confinata all’organo presentano valori di PSA inferiori a 3 ng/ml.
L’efficacia diagnostica del PSA totale è buona nei casi con valori inferiori a 3 ng/ml (prevalenza del tumore < al 20%) e nei casi con valore superiori a 10 ng/ml (prevalenza del tumore > 60%) [29].
15 RAPPORTO PSA LIBERO-PSA TOTALE
La frazione di PSA sierico legato alla antichimotripsina negli uomini affetti da tumore prostatico è più alta rispetto ad altri con patologia benigna [30], ciò consentirebbe di ridurre il numero di biopsie in pazienti con valori di PSA compresi tra 2,5-3 e 10 ng/ml, definita zona grigia, migliorando l’accuratezza diagnostica [31].
PSA DENSITY
Un’ accuratezza diagnostica migliore del PSA totale e con performance simili al rapporto PSA libero/PSA totale, soprattutto nei casi definiti a “zona grigia”, è rappresentata dalla PSA density o PSAD che esprime il rapporto tra PSA circolante e dimensioni della ghiandola misurate ecograficamente. Essa si basa sull’osservazione che la quantità di PSA prodotto per grammo di tessuto ghiandolare è superiore nel cancro rispetto alle forme benigne (ipertrofia prostatica). Il valore proposto come soglia per biopsie prostatiche in uomini con PSA nella zona grigia è 0,5. Tuttavia l’interpretazione di tale valore è condizionata da diverse variabili e questo ne limita l’impiego [32].
PSA VELOCITY
Altro metodo proposto per migliorare la sensibilità del test è quello di misurare il tasso di incremento del PSA nel tempo su base annuale. La PSA velocity avrebbe la capacità di predire l’insorgenza del cancro con significativo anticipo diagnostico e sarebbe anche un potenziale indicatore di aggressività della neoplasia e quindi di peggiore prognosi. Numerose variabili possono condizionare la PSA velocity; tra esse il livello iniziale di PSA, i criteri usati per la diagnosi di studio, la lunghezza del periodo di osservazione, l’intervallo fra prelievi, la variabilità spontanea, l’algoritmo di calcolo [33][34][35].
16 ECOGRAFIA TRANSRETTALE
L’ecografia transrettale (TRUS) permette una valutazione più approfondita della prostata e per questo rappresenta uno strumento di notevole utilità, in grado di aumentare la sensibilità diagnostica, in associazione col PSA e con l’ER [36].
La TRUS permette di rilevare alterazioni dell’ecostruttura della zona periferica e/o centrale della prostata, evidenziando lesioni di tipo ipoecogeno, più spesso maligne, rispetto a lesioni iper o isoecogene;[37]. L’ecografia riveste un ruolo insostituibile nella guida della biopsia prostatica, aumentando il riscontro di neoplasia nel 39,3% dei casi rispetto ai soggetti biopsati sotto guida digitale [38].
BIOPSIA PROSTATICA
Solo con la biopsia prostatica viene raggiunta la certezza diagnostica. L’agobiopsia rappresenta un’indagine invasiva eseguita per via transrettale con approccio ecoguidato. L’indicazione all’esecuzione di una biopsia prostatica può derivare dal riscontro di lesioni sospette all’esplorazione rettale, nel caso in cui i valori plasmatici di PSA siano maggiori di 10 ng/ml, o in tutte quelle occasioni in cui all’esame ecografico, si siano riscontate aree di ecogenicità sospette. Nel caso in cui i valori di PSA siano tra i 4 e i 10 ng/ml, si prendono in considerazioni altri parametri quali l’età del paziente, il PSA libero/totale, la PSA velocity. In pazienti con età < a 55 anni e con familiarità per neoplasia alla prostata il valore soglia di normalità del PSA totale dovrebbe essere considerato 2,5 ng/ml [39]. I migliori risultati si ottengono prendendo in considerazione uno schema bioptico che includa fino a 10-12 prelievi [40][41].
17 ANATOMIA PATOLOGICA
Il 95% dei tumori prostatici sono adenocarcinomi di tipo acinare che insorgono nel 70% dei casi in zona periferica, nel 20% in zona transazionale (sede tipica dell’ipertrofia prostatica benigna) e nel 5% nella zona centrale della ghiandola. Il grado istologico di differenziazione cellulare è definito attraverso il Gleason Score, raccomandato come standard internazionale per la gradazione del carcinoma della prostata, che prende in considerazione l’architettura ghiandolare e i rapporti della neoplasia con lo stroma. Viene assegnato un punteggio ai due tessuti patologici più rappresentati della neoplasia o nel campione in esame e si definisce come primario quello prevalente [42].
La classificazione di Gleason descrive cinque aspetti architettonici ghiandolari a cui si da un punteggio da 1 a 5 in relazione alla malignità. Lo score finale risulterà dalla somma del pattern primario e del pattern secondario. Quando non esiste un grado secondario si deve raddoppiare il primario per ottenere il Gleason Score. Lo score finale avrà un punteggio da 2 a 10: si distingueranno i tumori ben differenziati quelli con punteggio da 2 a 4; mediamente differenziati da 4 a 7; da 8 a 10 scarsamente differenziati [43][44].
L’anaplasia nucleare è graduata con punteggio 1, 2, 3 che corrisponde rispettivamente a modificazioni del nucleo lievi, moderate o marcate.
Si possono poi riconoscere delle lesioni definite precancerose come la neoplasia prostatica intraepiteliale (PIN) rappresentata da una proliferazione cellulare all’interno dei dotti e degli acini della prostata.
STADIAZIONE
Con il termine stadiazione si intende la definizione precisa dell’estensione della malattia e di per sé costituisce il determinante fondamentale della pianificazione terapeutica, nonché è
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fonte di informazioni riguardo alla prognosi. Va sottolineato però che oggi la stadiazione clinica risulta essere poco accurata con una sottostadiazione rispetto a quella post chirurgica che va dal 50 al 68% in base agli autori. Per la stadiazione del tumore viene comunemente usato il sistema TNM (Tabella1), attraverso il quale è possibile creare una suddivisione in stadi (Tabella 2).
E’ di fondamentale importanza definire il volume tumorale nonché la sua estensione o meno oltre la capsula prostatica e la possibile infiltrazione delle vescichette seminali e dei tessuti limitrofi.
Per quanto riguarda il parametro T (cioè l’estensione locale del tumore primitivo) ci si avvale dell’esplorazione digitorettale, del PSA (nomogrammi), dell’ecografia transrettale e dell’RMN con bobina endorettale (dove disponibile e se tollerata dal paziente). La RMN, condotta con bobina endorettale consente di distinguere all’interno della ghiandola il tessuto sano da quello neoplastico e permette inoltre di valutare meglio i rapporti con gli organi contigui, potendo così rappresentare un esame importante nella stadiazione della malattia [47][48][49][50]. Il limite principale di questa metodica è costituito dalla necessità, per ottenere risultati soddisfacenti, di apparecchiature adeguate ed operatori esperti e quindi dall’elevato costo della procedura.
Per quanto riguarda lo studio del parametro N (cioè il coinvolgimento dei linfonodi pelvici) viene indagato attraverso TC, RMN e linfadenectomia pelvica. L’esame TC rappresenta la metodica strumentale più indicata per l’identificazione e la valutazione volumetrica dei linfonodi che come noto non è costantemente correlata con l’interessamento di malattia [51][52]. Una corretta valutazione si ottiene solo con la linfoadenectomia, procedura che viene eseguita considerando i livelli sierici di PSA e il punteggio Gleason, i cui valori hanno ruolo predittivo del rischio di metastatizzazione [53]. Numerosi sono gli studi che negli ultimi anni hanno preso in considerazione l’utilizzo della Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) quale indagine di significato diagnostico, stadiativo e ristadiativo nella
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patologia prostatica, e questo vale soprattutto per la PET- colina, che sembrerebbe più sensibile e specifica della PET- FDG. Questa metodica si è però dimostrata poco efficace nella valutazione iniziale del coinvolgimento linfonodale di malattia, specie in termini di identificazione delle micrometastasi anche in relazione ai possibili falsi negativi derivanti dalla presenza della prostata in sede, e non sembra aggiungere nulla rispetto alla scintigrafia ossea nell’evidenziazione delle metastasi ossee; sembrerebbe invece più utile delle altre tecniche di imaging nella localizzazione di eventuali recidive dopo un trattamento primario, soprattutto quando accoppiata alla TC [54][55].
Infine per la definizione del parametro M (cioè la localizzazione secondaria metastatica della malattia) vengono utilizzate la scintigrafia ossea ed altre tecniche di imaging a seconda della localizzazione secondaria metastatica. La scintigrafia ossea rappresenta l’indagine di imaging più accurata nella ricerca di metastasi ossee con una sensibilità che si avvicina al 100% ed una percentuale di falsi negativi minore dell’ 1%; eventuali dubbi interpretativi di questa metodica devono essere approfonditi con l’utilizzo di radiografie mirate o meglio con TC e RMN.
Per valutare la probabilità di diffusione extraprostatica dei tumori sono stati studiati nomogrammi basati su variabili fondamentali quali lo stadio clinico, il PSA, il Gleason bioptico, il numero di biopsie positive e la percentuale di neoplasia presente nel singolo campione bioptico; il più noto ed utilizzato è il nomogramma di Partin: si tratta di un algoritmo in grado di predire lo stadio patologico assegnando i pazienti ad una delle quattro categorie rappresentate da neoplasia organo confinata, estensione extracapsulare, invasione delle vescichette seminali o coinvolgimento dei linfonodi loco-regionali. Da notare che attraverso le tabelle di Partin (Tabella3) si raggiunge un accuratezza diagnostica di circa un 70% [56]. Al momento attuale, anche se non vi è consenso unanime sull’utilizzo, i nomogrammi, lo stadio clinico, il valore del PSA e il Gleason score rappresentano le variabili utilizzate per la scelta del trattamento locoregionale più appropriato e
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dell’aggressività del trattamento. Esistono inoltre modelli predittivi di ripresa di malattia dopo chirurgia radicale, radioterapia con fasci esterni, brachiterapia : utilizzando questi modelli, i pazienti possono essere stratificati in gruppi a basso, medio ed alto rischio di progressione (Tabella 4) ed essere in tal modo selezionati per il trattamento più adeguato.
OPZIONI TERAPEUTICHE
Il trattamento del carcinoma prostatico si propone obiettivi diversi in base a caratteristiche proprie del tumore come l’estensione e l’aggressività, ma anche in base all’aspettativa di vita del paziente e alla presenza di comorbidità che possono costituire un rischio di morte superiore rispetto a quello rappresentato dalla neoplasia stessa; infatti circa il 40% dei malati morirà “con” e non “per” la neoplasia anche se la malattia è localmente avanzata o metastatica [57]. L’obiettivo del trattamento nei pazienti con malattia apparentemente localizzata è la guarigione tenendo conto però che non tutti i pazienti con malattia localizzata necessitano di un trattamento curativo; il “watchful waiting” cioè l’attenta sorveglianza può essere considerata in pazienti a basso rischio, con tumore intracapsulare T1a-b-c T2a, Gleason Score < 6, livelli di PSA < 10 ng/ml e con una aspettativa di vita inferiore a 10 anni [58][59]. Per tutti gli altri pazienti con neoplasia intraprostatica, e pertanto candidabili a terapie con fini di radicalità come la prostatectomia radicale, la radioterapia a fasci esterni e la brachiterapia, la scelta terapeutica deve essere conforme alle preferenze del paziente [60]. Nei pazienti con malattia extracapsulare (T3-T4, Nx-N0, M0) l’obiettivo è di ottenere un adeguato controllo della malattia a livello locoregionale e di prolungare la sopravvivenza attraverso l’impiego della radioterapia a fasci esterni (per il controllo locale) e di trattamenti multimodali come l’ormonoterapia adiuvante e neoadiuvante, anche se soltanto un numero limitato di questi pazienti può aspirare alla guarigione della malattia. Nei pazienti con malattia metastatica l’obiettivo più concretamente perseguibile è la palliazione, soprattutto nei pazienti sintomatici. In questi
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pazienti esistono attualmente diverse strategie terapeutiche tra le quali l’ormonoterapia e, nei casi di malattia ormonorefrattaria, la chemioterapia che unitamente alle varie forme di terapia antalgica, alla terapia radiometabolica e alla terapia con difosfonati, possono impattare significativamente sulla qualità della vita e, talvolta, sulla aspettativa di vita.
PROSTATECTOMIA RADICALE
Con il termine di prostatectomia radicale si indica l'intervento chirurgico che prevede l'asportazione in blocco di prostata e vescicole seminali e la successiva anastomosi vescico-uretrale. Può essere associata a linfadenectomia pelvica in cui la dissezione è più o meno estesa a seconda dei limiti anatomici considerati. In genere è ritenuto candidabile, con intento curativo, il paziente con neoplasia prostatica clinicamente localizzata (stadio T1 e T2), con aspettativa di vita di almeno 10 anni e in condizioni generali adeguate. Lo scopo che l’intervento si propone è quello di rimuovere chirurgicamente tutto il tumore, consentendo la guarigione del paziente. La procedura può essere eseguita per via retropubica, quella più comunemente utilizzata, per via transperineale o transcoccigea. Negli ultimi anni si è aggiunto l'approccio laparoscopico e robotico per via transperitoneale o extraperitoneale con il quale, selezionati adeguatamente i pazienti e conformemente alle esigenze oncologiche di radicalità, si ottiene il risparmio dei nervi erigendi con spontanea ripresa dell’attività sessuale. Il ruolo di questo approccio chirurgico è ad oggi ancora in fase di studio e praticato in alcuni Centri di Eccellenza. La prostatectomia radicale è considerata un intervento di chirurgia maggiore e come tale non scevro da complicanze. Il tasso di mortalità perioperatoria è intorno all’1% mentre la mortalità operatoria è inferiore allo 0,2%. Le complicanze dell’intervento di prostatectomia radicale, che globalmente hanno una frequenza che varia dal 7,5 al 18,5% si possono suddividere in:
- intra-operatorie come l’emorragia (in meno del 10% dei casi), la perforazione della parete rettale (0,1-0,2%) e le lesioni ureterali (0,1-1%).
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- post-operatorie precoci (fino a 30 giorni dopo l’intervento chirurgico) come quelle tromboemboliche (0,7-2,6%), cardiovascolari (0,4-1,4%), le infezioni della ferita (0,9-1,3%), la linforrea e il linfocele (0,6-2%), la stenosi dell'anastomosi vescico-uretrale (0,6 e il 10%).
- post-operatorie tardive (dopo trenta giorni dall’intervento chirurgico) come l’incontinenza urinaria che può inficiare la qualità di vita del paziente ma che, grazie all’approccio anatomico descritto da Walsh, è stato possibile ridurne l’incidenza (0-12,5%) e l’impotenza. Il ripristino spontaneo della potenza sessuale è condizionato dalla scelta della tecnica definita “nerve sparing” applicabile solo dopo selezione di pazienti con tumore di basso grado, monolaterale e di età inferiore ai 70 anni. Tale tecnica preserva le benderelle neuro vascolari situate posteriormente alla prostata garantendo così l’erezione e permettendo di mantenere la potenza sessuale nel 40-86% dei casi [60-66]. Per quel che riguarda i criteri di esclusione per l’intervento di prostatectomia rientrano in questi il coinvolgimento linfonodale, la presenza di metastasi e la PIN (neoplasia prostatica intraepiteliale), dal momento che potrebbe trattarsi di un fenomeno reversibile, sebbene una PIN di alto grado si associ ad Adenocarcinomi di tipo invasivo. In base ai dati conclusivi dell’unico studio prospettico randomizzato che paragonava la prostatectomia radicale all’approccio “watchful waiting” si è dimostrato come, dopo 15 anni di follow-up, esiste un sicuro vantaggio in termini di sopravvivenza globale e riduzione del rischio di morte per neoplasia prostatica, di progressione locale e di localizzazioni a distanza nei pazienti sottoposti a prostatectomia radicale di età < 65 anni e/o a basso rischio di ricaduta; mentre nei pazienti di età superiore non è stato dimostrato alcuna differenza significativa nella sopravvivenza globale [67]. Vi è l’indicazione a prendere in considerazione l’opzione chirurgica laddove questo trattamento può trovare spazio tenendo presente che l’obiettivo è di eradicare la malattia cercando di preservare la continenza urinaria e la funzione sessuale.
23 RADIOTERAPIA
Il trattamento radiante continua a rivestire un ruolo fondamentale nelle forme avanzate e metastatiche e rappresenta, una valida alternativa alla prostatectomia radicale con finalità curative,nelle forme localizzate, pur presentando tipi diversi di tossicità. Per questo motivo la decisione terapeutica tra chirurgia e radioterapia deve tener conto delle caratteristiche, delle eventuali comorbidità del paziente e non da ultimo delle sue preferenze.
RADIOTERPIA A FASCI ESTERNI
La radioterapia a fasci esterni consente attraverso radiazioni ad alta energia emesse da un acceleratore lineare, di indurre la necrosi delle cellule tumorali. E’ un’ opzione terapeutica con finalità curative applicabile anche in casi con importante sconfinamento extracapsulare. Consente di ottenere tassi di controllo locale tra l’85 e il 96% nei pazienti in stadio T1 e T2 e fra il 58 e il 65% nei pazienti in stadio T3, con risultati a lungo termine simili alla chirurgia radicale. E’ raccomandata nei pazienti giovani con malattia localizzata che rifiutano la chirurgia. La disponibilità di sistemi computerizzati basati sulla TC sia per la pianificazione terapeutica che per la ricostruzione tridimensionale (3-D) del volume bersaglio e degli organi critici, ha reso possibile la somministrazione di elevate dosi di radiazioni, conformando accuratamente la dose stessa, attorno alla silhouette tumorale e riducendo significativamente l’irradiazione dei tessuti sani circostanti [68]. La radioterapia conformazionale 3-D (3DCRT) con dosi maggiori di 70Gy è considerata lo standard di riferimento nel trattamento radiante del cancro prostatico localizzato e localmente avanzato (T1-T3) [69],[70]. Le esperienze cliniche che hanno utilizzato dosi superiori a quelle “convenzionali” (maggiori di 70 Gy) riportano un incremento significativo nel controllo di malattia, fino al 30% di aumento nel controllo biochimico di PSA a 5 anni e un miglioramento del periodo libero da metastasi a distanza. Le complicanze acute della radioterapia non conformazionale sono la cistite e la proctite acuta che si riscontrano
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complessivamente nel 30-35 % dei casi, sono per lo più reversibili e richiedono un trattamento farmacologico, queste percentuali però si riducono significativamente con l’impiego della radioterapia conformazionale.
Le complicanze tardive compaiono 6 mesi od oltre il termine della radioterapia, e nel caso della radioterapia 3-D conformazionale ad alte dosi si può avere una tossicità rettale di grado ≥ 2 dal 6% al 17% dei casi, una tossicità urinaria di grado 2 o più del 10% con stenosi uretrali nell’1,5% dei casi e un declino della potenza sessuale negli anni successivi al trattamento (15% a 20 mesi e 47% a 60 mesi). Un ulteriore metodica capace di incrementare la dose totale di irradiazione fino ad 80 Gy sul volume bersaglio e di ridurre contemporaneamente le tossicità locali è la Radioterapia con intensità modulata (IMRT), preferita se il volume di trattamento deve includere anche le stazioni linfonodali pelviche [71].
Il campo di irradiazione convenzionale è concentrato sul volume prostatico, tuttavia secondo i dati dello studio RTOG 94-13 l’irradiazione dei linfonodi pelvici, nel sottogruppo di pazienti definiti ad alto rischio, in associazione ad ormonoterapia per due mesi prima (neoadiuvante) e concomitantemente alla radioterapia sembrerebbe determinare un prolungamento della sopravvivenza libera da malattia (56% vs 46%) senza però influire sulla sopravvivenza globale [72],[73]. La Radioterapia inoltre, può essere somministrata in fase postoperatoria con la finalità di sterilizzare le cellule cancerose residue nel letto operatorio che possono portare a recidiva biochimica o locale, frequente negli stadi pT3 (30-40% a 10 anni) e/o disseminazione a distanza e si distingue classicamente nella radioterapia “adiuvante” e “di salvataggio”. La radioterapia adiuvante è eseguita generalmente entro 6 mesi dalla chirurgia e viene raccomandata nei pazienti con stadio patologico pT3a-b, N0, M0 o con margini positivi, che come dimostrato nello studio EORTC 22911 determina un vantaggio statisticamente significativo in termini di sopravvivenza libera da progressione sia biochimica che clinica [74],[75],[76]. La radioterapia di “salvataggio” dopo prostatectomia
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radicale per risalita del PSA (progressione biochimica) o per recidiva locale (documentata) è consigliata solo per pazienti con fattori prognostici favorevoli: PSA < 10ng/ml, Gleason < 7, doubling time > 10 mesi e valori di PSA prima del trattamento radioterapico < 1 ng/ml [74],[77]. Al contrario i pazienti che mostrano recidiva locale dopo radioterapia sono avviati ad un trattamento ormonale sistemico, anche se sono ipotizzabili una chirurgia di “salvataggio”, una brachiterapia o il trattamento con HIFU (High-intensity focused ultrasound) che induce un danno meccanico e termico attraverso onde ad altà intensità, trattamento ad oggi ritenuto ancora sperimentale [78],[79]. Nella malattia metastatica la radioterapia con fasci esterni e la terapia radiometabolica rappresentano un importante strumento di controllo della sintomatologia dolorosa e delle complicanze da secondarietà ossee.
BRACHITERAPIA
La Brachiterapia con impianto permanente rappresenta un ulteriore opzione terapeutica di tipo curativo nel carcinoma prostatico localizzato. La tecnica prevede l’impiego di piccole capsule di titanio dette “semi”, delle dimensioni di chicchi di riso, contenenti al loro interno sorgenti radioattive come Palladio 103 (Pd103) o Iodio 125 (I125) da impiantare sotto guida ecografica e fluoroscopia direttamente nella prostata per via perineale. E’ un trattamento minimamente invasivo che si esegue in tempi molto contenuti, dai 45 ai 90 minuti, in anestesia generale o spinale, in pazienti selezionati con volume prostatico < 50 ml, senza precedenti TURP (resezione transureterale della prostata) , T1b-T2a, N0, M0, Gleason ≤ 6 e aspettativa di vita di almeno 10 anni [80],[81]. I risultati in termini di controllo del PSA a 5 anni variano fra il 63 e l’88% in pazienti trattati con Brachiterapia esclusiva mentre se adottata come sovradosaggio (boost) dopo Radioterapia a fasci esterni il controllo del PSA a 5 anni varia dal 72 e l’88%; questa ultima tecnica è definita high dose rate (HDR) ed è praticata solo in alcuni Centri. Nel complesso i risultati della Brachiterapia sono simili a
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quelli ottenuti con Radioterapia a fasci esterni con minore frequenza di impotenza (8-14% dei casi); le casistiche sono comunque subordinate all’esperienza del Centro. Il trattamento può determinare entro 6 mesi dall’impianto, la comparsa di sintomi irritativi e ostruttivi delle vie urinarie tale da richiedere la cateterizzazione temporanea nel 5-30% dei casi; la stenosi uretrale può comparire tardivamente nel 5-7% dei casi e il deficit erettile si manifesta dopo 3-6 anni dall’impianto interessando circa il 50% dei pazienti.
TERAPIA MEDICA ORMONOTERAPIA
Data la spiccata ormonodipendenza delle neoplasie prostatiche la riduzione dei livelli circolanti di testosterone, definita come deprivazione androgenica, ed ottenibile mediante differenti manipolazioni ormonali, permette l’arresto della proliferazione cellulare e l’incremento dell’apoptosi. La terapia ormonale rappresenta così il trattamento di scelta nei pazienti con malattia metastatica e talora viene proposta come trattamento alternativo alla radioterapia in pazienti con malattia locale (T2-T4) ma con spettanza di vita inferiore a 10 anni o affetti da comorbidità tali da controindicare il trattamento locoregionale. Vi sono diverse metodiche con le quali si può ottenere una deprivazione androgenica: l’orchiectomia bilaterale o castrazione chirurgica che rappresenta a tutt’oggi il metodo più rapido ed economico ma scarsamente perseguibile per la ricaduta psicologica che ha sul paziente; la castrazione medica mediante l’utilizzo di estrogeni (Dietilstilbestrolo, DES), di analoghi agonisti LH-RH (Buserlin, Goserlin, Leuprolide e Triptorelina) o di antagonisti LH-RH. La castrazione medica ha il vantaggio di essere reversibile ed evitando un trauma chirurgico, di essere meglio accettata dal paziente, pur non essendo scevra da effetti collaterali ed anche più costosa [82],[83],[84]. In una metanalisi di confronto, comprendente diversi studi controllati, si è dimostrato che l’orchiectomia, l’impiego di estrogeni e l’impiego di analoghi del LH-RH sono comparabili per efficacia [84]. L’utilizzo degli estrogeni è però limitato da
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importanti effetti collaterali di carattere cardiovascolare e tromboembolico, pertanto non vi è indicazione al loro utilizzo come ormonoterapia di prima linea. La castrazione, in qualsiasi modo sia ottenuta è un trattamento nel complesso ben tollerato, tuttavia si riscontrano effetti correlati alla deprivazione androgenica come vampate di calore, perdita della potenza sessuale e della libido, riduzione della massa muscolare, osteoporosi, anemizzazione e, come confermato da recenti studi, un aumentato sviluppo della cosidetta “sindrome metabolica” (presente in più del 50% dei pazienti già dopo un solo anno di trattamento) e conseguentemente un aumento del rischio cardiovascolare e di sviluppo di diabete mellito [85],[86]. Pertanto emerge la necessità di valutare con attenzione il rischio cardiovascolare del singolo paziente cui il trattamento viene ad essere erogato [87]. La castrazione medica con LH-RH analoghi inoltre nelle prime fasi di trattamento può indurre un transitorio peggioramento della sintomatologia per lo stimolo a livello centrale e conseguente aumento dei livelli di testosterone circolante che, promuovendo la proliferazione delle cellule tumorali, può far precipitare fenomeni di compressione midollare, di ostruzione delle vie urinarie, oppure determinare un peggioramento della sintomatologia dolorosa per la presenza di metastasi ossee; questo fenomeno è detto del “flare-up”. Il flare-up può essere evitato grazie all’uso concomitante di antiandrogeni che antagonizzano l’azione ormonale a livello recettoriale neutralizzando così la proliferazione delle cellule tumorali indotta dal testosterone [88],[89]. In alcuni studi randomizzati, si è dimostrato come l’Abarelix depot (antagonista LH-RH) sia superiore alla Leuprolide (agonista LH-RH) o alla Leuprolide in combinazione con antiandrogeni nel sopprimere il picco iniziale della testosteronemia legato al fenomeno del flare-up nonché nel determinare una rapida riduzione del testosterone a livelli di castrazione; sono necessari però approfondimenti per verificare se l’evitare il fenomeno del flare-up si traduca in un vantaggio di sopravvivenza [90]. Un’ altra opzione terapeutica è l’uso di antiandrogeni in monoterapia; infatti questi farmaci rispetto alla castrazione medica o chirurgica consentono di preservare la funzionalità sessuale
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migliorando molto la qualità di vita del paziente specie se giovane, sebbene non siano scevri da effetti collaterali rilevanti come lo sviluppo di ginecomastia (80% dei casi) o la mastodinia (40-50% dei casi) [91],[92]. Una metanalisi condotta su studi di comparazione tra gli effetti della castrazione e l’impiego di differenti antiandrogeni di tipo steroideo (Ciproterone acetato) o di tipo non steroideo (Flutamide, Bicalutammide, Nitulamide) sembra concludere la superiorità della castrazione rispetto all’impiego degli antiandrogeni in monoterapia [93]. Tuttavia in alcuni studi randomizzati, tra cui quello dell’ Early Prostate Cancer Programme, condotti in pazienti con tumore prostatico localmente avanzato non metastatico, la Bicalutamide, alla dose di 150 mg/die, si è dimostrata comparabile alla castrazione o all’utilizzo di LH-RH analoghi in combinazione con antiandrogeni in quanto a sopravvivenza globale e sopravvivenza libera da malattia [94],[95]. Questi dati sono poi stati confermati dalla letteratura più recente anche per quanto riguarda il paziente metastatico, escluse le neoplasie scarsamente differenziate (G3-G4), con una migliore tollerabilità [96],[97]. Quindi l’impiego di antiandrogeni non steroidei in monoterapia può essere proposto in sottogruppi di pazienti con malattia localmente avanzata o poco aggressiva, oppure in pazienti non candidabili per età o comorbidità a trattamenti loco regionali o, infine, a pazienti che vogliono evitare gli effetti della deprivazione androginica.
BLOCCO ANDROGENICO TOTALE
Grazie al loro meccanismo d’azione, gli antiandrogeni sono in grado di antagonizzare, a livello dei recettori tissutali, l’azione degli androgeni non solo di origine testicolare ma anche di origine surrenalica, i quali non vengono soppressi in corso di castrazione medica o chirurgica. Questo rappresenta il razionale per l’impiego combinato degli antiandrogeni con la castrazione, così da ottenere un Blocco Androgenico Totale (BAT). Questa associazione ha dimostrato un incremento della sopravvivenza globale a 5 anni del 2-3 % rispetto alla castrazione medica o chirurgica, come ha dimostrato una metanalisi condotta dal Prostate
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Cancer Trialists‟ Collaborative Group [98]. Tale beneficio è significativo solo nei pazienti sottoposti al BAT mediante antiandrogeni non steroidei ed è invece inesistente se l’androgeno di scelta è il Ciproterone acetato (steroideo), per incremento della mortalità non correlata al cancro. L’impiego del BAT può inoltre essere preferibile alla monoterapia in alcune situazioni cliniche, quali il trattamento di pazienti fortemente sintomatici o nei quali si possano prevedere effetti detrimentali derivanti dal fenomeno del flare-up, per l’indubbia rapidità della risposta osservabile, specie in termini soggettivi.
GESTIONE TERAPIA ORMONALE
Dato che la terapia ormonale comporta importanti effetti iatrogeni, che possono inficiare sulla qualità di vita dei pazienti a fronte di elevati costi sanitari, è logico domandarsi se tale terapia sia indicata al momento della diagnosi di malattia metastatica o localmente avanzata oppure se tale trattamento sia indicato al momento della comparsa di sintomatologia clinica. Il Medical Research Council Prostate Cancer Working Party Investigators Group in uno studio randomizzato effettuato su pazienti con malattia localmente avanzata o malattia metastatica asintomatica ha sottolineato il vantaggio in termini di mortalità cancro correlata e sopravvivenza globale nei soggetti che avevano ricevuto trattamento immediato. Gli autori però hanno evidenziato che per il 10% dei pazienti il trattamento continuativo per l’intera durata della vita non sia necessario, e pertanto si può concludere che in pazienti anziani e in assenza di metastasi, il trattamento differito rimane comunque una valida opzione [99]. Ad oggi non si hanno risultati di studi randomizzati di confronto finalizzati a validare l’efficacia del trattamento ormonale intermittente rispetto alla tradizionale
terapia continuativa, in termini di sopravvivenza e qualità di vita. L’intermittenza della terapia ormonale (con DES, LH-RH analoghi o BAT) infatti oltre a ridurre i costi di spesa sanitaria diminuirebbe gli effetti collaterali correlati alla deprivazione androgenica con un recupero della libido ed un aumentato senso di benessere nei periodi di sospensione del
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trattamento ormonale, nonché un efficace ripristino della soppressione in caso di ripresa di malattia. Inoltre studi preclinici condotti in vivo sottolineano come l’intermittenza correli con un ritardo nello sviluppo di cloni cellulari ormonoresistenti anche se tali risultati non sono ancora stati dimostrati clinicamente. I primi risultati dello studio di Calais da Silva e collaboratori sulla comparazione in termini di progressione locale o mortalità sembrano non evidenziare differenze sostanziali nei due gruppi randomizzati a ricevere terapia continuativa o terapia intermittente anche se tale studio non può essere adottato come modello per la bassa potenza statistica [100].
ORMONOTERAPIA ADIUVANTE
Numerosi studi sono stati condotti per comprovare l’efficacia dell’ormonoterapia adiuvante a seguito di terapia definitiva chirurgica o radioterapica. Lo studio condotto dall’EORTC su pazienti con malattia localmente avanzata, randomizzato in candidati a sola radioterapia radicale o in associazione a Goserlin per tre anni, ha dimostrato un miglioramento sia nel controllo locale che nella sopravvivenza libera da malattia a 5 anni del 78% rispetto al 62% per il braccio comprendente terapia adiuvante [101],[102].
Analogamente lo studio condotto dall’ RTOG (Radiation Therapy Oncology Group) ha dimostrato un vantaggio in termini di controllo locale e di sopravvivenza libera da progressione in pazienti con malattia localmente avanzata ma, a differenza dello studio precedente, trattati con Goserlin somministrato a partire dall’ultima settimana di trattamento radioterapico e fino a progressione; inoltre solo il sottogruppo con Gleason Score 8-10 e stadio T3 aveva ottenuto un vantaggio significativo in sopravvivenza [103],[104].
All’annual meeting dell’ASCO 2007, sono stati presentati i risultati dello studio di fase III EORTC 22961 che ha focalizzato l’attenzione sulla durata della androgeno deprivazione in fase adiuvante, in combinazione con la radioterapia esterna, nelle forme localmente avanzate, ad alto rischio: tale studio, disegnato allo scopo di dimostrare la non inferiorità del
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trattamento ormonale adiuvante di breve durata (6 mesi) rispetto a quello a lungo termine (3 anni), nell’ipotesi che ad una uguale efficacia potesse aggiungersi anche un migliore profilo di tossicità, ha invece evidenziato una differenza statisticamente significativa a favore del braccio di trattamento a lungo termine; in particolare, la sopravvivenza globale a 5 anni è risultata maggiore per i 3 anni di terapia (85% vs 81%), a dispetto di un profilo di tossicità sostanzialmente sovrapponibile. Le stesse conclusioni sono date dall’aggiornamento dello studio RTOG 125126. Pertanto dai risultati provenienti da questi studi è ragionevole considerare un trattamento adiuvante con LH-RH analoghi, della durata superiore ai 2 anni nei pazienti con neoplasie T3-T4 e comunque a prognosi più sfavorevole candidati a radioterapia definitiva.
Per quanto riguarda gli antiandrogeni, la Bicalutamide alla dose di 150 mg/die trova indicazione come terapia adiuvante solo nei pazienti con neoplasia extracapsulare (T3-T4) trattati con radioterapia definitiva, avendo dimostrato una significativa riduzione della mortalità come riportato dall’Early Prostate Cancer Trialist Group [107],[108]. Per quanto riguarda l’uso della castrazione dopo chirurgia (prostatectomia radicale con linfoadenectomia pelvica) i risultati emersi dallo studio di Messing evidenziano che l’uso del trattamento ormonale immediato, tramite castrazione medica con Goserelin o castrazione chirurgica, determini l’incremento della sopravvivenza libera da malattia e della sopravvivenza globale in pazienti con metastasi linfonodali, vantaggio confermato ulteriormente nella pubblicazione dell’aggiornamento dei dati dopo circa 12 anni di follow-up [109],[110]. Per tanto, alla luce di questi dati, la terapia ormonale adiuvante appare ampiamente giustificata nei pazienti con linfonodi positivi sottoposti a trattamento chirurgico, nonché nei pazienti con malattia localmente avanzata correlata o no a neoplasia scarsamente differenziata dopo trattamento radioterapico definitivo.
32 ORMONOTERAPIA NEOADIUVANTE
Allo stato attuale, a seguito degli studi randomizzati condotti non può essere fornita alcuna raccomandazione circa l’impiego di una terapia neoadiuvante prima della chirurgia radicale dal momento che non è stato rilevato nessun vantaggio in termini di sopravvivenza globale. Dati opposti invece, sono emersi dall’impiego dell’ormonoterapia neoadiuvante seguita da radioterapia, infatti tale combinazione comporta un vantaggio in termini di sopravvivenza libera da malattia e riduzione dell’incidenza di recidive. I risultati dello studio RTOG 8610 hanno messo in evidenza una differenza statisticamente significativa a favore dei pazienti sottoposti a terapia ormonale nei 2 mesi precedenti all’inizio della radioterapia esterna e in concomitanza con il trattamento radiante rispetto al gruppo di pazienti sottoposti alla sola radioterapia, in termini di riduzione della mortalità cancro-correlata, dell’insorgenza di metastasi, della ripresa biochimica di malattia e un aumento della sopravvivenza libera da malattia [111]. Solamente nel trial RTOG 92-02 è stato dimostrato un aumento della sopravvivenza globale nel sottogruppo di pazienti con Gleason < 7 [112]. Nei pazienti con “grosso volume” prostatico candidati alla radioterapia, tuttavia, il trattamento neoadiuvante si è dimostrato in grado di ridurre la tossicità della terapia radiante, grazie alla riduzione del volume prostatico da irradiare. Per quanto detto le indicazioni al trattamento neoadiuvante prima della radioterapia definitiva comprendono i tumori T2-T4 con grosso volume.
MALATTIA ANDROGENO INDIPENDENTE ED ORMONOREFRATTARIA
L'efficacia dell'androgeno-deprivazione nel trattamento del carcinoma prostatico è notoriamente limitata nel tempo cosicchè, la maggior parte dei pazienti sottoposti a ormonoterapia è destinata ad andare incontro a progressione di malattia [113]. La durata della risposta varia a seconda dello stadio clinico presente all'inizio della terapia ed indicativamente la non responsività al trattamento ormonale si ha dopo 2-3 anni nel caso di malattia localmente avanzate e dopo circa 18 mesi nel caso di malattia metastatica [114].
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Quando ciò accade gli ulteriori trattamenti sistemici apportano solo un modesto beneficio. Recentemente sono stati individuati e validati dei parametri prognostici indipendenti quali il performance status, i valori basali di emoglobina, i livelli circolanti di LDH, fosfatasi alcalina e PSA nonché il Gleason Score alla prima diagnosi [115]. I meccanismi che stanno alla base dell’ androgeno-indipendenza non sono del tutto noti, anche se è sempre più accreditata l’eziologia multifattoriale. Tra le possibili cause, l'androgeno-deprivazione è sicuramente un fattore favorente la selezione di cloni androgeno resistenti che portano a progressione di malattia ma anche le modificazioni dei recettori androgenici e delle cascate post-recettoriali possono rendere la cellula neoplastica insensibile alle manipolazioni ormonali. Tra queste rientrano fenomeni di iperespressione dei recettori androgenici (per fenomeni di amplificazione genica), la cross attivazione di tali recettori da parte di agenti non androgenici come fattori di crescita e citochine, la presenza di mutazioni somatiche a carico del recettore del DHT, l'espressione di oncogeni come BCL-2 o la mutazione del gene p53 che può antagonizzare l’apoptosi indotta dai trattamenti. Inoltre la coesistenza del fenotipo neuroendocrino può determinare attraverso un meccanismo paracrino una stimolazione aspecifica della proliferazione cellulare [116].
La definizione di carcinoma prostatico ormonorefrattario è comunque ancora oggetto di discussione. Incrementi dei livelli circolanti di PSA ≥ al 50% rispetto ai valori minimi raggiunti durante trattamento ormonale (ottenuti in 2 successive valutazioni a distanza di almeno 2 settimane l'una dall'altra) o la progressione strumentale di malattia, nei rari casi in cui il PSA è negativo, sono criteri accettati.
Nei paziente con tumore prostatico ormonorefrattario la sopravvivenza mediana è di circa 12 mesi [117]. La presentazione della malattia è estremamente eterogenea infatti il paziente può presentarsi sintomatico per la presenza di localizzazioni ossee, beneficiando quindi di trattamenti palliativi oppure può presentarsi in buone condizione cliniche, in assenza di sintomi e di malattia documentata agli esami clinico-srumentali ma manifestando solo un
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aumento dei livelli circolanti di PSA [118]. In base alla presenza di sintomatologia il paziente può essere approssimativamente associato ad una diversa prognosi. Gli obiettivi che si propone il trattamento in questa fase naturale della malattia sono la palliazione dei sintomi, la prevenzione delle complicanze, il miglioramento della qualità di vita del paziente e, ove possibile il prolungamento della sopravvivenza. Tuttavia questa fase della storia naturale della malattia mostra oggi una tendenza alla cronicizzazione. Pertanto, il trattamento prescelto dovrebbe essere diversificato negli obiettivi e nelle modalità a seconda delle diverse situazioni cliniche, candidando i pazienti maggiormente responsivi alla terapia ormonale di prima linea, a trattamenti ormonali di seconda linea, e quelli con malattia più evolutiva e aggressiva alla chemioterapia o alle terapie di supporto [119],[120].
TERAPIA ORMONALE DI SECONDA LINEA
Il trattamento ormonale di seconda linea ha come razionale l’evidenza che l’androgeno-indipendenza non significa ormono-l’androgeno-indipendenza, infatti tali pazienti possono rispondere ad altri farmaci o a manipolazioni dell’ormonoterapia in atto. Pertanto, secondo questo principio è possibile l’introduzione nel regime di trattamento di un antiandrogeno se il paziente era in trattamento con soli LH-RH analoghi oppure la sospensione dell’antiandrogeno se il paziente effettuava BAT. Quest’ultima modalità sfrutta il fenomeno dell’ “androgen withdrawal response” [121] cioè il recupero del potenziale apoptotico nelle cellule androgeno sensibili dopo sospensione di antiandrogeno. Tale manovra terapeutica, infatti, induce una riduzione dei valori ematici di PSA nel 15-35% dei pazienti [122]. Ulteriori manipolazioni ormonali prevedono l’uso di estrogeni, progestinici, l’associazione con cortisonici, inibitori della steroido-sintesi surrenalica (Aminoglutetimide, Ketoconazolo) in associazione a cortisonici oppure antiandrogeni di diversa natura come per esempio la Flutamide. A tal proposito si è osservato che l’utilizzo della Flutamide comporta una buona risposta, in termini di riduzione del PSA, soprattutto nei pazienti che avevano
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precedentemente ottenuto un beneficio dall’ “antiandrogen withdrawal” [123]. Anche il Ketokonazolo, introdotto dopo il “withdrawal” dell’antiandrogeno ha dimostrato significativa attività. Nel complesso il trattamento ormonale di seconda linea porta ad una risposta del PSA associata ad un relativo beneficio clinico in circa il 25% dei pazienti, anche se tale risposta ha durata limitata (circa 2-4 mesi) e quasi mai accompagnata da risposte obiettive [124]. Da sottolineare, nella scelta dell’approccio farmacologico, anche le condizioni cliniche globali, le comorbidità del paziente date le possibili tossicità di tali trattamenti. Ancora in fase di sperimentazione è l’MDV 3100, un nuovo antiandrogeno che, da studi in vitro, si è dimostrato efficace nel bloccare la riattivazione di cloni cellulari divenuti insensibili all’azione degli antiandrogeni convenzionali quali la Bicalutamide, e che attualmente è in fase di sperimentazione sull’uomo [125] .
CHEMIOTERAPIA
La chemioterapia diventa una proposta terapeutica quando la malattia non è più responsiva ai trattamenti ormonali. I regimi chemioterapici utilizzati negli anni ‘70-‘80 non avevano fornito risultati clinici significativi, come dimostrato da una metanalisi pubblicata nel 1988, dove la percentuale di risposte obiettive complete e parziali valutata in 17 studi randomizzati è risultata essere del 6.5% [130]. Tale dato è stato confermato da un’ulteriore revisione di 26 studi condotti alla fine degli anni ottanta, che ha dimostrato una percentuale di risposte obiettive del 8.7% [131].
I farmaci utilizzati erano stati le antracicline (Doxorubicina, Epirubicina), il Mitoxantrone, l’Estramustina fosfato, gli alcaloidi della vinca, i taxani e la Suramina, la quale pur mostrando una discreta attività evidenziava profili di tossicità non accettabili [132],[133],[134]. Fino al 2004 l’unico trattamento disponibile era il Mitoxantrone, un antracenedione derivato dalle antracicline sviluppato come alternativa alla Doxorubicina rispetto alla quale dimostrava minor cardiotossicità e, dato il beneficio in termini di
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palliazione, aveva ottenuto l’approvazione. Infatti uno studio randomizzato canadese della metà degli anni novanta, aveva evidenziato come l’associazione tra Mitoxantrone e Prednisone comparata al solo uso del corticosteroide ottenesse un miglior controllo della sintomatologia dolorosa (29% vs 12% p = 0.01) portando ad un minor uso di farmaci analgesici ed una durata maggiore della risposta obiettiva (43 vs 18 settimane, p < 0.0001), pur non portando ad un vantaggio in sopravvivenza globale [135] . Risultati simili erano stati osservati nello studio CALGB, nel quale si comparava l’utilizzo del Mitoxantrone associato a Idrocortisone al solo Idrocortisone. La sopravvivenza era risultata simile nei due gruppi (mediana di 12.3 vs 12.6 mesi), ma come nello studio precedente era stato evidenziato un miglioramento della qualità di vita a favore della combinazione [136]. Tale associazione è stata quindi proposta come regime di riferimento per la malattia ormonorefrattaria e utilizzata come braccio di controllo nei successivi studi di fase III. Nel 2004, con la pubblicazione dei risultati di due grandi studi randomizzati di fase III, viene dimostrato , per la prima volta, un vantaggio in sopravvivenza globale con l’uso di Docetaxel (un antiblastico ad azione antimicrotubulare) rispetto allo standard con Mitoxantrone e Prednisone.
Il primo studio effettuato da Tannok e collaboratori (studio TAX 327) a tre bracci comparava lo standard rappresentato da Mitoxantrone 12 mg/mq ev ogni tre settimane a Docetaxel alla dose di 75 mg/mq con schedula trisettimanale o somministrato alla dose di 30 mg/mq settimanale per 5 settimane ogni 6. Tutti i pazienti ricevevano Prednisone 5 mg per os x 2/die.
Un aumento significativo della sopravvivenza (18,9 mesi vs 16,5 mesi p = 0.009), delle risposte sul PSA (45% vs 32% p < 0.001) ed un miglioramento della sintomatologia dolorosa (35% vs 22% p = 0.01) veniva osservato nel braccio comprendente Docetaxel somministrato ogni 3 settimane rispetto al trattamento con Mitoxantrone. Il trattamento con Docetaxel settimanale presentava invece un trend verso un incremento della sopravvivenza
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senza raggiungere la significatività statistica (17.3 mesi p = 0.3), evidenziando comunque una migliore risposta sul PSA (48% p < 0.001) ed un miglior controllo della sintomatologia dolorosa (31% p 0.08) rispetto al braccio di controllo [137]. Gli aggiornamenti pubblicati nel 2007 dello studio TAX327 confermavano la persistenza del beneficio in sopravvivenza nel braccio comprendente Docetaxel (19,2 vs 16,3 mesi), inoltre veniva evidenziata una riduzione del rischio di morte del 21% rispetto ai pazienti trattati con Mitoxantrone [138],[139].
Il secondo studio di Petrylac e collaboratori (studio SWOG 99-16) paragonava l’associazione di Docetaxel 60 mg/mq ev giorno 1 ed Estramustina 280 mg per os giorni 1-5 ogni 3 settimane all’associazione di Mitoxantrone 12 mg/mq ev ogni 3 settimane e Prednisone 5 mg per os x 2/die. I risultati dimostravano un miglioramento in termini di sopravvivenza globale (17,5 rispetto a 15,6 mesi p 0.02), un vantaggio in sopravvivenza libera da malattia ( 6,3 rispetto a 3,2 mesi p< 0.001) e una risposta sul PSA > del 50% (50% vs 27% p < 0.001) per il braccio comprendente Docetaxel. L’aggiunta di Estramustina comportava un incremento del rischio tromboembolico ed un peggioramento della tossicità gastroenterica [140]. Per quanto dimostrato l’associazione di Docetaxel 75 mg/mq ev ogni 3 settimane e Prednisone 5 mg per os x 2/die è da ritenersi il trattamento standard di prima linea in pazienti con carcinoma prostatico ormonorefrattario.
Alla luce dei risultati di questi studi il Docetaxel e prendnisone secondo la trisettimanale è diventato lo standard di I linea per i pazienti metastatici ormonorefrattari.
Inesorabilmente tutti i pazienti vanno incontro a progressione dopo il trattamento di prima linea con Docetaxel sebbene una buona percentuale sia candidabile ad un trattamento di seconda linea.
Una possibile opzione terapeutica, come dimostrato e confermato dagli studi più recenti di Eymard, Loriot e Caffo può essere il ritrattamento con Docetaxel in quei pazienti che avevano ottenuto una buona risposta in prima linea. Nel primo studio è stato ottenuta una