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QUINTO ASCONIO PEDIANO, COMMENTARIO ALLA PRO MILONE, Traduzione e commento

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(1)

DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA CORSO DI LAUREA IN FILOLOGIA E STORIA DELL’ANTICHITÁ

Quinto Asconio Pediano

Commentario alla Pro Milone

Traduzione e Commento

CANDIDATO RELATORE

Letizia Inghilleri Prof. Rolando Ferri

CONTRORELATORE

Dott.ssa Anna Zago

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Ai miei nonni materni e ai loro ora pro nobis

che hanno insinuato in me bambina

la curiosità e l’amore per la lingua latina.

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Sed ubi turrim sacrae Aedis S. Galli contiguam, in qua innumerabiles

libri, utpote captivi, detinentur, diligentius vidimus, bibliothecamque

illam pulvere tineis fuligine ceterisque rebus ad oblitterationem librorum

pertinentibus obsoletam pollutamque, collacrimavimus per hunc modum

putantes linguam latinam maximum ornatum maximamque dignitatem

perdidisse. Haec profecto bibliotheca, si per se ipsa loqueretur,

magnavoce clamaret:‘ne me, viri linguae latinae amantissimi, sinite per

huiusmodi negligentiam funditus deleri: eripite me ab hoc carcere, in

cuius tenebris tantum librorum lumen apparere non potest’.

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INDICE

Introduzione p. 5

Testo di Quinto Asconio Pediano p. 24

(Pro Milone)

Traduzione p. 45

(In difesa di Milone)

Commento p. 64

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INTRODUZIONE

La tradizione manoscritta1

Era l’estate del 1416 quando nel monastero di S. Gallo, in Svizzera, Poggio Bracciolini insieme ad altri collaboratori e studiosi rinvenne, tra gli altri lì rinchiusi in un luogo oscuro, pieno di polvere e muffa2, un codice contenente i Commentari di Asconio alle orazioni di Cicerone: il Sangallensis. Nonostante le condizioni in cui versavano i codici trovati, è chiaro l’entusiasmo che scaturì da questa scoperta, sia dalle parole dello stesso Poggio contenute nella lettera inviata a Guarino Veronese, sia dalle parole di un altro umanista, Cincio Romano, nella lettera inviata a Francesco da Fiano3. Si riesce quasi a percepire il loro stupore per la scoperta, oltre all’orrore per le pessime condizioni in cui i manoscritti era conservati, ed entrambi si mostrano fiduciosi nella possibilità di conoscere molto di più sulla letteratura latina antica, strappati i testi manoscritti all’oblio del tempo e all’oscurità in cui erano relegati. Il Sangallensis, che oltre ai Commentari asconiani conteneva le Argonautiche di Valerio Flacco e i Commenti alle Verrine dello Pseudo-Asconio, così come venne alla luce, ricadde nell’oblio. Capitava spesso, infatti, che gli umanisti non si preoccupassero di preservare un antigrafo; una volta tratto un apografo l’esemplare di cui ci si era serviti non sembrava più essere utile e cadeva nel dimenticatoio. Prima che ciò accadesse, però, furono tratte da questo tre copie, redatte una da Poggio e una da Bartolomeo da Montepulciano nello stesso anno del ritrovamento, la terza da Sozomeno da Pistoia l’anno successivo. Solo grazie agli apografi che derivano direttamente o indirettamente da questo esemplare perduto, e agli studiosi

1 Per la tradizione manoscritta in generale vedi: Giarratano C., Q. Asconii Pediani commentari, Roma,

1920 e Due codici di Asconio Pediano, “SIFC”, 1906, pp. 195-205; Reeve M.D., Asconius in Texts and transmission. A survey of the Latin classics, edito da Reynolds L.D., Oxford, 1983, pp. 24-25; Clark A.C., Q. Asconii Pediani orationum Ciceronis quinque enarratio, Oxford, 1907 e The Madrid MS. of Asconius [M. 81], “CR”, 1896, pp. 301-305.

2 Per usare le parole di Poggio, il manoscritto fu ritrovato in teterrimo quodam et obscuro carcere,

fundo scilicet unius turris, quo ne capitalis quidem rei damnati detruderentur: basta questa descrizione del luogo di “conservazione” del manoscritto per rendersi conto che doveva per forza di cose essere corrotto dai tarli e dalla muffa.

3 Cfr. Giarratano, op. cit., pp. v- viii; Clark, op. cit., pp. xi-xiii; entrambi citano le lettere dei due

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che si sono preoccupati di esaminarli, sappiamo che il Sangallesis era un codice del IX secolo ed era molto probabilmente danneggiato, viste le condizioni in cui fu ritrovato e le numerose lacune che gli apografi presentano4.

I manoscritti a noi oggi pervenuti che recano il testo di Asconio sono 30, tutti del XV secolo, ma soltanto tre sono quelli principali: il Madrileno X 81, apografo di Bracciolini (P), il Forteguerriano A37, apografo di Sozomeno da Pistoia (S), e il Laurenziano LIV 5, dall’apografo di Bartolomeo da Montepulciano (M).

Tutti gli studiosi che si sono occupati della tradizione di Asconio sono concordi nell’attribuire maggiore autorevolezza, tra i tre appena nominati, al codice S, in quanto il suo redattore, Sozomeno, considerato un paleografo migliore di Poggio e di Bartolomeo, copiò dall’antigrafo senza arrischiare congetture o emendamenti, né correzione di errori, a tal punto da lasciare nel testo lacune di corrispondente lunghezza delle parole incerte o di difficile lettura5. Attualmente conservato presso la Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, il codice, corrotto dall’umidità, non sarebbe stato direttamente copiato dal Sangallensis, bensì da un apografo intermedio, approntato da qualcuno che si trovava insieme a Poggio al momento del ritrovamento: la copia di Sozomeno sarebbe stata tratta da questo. A questa conclusione giunse Sabbadini, il quale ha dimostrato, con le dovute prove a favore, che Sozomeno non si recò a Costanza prima del 14176, anno che, tra l’altro, riceve conferma dalla subscriptio del suo apografo: Finis argumentorum quorundam

orationum Ciceronis quae invenimus in monasterio Sancti Galli quod XV milibus passuum a Costantia remotum est. τέλοσ X Kal. Aug. MCCCCXVII Costantiae.

Considerato ciò, Sabbadini si trova in contrasto con Stangl, il quale nella sua edizione descrive il Forteguerriano come quel codice a Sozomeno ex ipso archetypo

Sangallensi translatus7. Per Giarratano, invece, la congettura di Sabbadini appare abbastanza plausibile8.

4 Cfr. Giarratano, op. cit., pp. viii-ix; per la descrizione del Sangallensis vedi anche Clark, op. cit., p.

xi.

5

Giarratano, art. cit., pp. 195-196.

6 Sabbadini R., La biblioteca di Zomino da Pistoia, “RFIC”, 1917, pp. 198-200. 7 Stangl T., Ciceronis orationum scholiastae, Hildesheim, 1964, p. 6.

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7

I primi che si interessarono a questo codice furono Sch ll (nel 187 lo studiò e trascrisse e iessling che pubblicarono un’edizione di Asconio nel 1875. Giarratano, consapevole che né prima di allora né in seguito il codice era stato esaminato, nel 1905, trovandosi a Pistoia, volle confrontare la copia di Sch ll con il codice stesso: riscontrandovi degli errori di trascrizione volle correggerli, e di questi riporta una lista9.

Il codice P, dal quale discende gran parte della tradizione manoscritta a nostra disposizione10, è quello al quale nel tempo si è prestata maggiore attenzione. Questo manoscritto, infatti, non era stato ancora tenuto in considerazione prima che Knust esaminandolo ritenesse di avervi trovato l’apografo di Poggio11

, ma la sua ipotesi si basava esclusivamente sul contenuto della subscriptio di questo codice che è la seguente: Hoc fragmentum repertum est in Monasterio St. Galli prope Constantiam

XX milibus passuum una cum parte Asconii Pediani. Deus concedat alteri ut utrumque opus reperiat perfectum, nos quod potuimus egimus. Poggius Florentius.

iessling e Sch ll, dal canto loro, si rifiutarono di attribuire importanza a tale

subscriptio, come prova fondamentale per determinare la paternità di questo codice,

in mancanza di una prova che ne garantisse la genuinità12. La questione ovviamente rimase aperta e altri tentarono di capire quale valore attribuire al Madrileno: tra questi rohn, che esaminando altri manoscritti attribuiti all’umanista fiorentino, credette di poter riconoscere nel codice in questione la mano di Poggio13.

Il primo ad utilizzare il codice P nella propria edizione fu Clar , il quale ne riconobbe il grande valore. Prendendo in considerazione tra alcuni degli apografi poggiani, usati da iessling e Sch ll nella loro edizione, quelli migliori, ovvero Pa (soc. Colomb. fiorent. B 7), Pl (Leidense n. 222), π (Parig. 7832), e soprattutto Pb (Laurenz. pl. 50,4) che si è dimostrato copia diretta del Madrileno, concluse che P,

9 Cfr. Giarratano, art. cit., pp. 196-197.

10 Se si esclude, infatti, il Parigino 7833, di cui si è occupato Clark dimostrando che la sua origine

deriva dall’apografo di Sozomeno, tutti gli altri codici di Asconio derivano da P (cfr. Clar , op. cit., pp. xiv-xv e art. cit., p. 301).

11 Cfr. Clark, art. cit., p. 301 e op. cit., p. xvii; Giarratano, op. cit., p. x. A differenza delle copie di

Sozomeno e Bartolomeo, il caso volle che la copia di Poggio andasse perduta; prima delle dovute ricerche e degli esami di valutazione fatti dagli studiosi, che intanto nelle loro edizioni si erano affidati agli altri codici della famiglia poggiana, non si conosceva il Madrileno né il suo valore, sia come discente più antico della famiglia poggiana, sia come apografo di Poggio stesso.

12 Cfr. Clark, art. cit., p. 301 e op. cit., p. xvi ss. 13 Cfr. Clark, op. cit., p. xix; Giarratano, art. cit., p. 204.

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era il più antico rappresentante della famiglia poggiana14. Non poté però affermare con altrettanta certezza che il codice era stato scritto da Poggio stesso, sebbene fosse altamente probabile, secondo lui, che le note al margine fossero di mano poggiana. Il codice, infatti, mostra diverse correzioni, note interlineari e marginali diverse tra loro per il tracciato delle lettere e il colore dell’inchiostro, e benchè sia difficile distinguere le diverse mani, la maggior parte delle congetture si crede siano dello stesso Poggio15.

Anche Giarratano in seguito, esaminato il codice e gli apografi poggiani, alcuni dei quali non ancora indagati, si mostrò concorde con la congettura di Clark, preoccupandosi di precisare un fenomeno, ignorato da quello. Giarratano notò, infatti, che in molti punti ‹‹la prima mano del Madrileno riproduce la lezione del Forteguerriano, poi la stessa o una seconda mano corresse la lezione del Madrileno e tutti gli altri codici della famiglia Poggiana, almeno quelli finora editi, riproducono solo la lezione corretta […]››16

. Considerato ciò, fu portato a fare due ipotesi. La prima, che il Madrileno derivasse dal Forteguerriano: ipotesi poco probabile se si considera che il Forteguerriano ha lacune che il Madrileno non ha; la seconda, che entrambi derivino dallo stesso codice, che però non può essere il Sangallensis17. Queste considerazioni furono fatte da Giarratano prima di aver finito di collazionare tutti i manoscritti della famiglia poggiana (1906); solo in seguito, nella prefazione alla sua edizione di Asconio (19 0 , egli si mostra totalmente d’accordo con la congettura di Clark, considerando il Madrileno sicuramente come il rappresentante più antico della famiglia poggiana, e tenendolo in considerazione come fosse l’apografo di Poggio.

Non va trascurato, inoltre, un altro elemento riguardo al Madrileno X 81. Il codice, che oltre al testo di Asconio conteneva anche la Cronaca del monaco Sigiberto e le Argonautiche di Valerio Flacco, quando fu trovato nella biblioteca di Madrid era unito ad un altro codice, siglato M 3118, contenente gli Astronomica di Manilio e le

Silvae di Stazio, opere che furono scoperte dallo stesso Poggio nel 1417. I due codici

14 Cfr. Clark, art. cit., pp. 301-302. 15 Cfr. Giarratano, op. cit., p. ix-x. 16

Giarratano, art. cit., p. 204.

17 Ibidem, pp. 204-205.

18 Per la descrizione di M 31 vedi Clark, op. cit., pp. xvii-xviii, xxix-xxxi; cfr. Clark, art. cit., pp.

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hanno quasi stessa forma e dimensione, sono numerati come I e II, e il primo foglio di M 31 riporta una lista delle opere in essi contenute: Manilii Astronomicon, Statii

Papinii Sylvae, Asconius Pedianus in Ciceronem, Valerii Flacci nonnulla. Si può

notare come tale lista sia priva del riferimento a Sigiberto, oltre al fatto che qualcuno ha cancellato i nomi di Asconio e Valerio Flacco con una linea obliqua. Clark ha ritenuto che al tempo in cui fu scritto l’indice delle opere contenuto in M 31 Sigiberto non era ancora stato aggiunto19: mentre, infatti, Asconio e Valerio sono stati scritti dalla stessa mano, abbastanza velocemente (forse da Poggio, ma su questo Clark non si espone), Sigiberto è stato scritto da una mano diversa dalla precedente. I due codici sono stati nel tempo ora separati, ora di nuovo uniti, studiati e analizzati da diversi eruditi. L’analisi condotta da Clar su M 31 lo ha portato a credere che, benché fosse in origine unito al Madrileno X 81, esso sia stato redatto da uno scriba diverso da quello che scrisse X 81 e che si ipotizza possa essere una mano tedesca, piuttosto inesperta, anche se alcune delle correzioni alle Silve sono state fatte da uno degli scribi di X 81. Proprio per le Silve di Stazio il codice in questione è molto importante: è la nostra unica fonte, o per meglio dire, è il codice dal quale discendono tutti gli altri, come ha dimostrato Klozt nella sue edizione20.

Il codice M conserva la copia del Sangallensis fatta da Bartolomeo da Montepulciano, che fu compagno e aiutante di Poggio nella ricerca dei codici a S. Gallo. Benché il testo sia quello di Bartolomeo, il codice non è la copia manoscritta dell’umanista, ma copia di una trascrizione di questa redatta da un copista poco erudito, che qua e là ha apportato qualche correzione. Si può dedurre, inoltre, da una serie di correzioni e interpolazioni, le stesse che si trovano nel codice P, che Bartolomeo si servì dell’esemplare poggiano quando trascrisse la sua copia, per riempire le lacune presenti nel Sangallensis21; inoltre tentò di correggere le parole dell’archetipo.

Considerati questi elementi, il codice rispetto agli altri due è stato poco tenuto in considerazione da Giarratano, sebbene, egli affermi che in alcuni punti ha delle

19 I fogli contenenti Asconio e Flacco erano di dimensioni maggiori prima che si unissero ad essi

quelli contenenti Sigiberto, infatti, furono leggermente tagliati ai bordi (cfr. Clark, op. cit., p. xviii; Giarratano, op. cit., p. x).

20 Cfr. Clark, op. cit., pp. xviii e xxx. 21 Cfr. Giarratano, op. cit., p. xiv.

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ottime lezioni proprie; anche Clark, per le stesse considerazioni, ha affermato che l’autorità di M, rispetto a quella di P ed S, è di gran lunga minore22

.

I commenti

I commenti di Asconio oggi a noi pervenuti, riguardano cinque delle orazioni ciceroniane, trasmessi in quest’ordine: in Pisonem (55 a.C.), pro Scauro (54 a.C.),

pro Milone (52 a.C.), pro Cornelio (65 a.C.) e in toga candida (64 a.C.); un ordine di

trasmissione che non risponde ad un criterio cronologico, quale doveva essere all’origine. È difficile capire i motivi o gli eventi che hanno determinato questa situazione, ma sono state proposte da Madvig due possibili spiegazioni. La prima è che colui il quale ha copiato il codice lo abbia fatto servendosi non di una, ma di più copie, così come gli venivano tra le mani; l’altra è che il codice sia stato smembrato e che le parti poi siano state riassemblate o da Poggio o da un altro prima di lui così da ottenere l’ordine attuale23

. La spiegazione più semplice, come fa notare Marshall, potrebbe consistere nel fatto che il codice sia stato copiato frettolosamente: Poggio stesso nella lettera a Guarino Veronese scrive haec mea manu transcripsi et quidem velociter…24.

Lo stesso Marshall ha considerato sorprendente che Asconio, dato l’elevato numero di orazioni ciceroniane che doveva sicuramente conoscere, ne abbia selezionato e commentato un numero così esiguo25. Tale stato di cose, dunque, ha portato ad una congettura: si è pensato che i commentari possano essere incompleti, o che esistano altri commenti alle orazioni ciceroniane scritti da Asconio26. A sostegno di questa congettura sono state fornite delle prove sia esterne, sia interne al testo. Per quanto riguarda le prime, esiste un riferimento ad un commento alla Pro Roscio Amerino in un passo delle Noctes Atticae di Gellio (15.28.4) in cui egli cita Asconio che critica

22 Ibidem, pp. xiv-xv; cfr. Clark, op. cit., pp. xxxi-xxxii. 23

Cfr. Madvig J.M., De Q. Asconii Pediani et aliorum veterum interpretum in Ciceronis orationes commentariis, Disputatio critica, Hauniae, pp. 32-33.

24 Cfr. Marshall B.A., A historical commentary on Asconius, Columbia, 1985, p. 1.

25 Ibidem, op. cit., p. 2; anche Lewis (Commentaries on speeches of Cicero, Oxford, 2006, p. xii)

argomenta a proposito dell’incompletezza dei commentari asconiani.

26

L’autore dei commentari sembra tra l’altro essersi dedicato alla stesura di altre opere come una biografia di Sallustio e un’opera contro i detrattori di Virgilio, secondo quanto noi possiamo apprendere da Donato (Vit. Verg. 57 , ma i commentari sono l’unica opera superstite a nostra disposizione.

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Fenestella poiché ha fornito l’età sbagliata di Cicerone27

; un altro riferimento da parte di un chierico del XV secolo è relativo alla scoperta di un manoscritto con i commenti di Asconio ad otto orazioni ciceroniane, cosa che, se non è un errore, potrebbe condurre alla possibilità che ci sia stata una perdita nella trasmissione del testo28.

Rispetto a questi riferimenti esterni, è forse più utile, per la questione, considerare alcuni punti interni al testo in base ai quali si può congetturare l’esistenza di ulteriori commenti asconiani alle orazioni ciceroniane. In particolar modo, Marshall distingue in due categorie la tipologia di prove interne al testo: riferimenti in cui è possibile leggere un rinvio ad una o più orazioni commentate da Asconio, e prove che si configurano come “rimandi al lettore”, che sembrano indicare passi di altri testi commentati, attraverso l’uso di parole o frasi “formulari”29

. Per fare un esempio concreto di rimandi al lettore possiamo prendere in considerazione un passo del commento alla Pro Milone (39.24 St.): L. Cassius fuit, sicut iam saepe diximus,

summae vir severitatis. In questo passo troviamo l’uso della formula sicut iam saepe diximus, che è quella più ricorrente, e si riferisce in questo caso a L. Cassio,

menzionato per la sua onestà e il suo rigore. Come suggerisce Stangl, il riferimento a L. Cassio può essere incrociato con i passi di altre orazioni in cui si trova lo stesso riferimento, quali Rosc. Am. 84, Verr. 1.30 e 2.3.137, Cluent. 107 and Sest. 10330. In particolare, proprio la pro Roscio, che contiene tra l’altro la famosa frase di Cassio

cui bono, è quella che rispetto alle altre orazioni citate potrebbe fornire una prova più

consistente del fatto che Asconio avrebbe commentato questa e le altre.

27 Cfr. Marshall, op. cit., p. 11; Madvig, op. cit., p. 22.

28 Lewis, op. cit., p. xii: a proposito di questo riferimento Lewis non aggiunge altro, non cita neppure

la sua fonte, ma si mostra convinto dell’esistenza di ulteriori commenti asconiani alle orazioni ciceroniane, e insinua la possibilità dell’incompletezza dell’opera a noi oggi pervenuta. Se si presta attenzione, infatti, alle parole contenute nella lettera che Poggio scrisse a Guarino Veronese (vedi n. 3 , l’umanista dice di aver trovato a S. Gallo expositiones tamquam thema quoddam super octo Ciceronis orationibus Q. Asconii Pediani; mentre Cincio Romano parla di aliquot oreationes Ciceronis, non definendo il numero delle orazioni commentate da Asconio. Tra l’altro, nella subscriptio del Madrileno X 81, Poggio scrive che quella che è stata trovata è una parte di Asconio. Risulta complicato conciliare queste affermazioni con quello che la tradizione manoscritta alla quale noi possiamo attingere, ci ha trasmesso: solo cinque commenti asconiani alle orazioni di Cicerone (o sei, se si considera che il commento alla Corneliana è diviso in due parti).

29 Cfr. Marshall, op. cit., pp. 2 ss.: ci offre una lista dettagliata delle due tipologie di prove interne al

testo.

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Non abbiamo, dunque, nulla di certo o concreto per poter affermare con certezza che Asconio abbia scritto ulteriori commenti alle orazione ciceroniane, oltre a quelli che la tradizione manoscritta ci ha tramandato, ma sicuramente i riferimenti interni ed esterni al testo insinuano questa possibilità. E Marshall sembra essere convinto di questa congettura, tanto da affermare che per Asconio sarebbe stato opportuno commentare più di cinque orazioni, considerato lo scopo con cui deve aver scritto quest’opera, ovvero spiegare ai propri figli le orazioni di Cicerone31

.

A questo punto, però, è utile considerare il tempo di composizione dei commentari. Non possiamo attingere a nessun’altra fonte che non sia lo stesso Asconio per determinare, o ipotizzare, la data di composizione dei commentari. Questa, infatti, è stata dedotta in base ad un punto del testo asconiano, pro Scauro 27.28 St.: possidet

eam nunc Largus Caecina, qui consul fuit cum Claudio. Asconio ci informa che la

casa di Scauro era stata comprata da Largo Cecina, console insieme a Claudio. Quest’ultimo è l’imperatore Claudio morto nel 54. Se Asconio si riferisce a lui senza alcuna specificazione del tipo Imperatore o simili vuol dire che Claudio era già morto; al contrario, Cecina era ancora vivo (nunc) al tempo in cui Asconio scrisse il commento32. Poiché la morte di Cecina è collocata nel 57, si deduce che la composizione dei commentari deve essere datata tra il 54 e il 57, e questo è un dato assodato.

Ma qualora prendessimo in considerazione un altro passo, e per la precisione in toga

candida 69.29-30 St.: ne tamen erretis, quod iis temporibus aedes Apollinis in Palatio sit nobilissima…, la data di composizione cambierebbe. Prima di affrontare

la questione bisogna considerare un elemento prettamente filologico: le lezioni dei codici P, S ed M, in questo punto divergono. Mentre P e M hanno sit, lezione accettata da Stangl, S ha fuit, lezione accettata da iessling e Sch ll e da Clar 33. Se tenessimo conto della lezione di S, Asconio si riferirebbe al tempio di Apollo al passato, cosa che indicherebbe che il tempio era stato distrutto nell’incendio del 64. Fatte queste considerazioni, si deduce che il commento a questa orazione fu scritto dopo tale data. Ma allo stesso tempo quest’argomentazione appare poco plausibile: un tempo di composizione così lungo entra in contraddizione con lo scopo di

31 Questo argomento verrà affrontato in seguito; cfr. Marshall, op. cit., p. 2. 32 Cfr. Madvig, op. cit., pp. 4-5; Marshall, op. cit., pp. 28-29.

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Asconio, che scrive i commenti per i suoi figli in un momento preciso della loro educazione scolastica34. Tenendo conto della lezione di P e M il problema non si pone.

Pertanto la data di composizione dei commentari rimane compresa tra il 54 e il 57, un periodo di tempo piuttosto breve.

L’autore

A questo punto, sarebbe opportuno cercare di avere un’idea, se non chiara quantomeno non confusa, sulla figura di Quinto Asconio Pediano.

Abbiamo a disposizione diverse fonti che in qualche modo citano Asconio, ma non sempre da queste è possibile ricavare informazioni utili e chiare. Scarse sono, infatti, le notizie relative alla sua vita, oltre al fatto che in alcuni casi ci sono dei dubbi circa la loro interpretazione35.

Innanzitutto è problematico individuare le date di nascita e morte, ma allo stesso tempo è importante, perché funzionale alla comprensione dello scopo dell’opera. Punto di partenza è la notizia fornita da S. Girolamo, che a sua volta dipende da Svetonio, il quale al settimo anno del regno di Vespasiano, il 76, annota: Q. Asconius

Pedianus scriptor historicus clarus habetur, qui LXXIII aetatis suae anno captus luminibus, XII postea annis in summo omnium honore consenescit. Asconio, dunque,

nel 76 divenne cieco all’età di settantatré anni, e visse ancora per dodici anni come personaggio illustre. Da ciò si deduce che era nato nel 3 d.C. e morto nell’88, cronologia a sostegno della quale si è pronunciato Madvig, seguito da Benario e da Marshall36. Una cronologia, tra l’altro, del tutto coerente con il periodo di composizione dei commentari: Asconio avrebbe dunque scritto sotto il regno di Nerone, quando era un cinquantenne e i suoi figli erano ancora adolescenti.

Clar invece, seguito da Lewis, è di tutt’altro parere, e propone una cronologia diversa, secondo la quale Asconio sarebbe nato nel 9 d.C., sarebbe diventato cieco

34 Ibidem, p. 29. 35

Vedi per esempio, più avanti, la notizia di S. Girolamo: a seconda dell’interpretazione di questa, le date di nascita e morte di Asconio variano, così come varia la posizione degli studiosi.

36 Cfr. Madvig, op. cit., pp. 5-6; Marshall, op. cit., pp. 27-28; Benario H.W., Asconiana, “Historia:

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nel 64 e morto nel 76 all’età di ottantacinque anni37

. Clark, infatti, interpreta diversamente da Madvig la notizia di S. Girolamo: per lui captus luminibus non farebbe riferimento alla cecità di Asconio, bensì alla morte38.

Considerate le cronologie proposte, in entrambi i casi la determinazione dell’anno di morte si scontrerebbe con la notizia fornita da Plinio il Vecchio, che in riferimento ad Asconio parla di un uomo molto longevo, dell’età di 110 anni (Nat. Hist. 7.159). Per questo motivo si comprende che, al di là delle prove fornite a supporto dell’una e dell’altra cronologia, non è possibile avere la certezza assoluta sulle date di nascita e morte di Asconio, poiché le fonti a nostra disposizione sono in alcuni casi in contrasto.

L’origine padovana di Asconio è invece un fatto assodato: ancora una volta, però, lo si deduce da fonti e notizie non esplicite, ma che forniscono comunque una valida prova.

Asconio stesso, per esempio, quando fa riferimento a Livio, una delle sue fonti, lo definisce Livius noster (60.15 St.), non perché, come è stato precedentemente congetturato, tra Asconio e Livio ci fosse un rapporto d’amicizia (Asconio era un bambino quando Livio morì : piuttosto l’appellativo noster indicherebbe una patria comune39. Anche Quintiliano, infatti, ci informa di aver appreso da Pediano l’uso di Livio di scrivere sibe e quase, uso al quale era abituato Asconio stesso40.

Infine, Silio Italico sembra avergli dedicato questi versi dai quali si deduce l’origine padovana del commentatore: iuvenis Pedianus in armis/ bella agitabat atrox,

Troianaque semina et ortus/ atque Antenorea sese de stirpe ferebat (Punica 12,

212-214); seu bella cieret/ seu musas placidas doctaeque silentia vitae/ mallet et Aonio

plectro mulcere labores,/ non ullum dixere parem; nec notior alter/ gradivo iuvenis

37 Clark, op. cit., p. vi; Lewis, op. cit., xi. 38

Ibidem, Clark.

39 Cfr. Madvig, op.cit., p.15. Tra l’altro Madvig fa notare che se Asconio fosse vissuto insieme a

Livio, e quindi al tempo di Augusto, da avido ricercatore di documenti, quale si dimostra viste le sue fonti, avrebbe potuto avere accesso agli stessi documenti di Livio piuttosto che servirsi di questo come fonte.

40 Cfr. Quintiliano, Institutio oratoria 1.7.24: sibe et quase scriptum in multorum libris est, sed an hoc

voluerint auctores nescio: T. Livium ita his usum ex Pediano comperi, qui et ipse eum sequebatur. A proposito di quanto riferisce Quintiliano, Marshall (op. cit., p. 26 n. 1) fa notare che in realtà né nei testi di Livio, né in quelli di Asconio si riscontra l’uso di questa particolare grafia. Si dovrebbe allora pensare che Quintiliano abbia potuto apprenderlo direttamente da Asconio in persona; e infatti, quando egli riferisce di aver ascoltato qualcosa da qualcuno molto più grande di lui, tende a precisare anche che ciò era avvenuto quando era un adolescente (cfr. Madvig, op. cit., p. 9).

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nec Phoebo notior alter (Punica 12, 218-222). Silio, dunque, scrive di un giovane

chiamato Pediano che non aveva rivali né in battaglia né quando si dedicava agli studi. I suoi versi ci suggeriscono, inoltre, un’origine nobile di Asconio, che potrebbe, infatti, essere appartenuto all’ordine equestre e aver ricoperto la carica di senatore, cosa che spiegherebbe a sua volta la possibilità di accedere a documenti quali Acta o leges ai quali fa spesso riferimento, ma soprattutto la familiarità con i processi politici e le procedure senatoriali di cui fornisce una spiegazione nei suoi commenti41.

A questo punto si può concludere che l’immagine che emerge di Asconio è quella di un uomo colto, che visse durante l’età Giulio-Claudia e Flavia, coinvolto nella vita pubblica e dedito agli studi, il cui frutto sono i Commentari, compendio dei suoi interessi e delle sue ricerche sulla storia di Roma.

Scopo dell’opera

La notizia di S. Girolamo, riportata sopra, oltre a fornirci informazioni circa il periodo in cui Asconio visse, ci dice anche che il nostro commentatore era un

historicus, tra l’altro clarus. In base a questa definizione dobbiamo pensare ad

Asconio non come ad uno “scrittore di storia”, accezione per la quale esiste un termine più specifico che è quello di historiographus, bensì semplicemente come “storico”, “colui che ha interesse per la storia”. È ovvio che Asconio non sia uno storiografo, poiché è chiaro che non scrive storia, ma l’approccio ai suoi commentari è principalmente di questo tipo.

Come commentatore del testo ciceroniano, Asconio sembra dare informazioni di tipo linguistico o sulla tecnica retorica, ma allo stesso tempo mostra di avere un interesse diverso da quello che poteva avere un commentatore del suo tempo, ovvero un

grammaticus, interessato alla lingua e allo stile di un testo42. Asconio non era di certo un maestro di scuola, poiché non c’è nulla che dimostri che fosse interessato allo studio della grammatica a scopo didattico43, così come non sembra che ai suoi tempi ci fosse ancora un interesse di tipo scolastico nei confronti dei testi di Cicerone, né

41 Cfr. Marshall, op. cit., pp. 26 ss.; Lewis, op. cit., p. xi. 42 Cfr. Lewis, op. cit., p. xiii.

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per lo studio della grammatica, né per lo studio della retorica44. Nei suoi commentari, infatti, l’esposizione è principalmente orientata al contesto storico e politico, ai personaggi, all’urbanistica, alle procedure politiche e processuali dell’ultima fase repubblicana di Roma, piuttosto che alla lingua e allo stile45.

Asconio, però, introduce i commenti alle orazioni ciceroniane, dopo l’argumentum, con il termine enarratio, una delle quattro parti in cui si divide l’ars grammatica, mostrandosi in linea con i principi di insegnamento enunciati da Varrone e Quintiliano. Il termine enarratio implica un’esposizione narrativa, e ricorre nella

Rhetorica ad Herennium con il significato di “narrazione di eventi” (Rhet. Her.

4.55.69 , mentre in Varrone con il significato di “spiegazione di un testo” (frg. Diom. gramm. I.426.22) e come compito del grammaticus. Anche per Quintiliano l’enarratio poetarum è compito del grammaticus (Inst. 1.4.2), ma lo estende all’insegnate di retorica (Inst. 2.1.5)46

. Utilizzando dunque questo termine, Asconio, anche se non in veste ufficiale di insegnante di grammatica o di retorica, mostra, attraverso la struttura dei commentari, di aver scritto questi con un intento che possiamo definire formativo-didattico. In un contesto in cui ormai la pratica di scrivere annotazioni e commenti ai principali autori della letteratura classica era ben consolidata, anche Asconio ha voluto cimentarsi in essa. Ma se non ha scritto i commentari in qualità di insegnante, a chi erano indirizzati? Come già anticipato, Asconio stesso mostra di aver scritto questi commentari per i suoi figli, i quali vengono direttamente nominati in un passo del commento alla Pro Milone (38.22 St.): quid sit dividere sententiam, ut enarrandum sit, vestra aetas, filii, facit. Il commentatore, in questo punto, spiega ai figli una determinata procedura politica che consiste nel dividere sententiam. Si tratta di un passo importante perché ci permette di congetturare l’età dei figli di Asconio (l’uso del plurale filii indica che dovevano essere almeno due, e più o meno coetanei) e di conseguenza il suo scopo.

La necessità di dover spiegare ai figli il significato di dividere sententiam implica che essi fossero troppo piccoli per poter essere a conoscenza di questa procedura. A tal

44 Marshall, op. cit., p. 34.

45 Questo tipo di orientamento storico riscontrabile nei commentari asconiani ha permesso a Madvig,

per primo, di poter affermare che al contrario non potevano essere di paternità asconiana i commenti alle Verrine (che nel Sangallensis seguivano i Commentari alle orazioni ciceroniane), il cui commentatore, al contrario di Asconio, “non historicus est, sed rhetoricus et grammaticus” (Madvig, op. cit., p. 90: in generale, per la questione dello Pseudo-asconio vedi pp. 84 ss.).

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proposito, Marshall ha fatto delle considerazioni, che possono essere riassunte nel seguente ragionamento. E’ molto probabile che informazioni sulle procedure politiche e processuali fossero apprese dai giovani durante il tirocinium fori, il periodo di formazione pratica negli affari della vita pubblica, che prevedeva che i giovani venissero affiancati ad una figura pubblica esperta dopo aver indossato la toga virile, cosa che avveniva all’età di circa quindici o sedici anni47

. Il tirocinium

fori, poi, corrispondeva come momento di formazione nella vita di un giovane

romano al terzo livello dell’educazione scolastica, lo studio della retorica.

Se i figli di Asconio necessitano che sia loro spiegata una procedura politica di questo tipo, significa che dovevano essere piuttosto giovani, alla fine dell’adolescenza, in quel momento in cui si indossa la toga la virile, ha inizio il

tirocinium fori e si inizia a studiare retorica. E poiché proprio lo studio della retorica,

secondo l’idea di Cicerone, prevedeva di basarsi su un’ampia conoscenza culturale, compreso lo studio delle leggi e della storia, possiamo concludere che Asconio tentò di colmare dei vuoti nella formazione dei suoi figli utilizzando sia un approccio retorico, anche se minimo, sia un approccio prettamente storico48.

Tra l’altro, se consideriamo che nei commentari si trovano molti riferimenti all’urbanistica, e in particolar modo Asconio si preoccupa di precisare il luogo in cui era avvenuta la strage di Clodio (42.25 St.), si deduce che i suoi figli non avevano mai visto Roma49, e che quindi furono educati a Padova, dove è probabile che fosse stato difficile trovare insegnanti qualificati, in grado di fornire loro una piena e completa formazione culturale50. Detto ciò, le considerazioni di Marshall circa il fatto che Asconio tenti di colmare i vuoti nella formazione dei propri figli appaiono più che probabili.

Risulta chiaro, allora, che l’opera di Asconio può essere meglio compresa se inquadrata in un fine ben preciso, quello di scrivere e dedicare un’opera ai propri figli per fornire consigli e aiuto per la loro formazione; una pratica, quella di scrivere opera di consiglio ad un figlio, ormai consolidata (lo avevano fatto, per esempio, Catone il vecchio, Bruto, e lo stesso Cicerone)51.

47 Cfr. Marshall, op. cit., p. 33. 48

Ibidem, p. 35-36.

49 Cfr. Madvig, op. cit., p. 18. 50 Marshall, op. cit., p. 36.

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Per quanto riguarda, invece, la scelta di commentare le orazioni di Cicerone, è utile considerare quanto affermato da Madvig, secondo il quale durante il primo periodo imperiale commenti di tipo storico come quelli alle orazioni di Cicerone sono frutto del desiderio di comprendere meglio cosa fosse o significasse istituzionalmente la repubblica, visto l’importante cambiamento istituzionale che era avvenuto con il principato augusteo52.

A maggior ragione, allora, si spiega la limitata selezione delle orazioni, nonché dei passi scelti per il commento e in particolar modo, tra le orazioni selezionate, proprio della Pro Milone, la migliore delle orazioni ciceroniane (37.16-17 St.), interessante anche perché offre la possibilità di spiegare procedure processuali e legislative importanti, e far luce su personaggi fondamentali per la comprensione dei processi che portarono alla fine della Repubblica.

Rimane comunque aperta una questione: considerato che il tempo di composizione dei commentari è piuttosto breve e considerato lo scopo, come avrebbe potuto Asconio scrivere più commenti di quelli a noi oggi pervenuti? La questione è destinata a rimanere aperta, poichè oltre ai commentari a noi oggi pervenuti non abbiamo prove certe dell’esistenza di ulteriori commenti asconiani alle orazioni di Cicerone. Tuttavia non si può mettere in dubbio che l’intera opera contenga dei rimandi ad altri commenti alle orazioni ciceroniane, almeno studiate da Asconio, ma non inserite nell’opera a noi pervenuta, e che l’autore può aver fatto conoscere ai propri figli per altre vie che non ci è dato conoscere. Se si vuole prestar fede agli elementi che indirizzano verso la possibilità che Asconio abbia commentato più orazioni di Cicerone, si potrebbe credere che il commentatore abbia voluto appositamente selezionare le cinque orazioni a noi pervenute perché più pertinenti al suo scopo, e abbia commentato le altre con uno scopo diverso.

La Pro Milone: un processo molto speciale

Tra le orazione commentate da Asconio, la Pro Milone desta particolare interesse per diversi motivi: la vicenda, che vide coinvolti importanti personaggi della scena politica del tempo, come Cicerone, Milone, Clodio, Pompeo e altri, e il cui ruolo

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ebbe notevoli ripercussioni sulla crisi della repubblica; la lunghezza dell’argumentum che precede il commento, che rispetto a quello delle altre orazioni commentate da Asconio, oltre ad essere il più lungo, è anche quello più dettagliato, a tal punto che si potrebbe pensare che Asconio stesso fosse particolarmente interessato a commentare questa orazione, sia perché, come egli stesso afferma, è il migliore esempio di retorica, sia per la vicenda storica, che è utile per far luce su alcuni aspetti ed eventi che contribuirono al collasso del sistema repubblicano53; la definizione dell’orazione come il migliore esempio di retorica (ita perfecte, ut iure

prima haberi possit); la discussa interpretazione di excepta oratio e le due versioni

dell’orazione54

.

Turbolenti furono gli anni 53-52 a.C. per la città di Roma. Vigeva una situazione di totale anarchia: violenza e corruzione avevano impedito il normale svolgimento delle attività politiche, rendendo impossibile convocare le assemblee popolari per eleggere i magistrati. Per questo motivo all’inizio del 52 a.C. non erano ancora stati designati né consoli, né pretori, né prefetti, e l’anno era cominciato senza che a Roma ci fossero dei magistrati55. In una situazione in cui la città era sprovvista di magistrati curuli, in base alla costituzione, doveva essere istituito l’interregnum56, che prevedeva che il potere si trasferisse nelle mani dei senatori perché si avvicendassero nella carica di interrex. Pompeo, però, spalleggiato dal tribuno della plebe T. Munazio Planco, ritardava la convocazione dei senatori che si dovevano occupare dell’elezione dell’interrè (Asconio 30. 3-31.1 St.). Nel tumulto generale, il 18 gennaio, Milone e Clodio, i due ‘campioni’ delle due avverse fazioni che si contendevano il potere a Roma, gli optimates e i populares, viaggiando lungo la via Appia, con i loro rispettivi seguiti di uomini in armi, si scontrarono ingaggiando una lotta. La banda di Clodio ebbe la peggio: egli stesso venne trucidato e il suo cadavere abbandonato sul ciglio della strada57. Di questo tragico evento fu profeta Cicerone, il quale già da tempo, aveva previsto il comportamento di Milone, vedendo in lui non

53 Ibidem.

54 Vedi commento al punto 37.14-17 St. pp. 111 ss. 55

Cfr. Cassio Dione 40.46.3.

56 Per gli aspetti costituzionali di questo istituto vedi commento al punto 30.23-31.1 St. pp. 77-78. 57 Per il resoconto di questi eventi e di quelli che seguirono si veda, in particolare, Asconio

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solo un tenace oppositore, ma anche l’uccisore di Clodio58

. Il cadavere di Clodio, scoperto dal senatore Sesto Teidio che per caso passava da quelle parti, fu trasportato a Roma dove venne accolto da una folla indignata per l’accaduto, e che incitata dai tribuni della plebe T. Munazio Planco e Q. Pompeo Rufo trasportò il corpo martoriato all’interno della curia, dove venne allestita la pira funeraria per le esequie funebri. Divampò un incendio che dalla curia si estese alla basilica Porcia, creando il panico tra la folla e generando una serie di tumulti che portarono all’attacco della casa dell’interrè M. Lepido (che, intanto, nonostante i tumulti era stato nominato) e dello stesso Milone. L’infuocato susseguirsi di questi tragici eventi e la necessità di ristabilire l’ordine e la pace portò il senato a ricorrere ad un’unica strategia difensiva: l’elezione di Pompeo a consul sine collega. Trascorsi tre giorni dall’elezione, Pompeo propose due leggi, che in seguito furono approvate, una era la lex Pompeia

de vi, l’altra la lex Pompeia de ambitu. Entrambe prevedevano una procedura

processuale più breve e un inasprimento della pena59, ma in particolare con la prima si andavano a punire l’omicidio di Clodio, l’incendio della curia e l’attacco alla casa dell’interrè M. Lepido; con la seconda la corruzione elettorale60

. A nulla era valso il veto del tribuno della plebe M. Celio (studiosissimus Milonis), il quale aveva evidenziato l’illegalità della lex de vi, poiché si trattava di un privilegium, cioè di una legge ad personam, cosa che violava le antiche disposizioni delle Dodici Tavole che proibivano provvedimenti di questo tipo61. Da parte di Pompeo, che in quel momento dominava la scena politica, c’era probabilmente la volontà di sbarazzarsi anche di Milone62, una volta che Clodio non costituiva più un problema63; anzi, quasi

58 Cfr. Cic. Att. 4.3.5 e de haruspicum responsis §§ 6-7. 59

Asconio 34.5-6 St.; Greenidge A.H.J., The legal procedure of Cicero’s time, New York, 1971 (I ed. Londra 1901), p. 392: la brevità delle procedure consisteva nel fatto che i testimoni dovessero essere ascoltati per tre giorni e che le arringhe occupassero un unico giorno; Husband R.W., The prosecution of Milo. A case of homicide with a plea of self-defense, “The Classical Wee ly”, Vol. 8 (19 , 1915, p. 147-148: la lex de vi secondo la pena ordinaria prevedeva l’interdictio aquae et ignis oppure l’esilio dall’Italia, mentre, secondo la nuova legge di Pompeo, la confisca delle proprietà e insieme l’esilio; la lex de ambitu, invece, che prevedeva l’esilio per dieci anni, ora lo estendeva a vita.

60

Asconio 34.1-7 St.; cfr. anche 36.2-8 St. per la spiegazione delle procedure prescritte dalla lex de ambitu.

61 Asconio 34.8; cfr. Husband, art cit., p. 148; Lintott A.W., Cicero and Milo, “The Journal of Roman

Studies”, Vol. 64, 1974, p. 70.

62 Cfr. Asconio 45.14-15 St. Per quanto il comportamento di Pompeo nei confronti di Milone possa

apparire sospetto, Appiano e Dione ci informano che moltissimi, non soltanto Milone, furono colpiti dalle nuove leggi da lui emanate, in particolare dalla lex de ambitu (Appiano 2.23.87, 2.24; Dione 40.52.1). Dice bene Settle (The Trial of Milo and the other "Pro Milone", “Transactions and Proceedings of the American Philological Association”, Vol. 94, 1963, p. 74 quando afferma che

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sicuramente, la candidatura al consolato di Milone aveva rappresentato una minaccia a suoi piani di dominio. Da una delle lettere di Cicerone, infatti, si deduce che Pompeo stava maturando l’idea della dittatura64, e che Milone fosse d’intralcio è

suggerito anche dal fatto che Pompeo stesso aveva ostacolato l’elezione di un

interrex, consapevole che Milone avrebbe avuto la meglio sugli altri due candidati

che aspiravano al consolato, Q. Metello Scipione e P. Plauzio Ipseo65, grazie alle elargizioni di denaro fatte al popolo a scopo di corruzione66. Tra l’altro, quando Milone aveva cercato l’incontro con Pompeo, pronto a desistere dalla sua candidatura al consolato, quello si era sottratto a qualsiasi tipo d’incontro, mostrandosi timoroso nei confronti di Milone. Pompeo insieme ad un presidio armato stava di guardia negli orti, tenendosi in disparte: un atteggiamento ambiguo il suo, poichè non era chiaro se temesse realmente Milone o simulasse i propri timori67. In ogni caso, l’atteggiamento di Pompeo nei confronti di Milone e del processo appare piuttosto ambiguo, se si pensa che fino a qualche anno prima i due avevano collaborato battendosi per la stessa causa: avevano contrastato la violenza di Clodio e avevano permesso il rientro di Cicerone dall’esilio.

Che motivo aveva Pompeo di emanare novae leges68 per perseguire un crimine contro il quale esistevano già delle leggi apposite se non quello di sbarazzarsi di un uomo come Milone che stava chiaramente intralciando le sue ambizioni di potere? Le accuse contro Milone rientravano, infatti, tra le questiones perpetuae e si sarebbe dovuto procedere secondo la lex Plautia de vi dell’89 a.C. e la lex Cornelia de

sicariis et veneficiis dell’81 a.C.69, invece, Pompeo aveva voluto istituire un tribunale

‹‹Pompey’s legislation had called for through cleansing of the state. The entire chain of incidents of early 52 B.C. was to be investigated, and the trial of Milo was apparently only the first of a series arising from Clodius’ murder and the subsequent acts of violence committed by the Clodians››.

63 L’idea che Pompeo volesse sbarazzarsi di Milone si legge anche in Velleio Patercolo .47.4:

Milonem reum non magis invidia facti quam Pompei damnavit voluntas.

64

Att. 4.18.3: non nullus odor dictaturae. L’idea che Pompeo aspirasse alla dittatura è chiara anche in Appiano 2.20 e Plutarco, Pomp. 54.2.

65 Pompeo sperava nell’elezione a console di almeno uno dei due: il primo sarebbe diventato suo

suocero, visto che ne avrebbe sposato la figlia Cornelia (avrebbe anche ricoperto la carica di console insieme a lui negli ultimi mesi del 5 a.C. , l’altro era già legato a lui perché era stato suo questore.

66 Cfr. Lintott, op. cit., p. 68; Asconio 30.20-31.1 St.: Milone era riuscito ad accattivarsi il favore del

popolo non solo attraverso pubbliche elargizioni in denaro, ma offrendo anche degli spettacoli di gladiatori.

67

Asconio 34.10-12 St.

68 Così le definisce Asconio 34.2 St.

69 Cicerone Mil. 13: erant enim leges, erant questiones vel de caede vel de vi. Cicerone mostra il suo

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straordinario (nova quaestio: Mil. 13). Le leggi di Pompeo prevedevano una quaestio

extra ordinem70, terminologia che spiega che, per ragioni di particolare urgenza, la procedura processuale si sarebbe dovuta svolgere «nel rispetto del rito accusatorio, con precedenza rispetto all’ordine naturale dei processi, di regola determinato dalla cronologia della nominis receptio»71.

Ogni aspetto riguardante la vicenda che vide coinvolto Milone può a buon diritto essere definito extra ordinem, nel senso generico della locuzione: la costituzione del tribunale speciale, le procedure processuali, la difesa, e infine la pubblicazione della stessa orazione. Ben si comprende che il processo contro Milone non fu una semplice azione legale per punire l’omicidio da lui commesso (Milone era stato solo il mandante, non aveva inferto il colpo mortale a Clodio), ma costituiva una questione politica complessa, oltre a mostrare chiari segni di illegalità, in un gioco di opposte fazioni che si contendevano il potere a Roma.

Erano quattro i capi d’imputazione a carico di Milone: due per crimen vis72

, uno per

crimen ambitus e uno per crimen sodaliciorum. Per tutte e quattro le accuse fu

giudicato colpevole, ma solo per l’accusa de vi sostenuta dai fratelli Appi fu sottoposto ad un processo; per le restanti accuse, invece, fu condannato in contumacia. Il processo si aprì il 4 aprile (35.26 St.: prid. Non. April.), in un clima piuttosto sfavorevole per l’imputato: la folla dei clodiani si era riversata nel foro con schiamazzi, e Pompeo aveva collocato le sue truppe tutte intorno e si teneva in disparte, nei suoi giardini73. La durata del processo era stata fissata a cinque giorni in base alle novae leges, dei quali tre erano destinati all’ascolto dei testimoni, uno all’aequatio pilarum, e infine l’ultimo alla sortitio e alle arringhe degli avvocati (36.2-11 St. . Il solo Cicerone aveva risposto all’accusa, ma non era riuscito a difendere Milone come avrebbe voluto poiché, a causa delle grida dei clodiani, gli era venuta a mancare quella fermezza che di solito mostrava nel pronunciare le

necessaria, sia perché esistevano già leggi e tribunali per i casi di omicidio o di violenza, sia perché la volontà di istituire un processo straordinario non era stata manifestata dal senato.

70

Cfr. Mil. 14.

71

Venturini C., Damnatio iudicum. Cinque studi di diritto criminale romano, Pisa, 2008, p. 127; cfr.Venturini C., Quaestio extra ordinem,“Studia et Documenta Historiae et Iuris”, Vol. 53, 1987, p. 98.

72 Asconio 35.20 e 45.23 St.: Milone era stato accusato de vi dai due giovani Appi, nipoti di Clodio, e

poi da L. Cornificio e Q. Patulcio.

73 L’intervento di truppe armate nel foro va visto in funzione del decreto del senato con il quale

Pompeo, e insieme l’interrè e i tribuni della plebe, avevano ricevuto l’ordine di proteggere lo stato (32.37-38 St.).

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proprie arringhe (37.15-16 St.). Pertanto Milone, che era stato accusato di premeditazione ai danni di Clodio, fu condannato, non come esecutore dell’omicidio ma come mandante74, poiché era ben chiaro ai giudici come erano andate le cose: l’incontro tra i due rivali era stato casuale, non essendoci stata premeditazione da nessuna delle due parti75, ma Milone si era macchiato le mani di sangue ordinando a Saufeio, capo della sua banda, di finire Clodio ferito76. Ma se Milone fu condannato, “non tanto per l’ostilità dell’azione, quanto per volontà di Pompeo”77

, al contrario il vero assassino, Saufeio, fu assolto78. Tale assoluzione, del tutto paradossale, non deve stupire: eliminato Clodio e tolto di mezzo Milone, gli altri personaggi erano irrilevanti.

Dopo la condanna Milone lasciò la città per recarsi in esilio a Marsiglia. Dura era stata la sconfitta che Cicerone aveva subito, non solo perché aveva perso la causa, ma perché aveva visto fallire ogni tentativo di salvare lo stato, martoriato e ferito dalle lotte di fazione, e dalle ambizioni di potere di molti, in primis di Pompeo. Usciva di scena un personaggio che Cicerone vantava come il difensore dello stato e sul quale aveva riposto le proprie speranze.

74 Cfr. Husband, art. cit., p. 149; Asconio 45.9 St. 75

Asconio 37.7-8 St.

76 Cfr. Ibidem, 31.16-19 St. 77 Velleio Patercolo 2.47.4. 78 Cfr. Asconio 45.26-46.6 St.

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TESTO DI QUINTO ASCONIO PEDIANO

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PRO MILONE

[30] <Orationem> hanc dixit Cn. Pompeio III cos. a. d. VI Id. April. Quod

iudicium cum ageretur, exercitum in foro et in omnibus templis quae circum forum sunt collocatum a Cn. Pompeio fuisse non tantum ex hac oratione et Annalibus, sed etiam ex libro apparet qui Ciceronis nomine inscribitur ‘de optimo genere oratorum’.

ARGUMENTUM HOC EST

<T.>Annius Milo et P. Plautius Hypsaeus et Q. Metellus Scipio consulatum petierunt non solum largitione palam profusa, sed etiam factionibus armatorum succincti. Miloni et Clodio summae erant inimicitiae, quod et Milo Ciceronis erat amicissimus in reducendoque eo enixe operam tr.pl. dederat, et P. Clodius restituto quoque Ciceroni erat infestissimus ideoque summe studebat Hypsaeo et Scipioni contra Milonem. Ac saepe inter se Milo et Clodius cum suis factionibus Romae depugnaverant: et erant uterque audacia pares, sed Milo pro melioribus partibus stabat. Praeterea in eundem annum consulatum Milo, Clodius praeturam petebat, quam debilem futuram consule Milone intellegebat. Deinde cum diu tracta essent comitia consularia perficique ob eas ipsas perditas candidatorum contentiones non

79 Il testo di Asconio di riferimento è quello dell’edizione critica di Stangl (op. cit.): la numerazione

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possent, et ob id mense Ianuario nullidum neque consules neque praetores essent trahereturque dies eodem quo antea modo dum Milo quam primum comitia confici vellet confideretque cum bonorum studiis, quod obsistebat Clodio, tum etiam populi propter effusas largitiones impensasque ludorum scaenicorum ac gladiatorii muneris maximas, in quas tria patrimonia effudisse eum Cicero significat; competitores eius trahere vellent, ideoque Pompeius gener Scipionis et T. Munatius tr. pl. referri ad senatum de patriciis convocandis qui interregem proderent non [31] essent passi, cum interregem prodere obstinatiores essent : a. d. XIII Kal. Febr. (Acta etenim magis sequenda et ipsam orationem quae Actis congruit puto quam Fenestellam qui a. d. XIIII Kal. Febr. tradit) Milo Lanuvium, ex quo erat municipio et ubi tum dictator, profectus est ad flaminem prodendum postera die. Occurrit ei circa horam nonam Clodius paulo ultra Bovillas, rediens ab Aricia, prope eum locum in quo Bonae Deae sacellum est; erat autem allocutus decuriones Aricinorum. Vehebatur Clodius equo; servi XXX fere expediti, ut illo tempore mos erat iter facientibus, gladiis cincti sequebantur. Erant cum Clodio praeterea tres comites eius, ex quibus eques R. unus, C. Causinius Schola, duo de plebe noti homines, P. Pomponius, <C.

Clodius>. Milo reda vehebatur cum uxore Fausta, filia L. Syllae dictatoris, et M.

Fufio familiari suo. Sequebatur eos magnum servorum agmen, inter quos gladiatores quoque erant, ex quibus duo noti, Eudamus et Birria. Ii in ultimo agmine tardius euntes cum servis P. Clodi rixam commiserunt. Ad quem tumultum cum respexisset Clodius minitabundus, umerum eius Birria rumpia traiecit. Inde cum orta esset pugna, plures Miloniani accurrerunt. Clodius vulneratus in tabernam proximam <in> Bovillano delatus est. Milo ut cognovit vulneratum Clodium, cum sibi periculosius illud etiam vivo eo futurum intellegeret, occiso autem magnum solacium esset

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habiturus, etiamsi subeunda esset poena, exturbari taberna iussit. Fuit antesignanus servorum eius M. Saufeius. Atque ita Clodius latens extractus est multisque vulneribus confectus. Cadaver eius in via relictum, quia servi Clodi aut occisi erant aut graviter saucii <aut> latebant, Sex. Teidius senator, qui forte ex rure in urbem revertebatur, sustulit et lectica sua Romam ferri iussit; ipse rursus eodem unde erat degressus <se> recepit. Perlatum est corpus Clodi ante primam noctis horam, infimaeque plebis et servorum maxima multitudo magno luctu corpus in atrio domus positum circumstetit. Augebat autem facti invidiam uxor Clodii Fulvia, quae cum effusa lamentatione vulnera eius ostendebat. Maior postera die luce prima multitudo eiusdem generis confluxit, compluresque noti homines elisi sunt, inter quos C. Vibienus senator. Erat domus Clodi ante paucos menses empta de M. Scauro in Palatio: eodem <T.> Munatius Plancus, frater L. Planci oratoris, et Q. Pompeius Rufus, Syllae [32] dictatoris ex filia nepos, tribuni pl. accurrerunt: eisque hortantibus vulgus imperitum corpus nudum ac lutatum, sicut in lecto erat positum, ut vulnera videri possent in forum detulit et in Rostris posuit. Ibi pro contione Plancus et Pompeius qui competitoribus Milonis studebant, invidiam Miloni fecerunt. Populus duce Sex. Clodio scriba corpus P. Clodii in curiam intulit cremavitque subselliis et tribunalibus et mensis et codicibus librariorum; quo igne et ipsa quoque curia flagravit, et item Porcia basilica quae erat ei iuncta ambusta est. Domus quoque M. Lepidi interregis (is enim magistratus curulis erat creatus) et absentis Milonis eadem illa Clodiana multitudo oppugnavit, sed inde sagittis repulsa est. Tum fasces ex luco Libitinae raptos attulit ad domum Scipionis et Hypsaei, deinde ad hortos Cn. Pompeii, clamitans eum modo consulem, modo dictatorem.

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Incendium curiae maiorem aliquanto indignationem civitatis moverat quam interfectio Clodii. Itaque Milo, quem opinio fuerat ivisse in voluntarium exsilium, invidia adversariorum recreatus nocte ea redierat Romam qua incensa erat curia. Petebatque nilo deterius consulatum; aperte quoque tributim in singulos milia assuum dederat. Contionem ei post aliquot dies dedit M. Caelius tr. pl. atque ipse etiam causam egit ad populum. Dicebant uterque Miloni a Clodio factas esse insidias.

Fiebant interea alii ex aliis interreges, quia comitia consularia propter eosdem candidatorum tumultus et easdem manus armatas haberi non poterant. Itaque primo factum erat S.C. ut interrex et tribuni pl. et Cn. Pompeius, qui pro cos. ad urbem erat, viderent ne quid detrimenti res p. caperet, dilectus autem Pompeius tota Italia haberet. Qui cum summa celeritate praesidium comparasset, postulaverunt apud eum familiam Milonis, item Faustae uxoris eius exhibendam duo adulescentuli, qui Appii Claudii ambo appellabantur; qui <filii> erant C. Claudii qui frater fuerat Clodii, et ob id illi patrui sui mortem velut auctore patre persequebantur. Easdem Faustae et Milonis familias postulaverunt duo Valerii, Nepos et Leo. [Et] L. Herennius Balbus P. Clodii quoque familiam et comitum eius postulavit; eodem tempore Caelius familiam Hypsaei et Q. Pompeii postulavit.

[33] Adfuerunt Miloni Q. Hortensius, M. Cicero, M. Marcellus, M. Calidius,

M. Cato, Faustus Sylla. Verba pauca Q. Hortensius dixit: quippe liberos esse eos qui pro servis postularentur; nam post recentem caedem manumiserat eos Milo sub hoc titulo, quod caput suum ulti essent. Haec agebantur mense intercalari. Post diem tricesimum fere quam erat Clodius occisus Q. Metellus Scipio in senatu contra Q. Catonem conquestus est de hac caede P. Clodii: falsum esse dixit, quod Milo sic se

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defenderet *** et; Clodium Aricinos decuriones alloquendi gratia abisse, profectum cum sex ac XX servis; Milonem subito post horam quartam, senatu misso, cum servis amplius CCC armatis obviam ei contendisse et supra Bovillas inopinantem <in> itinere aggressum; ibi P. Clodium tribus vulneribus acceptis Bovillas perlatum; tabernam in quam perfugerat expugnatam a Milone; semianimen Clodium extractum…in via Appia occisum esse anulumque [eius] ei morienti extractum; deinde Milonem, cum sciret in Albano parvolum filium Clodii, venisse ad villam, et, cum puer ante subtractus esset, ex servo Halicore quaestionem ita habuisse, ut eum articulatim consecarent; vilicum et duos praeterea servos iugulasse; ex servis Clodii qui dominum defenderint undecim esse interfectos, Milonis duos solos saucios factos esse: ob quae Milonem postero die XII servos, qui maxime operam navassent, manumisisse populoque tributim singula milia aeris ad defendendos de se rumores dedisse. Milo misisse ad Cn. Pompeium, dicebatur qui Hypsaeo summe studebat, quod fuerat eius quaestor: desistere se petitione consulatus, si ita ei videretur: Pompeium respondisse nemini se neque petendi neque desistendi auctorem esse, neque populi R. potestatem aut consilio aut sententia interpellaturum. Deinde <per> C. Lucilium, qui propter M. Ciceronis familiaritatem amicus erat Miloni, egisse quoque dicebatur ne se de hac re consulendo invidia oneraret.

Inter haec cum crebresceret rumor Cn. <Pompeium> creari dictatorem oportere neque aliter mala civitatis sedari posse, visum est optimatibus tutius esse eum consulem sine collega creari, et cum tractata ea res esset in senatu, facto in M. Bibuli sententiam S.C. Pompeius ab interrege Servio Sulpicio V Kal. Mart. mense intercalario [34] consul creatus est statimque consulatum iniit. Deinde post diem tertium de legibus novis ferendis rettulit: duas ex S.C. promulgavit, alteram de vi,

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qua nominatim caedem in Appia via factam et incendium curiae et domum M. Lepidi interregis oppugnatam comprehendit, alteram de ambitu: poena graviore et forma iudiciorum breviore. Utraque enim lex prius testes dari, deinde uno die atque eodem et ab accusatore et a reo perorari iubebat, ita ut duae horae accusatori, tres reo darentur. His legibus obsistere M. Caelius tr. pl. studiosissimus Milonis conatus est, quod et privilegium diceret in Milonem ferri et iudicia praecipitari. Et cum pertinacius legem Caelius vituperaret, eo processit irae Pompeius ut diceret, si coactus esset, se armis rem p. defensurum. Timebat autem Pompeius Milonem seu timere se simulabat: plerumque non domi suae, sed in hortis manebat, idque [ipse] ipsum in superioribus, circa quos etiam magna manus militum excubabat. Senatum quoque semel repente dimiserat Pompeius, quod diceret timere se adventum Milonis. Dein proximo senatu P. Cornificius ferrum Milonem intra tunicam habere ad femur alligatum dixerat; postulaverat ut femur nudaret, et ille sine mora tunicam levarat: tum M. Cicero exclamaverat omnia illi similia crimina esse quae in Milonem dicerentur alia.

Deinde <T.>Munatius Plancus tr. pl. produxerat in contionem M. Aemilium Philemonem, notum hominem, libertum M. Lepidi: <is> se dicebat pariterque secum quattuor liberos homines iter facientes supervenisse, cum Clodius occideretur, et, ob id cum proclamassent, abreptos et [perductos] per duos menses in villa Milonis praeclusos fuisse; eaque res seu vera seu falsa magnam invidiam Miloni contraxerat. Idemque Munatius et Pompeius tribuni pl. in Rostra produxerant triumvirum capitalem eumque interrogaverant an Galatam Milonis servum caedes facientem deprehendisset. Ille dormientem in taberna pro fugitivo prehensum et ad se perductum esse responderat. Denuntiaverant tamen triumviro ne servum remitteret:

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sed postera die Caelius tr. pl. et Manilius Cumanus collega eius ereptum e domo triumviri servum Miloni reddiderant. Haec, etsi nullam de his criminibus mentionem fecit Cicero, tamen, quia ita compereram, putavi exponenda.

Inter primos et Q. Pompeius et C. Sallustius et T. Munatius Plancus tribuni pl. inimicissimas contiones de Milone habebant, invidiosas etiam de Cicerone, [35] quod Milonem tanto studio defenderet. Eratque maxima pars multitudinis [populi] infensa non solum Miloni, sed etiam propter invisum patrocinium Ciceroni. Postea Pompeius et Sallustius in suspicione fuerunt redisse in gratiam cum Milone ac Cicerone; Plancus autem infestissime perstitit atque in Ciceronem quoque multitudinem instigavit. Pompeio autem suspectum faciebat Milonem, ad perniciem eius comparari vim vociferatus: Pompeiusque ob ea saepius querebatur sibi quoque fieri insidias, et id palam, ac maiore manu se armabat. Dicturum quoque diem Ciceroni Plancus ostenderat, postea autem Q. Pompeius idem meditatus erat. Tanta tamen constantia ac fides fuit Ciceronis, ut non populi a se alienatione, non Cn. Pompeii suspicionibus, non periculo futurum ut sibi dies ad populum diceretur, non armis, quae palam in Milonem sumpta erant, deterreri potuerit a defensione eius: cum posset omne periculum suum et offensionem inimicae multitudinis declinare, redimere autem Cn. Pompeii animum, si paulum ex studio defensionis remisisset.

Perlata deinde lege Pompeia, in qua id quoque scriptum erat, ut quaesitor suffragio populi ex iis qui consules fuerant crearetur, statim comitia habita creatusque est L. Domitius Ahenobarbus quaesitor. Album quoque iudicum qui de ea re iudicarent Pompeius tale proposuit, ut numquam neque clariores viros neque sanctiores propositos esse constaret. Post quod statim nova lege Milo postulatus a duobus Appiis Claudiis adulescentibus isdem a quibus antea familia eius fuerat

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postulata, itemque de ambitu ab iisdem Appiis et praeterea a C. Cethego et L. Cornificio, de sodaliciiis [et] a P. Fulvio Nerato. Postulatus autem erat et de sodaliciis et de ambitu ea spe, <quod> primum iudicium de vi futurum apparebat, quo eum damnatum iri confidebant nec postea responsurum.

Divinatio de ambitu accusatorum facta est quaesitore A. Torquato, atque ambo quaesitores, Torquatus et Domitius, prid. Non. April. reum adesse iusserunt. Quo die Milo ad Domiti tribunal venit, ad Torquati amicos misit; ibi postulante pro eo M. Marcello obtinuit ne prius causam de ambitu diceret quam de vi iudicium erat perfectum. Apud Domitium autem quaesitorem maior Appius postulavit a Milone servos exhiberi numero IIII et L, et cum ille negaret eos qui nominabantur [36] in sua potestate esse, Domitius ex sententia iudicum pronuntiavit ut ex servorum suorum numero accusator quot vellet ederet. Citati deinde testes secundum legem quae, ut supra diximus, iubebat ut, prius quam causa ageretur, testes per triduum audirentur, dicta eorum iudices consignarent, quarta die adesse omnes [in diem posterum] iuberentur ac coram accusatore ac reo pilae, in quibus nomina iudicum inscripta essent, aequarentur; dein rursus postera die sortitio iudicum fieret unius et LXXX: qui numerus cum sorte obtigisset, ipsi protinus sessum irent; tum ad dicendum accusator duas horas, reus tres haberet, resque eodem die illo iudicaretur; prius autem quam sententiae ferrentur, quinos ex singulis ordinibus accusator, totidem reus reiceret, ita ut numerus iudicum relinqueretur, qui sententias ferrent, quinquaginta et unus.

Primo die datus erat in Milonem testis <C.> Causinius Schola: qui se cum P. Clodio fuisse, cum is occisus esset, dixit, atrocitatemque rei factae quam maxime potuit auxit. Quem cum interrogare asperius M. Marcellus coepisset, tanto tumultu

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