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Il divieto di discriminazione di genere nel diritto dell'Unione

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE………3

CAPITOLO PRIMO IL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA E L’EVOLUZIONE DEL DIVIETO DI DISCRIMINARE 1.1 Premessa……….5

1.2 Il divieto di discriminazione nella CEDU………..6

1.3 L’evoluzione del principio di non discriminazione nel diritto dell’Unione europea………...11

1.4 Le direttive di seconda generazione………...15

1.5 La Giurisprudenza della Corte di Giustizia………18

CAPITOLO SECONDO IL DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE NEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA 2.1 Il concetto e le forme di discriminazione……….21

2.1.1 La discriminazione diretta………22

2.1.2 La discriminazione indiretta……….23

2.1.3 Molestie, molestie sessuali e ordine di discriminare………24

2.1.4 Le azioni positive……….25

2.1.5 Le eccezioni al divieto di discriminare………28

2.2 I singoli fattori di discriminazione 2.2.1 Il divieto di discriminazione sulla base della disabilità………34

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2.2.3 Il divieto di discriminazione sulla base della nazionalità………43

2.2.4 Il divieto di discriminazione sulla base della razza……….48

2.2.5 Il divieto di discriminazione sulla base della religione e del credo……….52

2.2.6 Il divieto di discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale……….54

CAPITOLO TERZO LA DISCRIMINAZIONE SULLA BASE DEL GENERE 3.1 Premessa………59

3.2 L’affermazione del divieto di discriminazione sulla base del genere nei trattati e nel diritto derivato………..60

3.3 Il ruolo della giurisprudenza nell’evoluzione della tutela della parità di genere……….66

3.4 Le deroghe al principio di parità di trattamento……….73

CAPITOLO QUARTO LA PARITÀ DI TRATTAMENTO NELL’ACCESSO ALLA FORNITURA DI BENI E SEVIZI: LA DIRETTIVA 2004/113/CE 4.1 Premessa………76

4.2 Il contenuto della Direttiva 2004/113/CE………..77

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CAPITOLO QUINTO

LA PARITÀ DI GENERE NEL LAVORO

5.1 Premessa………..88

5.2 La parità di retribuzione………..89

5.3 La parità di trattamento nell’accesso al lavoro e alla formazione………...92

5.3 La parità di trattamento nel lavoro autonomo……….94

5.4 La tutela della maternità………..97

5.5 Il congedo parentale……….………….103

CONCLUSIONI

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INTRODUZIONE

La presente trattazione si propone di analizzare la normativa dell'Unione europea in materia di discriminazione con particolare attenzione per quanto riguarda la discriminazione di genere.

La tesi inizia con un'analisi della progressiva evoluzione del diritto antidiscriminatorio, evidenziando i riferimenti al divieto di discriminazione presenti nei trattati europei e internazionali, nella Cedu, e nelle Direttive antidiscriminatorie e mettendo il luce il ruolo fondamentale della giurisprudenza europea nell'affermazione della tutela discriminatoria.

Segue successivamente, nel secondo capitolo, una classificazione delle definizioni di discriminazione diretta e indiretta, molestie, l'ordine di discriminare, la valutazione delle eccezioni di trattamento meno favorevole e vengono inoltre presentati i diversi fattori di discriminazione vietati: razza, religione, età, disabilità, nazionalità orientamento sessuale e di come tali divieti si siano affermati sia in ambito normativo che giurisprudenziale.

La parte finale di questo lavoro si concentra sul divieto di discriminazione di genere, partendo dalla sua affermazione prima nei trattati e in seguito nel diritto derivato per poi proseguire analizzando la tutela antidiscriminatoria assicurata nei vari campi, come l'accesso ai beni e servizi e ai diversi aspetti della parità di genere nel mondo del lavoro.

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CAPITOLO PRIMO

IL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA E L'EVOLUZIONE DEL DIVIETO DI DISCRIMINARE.

1.1 Premessa

Nel corso degli ultimi anni sono stati numerosi gli interventi, sia in ambito nazionale che in ambito comunitario e internazionale volti a rafforzare il divieto di discriminazione, tutelando il principio di uguaglianza come principio fondamentale.

I primi riferimenti al diritto antidiscriminatorio possono essere individuati nella Carta delle Nazioni Unite del 1945, nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950.

La Carta delle Nazioni Unite, firmata a San Francisco nel 1945 e vincolante per tutti gli Stati che la hanno ratificata , all'art. 1 individua tra gli obiettivi dell'organizzazione la promozione e la tutela “dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o di religione”. Il principio di uguaglianza e la lotta alle discriminazioni vennero considerati mezzi indispensabili per la cooperazione internazionale e la risoluzione dei problemi di carattere economico, sociale, culturale e umanitario.

Questi principi verranno riaffermati in modo più articolato e consistente nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 che amplia notevolmente l'elenco dei fattori di discriminazione meritevoli di tutela, stabilendo non solo che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti” ma che ad

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ognuno spettino le libertà enunciate nella Dichiarazione “senza distinzione alcuna per ragioni di razza ,di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza di nascita o di altra condizione”. L'elenco dei possibili fattori di discriminazione è stato, come si può vedere, notevolmente ampliato e questo dimostra come già allora esistesse l'esigenza di offrire maggiori tutele coprendo una sempre più vasta area. Altre norme meritevoli di attenzione e che sono state fondamentali per l'odierno diritto antidiscriminatorio sono l'art. 16 che prevede la libertà per uomini e donne di contrarre matrimonio e fondare una famiglia senza alcuna distinzione di “razza cittadinanza o religione” e l'art. 23 che per la prima volta introduce la parità di retribuzione disponendo che “ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro”.

1.2 Il divieto di discriminazione nella CEDU.

Un fondamentale punto di svolta nella tutela dei diritti umani e del diritto all'uguaglianza è stata l'adozione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) nell'ambito del Consiglio d'Europa nel 1950. Per la prima volta viene infatti previsto un meccanismo giurisdizionale che permette ad ogni individuo di chiedere la tutela dei propri diritti garantiti ricorrendo alla Corte Europea di Strasburgo.

L'art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali prevede che “il godimento dei diritti e delle libertà riconosciute nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in

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particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione le opinioni politiche o quelle di altro genere, l'origine nazionale o sociale, l'appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione” .

L'elenco dei possibili motivi per cui possa verificarsi una violazione non è però esaustivo, la Corte di Strasburgo, facendo riferimento all'art 14 ed ad altri articoli delle CEDU, ha accertato violazioni del principio di uguaglianza anche in base a diversi fattori non citati espressamente. In questo modo la tutela garantita dal principio di non discriminazione sarà maggiore ma tuttavia tale norma avrebbe comunque un'applicazione limitata infatti si applica esclusivamente alla discriminazione nel godimento di uno dei diritti garantiti dalla Convenzione, senza avere portata generale. Si avrebbe quindi discriminazione solo violando l'art. 14, solo qualora la differenza di trattamento non abbia una giustificazione oggettiva e ragionevole oppure quando manchi una ragionevole relazione di proporzionalità tra i mezzi impiegati e il fine perseguito. L'art 14 assume quindi un carattere accessorio rispetto ai diritti sostanziali riconosciuti all'individuo.1

Il problema venne risolto con il Protocollo n. 12, del 20002 che prevedeva un divieto di discriminazione di carattere generale eliminando così la restrizione applicativa dell'art 14 e garantendo che nessuno possa subire discriminazioni per nessuna ragione da parte di un'autorità pubblica ampliando quindi la portata del

1 C.Danisi, Il principio di non discriminazione dalla CEDU alla Carta di Nizza: il caso dell'orientamento

sessuale. In www.forumquadernicostituzionali.it, 2010.

2 E.Fribergh, Mkjaerum, Manualedi diritto europeo della non discriminazione, 2010,

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divieto di discriminazione3. Fino all'elaborazione del Protocollo 12 la CEDU non garantiva un autonomo diritto all'uguaglianza ma vietava le discriminazioni nel godimento dei diritti e delle libertà riconosciute dalla Convenzione, non era quindi tutelata l'uguaglianza in sé ma l'uguale godimento dei diritti.

Secondo la definizione che ne dà la CEDU, per discriminazione si intende il trattare in maniera diversa, senza giustificazione oggettiva e ragionevole, persone che si trovano in un determinato campo, in situazioni comparabili4; l'art. 14, quindi, non impedisce una disparità di trattamento purchè esse sia fondata su una valutazione oggettiva di circostanze di fatto fondamentalmente diverse e purchè ci sia un giusto equilibrio tra la salvaguardia degli interessi della comunità e il rispetto dei diritti e delle libertà sanciti dalla Convenzione.

Per quanto riguarda la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in ambito antidiscriminatorio nella sentenza Cusan e Fazzo contro Italia la Corte EDU ha considerato discriminazione la regola secondo la quale il figlio legittimo sia iscritto nei registri dello stato civile col solo cognome paterno, indipendentemente dalla volontà dei coniugi. Secondo la Corte si tratterebbe di discriminazione fondata sul sesso dei genitori. Con questa sentenza ritenne che, per quanto riguarda la determinazione del cognome da attribuire il figlio legittimo, i soggetti che si trovano in condizione analoga verrebbero trattati in maniera diversa, da qui viene riscontrata la disparità di trattamento sulla base del sesso.

3E.Crivelli, Il Prtocollo n. 12 CEDU : un'occasione (per ora) mancata per incrimentarela tutela

antidiscriminatoria, in G.D'Elia,G. Tiberi ,M.P. Viviani Schlein, Scritti in memoria di Alessandra Concaro, pag.

137 Giuffrè,Milano 2012.

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La Corte confermò l'importanza dell'evoluzione e della tutela della parità di genere ribadendo che la consuetudine di attribuire ai membri di una famiglia il cognome del marito, senza tener conto di un’eventuale diversa volontà dei coniugi, non possa giustificare una discriminazione nei confronti delle donne.

La Corte ha ritenuto che si trattasse di una discriminazione basata sul sesso dei genitori non sorretta da alcun tipo di giustificazione. Altro caso in cui la Corte Edu ha accertato un'ipotesi di discriminazione fondata sul sesso è quella riguardante la causa Garcia Mateos contro Spagna, concernente il rifiuto ad una lavoratrice di organizzare il proprio orario di lavoro in modo da consentirle la cura del figlio di età inferiore ai sei anni. La Corte ha ritenuto che la violazione del principio di non discriminazione fosse riscontrabile non solo per la manca riduzione dell'orario di lavoro ma anche per il conseguente mancato tempestivo risarcimento che venne interpretato dalla Corte come una violazione del diritto ad un equo processo previsto dall'art. 6 CEDU.

La giurisprudenza CEDU è stata, inoltre, fondamentale per l'evoluzione della legislazione in materia di discriminazione tra figli legittimi e illegittimi.

Con la sentenza Fabris contro Francia 5 la Corte ha ravvisato un'ipotesi di discriminazione in materia di successione a causa della disparità di trattamento tra figli naturali e legittimi. Il ricorrente, figlio naturale, contestava di essere in una situazione diversa e svantaggiata rispetto ai figli legittimi essendogli stato impedito di ottenere la riduzione delle donazioni inter vivos effettuate in favore dei fratelli, negandogli così la sua quota legittima. La Corte Edu ha ravvisato una violazione

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dell'art 14 CEDU in combinato con l'art 1 del protocollo addizionale alla Convenzione riguardante il diritto al rispetto dei propri beni. La giurisprudenza della Corte a riguardo è stata costante e ha stabilito che le differenze fondate sullo stato di figlio legittimo o naturale possano essere considerate compatibili con la Convenzione solo in presenza di cause giustificative molto gravi.6

Il principio dell'uguaglianza di trattamento tra figli nati all'interno e figli nati all'esterno del matrimonio ha portato alla modifica di alcune legislazioni nazionali, in Francia ha modificato la propria normativa interna dopo la condanna nella causa Mazurek contro Francia7 riconoscendo a favore dei figli naturali i medesimi diritti successori dei figli legittimi e in Italia si giunse a simili conclusioni con il D.lgs 154/2013 “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell'art 2 della legge 10-12-12 n.219”.

La Corte ha successivamente trattato diversi casi di discriminazione in base allo orientamento sessuale, spesso esaminandoli in base all'art 14 in relazione all'art 8, tra cui il permesso di adottare un minore, i diritti genitoriali, il diritto di subentro al partner deceduto nella locazione.

La Corte ha avuto modo di esprimersi anche sulla ammissibilità dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. Nel giugno del 2010 nella causa Schalcke Kopf contro Austria8 la Corte fu chiamata a decidere un caso in cui i ricorrenti dichiaravano di essere stati discriminati in quando essendo una coppia omossessuale veniva negata

6Inze contro Austria 28-10.87 e Camp et Bourimi contro Paesei Bassi 3-10-2000 7 Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 01 maggio 2000.

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la possibilità di contrarre matrimonio. I giudici di Strasburgo si espressero però in modo negativo ritenendo che l'art 14 della Convenzione non imponesse l'obbligo di ammettere l'accesso al matrimonio in quanto la materia era ritenuta “in evoluzione” e mancando un importante e radicato consenso nella società gli Stati avrebbero goduto di un maggiore margine di discrezionalità.9

1.3 L’evoluzione del principio di non discriminazione nel diritto dell'Unione Europea.

La nascita e l'evoluzione del principio di non discriminazione è avvenuta quasi di pari passo con la nascita e l'evoluzione dell'Unione Europea.

L'originaria Comunità Economica Europea si fondava essenzialmente su basi economiche, il Trattato di Roma del 1957 non prevedeva un generale divieto di discriminazione ma alcune norme ne prevedevano dei profili specifici: l'Art.6 TCE introdusse il divieto di discriminazione sulla base della nazionalità e l'art.119 affermava ,per la prima volta, il diritto alla parità retributiva per lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro. Queste norme non miravano però a tutelare un effettivo diritto all'uguaglianza ma avevano una ratio puramente economica, lo scopo dell'art 119 era infatti realizzare la parità di retribuzione tra uomo e donna ma garantire la corretta concorrenza tra le imprese di quei paesi, come la Francia, che già prevedevano tale parità nel loro ordinamento

9 Il 5 dicembre 2017 la Corte Costituzionale austriaca ha dichiarato il divieto al matrimonio omosessuale

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12 e le imprese degli altri stati membri.

Il principio di non discriminazione era quindi funzionale alla creazione e al funzionamento del mercato comune europeo.10

L'evoluzione del principio di non discriminazione in chiave non esclusivamente economica si è avuto a partire dagli anni '60-'70, inizialmente sempre in relazione alla parità di genere. Una serie di provvedimenti legislativi, nuovi programmi politici e casi giurisprudenziali determinarono il progressivo allontanamento dall'idea che vedeva il principio di non discriminazione esclusivamente in funzione dell'integrazione economica.

I primi provvedimenti normativi che hanno accentuato la vocazione sociale dell'art 119 sono state due direttive, la direttiva 75/117/CEE e 76/207/CEE in materia rispettivamente di parità di retribuzione e parità nelle condizioni di lavoro.11

Con successive direttive il diritto comunitario antidiscriminatorio si è evoluto fino a comprendere la tutela della maternità sul luogo di lavoro e la sicurezza e la salute sul luogo lavoro delle lavoratrici gestanti comprendendo i diversi aspetti in ambito giuslavoristico.

L'evoluzione dell'allora Comunità Economica Europea nella moderna Unione ha visto un punto di svolta nella firma del Trattato di Maastricht12 nel 1992, ma per quanto riguarda il diritto antidiscriminatorio è stata l'approvazione del Trattato di

10 Evelyn Ellis,Philippa Watson EU Anti-Discrimination Law, Oxford University Press,Oxford 2012. 11 L.GUAGLIONE, Le discriminazione basate sule genere in Il nuovo diritto antidiscriminatorio a cura di M.Barbera.

12 Il Trattato sull’Unione Europea (c.d.T rattato di Maastricht), fu firmato il 7 febbraio 1992 ed entrò in vigore il 1 novembre 1993.

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Amsterdam13 nel 1997 a rappresentare un pilastro fondamentale. Il Trattato conferisce all'Unione il compito di promuovere la parità tra uomini e donne (artt. 2-3 TCE) e a fare del principio di uguaglianza un principio fondamentale vincolante per l'attività delle istituzioni europee.

Con il Trattato di Amsterdam viene, inoltre, riformato l'art 119 che conferisce al Consiglio il potere di adottare misure che assicurino l'attuazione del principio delle pari opportunità estendendolo alle condizioni di lavoro o di occupazione.

Allo scopo di assicurare l'effettiva parità tra uomini e donne sul luogo di lavoro viene prevista l'introduzione delle azioni positive che prevedono specifici vantaggi per facilitare l'attività professionale del sesso sottorappresentato.

La più importante innovazione nel diritto antidiscriminatorio dal Trattato di Amsterdam è stato senza dubbio l’introduzione dell'art 13 TCE14 . La norma, riconoscendo all'Unione specifici poteri per contrastare la discriminazione e affidando al Consiglio il potere di prendere provvedimenti a riguardo, supera la tradizionale disciplina antidiscriminatoria ,che prendeva in considerazione i soli fattori della nazionalità e del sesso, formulando il divieto di discriminare sulla base di razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, disabilità, età, orientamento sessuale e ponendo così le basi per il moderno diritto

13 Il Trattato di Amsterdam che modifica il Trattato sull’Unione Europea , in trattati che istituiscono le Comunità europee e alcuni atti connessi, firmato ad Amsterdam il 2 ottobre 1997, entra in vigore il 1 maggio 1999.

14ART 13 TCE Fatte salve le altre disposizioni del presente trattato e nell’ambito delle competenze da esso conferite alla Comunità, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap ,l’età o le tendenze sessuali.

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14 antidiscriminatorio.

Nel dicembre 2000 venne approvata la Carta di Nizza che definisce l'uguaglianza come principio fondamentale dell'ordinamento dell'Unione Europea riconoscendo numerosi fattori di discriminazione.

La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione interpreta infatti l'uguaglianza come il diritto a non essere discriminati sulla base di caratteristiche soggettive (art. 21) e come diritto a preservare la propria diversità culturale, religiosa e linguistica (art.22).

L'uguaglianza viene inoltre tutelata come garanzia di libertà e tutela sociale che deve essere garantita per tutta la durata della vita umana secondo quanto previsto dall'art 24 sui diritti del bambino e l'art25 sui diritti dell'infanzia. Viene inoltre promossa la piena partecipazione alla vita della comunità dei disabili (art.26). In seguito all'entrata in vigore del Trattato di Lisbona15 il 1 dicembre 2009 sono stati rinumerati articoli, capi, sezioni sia del Trattato sull'Unione Europea sia del Trattato sul funzionamento dell'unione europea. All'art.13 TCE, ora art. 19 TFU16, viene aggiunto un nuovo comma. Nella prima disposizione viene previsto che il

15 Il Trattato di Lisbona, modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la CE, firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007.

16. Fatte salve le altre disposizioni dei trattati e nell'ambito delle competenze da essi conferite all'Unione, il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale.

2. In deroga al paragrafo 1, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono adottare i principi di base delle misure di incentivazione dell'Unione, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, destinate ad appoggiare le azioni degli Stati membri volte a contribuire alla realizzazione degli obiettivi di cui al paragrafo 1.

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Consiglio possa prendere provvedimenti opportuni per contrastare le discriminazioni fondate su sesso, razza o origine etnica, religione o convenzioni personali, età orientamento sessuale o disabilità. Si tratta di una procedura legislativa speciale che richiede l'unanimità degli Stati membri e che non permetterebbe al Parlamento europeo di modificare quanto approvato dal Consiglio. Nel secondo comma viene invece introdotta un'eccezione che permette al Parlamento e al Consiglio di deliberare seguendo la procedura ordinaria e adottare dei principi di base delle misure di incentivazione dell'Unione destinate ad appoggiare le azioni degli Stati membri volte a gli obbiettivi di contrasto alle discriminazioni.

1.4 Le direttive di seconda generazione.

Sulla base dell'art. 13 TCE è stato approvato un “pacchetto” di direttive che hanno comportato un importante ampliamento della tutela contro le discriminazioni espandendo il diritto antidiscriminatorio al di fuori del tradizionale ambito della parità di genere in ambito giuslavoristico. Queste direttive sono definite “di seconda generazione” e inaugurano un importante periodo per la legislazione antidiscriminatoria anche grazie alleparallele politiche di contrasto alle discriminazioni, assicurando tutela per la razza, disabilità, età, orientamento sessuale, religione e le convinzioni personali riconosciuti dall'art 13 TCE.

Per contrastare le discriminazioni sulla base della razza o dell'appartenenza ad un'etnia venne approvata la Direttiva 2000/4317 che estende il proprio ambito di

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applicazione al di fuori del diritto del lavoro comprendendo un insieme molto ampio di settori: lavoro, formazione professionale, prestazioni sociali , istruzione, accesso a beni e servizi.

Poco dopo fu approvata la Direttiva 2000/78 ,riguardante le discriminazioni in materia di occupazione e lavoro sulla base di religione, convinzioni personali, disabilità, età ed orientamento sessuale. Dopo aver definito il concetto di discriminazione introduce un insieme di norme volte a contrastare tutte le forme di discriminazioni vietate dall'art 13 TCE con la sola escursione però di quelle fondate sul genere in quanto già sanzionate da precedenti interventi del legislatore europeo, come ad esempio le direttive relative alla parità di retribuzione,18 sulla parità di accesso al lavoro,alla formazione e alle condizioni di lavoro.

Altri importanti interventi in ambito di diritto antidiscriminatorio sono rappresentati dalle Direttive 2002/73/CE e 2004/113/CE19.

La Direttiva 2002/73/CE20, che si basa sul paragrafo 3 dell'art 141 TCE, modifica la precedente Direttiva 76//207/CEE21 relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, con l'intento di redigere uno strumento che fosse un segno tangibile dell'importanza che il principio dell'uguaglianza di genere aveva acquistato nel

18 Direttiva 75/117 del Febbraio 1975.

19Direttiva 2004/113/CE DEL CONSIGLIO del 13 dicembre 2004. 20 Direttiva 2002/CE del 23 settembre 2002.

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sistema giuridico dell'Unione Europea.22

Nella nuova direttiva il legislatore europeo prevede un'esatta definizione delle nozioni di discriminazione, soffermandosi sulla discriminazione diretta e sul concetto di molestia sessuale. Particolare attenzione è posta sul cosiddetto ordine

di discriminare, attribuendo al sottoposto una responsabilità concorrente qualora

ponga in essere concretamente il comportamento discriminatorio.

Questo ha portato alla pubblicazione, nel 2006, della Direttiva 2006/54CE sull'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento per quanto riguarda l'accesso al lavoro, allargando quindi il suo campo d'azione rispetto alla direttiva del 2002 e configurandosi come una sorta di contenitore in cui si collocano le diverse direttive volte ad attuare il principio della parità tra uomini e donne23, comprese quelle volte ad assicurare la parità di trattamento nel settore dei regimi di sicurezza sociale (, la direttiva sull'onere della prova (n 97/80/CE) e la direttiva 2002/73/CE.

Nel 2004 tra le cd. Direttive di seconda generazione trova collocazione un ulteriore intervento normativo, la Direttiva 2004/113/CE , la cosiddetta direttiva Beni e Servizi). Si tratta della seconda digressione compiuta dal legislatore comunitario rispetto all'ambito giuslavoristico, anch'essa trova fondamento nell'art 13 TCE ed è volta ad attuare il principio della parità di genere nell'accesso e fornitura di beni e servizi.

22M.BARBERA,Eguaglianza e differenza nella nuova stagione del diritto antiscriminatorio comunitario, in Giornale di diritto dl lavoro e di relazioni industriali, 2003 pg 399-420.

23L.Guaglione, Le discriminazioni basate sul genere, in M.Barbera, Il nuovo diritto antidiscriminatorio: il

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1.5 La giurisprudenza della Corte di Giustizia europea.

Nell’evoluzione della tutela antidiscriminatoria nel diritto comunitario, ricopre senza dubbio un ruolo di primo piano la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea che fin dalle prime pronunce in materia ha permesso una forte accelerazione nell’affermare il principio di uguaglianza e la non discriminazione in ambito essenzialmente sociale e non esclusivamente economico, riconoscendoli quindi come diritti fondamentali dell’uomo e soprattutto come principi fondamentali dell’ordinamento dell’Unione.

Tra le sentenze di maggior valore ricordiamo la sentenza Defrenne che ha aperto la strada ad un importante approfondimento giurisprudenziale riguardo le discriminazioni salariali e che quelle non salariali24. La signora Defrenne, assistente di volo per una compagnia aerea, affermava di essere vittima di una discriminazione diretta fondata sul sesso, in quanto riceveva, a parità di qualifica, una retribuzione più bassa rispetto a quella percepita dai colleghi maschi, e ciò in violazione dell’ art.119 del Trattato. La Corte di Giustizia si pronunciò affermando che la questione circa efficacia diretta dell’ art.119 andava esaminata alla luce del principio di parità di trattamento, della natura e dello scopo perseguito dalla disposizione e dalla sua collocazione nel Trattato e dichiarando che la ratio dell’ art. 119 fosse non solo di evitare che nel mercato comunitario, le aziende degli Stati in cui era stata data attuazione al principio di pari retribuzione tra i sessi si

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trovassero in posizione di svantaggio rispetto a quelle aziende che si trovavano in Stati che non avevano ancora provveduto in tal senso, spingendosi ad affermare che l' art. 119 rientrasse a pieno titolo negli scopi sociali della Comunità dato che questa non si limitava solamente a realizzare un’ unità economica ma doveva garantire, mediante un azione comune, il progresso sociale e promuovere il costante miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei cittadini europei, facendo rientrare di fatto il principio della parità di retribuzione tra i principi fondamentali dell’allora Comunità Europa.

La Corte ha colmato l’assenza nel Trattato di una clausola generale di antidiscriminazione con una serie di pronunce storiche che hanno spesso anticipato gli orientamenti degli altri organi europei, spesso orientandone e rafforzandone l’operato e garantendo così la protezione dei singoli.25

Nella sentenza Defrenne, la Corte ha quindi mirato ad un’uguaglianza effettiva e non meramente formale, affermando che l’eliminazione di ogni discriminazione fosse un principio generale di cui garantire l’osservanza. Successivamente ha portato avanti un’opera di progressiva estensione della tutela individuale partendo proprio dall’interpretazione del concetto di discriminazione fondata sul genere. La tutela dalle discriminazioni sulla base del sesso venne inizialmente introdotta come protezione delle lavoratrici, la giurisprudenza della Corte ha però esteso la tutela anche alle discriminazioni a danno del sesso maschile, alle discriminazioni subite a causa della maternità e della gravidanza.

25 O.POLLICINO, Discrmininazione sulla base del sessoe trattamento preferenziale nel diritto

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Sempre alla giurisprudenza si deve l’elaborazione della nozione di discriminazione indiretta, recepita poi dalle successive Direttive antidiscriminatorie ma non prevista dall’art.119, che viene individuata nella norma o prassi che seppur formulata in termini neutri, pregiudichi una categoria di soggetti, salvo che l’adozione di tali misure non sia giustificata da ragioni obiettive.

Nell’evoluzione della giurisprudenza comunitaria si deve sottolineare la progressiva perdita di centralità della comparazione che veniva usualmente operata tra la presunta vittima e quella di un soggetto privo di una delle caratteristiche tutelate. La Corte ha iniziato a prescindere da tale confronto, ammettendo la possibilità che il soggetto terzo con cui effettuare la comparazione potesse essere astratto rimarcando così il carattere generale del principio di non discriminazione.

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CAPITOLO SECONDO

IL DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE NEL DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA

2.1 Il concetto e le forme di discriminazione

Trovare una corretta ed esaustiva definizione di “discriminazione” non è sempre facile. In linea di massima possiamo definire la discriminazione come il trattamento non egualitario e sfavorevole riservato ad un individuo, o ad un gruppo di individui, esclusivamente a causa della sola appartenenza ad una determinata categoria.

Il concetto di discriminazione si applica quindi a qualsiasi comportamento che possa portare a distinguere o escludere una persona in base al genere, all'orientamento sessuale, all'età, alla religione o alle convinzioni personali, all'origine etnica compromettendo così il pieno godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

L'obiettivo delle politiche europee di non discriminazione è quindi quello di consentire a tutti gli individui un eguale trattamento senza che vengano trattati in modo meno favorevole a causa di una particolare caratteristica.

Inizialmente, le prime forme di discriminazione prese in considerazione dalla Comunità europea vennero vietate esclusivamente per ragioni economiche ed erano volte a garantire la libera circolazione di cittadini e beni al fine di agevolare l'evoluzione del neonato mercato unico europeo.

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di Parigi del 1951 che istituiva la Comunità del carbone e dell'acciaio e in cui veniva tracciato un quadro normativo che vietava tutte le misure che avrebbero potuto creare distinzioni tra produttori, acquirenti e consumatori.

Il primo esplicito divieto di discriminazione previsto dai trattati lo troviamo infatti all'art.119 TCE che impone la parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratrici di sesso femminile, norma fortemente voluta dalla Francia che già la prevedeva nel proprio ordinamento nazionale e che quindi temeva che le proprie imprese avrebbero subito una concorrenza sleale da parte degli altri Paesi membri.

2.1.1 La discriminazione diretta

Il divieto di discriminazione diretta è inizialmente l'unico presente nell'art 119 TCE che imponeva la parità il trattamento tra lavoratori di sesso femminile e maschile sul lavoro.

Successivamente ripresa dalle nuove direttive e dalla giurisprudenza comunitaria, si ha discriminazione diretta quando un soggetto a causa di uno dei fattori di discriminazione previsti dalla normativa antidiscriminatoria venga trattato meno favorevolmente rispetto ad un altro. La differenza di trattamento deve necessariamente avere un nesso causale con il possesso di determinate qualità soggettive. Tale nozione si estende anche a comportamenti ipotetici senza che sia necessario il verificarsi di un comportamento concreto.

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2.1.2 La discriminazione indiretta

L'art 119 TCE non contempla la nozione di discriminazione indiretta che viene invece prevista dall'art. 226 della direttiva 76/20727 riguardante l'attuazione della parità di genere.

Secondo la definizione che ne da la direttiva 97/80/CE sull'onere della prova nei casi di discriminazione di genere, si è di fronte ad un caso di discriminazione indiretta qualora “una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri colpiscano una quota elevata di individui d'uno o dei due sessi a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano adeguati e necessari e possano essere giustificati da ragioni obiettive non basate su sesso”.

Nelle direttive di seconda generazione28 la discriminazione indiretta viene descritta come quella in cui una disposizione un criterio od una prassi possano mettere in una situazione di svantaggio le persone le cui caratteristiche soggettive siano protette a meno che la disposizione sia oggettivamente giustificata da una finalità

26 1 . Ai sensi delle seguenti disposizioni il principio della parità di trattamento implica l ' assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul esso , direttamente o indirettamente , in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia .

2 . La presente direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escluderne dal campo di applicazione le attività professionali ed eventualmente le relative formazioni , per le quali , in considerazione della loro natura o delle condizioni per il loro esercizio , il sesso rappresenti una condizione determinante .

3 . La presente direttiva non pregiudica le disposizioni relative alla protezione della donna , in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità .

4 . La presente direttiva non pregiudica le misure volte a promuovere la parità delle opporunità per gli uomini e le donne , in particolare ponendo rimedio alle disparità di fatto che pregiudicano le opportunità delle donne nei settori di cui all ' articolo 1 , paragrafo 1 .

27Direttiva 2007/76/CE del 20 dicembre 2007.

28Direttiva sull‟uguaglianza razziale(2000/43), articolo 2, comma 3; Direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione, articolo 2, comma 3(2000/78); Direttiva sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di accesso ai beni e ai servizi, articolo 2, lettera c)(2004/113); Direttiva sulla parità di trattamento fra uomini e donne (rifusione)(2006/54), articolo 2, comma 1, lettera c)

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24 legittima.

La discriminazione indiretta ammette un'ampia gamma di eccezioni, occorre perciò un'attenta analisi delle diverse realtà e dei singoli casi concreti al fine di individuare o meno una possibile discriminazione.

La discriminazione indiretta quindi si distingue dalla discriminazione diretta, poichè sposta l'attenzione dalla differenza di trattamento alla diversità degli effetti.

2.1.3 Molestie, molestie sessuali e ordine di discriminare

A partire dalle direttive di seconda generazione le molestie vengono considerate come una specifica forma di discriminazione29. Secondo quanto dispone la direttiva 2000/78/CE, riguardante la parità di trattamento in materia di occupazione e lavoro, le molestie vengono definite come un comportamento indesiderato avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona creando un clima intimidatorio, ostile o degradante. La distinzione tra molestie e molestie sessuali si deve ovviamente alla connotazione sessuale del comportamento posto in essere; in questo caso il legislatore europeo non ha voluto proteggere l'interesse di un soggetto confrontando la sua situazione con altri ma ha voluto proteggere la dignità del soggetto in quanto suo diritto fondamentale30.

Le direttive, inoltre, prevedono la tutela contro l'ordine di discriminare considerando autore della discriminazione non solo l'esecutore materiale ma anche

29Direttiva sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di accesso ai beni e ai servizi(2004/113), articolo 2, lettera d); Direttiva sulla parità di trattamento fra uomini e donne (rifusione)(2006/54), articolo 2, comma 1, lettera d).

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colui che emette tale ordine. L'importanza attribuita a questa particolare figura di discriminazione viene chiarita con la Decisione quadro 2008/91331 del Consiglio che obbliga gli Stati appartenenti all'Unione Europea a prevedere sanzioni penali per chi istighi alla violenza o inciti all'odio nei confronti di una persona o di un gruppo per motivi di razza , religione, origine nazionale o etnica, per la diffusione di materiale xenofobo e per l'apologia o la negazione dei crimini di genocidio circostanze queste che gli Stati sono tenuti a considerare circostanze aggravanti32.

2.1.4 Le azioni positive.

Le azioni positive sono uno strumento che ha la finalità di raggiungere la parità di genere eliminando le disparità di fatto di cui le donne sono oggetto nella vita lavorativa e a favorire il loro inserimento nel mercato del lavoro.

L'origine delle azioni positive va ricercata nella legislazione statunitense, il termine affermactive actions utilizzato per la prima volta dal Presidente John F. Kennedy nel 1961 nell'Ordine Esecutivo riguardante le discriminazioni razziali e successivamente ripreso nella Legge di parità salariale del 1963 dal Civil Rights Act del 1964 che pose fine alla “legalizzazione” della segregazione razziale negli Stati Uniti.

Nell'Unione Europea le azioni positive sono state introdotte in ambito giuslavoristico in riferimento alla tutela delle donne sul luogo di lavoro.

31Decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale, G. U. L 328 del 6.12.2008, pag. 55. 32Manuale di diritto europeo della non discriminazione, Ufficio delle pubblicazioni dell‟Unione europea,

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La nozione di azione positiva come traduzione di affermactive action è stata introdotta per la prima volta nell'ordinamento comunitario con la raccomandazione 84/235 che sollecitava gli Stati membri alla realizzazione delle pari opportunità nei confronti delle donne rispetto all'accesso al lavoro e alla carriera professionale creando un quadro normativo che portasse all'uguaglianza effettiva tra uomini e donne nel lavoro.

Occorre quindi in primo luogo eliminare gli svantaggi derivanti da atteggiamenti e comportamenti dovuti ad una visione tradizionalista del ruolo della donna all'interno della società ed incoraggiare le lavoratrici nei settori in cui sono tuttora sottorappresentate.

Per quanto riguarda il diritto comunitario si è passati da un generico richiamo alla necessità di misure volte a promuovere le pari opportunità tra uomini e donne in ambito lavorativo, all' art. 114 del Trattato istitutivo della Comunità Europea, che stabilisce , che allo scopo di assicurare un'effettiva e completa parità tra uomini e donne uno Stato possa adottare misure che prevedano vantaggi diretti a facilitare l'esercizio di un'attività professionale da parte del sesso sotto rappresentato.

Successivamente le direttive 2000/43 e 2000/78 hanno anch'esse disposto che allo scopo di assicurare una piena parità tali misure andassero mantenute od adottate al fine di compensare anche i possibili svantaggi conseguenti all'appartenenza di una determinata razza od origine etnica.

Nell' art. 2333 della Carta di Nizza si afferma che la parità tra uomini e donne deve

33 La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione.

Il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato.

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essere assicurata in tutti i campi, compreso lavoro, occupazione e retribuzione adottando provvedimenti volti a colmare gli svantaggi.

Le direttive 2002/73 e 2006/54 non introdussero novità in materia, dimostrando così la volontà di allineare tutte le disposizioni riguardanti le azioni positive all'art 114 par. 4.

Per quanto riguarda la giurisprudenza della Corte di Giustizia riguardante le misure speciali la maggior parte delle sentenze si sono occupate della parità tra uomini e donne.

Le sentenze più importanti a riguardo furono la Kalanke34, Marshall35 e Abrahamsson36,che nell'insieme hanno contribuito a definire i limiti entro cui è possibile introdurre delle misure speciali per compensare gli svantaggi subiti dalle lavoratrici sul luogo di lavoro.

Nella causa Kalenke la Corte di Giustizia adottò un atteggiamento restrittivo riguardo ad un trattamento preferenziale rivolto a rimediare alla scarsa presenza femminile in determinati impieghi. Il caso riguardava una legge regionale del Land tedesco di Bremen che, a parità di qualificazione, preferiva automaticamente i candidati di sesso femminile. Un candidato respinto, Kalenke, presentò ricorso ai tribunali nazionali che rinviarono la questione alla Corte. Quest'ultima censurò l'automaticità con cui si assegnava il posto ad una rappresentante di genere femminile facendo notare che una normativa che assicurasse una preferenza

34CG, sentenza 17-10 1995, causa C-450/93 Kalanke c. Freie Hanstadt Bremen. 35CG, sentenza 11-11-1997, causa C-409/95 Marshall c Land Nordrheinn-Westfale.

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assoluta e incondizionata alle donne fosse sproporzionata rispetto alla necessità e all'obbiettivo di eliminare le disparità .

La causa Marshall rappresentava un caso simile,ma in questo caso la norma non prevedeva una concessione automatica e incondizionata del posto di lavoro .Le donne a parità di qualificazioni avevano la precedenza solamente qualora non prevalessero motivi inerenti alla persona di un candidato di sesso maschile. La Corte ha precisato che una normativa, per considerarsi legittima, deve garantire in modo individuale ai candidati maschili una valutazione obiettiva della candidatura, in caso di parità di qualificazione, senza assegnare una precedenza assoluta alle donne.

La causa Abrahamsson riguardava la legittimità di una norma svedese che stabiliva che un candidato ad un posto appartenente al sesso sottorappresentato e in possesso di qualifiche sufficienti per ottenere tale posto dovesse essere preferito ad un candidato dell'altro sesso a meno che la differenze di qualifiche avesse avuto una rilevanza tale da sfociare in una violazione del criterio di obiettività. La Corte aveva quindi stabilito che la legge accordasse di fatto automaticamente la preferenza ai candidati di un determinato sesso rischiando così di avere effetti sproporzionati. Si può quindi dedurre che secondo la Corte di Giustizia le misure speciali possano prevalere sul principio di eguaglianza e non discriminazione ma solo nel caso in cui queste non siano assolute e incondizionate.

2.1.5 Le eccezioni al divieto di discriminare

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esserci delle effettive disparità di trattamento, analogamente alla CEDU, infatti, presenta un sistema di giustificazioni.

La giustificazione può essere in termini generali o specifici; mentre la CEDU prevede una giustificazione generale sia in caso di discriminazione diretta che indiretta la normativa comunitaria distingue i due tipi di discriminazione prevedendo esclusivamente giustificazioni limitate e specifiche in caso di discriminazione diretta e una giustificazione generale per quanto riguarda la discriminazione indiretta.

Per quanto riguarda le giustificazioni generali le direttive 2000/78, 2000/43,2002/73 affermano che uno svantaggio determinato da disposizioni, criteri o prassi non abbia carattere discriminatorio se “ siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegai per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”37 mentre la CEDU afferma che “una differenza nel

trattamento riservato a persone in situazioni comparabili è discriminatorio se è priva di giustificazione obbiettiva e ragionevole cioè se non persegue uno scopo legittimo o non sussiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo che si intende conseguire.”.

Secondo queste definizioni non si tratta quindi di una eccezione alla discriminazione ma di una giustificazione della differenza di trattamento che impedisce il nascere di una discriminazione.

Per giustificare una differenza di trattamento occorre quindi dimostrare, non solo

37Art 2 comma2 Direttiva 2002/73.

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che la norma in questione persegua una finalità legittima, ma anche che i mezzi scelti per conseguirla siano necessari e proporzionati al suo conseguimento. La Corte di Giustizia ha indicato che una differenza di trattamento sia giustificata qualora sia basata su un criterio ragionevole ed obiettivo.

Una chiara precisazione del concetto di giustificazione obiettiva è stato dato in occasione della sentenza Bilka-Kaufhaus Gmbh c. Weber Von Hartz38. I dipendenti part-time esclusi dal piano pensionistico aziendale della Bilka sostenevano che tale esclusione costituisse una discriminazione indiretta nei confronti delle lavoratrici di sesso femminile in quanto rappresentavano la maggioranza dei lavoratori con orario ridotto, il datore di lavoro sosteneva invece che la differenza di trattamento fosse dovuta alla necessità di disincentivare il lavoro part-time in quanto rendeva più complicata l'organizzazione dei turni e la possibilità di avere personale sufficiente. La Corte di Giustizia stabilì che i mezzi scelti dalla Bilka rispondessero ad un'effettiva esigenza dell'azienda ed fossero necessari per il funzionamento della stessa senza però rispondere al quesito se tali misure fossero o meno proporzionate al raggiungimento di tale scopo lasciando quindi al giudice nazionale il compito di applicare la legge.

Le direttive contro la discriminazione prevedono un insieme di eccezioni specifiche che permettono di giustificare una disparità di trattamento, eccezioni che vengono ammesse dal diritto dell'Unione: le eccezioni relative al requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, la discriminazione basata sulla religione o sulle convenzioni personali nel caso di

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attività fondate sulla religione, in alcune circostanze le discriminazioni sull'età. Per quanto riguarda il settore del lavoro le direttive antidiscriminatorie stabiliscono che gli Stati membri possano stabilire che una differenza di trattamento basata su di una caratteristica precisa non costituisca discriminazione nel caso in cui, per la natura di un'attività lavorativa o il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca in requisito fondamentale e determinante per il suo svolgimento, purchè la finalità sia legittima e il requisito proporzionato.

Questa eccezione permette quindi al datore di lavoro di riservare ai suoi dipendenti un diverso trattamento nonostante una caratteristica protetta qualora essa sia direttamente riconducibile alle competenze necessarie a svolgere determinate mansioni.

Nella causa Commissione c Germani del 198539 la Corte di Giustizia ha indicato alcune attività lavorative per le quali risulta applicabile la deroga alla discriminazione sessuale come nel caso ad esempio delle professioni artistiche. Nella causa Commissione c Francia40 la Corte stabilì che in determinate circostanze non sia illegittimo riservare posti di lavoro principalmente agli uomini nelle carceri maschili e alle donne in quelle femminili. L'eccezione però può essere fatta valere esclusivamente per quei posti di lavoro per i quali l'appartenenza all'uno o l'altro sesso sia un fattore fondamentale.

In questo caso le autorità francesi avrebbero voluto riservare una maggior percentuale di posti a candidati di sesso maschile in quanto pensavano potesse

39 CG 21-05.1985, causa 248/83 Commissione c Gemania Rac. 1985 pag 1459. 40 CG 30-06-1988 causa 318/86 Commissione c Francia Racc 1988 pag 3559.

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essere necessario l'uso della forza per risolvere alcune situazioni potenzialmente violente o pericolose.

La Corte nonostante avesse accettato il principio generale dichiarò che la Francia non avesse soddisfatto il criterio di trasparenza riguardo alle attività specifiche in questione e che la generalizzazione dell'idoneità dell'uno o dell'altro sesso non potesse essere sufficiente.

Nella causa Johnson, invece, un agente di polizia donna in servizio nell'Irlanda del Nord aveva presentato ricorso contro il mancato rinnovo del contratto. Il Commissario capo giustificò la decisione sostenendo che le agenti non fossero addestrate all'uso delle armi e,in caso di gravi disordini dovuti all'allora difficile situazione interna, un agente donna armato corresse maggiori rischi di essere bersaglio di un attentato. La Corte di Giustizia concluse che prendendo in considerazione i pericoli per la sicurezza questi riguarderebbero allo stesso modo uomini e donne e che quindi la giustificazione di un diverso trattamento potesse essere ammessa solo riguardo a condizioni biologiche come la gravidanza.

Nella causa Mahlburg41 la ricorrente, in stato di gravidanza venne esclusa da un posto da infermiera di sala operatoria con contratto a tempo indeterminato. La decisione era stata giustificata dal timore per i possibili danni che l'esposizione a sostanze nocive avrebbe potuto causare al feto. La Corte di Giustizia decise che rifiutare l'assunzione fosse una misura eccessiva e sproporzionata in quanto lo stato di gravidanza, pur essendo oggetto di tutela, fosse uno stato temporaneo e

41CG, sentenza 3 febbraio 2000, causa C-207/98, Mahlburg c. Land Mecklenburg-Vorpommern, Racc. 2000, pag. I-549.

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quindi non potesse comportare un 'esclusione generale.

Il Considerando 18 della direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione contiene precisazioni sull'eccezione relativa al requisito essenziale per lo svolgimento di un'attività lavorativa riguardo a servizi pubblici legati alla sicurezza, viene affermato che la Direttiva non possa costringere le forze armate e le forze di polizia ad assumere o mantenere in servizio soggetti che non possiedano i requisiti necessari al fine di garantire la corretta operatività di tali servizi.

La direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro permette inoltre espressamente che le organizzazioni religiose o le organizzazioni fondate su particolari convinzioni personali o culti possano imporre determinante condizioni ai loro dipendenti, condizioni che in alcune circostanze posso rientrare nella eccezione del requisito fondamentale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa che ammette una differenza di trattamento basta sui principi religiosi dell'organizzazione. Gli artt. 4.1 e 4.2 consentono alle organizzazioni religiose di rifiutare l'assunzione a determinate categorie di persona qualora siano in contrasto con i dogmi religiosi dell'associazione.

L'art 6 della Direttiva 2000/78/EC prevede due diverse giustificazioni riguardanti l'età.

L' art 6.1 permette la discriminazione in ragione dell'età nei casi in cui si perseguano giustificati motivi di politica del lavoro e di formazione professionale qualora venga soddisfatto il criterio di proporzionalità.

Alcuni esempi in cui sono consentite discriminazioni di trattamento sono l'art 6.6 lettera b in cui si permette la fissazione di condizioni minime di età, esperienza

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professionale o anzianità di lavoro per l'accesso all'occupazione e l'art 6 comma 2 che permette la discriminazione per motivi di età per quanto riguarda l'accesso o il diritto alle prestazioni di regimi professionale o di sicurezza sociale.

Nella causa Palacio de la Villa c Cortefiel Servicios42 la Corte di Giustizia si è

soffermata per la prima volta sull'applicazione dell'art 6 riguardo all'età di pensionamento obbligatorio, stabilendo che le norme riguardanti il pensionamento obbligatorio fossero oggettivamente giustificate e compatibili col diritto dell'Unione e che soprattutto fossero volte a promuovere l'occupazione attraverso una migliore distribuzione del lavoro sotto al profilo intergenerazionale.

2.2- I SINGOLI FATTORI DI DISCRIMINAZIONE.

2.2.1 Il divieto di discriminazione sulla base della disabilità

La tutela della discriminazione sulla base della disabilità ha avuto uno sviluppo piuttosto recente che può essere riassunto in tre passaggi.

Il primo passaggio è stato segnato dall'adozione della Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea nel 2001 che non solo inserisce esplicitamente la disabilità tra i fattori di discriminazione oggetto di tutela43 ma prevede espressamente che gli

42CG causa c-411/05 Palacio de la Villa c Cortefiel Servicios SA, Racc,2007, pag 1-8531

43Art 21 1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore

della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali.

2. Nell'ambito d'applicazione del trattato che istituisce la Comunità europea e del trattato sull'Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi.

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Stati Membri si adoperino al fine di inserire i soggetti affetti da disabilità nella vita della comunità.44.

La seconda fase è invece caratterizzato dall'entrata in vigore della direttiva 2000/78/CE che attuando l'art 18 del TFUE assicura la tutela contro le discriminazione riguardo all'accessibilità al posto di lavoro e la necessità di bilanciare le esigenze dei soggetti tutelati con quelle del datore di lavoro.

Il terzo passaggio invece è segnato dalla ratifica da parte dell'Unione Europea della Convenzione O.N.U. sui diritti alle persone con disabilità del 2006.

Ovviamente, anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia è piuttosto recente ed è grazie alla giurisprudenza che possiamo risalire ad una definizione di disabilità. Nella causa Chacon Navas45, la ricorrente Sonia Navas sottoponeva alla Corte la

questione se una malattia invalidante tale da causare un'assenza dal luogo di lavoro potesse essere equiparata ad una disabilità. La Corte si trovava quindi a dover dare una definizione di disabilità fino ad allora mancante dall'ordinamento europeo e lo fa facendo riferimento alla direttiva 2000/7846, affermando la necessità che il termine disabilità abbia una definizione uniforme a livello comunitario, secondo la Corte alla luce della direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione la disabilità deve essere intesa come un limite che deriva da minorazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona alla vita professionale. Applicando questa definizione al caso Navas risulta che la ricorrente

44 Art 26 L'Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità.

45CG Causa C-13/05, Chacon Navas c Eurest Colectividades SA, Racc 2006 pag I-6467.

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non fosse disabile in quanto venne licenziata in seguito ad un'assenza per malattia di otto mesi. La Corte ha quindi affermato la distinzione tra malattia e disabilità e che solo quest'ultima gode di tutela antidiscriminatoria.

Nella successiva causa Coleman, una lavoratrice britannica sosteneva di essere stata discriminata ed essere stata indotta al licenziamento, poiché avendo appena avuto un figlio disabile era costretta a dedicare molto tempo alla cura del bambino, bisognoso di cure e trattamenti particolari. Il tribunale inglese sottopose quindi alla Corte di Giustizia diverse questioni pregiudiziali; innanzitutto se la direttiva 2000/78 tuteli contro la discriminazione diretta e contro le molestie soltanto persone disabili e in caso di risposta negativa se tuteli i lavoratori che, pur non essendo essi stessi disabili, vengano trattati in modo meno favorevole o subiscono molestie a causa del loro stretto rapporto con una persona disabile e se qualora venga accertato che il motivo di tale trattamento è costituito dal fatto che il lavoratore abbia un figlio disabile del quale si prende cura, se tale trattamento sfavorevole integri una discriminazione o una violazione del principio della parità di trattamento.

La Corte decise quindi di ampliare in maniera considerevole la sfera di applicazione soggettiva della direttiva 2000/78/CE estendendo la tutela anche alle persone che non sono esse stesse disabili ma che hanno la necessità di mantenere il posto di lavoro dal quale dipendano anche i portatori di handicap, si scelse quindi di estendere l'ambito di applicazione della direttiva per assicurare l'effettiva applicazione del principio di non discriminazione.

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c335/11 e c 337/11. L' azione giudiziaria venne promossa a livello nazionale dal sindacato danese HK DENMARK per conto di due lavoratrici che a causa di dolori cronici erano mancate dal lavoro per lunghi periodi con la conseguenza che i loro datori di lavoro avevano risolto il rapporto lavorativo dopo aver rifiutato la possibilità di svolgere le loro mansioni a tempo parziale.

Il giudice danese chiedeva:

-se la condizione di una persona che, a causa di menomazioni fisiche mentali o psichiche, non possa svolgere la propria attività lavorativa o possa farlo solo entro certi limiti per un arco di tempo limitato rientri nella nozione di handicap prevista dalla direttiva.

-se una condizione causata da una malattia incurabile possa rientrare nella nozione di handicap ai sensi della direttiva.

-se una condizione causata da una malattia temporanea possa rientrare nella nozione di handicap ai sensi della direttiva.

L'Unione Europa aveva ratificato nel frattempo la Convezione Onu per i diritti delle persone disabili che contiene al suo interno una nozione di disabilità definendola come un concetto in evoluzione che è il risultato dell'interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su basi di uguaglianza con i soggetti normodotati. L'art 1 della Convenzione stabilisce che sono persone con disabilità “coloro che presentano durature menomazioni fisiche mentali intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la lor piena ed effettiva partecipazione nella società sulla base

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di un rapporto di uguaglianza con gli altri”. In questo caso la Corte, accogliendo le conclusioni dell'Avvocato Generale evidenzia la relazione causale tra il concetto di malattia e quello di disabilità affermando che distinguere a seconda della causa dell'handicap sarebbe arbitrario e perciò in contrasto con il principio di parità di trattamento e che quindi la nozione di disabilità a cui fa riferimento la direttiva 2000/78 deve essere interpretata come una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile qualora tale malattia comporti una limitazione che ostacoli la piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale.

Un' ulteriore questione che veniva posta alla Corte riguardava le cd soluzioni ragionevoli previste dall'art. 5 della Direttiva 2000/78 che dispone che il datore di lavoro sia tenuto a prendere i necessari provvedimenti al fine di consentire ai lavoratori affetti da disabilità di avere le medesime opportunità dei colleghi normodotati a meno che tali provvedimenti non richiedano al datore di lavoro un onere finanziario spropositato. Il giudice nazionale chiedeva quindi se la riduzione dell'orario di lavoro potesse rientrare tra le soluzioni ragionevoli previste dalla direttiva. La Corte anche a seguito della Convenzione sui diritti delle persone disabili diede una interpretazione più ampia del concetto di soluzione ragionevole ,affermando che dovesse essere inteso con riferimento all'eliminazione delle barriere che ostacolano l'effettiva partecipazione del disabile alla vita professionale, non occorre quindi pensare solo a soluzioni materiali ma anche organizzative tra cui la riduzione dell'orario di lavoro . Viene comunque affidata al Giudice nazionale la valutazione sulla proporzionalità dell'onere di tali

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39 provvedimenti per il datore di lavoro.

2.2.2 Il divieto di discriminazione sulla base dell'età

Il fattore età come fattore di rischio è stato introdotto nell'ordinamento europeo dall'art. 13 TCE e successivamente dalla Direttiva 2000/78/UE riguardante la tutela della parità di trattamento in materia di occupazione. La difficoltà nel definirne il concetto e l'impossibilità di caratterizzarla temporalmente fa si che la Direttiva non possa fornire una precisa definizione e di età e che non stabilisca espressamente quali siano le età che rientrano nel suo ambito di applicazione.

Un aiuto nel chiarire il concetto di età come possibile motivo di discriminazione lo si può trovare nel Considerando 25, che definendo il divieto di discriminazione per età come “un elemento essenziale per il perseguimento degli obiettivi definiti negli orientamenti in materia di occupazione e la promozione della diversità nell’occupazione”, fa capire che la Direttiva prenda in considerazione il fattore età in riferimento alle politiche occupazionali degli Stati Membri e possa riguardare tutte le diverse fasi e forme dell'occupazione.

Proprio la particolarità della disparità di trattamento in base all'età ha permesso che, nonostante il divieto di discriminazione sia un elemento essenziale dell'ordinamento europeo, possa essere talora giustificata. La direttiva prevede infatti tre deroghe, la prima concede agli Stati Membri la facoltà di escludere categoricamente dall'applicazione del principio di non discriminazione in base all'età, la seconda deroga riguarda la possibilità per gli Stati membri di

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determinare liberamente l' età pensionabile, ma la deroga più ampia è quella prevista dall'art.6 della Direttiva che ammette le discriminazione nel caso in cui sia oggettivamente finalizzata a promuovere l'occupazione e la formazione professionale purché tali mezzi siano appropriati e necessari.

La prima fondamentale sentenza della Corte di Giustizia sulle discriminazioni in base all'età è stata la sentenza Mangold47 , una controversia di lavoro riguardante la compatibilità di una normativa tedesca che autorizzava indiscriminatamente la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato quando il lavoratore avesse raggiunto una certa età. Nonostante non fosse ancora scaduto il termine per l'applicazione e il recepimento della direttiva la Corte dichiarò tale normativa incompatibile con la normativa europea a tutela dell'uguaglianza, nonostante ne fosse stata considerata legittima la finalità di favorire l'occupazione dei lavoratori più anziani, i mezzi utilizzati per il suo raggiungimento vennero considerati eccessivi e affermò che il principio non deriva direttamente dalla direttiva ma trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, e che esso deve essere considerato principio generale del diritto comunitario. Alla luce di ciò la sentenza si conclude con la prescrizione dell’obbligo di disapplicazione della disciplina interna in capo al giudice nazionale La Sentenza Mangold viene considerata particolarmente importante non tanto per il ruolo ricoperto nell'ambito della lotta alle discriminazioni ma per come abbia affermato la preesistenza del diritto antidiscriminatorio alla direttiva 2000/78 elevandolo così a principio generale del diritto comunitario.

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Un'altra importante sentenza è la Palacios Villa nella quale la Corte venne chiamata ad esprimersi nuovamente sul limite di 65 anni per il pensionamento del lavoratore posto dal governo spagnolo. In questo caso la Corte è chiamata per la prima volta a risolvere una controversia basta sul principio di non discriminazione sulla base dell'età espresso dalla direttiva 2000/78 dopo la scadenza del termine di applicazione.

La Corte non mise in discussione la libertà dello Stato membro di stabilire autonomamente l'età pensionabile ma la clausola del contratto di lavoro che prevede la sua cessazione automaticamente al raggiungimento dell'età pensionabile. Il ricorrente ritenendo che la sua capacità di svolgere le sue mansioni fosse rimasta immutata al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età riteneva di essere vittima di una discriminazione, la Corte in questo caso , a differenza di quanto avvenuto nel caso Mangold, ritenne che il legislatore nazionale avesse attuato una misura necessaria , appropriata e volta a migliorare le politiche occupazionali del Paese applicando quindi l'art.6 della Direttiva che concedeva a proposito ampio margine di scelta agli Stati membri.

Con la sentenza Kücükdeveci 48 del 2010 la Corte di giustizia è tornata a pronunciarsi sulla esistenza di un principio generale di non discriminazione in base all’età nell'ordinamento dell’Unione europea.

La signora Kücükdeveci, lavorava da quando aveva l’età di 18 anni presso la società tedesca Swedex, ricevette nel dicembre 2006 una lettera di licenziamento, con effetto alla fine del mese. Il datore di lavoro aveva calcolato il termine di preavviso

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