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La leggenda di Novecento Da Alessandro Baricco a Giuseppe Tornatore

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Academic year: 2021

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1 Indice

Introduzione p. 2

Capitolo 1 – L’adattamento

I. Molte definizioni, un solo concetto 3

II. Fedeli ma non troppo 8

III. I problemi tecnici dell’adattamento 15

IV. L’adattamento di testi teatrali 23

Capitolo 2 – Il cinema di Giuseppe Tornatore

I. Un percorso lungo tutta una vita 31

II. Il richiamo della memoria 39

III. Il sodalizio con Ennio Morricone 48

IV. Tornatore e il suo rapporto con la letteratura 56

Capitolo 3 – La leggenda di Novecento

I. Il contesto 60

II. La storia 62

III. Le differenze 64

IV. Scene a confronto 69

V. La narrazione 81

Conclusioni – Trasposizione di una leggenda 89

Scheda tecnico-artistica 92

Bibliografia 93

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2 Introduzione

I dettagli che cambiano quando una storia viene trasformata da una forma ad un’altra. Le diverse necessità dei vari linguaggi narrativi. Il modo in cui un personaggio viene interpretato. L’importanza del finale, che è capace da solo di sconvolgere il significato del racconto. Queste e altre cose ho cercato di analizzare nel corso dei vari capitoli. In particolare mi sono concentrata sull’adattamento cinematografico e sulle esigenze che questo porta con sé. Il caso su cui mi sono focalizzata è quello di La leggenda del pianista sull’oceano, film che Giuseppe Tornatore ha tratto dal monologo teatrale Novecento di Alessandro Baricco.

Prima di giungere ad una vera e propria analisi del film ho ritenuto opportuno affrontare le varie problematiche che l’adattamento cinematografico pone, partendo dalle diverse definizioni del concetto, passando attraverso la problematica della fedeltà al testo originale e le varie necessità tecniche davanti a cui chi opera un adattamento si trova. Ho inoltre approfondito il caso particolare della trasposizione cinematografica dei testi teatrali, dal momento che il testo di Baricco da cui è tratto il film che analizzo è un monologo.

Mi sono poi soffermata sul cinema di Giuseppe Tornatore in generale, facendo una carrellata della sua carriera e cercando di individuare le tematiche ricorrenti. Data la natura fortemente musicale del film posto in analisi, ho approfondito il rapporto di collaborazione che lega il regista a Ennio Morricone, fonte inesauribile di creatività e innovazione. Ho parlato poi del rapporto che lega Tornatore alla letteratura, dal momento che egli è autore di quasi tutti i soggetti e tutte le sceneggiature dei suoi film.

Sono infine giunta ad analizzare La leggenda del pianista sull’oceano, dapprima contestualizzando le origini della storia scritta da Baricco, in seguito passando ad un confronto con il film. Ho cercato di individuare le differenze e le analogie delle due versioni della storia ed infine mi sono concentrata sull’analisi della tipologia di narrazione.

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Capitolo 1 – L’adattamento

I. Molte definizioni, un solo concetto

L’adattamento troppo sottomesso al testo “tradisce il cinema”, l’adattamento troppo libero “tradisce” la letteratura; solo la “trasposizione” […] non tradisce né l’uno né l’altra, collocandosi ai confini di queste due forme di espressione artistica.1

Con questa citazione di Alain Garcia, Francis Vanoye apre il capitolo dedicato all’adattamento nel suo testo La sceneggiatura. Forme, dispositivi e modelli.2 In questa frase troviamo contrapposti due termini: adattamento e trasposizione. Ci rendiamo conto che i due significati sono vicini, ma non del tutto. Garcia (e come lui anche Vanoye) identifica la trasposizione con una forma “equilibrata” di adattamento, che si colloca a metà fra una copia troppo spudorata del testo, che poco si adatta alle necessità cinematografiche e di conseguenza “tradisce il cinema”, e una reinterpretazione troppo libera che prende spunto da un’opera letteraria senza renderle giustizia, in cui ad essere tradita è la letteratura.

Un’altra chiave di interpretazione è quella che Nicola Dusi ci fornisce nel suo Il cinema come traduzione:

Mettiamo a paragone la definizione dizionariale dei termini “adattamento” e “trasposizione”: il primo, adattamento, richiama una interessante “conformazione a esigenze particolari”, funzionale alla cultura e alle specificità del nuovo testo, ma al contempo impone l’idea di un processo traduttivo orientato univocamente, che considera rigidamente il testo di partenza come fonte, mentre quello di arrivo appare l’esito di una costrizione. Nel termine trasposizione, invece, l’uso del prefisso /tras/ (analogo a /trans/), comporta sia l’oltrepassare, come in “trasgredire”, che il trasferire (come in “transfondere”), richiamando l’attenzione sull’andare al di là del testo di partenza, attraversandolo o, appunto, moltiplicandone le potenzialità semantiche. […] Ecco la differenza: mentre il termine adattamento richiama una forma necessaria, una riduzione inevitabile, parlare di trasposizione porta con sé 1 Alain Garcia, L’Adaptation du roman au film, I. F. Diffusion-Dujarric, 1990, p.203.

2 Francis Vanoye, Scénarios modèles, modèles de scénarios (1991), tr. di Dario Buzzolan: La sceneggiatura. Forme, dispositivi e modelli, Lindau, Torino, 1998, p. 131.

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l’idea di una struttura ordinata, certo flessibile, che regge il passaggio trasformativo da un testo all’altro rispettando le differenze e le coerenze interne.3

Elaborando una sintesi di queste definizioni possiamo intendere l’adattamento come un cambiamento di forma necessario e la trasposizione come una nuova forma di espressione artistica che prende avvio da un testo precedente avendo cura di non tradirne le volontà e rispettandone la coerenza.

Il problema dell’adattamento rivela in maniera evidente molti tratti in comune con quello della traduzione: quando si tratta di riformulare un pensiero altrui per renderlo in un’altra lingua o in un altro linguaggio il rischio di fraintendere (e far fraintendere) cosa l’autore originario aveva in mente è sempre dietro l’angolo.

Nel caso di una traduzione da una lingua all’altra i problemi sono dati dai diversi significati delle parole, che possono differire in maniera sostanziale oppure per delle sfumature. Ci possono essere dei casi in cui non esiste una corrispondenza di significato fra un termine e l’altro nelle due lingue che si stanno trattando.

Quando operiamo una traduzione da un linguaggio ad un altro la situazione è un po’ diversa: si tratta di riprendere una storia, formulata per essere narrata per iscritto, reinventarla e trasporla in una nuova veste, che si adatti ad un linguaggio per immagini. Si potrebbe pensare che la situazione non sia così complicata, che magari basti riprendere le descrizioni degli ambienti e sfruttarle come scenografia e lasciare i dialoghi così come sono. La faccenda è più complessa di così. Prima di tutto è diverso il tempo che il fruitore dedica alla lettura di un romanzo o alla visione di un film, di conseguenza la quantità dei dettagli della storia dovrà essere adattata al mezzo. Un altro problema della trasposizione è il ruolo del narratore: uno scrittore non avrà difficoltà a scrivere che cosa il protagonista sta pensando, che idea ha

3 Nicola Dusi, Il cinema come traduzione. Da un medium all’altro: letteratura, cinema, pittura, UTET, Torino, 2003, p. 16.

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del mondo e delle persone. In una narrazione per immagini tutto ciò che lo spettatore sa deriva da quello che vede e da quello che sente, pertanto può essere difficile per un regista o uno sceneggiatore gestire tutto ciò che al mondo delle immagini non appartiene. Spesso questo problema viene risolto inserendo nel film una voce narrante, ma questa operazione per non risultare scontata e semplicistica ha bisogno di essere curata nei dettagli e giustificata dall’impostazione filmica. Parleremo di questo nei paragrafi successivi.

Torniamo ora alle differenze fra le varie definizioni. Abbiamo visto che alla base del problema dell’adattamento c’è quello della traduzione, mi sembra pertanto opportuno chiamare in causa il padre della semiologia, Roman Jakobson, e menzionare le teorie da lui espresse nel capitolo dedicato agli Aspetti linguistici della traduzione nel suo volume Saggi di linguistica generale4.

Il linguista distingue fra tre forme di traduzione:

1) La traduzione endolinguistica o riformulazione consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di altri segni della stessa lingua; 2) la traduzione

interlinguistica o traduzione propriamente detta consiste nell’interpretazione dei

segni linguistici per mezzo di un’altra lingua; 3) la traduzione intersemiotica o trasmutazione consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di segni non linguistici.5

Quest’ultimo caso è quello che ci riguarda più da vicino, è quello che avviene quando da un romanzo (espresso con segni linguistici) viene tratta un’opera cinematografica (espressa con un linguaggio visivo).

Un caso particolare, scrive Jakobson, è quello della poesia, che è “intraducibile per definizione”6:

È possibile soltanto la trasposizione creatrice: all’interno di una data lingua (da una forma poetica all’altra), o tra lingue diverse. Oppure è possibile la trasposizione

4Roman Jakobson, Essais de linguistique générale (1963), tr. di Luigi Heilmann e Letizia Grassi: Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano, 1966.

5 Ivi p. 57. 6 Ivi p. 63.

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intersemiotica da un sistema di segni ad un altro: per esempio dall’arte del linguaggio alla musica, alla danza, al cinematografo o alla pittura7.

Qualsiasi sia il tipo di traduzione davanti a cui ci troveremo, dovremo comunque tenere presente che questa è il frutto di una nuova elaborazione, che utilizza parole diverse per dire la stessa cosa (nel caso di una traduzione endolinguistica), oppure parole di una lingua diversa dall’originale, che quindi avrà caratteristiche lessicali e sfumature di significato proprie, date anche da un differente sostrato culturale. Ci saranno quindi probabilmente delle difficoltà riguardo alle interpretazioni delle cose. Nel caso di una traduzione da un linguaggio a un altro, ad esempio da un linguaggio di parola ad uno di immagini, la storia avrà l’esigenza di aggiungere, eliminare o cambiare dettagli, e quindi necessariamente subirà un’interpretazione.

Ogni traduzione è un’interpretazione, scrive Umberto Eco in Dire quasi la stessa cosa, in cui riprende la teoria di Jakobson e personalizza la tripartizione della traduzione trasformando quest’ultima in interpretazione.

Si vengono così a formare le categorie di: 1) Interpretazione per trascrizione, da lui stesso giudicata poco rilevante (con questa intende una sostituzione automatica, come accade con l’alfabeto Morse, che può essere attuata anche da una macchina,); 2) Interpretazione intrasistemica, che avviene all’interno di uno stesso sistema semiotico (la riformulazione di Jakobson). Questa comprende le interpretazioni intralinguistiche come le sinonimie, le definizioni, le parafrasi e la parodia; 3) Interpretazione intersistemica, suddivisa in interpretazioni con sensibili variazioni nella sostanza e interpretazioni con mutazione di materia. Nel primo caso troviamo la traduzione propriamente detta ed il rifacimento (come

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la riproduzione a stampa di un dipinto), nel secondo invece si passa da una materia ad una materia di espressione, come accade quando si interpreta una poesia attraverso dei disegni.8

In questa rapida carrellata ci siamo trovati davanti alle principali definizioni usate dai teorici quando decidono di affrontare il discorso sull’adattamento. Per riassumere potremmo dire in maniera un po’ semplicistica che adattamento è il termine più generico, usato spesso nei titoli dei volumi perché di immediata comprensione da parte di un ampio pubblico. Rimanda nel pensiero comune ad una storia che è stata rielaborata per essere usata in un altro contesto: un romanzo riadattato in un testo teatrale o in un film, oppure una drammaturgia trasformata in sceneggiatura e successivamente in film. O magari un film trasformato in romanzo, ma questo è meno comune. Trasposizione è un termine più tecnico, per gli addetti ai lavori, un “adattamento rispettoso”, che riprende il testo di partenza rispettandolo ma andandone al di là, moltiplicandone le potenzialità semantiche. La terza definizione davanti a cui ci siamo trovati è quella di traduzione intersemiotica. Espressione ancora più specialistica, che esce dal campo letterario-cinematografico per abbracciare l’arte tutta. Il fatto che a coniarla sia stato un linguista-semiologo nell’ambito dell’elaborazione di una teoria sulla traduzione ci permette di capire quanto ampio sia il contesto.

Stando a quello che fino ad ora abbiamo detto verrebbe da pensare che l’adattamento/trasposizione/traduzione intersemiotica faccia riferimento a delle traduzioni, anzi interpretazioni (come dice giustamente Eco) che rimangono piuttosto fedeli all’originale negli intenti, nella storia e nel messaggio. In realtà è molto frequente che le storie subiscano cambiamenti strutturali o di significato molto profondi, insomma che ci sia un atto di appropriazione da parte dell’“autore di seconda mano”. Si apre così un contesto di

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analisi nuovo: la fedeltà dell’adattamento, che cercheremo di approfondire nel paragrafo seguente.

II. Fedeli ma non troppo

Se è vero che per Eco la traduzione è sempre interpretazione, a maggior ragione una trasposizione sarà sempre frutto di una nuova visione da parte dell’autore. È necessario anche tener conto del fatto che può capitare a chi opera un adattamento di ritrovarsi di fronte a un testo datato e poco allettante per il pubblico contemporaneo. Sarà quindi in quel caso necessario attualizzare la storia intervenendo con modifiche di vario genere. Oltre ad esigenze di tipo personale ed artistico, possono dunque entrare in gioco anche esigenze per così dire di mercato. Tutto ciò va naturalmente a sommarsi alle esigenze che comporta il cambiamento di linguaggio in cui la storia deve essere raccontata.

Abbiamo già accennato al fatto che linguaggi diversi abbiano necessità diverse: in un romanzo scritto in prima persona i pensieri sono il fulcro centrale, più importanti persino degli eventi raccontati. Trasporre una storia tratta da un testo del genere comporta la necessità di andare a modificarne la struttura, di conseguenza bisognerà intervenire anche con dei cambiamenti alla storia stessa e al modo in cui è raccontata. Il prodotto finale della rielaborazione risulterà quindi fedele all’originale solo parzialmente.

Vanoye, nel suo testo La sceneggiatura. Forme, dispositivi e modelli, parla dell’adattamento come di un processo di appropriazione. Secondo lui l’opera adattata «si trova sempre in un contesto storico e culturale diverso da quello in cui è stata prodotta» ed è per questo soggetta

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ad un transfert storico-culturale9. Il meccanismo di appropriazione si esercita secondo Vanoye su tre livelli, secondo gradi di intensità variabili:

-a livello sociostorico, essa [l’appropriazione] dipende da un’epoca, da un contesto di produzione (Hollywood anni ’30; Francia anni ’20 o ’60 ecc.);

-a livello estetico, essa dipende da una corrente, da un movimento, da una scuola (l’espressionismo, la Nouvelle Vague);

-a livello estetico individuale, essa dipende da un autore o da un gruppo.10

Vanoye prosegue dicendo che quindi l’appropriazione indica un processo di integrazione e di assimilazione dell’opera e che qualsiasi scelta è una forma di appropriazione, a partire da quella di non intervenire sull’opera (la neutralità è vista come un atteggiamento estetico e ideologico), per arrivare a quelle che lui definisce deviazione ed inversione.

L’adattamento è anche un insieme di scelte estetiche. È compito di chi adatta rendere fruibile il proprio prodotto e dargli caratteristiche proprie, diverse dall’originale. Vanoye opera una distinzione fra due modelli di sceneggiatura, che chiama classico e moderno. Il primo è caratterizzato dalla «concentrazione sull’azione, dall’attenzione alla razionalità dei collegamenti unita all’efficacia drammatica, alla messa a punto di personaggi consistenti e motivati e collocati in un contesto chiaro, alla coerenza (o pseudo coerenza) logico-psicologica e sociologica». Il secondo invece è «caratterizzato da contenuti più ambigui o lacunosi, da schemi drammatici più deboli, da procedure di straniamento o di riflessività».11

Vanoye identifica due modelli analoghi, classico e moderno, con le medesime caratteristiche, anche per quanto riguarda i racconti letterari. Durante il processo di adattamento questi modelli vengono a confronto fra loro, portando alla necessità di operare una scelta estetica teorica. L’adattatore si troverà di fronte ad un racconto con impostazione classica oppure moderna, e dovrà decidere se impostare la sceneggiatura in maniera classica

9 Francis Vanoye, La sceneggiatura. Forme, dispositivi e modelli, cit., p. 149. 10 Ivi, p.151.

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o moderna. Ad esempio, un testo letterario criptico e privo di un preciso schema drammatico narrativo (moderno) potrebbe essere trasposto in una sceneggiatura anch’essa criptica e quindi moderna. Oppure potrebbe essere cambiata l’impostazione dell’opera, che verrebbe quindi trasformata in una sceneggiatura con struttura classica, caratterizzata da razionalità e chiarezza. Viceversa, da un testo letterario di impostazione classica potrebbe scaturire una sceneggiatura classica, quindi piuttosto fedele nella struttura, oppure moderna. In questo caso la storia subirebbe una rivisitazione sostanziale e il risultato finale si discosterebbe non poco dall’originale.

Una tecnica di appropriazione usata piuttosto di frequente consiste nel cambiare il contesto della storia raccontata, ambientarla in uno spazio-tempo diverso da quello originale. Questa soluzione può andare incontro ad esigenze artistiche, ma credo che la caratteristica più importante sia il fatto che permetta di cambiare il pubblico di riferimento. Difficilmente degli adolescenti sarebbero stati interessati ad un film su Cuore di tenebra di Joseph Conrad12, mentre sappiamo quale successo abbia avuto Apocalypse Now di Francis Ford Coppola13.

Per la realizzazione della sceneggiatura di questo film il regista si è avvalso dell’aiuto di uno sceneggiatore (John Milius) e insieme a lui ha redatto una trasposizione proprio dal romanzo di Conrad. Dall’Inghilterra e dall’Africa del 1980 la storia è stata ambientata negli Stati Uniti e nel Vietnam negli anni della guerra alla fine degli anni Sessanta. Il regista ha deciso di affrontare nel film le medesime tematiche del romanzo, ma l’approccio al racconto è stato

12 Cuore di tenebra (Heart of Darkness) è un romanzo scritto da Joseph Conrad nel 1899, la cui prima traduzione italiana è stata fatta nel 1924. Racconta in prima persona la storia di Marlow, inviato nell’Africa nera per rintracciare Kurtz, funzionario dei traffici di avorio, per riportarlo a casa. Per far questo Marlow dovrà risalire il fiume Congo, fin dove vive Kurtz, che negli anni ha accumulato quantità enormi di avorio ed ha iniziato a farsi trattare come una divinità dalla popolazione locale. Nonostante le difficoltà Marlow riesce a portare con sé Kurtz, ma questo muore nel viaggio di ritorno. Nell’opera è centrale il tema del male, che ha origine secondo Conrad nel cuore di ogni uomo.

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completamente ribaltato. Siamo di fronte ad un caso in cui un racconto classico viene trasposto in un film con impostazione moderna.

Come abbiamo accennato in precedenza, ogni medium ha le proprie caratteristiche e quindi le proprie necessità. Dusi nel suo testo14 parla di “specificità”, facendo riferimento a come «la differenza fondamentale delle semiotiche risieda nei loro diversi modi di rappresentazione del mondo cosiddetto reale, per gradi e zone di indeterminazione distinte.»15. Riprendendo le teorie spiegate da Holub nel suo Teoria della ricezione16, Dusi spiega come il lettore sia portato spontaneamente a “concretizzare” il testo e “riempire le indeterminatezze”.

Questo problema va a ricollegarsi alle obiezioni di Eco sull’impossibilità di definire come traduzione la trasposizione intersemiotica17:

Eco sostiene che per trasporre un romanzo in un film bisogna inevitabilmente esplicitare molte delle proprie inferenze, rendere evidente la propria interpretazione, a partire dai dettagli del mondo possibile messo in scena. Quest’ultimo viene arredato e mostrato, rappresentato, fin dalla scelta dei personaggi e, necessariamente, si incarna nella loro configurazione fisica, nel loro abbigliamento, nei codici prossemici, nei codici visivi e certo anche sonori. Parlare di traduzione intersemiotica è dunque più che altro metaforico, secondo Eco, e bisognerebbe piuttosto parlare di adattamento, perché nel valutare una trasposizione bisogna sempre fare molte concessioni alle trasformazioni dovute a scelte testuali non previste dal testo di partenza. 18

Questo concetto secondo cui il non detto, o meglio il non scritto, è completato in maniera inconsapevole dal lettore, ha in realtà una validità anche nel cinema. Qui tutto ciò che lo spettatore sa deriva da quello che l’inquadratura mostra. Se ad esempio questa raffigura un primo piano, lo spettatore saprà che il personaggio inquadrato oltre al volto avrà anche il

14 Nicola Dusi, Il cinema come traduzione. Da un medium all’altro: letteratura, cinema, pittura, cit., p. 120. 15 Ibidem.

16 R. C. Holub (a cura di), 1984, Teoria della ricezione, Einaudi, Torino, 1989, p. XVI. 17 Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Studi Bompiani, 2003.

18 Nicola Dusi, Il cinema come traduzione. Da un medium all’altro: letteratura, cinema, pittura, cit., pp. 120-121.

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resto del corpo; se inquadro delle ruote di una carrozza in movimento, saranno presenti anche dei cavalli a trainarla. Viceversa, in letteratura per far credere che una situazione sia in un certo modo, mi basterà omettere dei particolari, rimanere sul vago. Il lettore sarà portato per forza di abitudine a completare le informazioni mancanti nella maniera più “standard” e normalizzata possibile. Per quanto riguarda il cinema questo meccanismo funziona in maniera un po’ diversa: proprio per il fatto che tutto ciò che viene mostrato è per convenzione veramente accaduto nella storia, il regista troverà molta difficoltà nel provare a circuire lo spettatore. L’unica possibilità per farlo prevederebbe la necessità di tagliare fuori da ogni inquadratura il dettaglio che si vuole nascondere ma, anche ammettendo che questo sia fattibile, è probabile che un osservatore attento si insospettisca e capisca che lo si vuole tenere all’oscuro di alcune informazioni. Possiamo trovare un esempio di questa situazione nell’analisi che Sabouraud fa di Psycho19 nel suo testo L’adattamento cinematografico.

Si può mentire su ciò che si mostra allo spettatore come si fa con le parole? […] Come esprimere la percezione di un personaggio colto nel suo delirio psicotico e nello stesso tempo non barare sulla realtà alla quale lo spettatore dovrebbe credere?20

Hitchcock stesso ha raccontato l’escamotage che ha utilizzato per risolvere questo problema nella scena in cui Norman Bates dialoga con la madre per spiegarle che dovrà spostarla in cantina per un po’. Il regista racconta di aver scelto di usare un piano sequenza perché se ci fossero stati dei tagli di montaggio il pubblico si sarebbe insospettito e si sarebbe reso conto della presenza di qualche sotterfugio:

Entra nella stanza e non lo vediamo più; ma lo sentiamo: “Mamma, bisogna che ti porti in cantina perché verranno qui a fare delle indagini”. Poi si vede Perkins che porta la madre in cantina. Non potevo tagliare l’inquadratura perché il pubblico sarebbe diventato sospettoso; perché improvvisamente la macchina da presa si ritira? Così, ho la macchina sospesa che segue Perkins quando sale la scala, entra nella camera ed esce dal quadro, ma la macchina continua a salire senza interruzione e, 19 Psycho è un film del 1960 diretto da Alfred Hitchcock. La storia è tratta dall’omonimo romanzo di Robert Bloch.

20 Frédéric Sabouraud, L’Adaptation. Le cinéma a tant besoin d’histoires (2006), tr. di Elga Mugellini: L’adattamento cinematografico, Lindau, Torino, 2007, pp. 20-21.

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quando siamo sopra la porta la macchina gira su sé stessa, guarda di nuovo giù dalla scala: perché il pubblico non si interroghi su questo movimento, lo distraiamo facendogli sentire un litigio tra la madre e il figlio. Il pubblico fa talmente attenzione al dialogo che non pensa più a quello che fa la macchina; così siamo ora sulla verticale e il pubblico non si stupisce di vedere Perkins che trascina la madre, ripresi verticalmente sopra le loro teste. Era appassionante per me adoperare la macchina per ingannare il pubblico.21

Sabouraud prosegue spiegando che in letteratura la questione è “molto meno cruciale”, le parole infatti non hanno necessariamente la stessa obiettività degli oggetti mostrati nelle immagini filmiche. Un film non può permettersi di mostrare immagini che poi si riveleranno false col proseguimento della storia, può solamente divertirsi a sfruttare l’ambiguità del fuori campo.22

Naturalmente oltre alla fedeltà di struttura di cui abbiamo parlato, è importante prendere in considerazione anche la fedeltà di significato: può accadere infatti che in alcune trasposizioni venga mantenuta la struttura portante della storia con i suoi personaggi principali, ma che il messaggio, la “morale” ne esca profondamente sconvolta. A volte è sufficiente modificare il finale della storia per rovesciarne il significato.

Uno studioso americano di nome Dudley Andrew affronta in maniera specifica proprio questa tematica nel capitolo dedicato all’adattamento del suo testo Concepts in film theory23.

Egli distingue fra tre tipologie di adattamento, che chiama rispettivamente borrowing (presa a prestito), intersection (intersezione) e fidelity of transformation (fedeltà della trasformazione). Definisce la borrowing come un caso in cui vengono presi a prestito alcuni personaggi o situazioni di storie molto famose o testi classici. Vengono mantenute intatte soltanto alcune strutture fondamentali della trama, attorno alle quali vengono sviluppate delle variazioni. L’intersection è invece definita da Andrew come una “rifrazione del testo

21 François Truffaut, Le cinéma selon Hitchcock (1966), tr. di Giuseppe Ferrari e Francesco Pititto: Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche, Parma, 1994, pp. 231-232.

22 Frédéric Sabouraud, L’adattamento cinematografico, cit., pp. 22-23.

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originale” in un nuovo testo (“refraction of the original”24). Qui l’unicità dell’originale è mantenuta come un’estensione, intenzionalmente non assimilata nell’adattamento. La terza tipologia di adattamento, la fidelity of transformation, è secondo Fumagalli25 quella più difficile.

Andrew distingue fra la fedeltà alla lettera e la fedeltà allo spirito del romanzo. Se la fedeltà alla lettera (personaggi, eventi, relazioni, ambienti, eventuali narratori, ecc.) è il punto di partenza, si ha vera fedeltà quando si riesce a essere fedeli allo “spirito” del testo di partenza: atmosfere, valori, immagini, tono, ritmo… Sono elementi non solo intangibili, ma difficilmente categorizzabili, che spesso però sono fondamentali per caratterizzare quello che l’autore voleva trasmettere attraverso il suo romanzo. La buona riuscita dell’adattamento sta proprio, secondo Andrew, nella capacità di percepire, e poi di trasmettere, il “feeling” del romanzo.26

Una simile analisi è fornita anche da Dwight Swain27, citato da Vanoye nel suo volume28. Le tre possibili soluzioni che Swain individua per l’adattamento di un romanzo sono: 1) seguire il libro in maniera testuale e fedele, rispettando l’ordine delle cose; 2) selezionare le scene chiave ed utilizzarle come base per la sceneggiatura; 3) individuare soltanto alcuni materiali, personaggi e situazioni e con questi costruire una sceneggiatura quasi originale. L’analisi di Swain è riferita soprattutto alla struttura dell’adattamento e alla quantità di materiale che deriva dal testo originale. Quella di Andrew invece fa un passo oltre: non si limita a classificare la tipologia di adattamento in base a quante cose ha mantenuto dall’originale, ma arriva ad affermare che un adattamento per essere degno di questo nome debba essere fedele non solo alla struttura, ma soprattutto allo spirito della storia.

Abbiamo quindi visto che esistono due linee di pensiero riguardo all’adattamento: una che ricerca fedeltà e coerenza all’originale, l’altra invece che tende ad apprezzare anche degli

24 Ivi, p. 99.

25 Armando Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore. L’adattamento da letteratura a cinema, Editrice Il Castoro, Milano, 2004, p.87.

26 Ibidem.

27 Dwight Swain, Film Scriptwriting, Focal Press, Boston-London, 1988. 28 Francis Vanoye, La sceneggiatura. Forme, dispositivi e modelli, cit., p.139.

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inserimenti di elementi nuovi e delle modifiche al testo originale, come avviene nei casi in cui la storia originale viene trasposta in uno spazio-tempo nuovo.

Fino ad ora abbiamo preso in considerazione le varie problematiche dell’adattamento da un punto di vista soprattutto teorico, cercando di riassumere le varie scuole di pensiero e le teorie delle maggiori personalità del settore. Nel prossimo paragrafo cercherò di approfondire le metodologie e le possibili soluzioni ai problemi tecnici dell’adattamento esaminando le tattiche narrative solitamente sfruttate.

III. I problemi tecnici dell’adattamento

Tutti almeno una volta nella vita si sono ritrovati a vedere la versione cinematografica di un libro amato e a constatare che la pagina scritta è molto più ricca di dettagli e per questo più coinvolgente e appassionante del film e che questo non è in grado di rendere giustizia all’originale. Tutto ciò è facilmente spiegabile: un film della durata di due ore non può contenere tutti gli elementi narrativi di un romanzo di centinaia e centinaia di pagine. Il film è caratterizzato da una temporalità diversa: la successione degli eventi è tendenzialmente rapida, non è possibile indugiare più di tanto su descrizioni o divagazioni di pensiero. Per poter trasporre un romanzo in un film è necessario tagliare.

«Cut. Cut. Cut.» diceva Dwight Swain29. «Tagliare significa sopprimere (episodi, personaggi, descrizioni, intrusioni dell’autore ecc.). Ma tagliare significa anche accorciare, sintetizzare, amalgamare.», puntualizza Vanoye30.

29 Dwight Swain, Film Scriptwriting, cit.

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In realtà l’adattamento comporta anche operazioni inverse, come aggiunte e dilatazioni, soprattutto quando ad essere trasposto in film è un testo breve, come un racconto. A seconda della situazione di partenza ci troviamo quindi davanti a due tipi di interventi possibili, quello di restrizione e quello di dilatazione.

La cosa importante è quindi pensare non a come si vuole rispettare il romanzo, ma a quale film si vuole fare. È bene ricordare che la regola numero uno enunciata da Goldman, su cui si trovano d’accordo tutti coloro che lavorano sugli adattamenti, è che: «Non si può essere fedeli al materiale di partenza»; la seconda regola è che «Non si deve essere fedeli»31.32

Scrive Fumagalli in un paragrafo intitolato “Le decisioni fondamentali”. Sicuramente sarebbe più facile riprendere in maniera quasi letterale la storia originale. Probabilmente questa operazione non porterebbe a nulla di buono (o quasi). Se William Goldman, lo sceneggiatore di La storia infinita e di Tutti gli uomini del presidente, si impone di non rimanere fedele al materiale di partenza è perché sa che se due mezzi di comunicazione sfruttano linguaggi diversi, avranno bisogno di caratteristiche diverse per far breccia nel cuore del pubblico e poter diventare dei grandi ed acclamati successi, senza accontentarsi di essere “l’adattamento di” quel famoso romanzo.

Per poter arrivare a risultati simili è fondamentale attribuire primaria importanza alla componente emozionale dello spettatore. È necessario che egli riesca ad affezionarsi fin da subito a qualche personaggio, gioire con loro e soffrire con loro.

Questo problema […] è assolutamente primario e fondamentale. Certo è molto più importante nel cinema (e in televisione) che non in un libro: la lettura è molto più riflessiva, i lettori sono un’élite che segue un racconto anche solo per interesse intellettuale. Al contrario, se il personaggio di un film non fa emozionare, non fa palpitare per lui, il pubblico medio considera il film noioso. 33

31 William Goldman, Which Lie did I Tell? More Adventures in the Screen Trade, Bloomsbury, London, 2000, p.179.

32 Armando Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore. L’adattamento da letteratura a cinema, cit., p. 127. 33 Ivi, p. 131.

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È quindi importante scegliere accuratamente in che modo presentare soprattutto i protagonisti. Può capitare che un personaggio letterario non si presti bene ad una trasposizione cinematografica, e che quindi abbia bisogno di alcune modifiche: bisogna tener presente che se in letteratura i conflitti interiori sono quelli che riescono ad essere meglio trasmessi, il cinema esprime al massimo la sua potenza nella trattazione di eventi estesi ed ampi. Cercando di adattare un romanzo in cui il fulcro centrale è il conflitto interiore e l’azione scenica è poca, sarà necessario a maggior ragione far affezionare il pubblico al protagonista, in modo da mantenere alto l’interesse per tutta la durata del film.

Per quanto riguarda i personaggi secondari il problema è diverso: nel cinema non possono essere troppi. In due ore non sarebbe possibile per lo spettatore imparare a riconoscerli tutti, inoltre non si avrebbe modo di dare a ciascuno il proprio spazio, cosa che invece avviene senza problemi in un romanzo. Di conseguenza uno degli interventi più frequenti della trasposizione consiste nel ridurre drasticamente il numero dei personaggi secondari. Rimarranno solamente quelli con una funzione strutturale, utili all’avanzamento della storia. Un altro elemento subisce spesso tagli evidenti: si tratta delle linee di azione secondarie. Non sarebbe possibile approfondire adeguatamente un numero elevato di eventi e situazioni, pertanto viene normalmente operata una selezione. Inoltre, nell’ambito della lettura di un romanzo è possibile eventualmente sfogliare le pagine e tornare a leggere dei punti rimasti poco chiari, mentre durante la visione di un film quest’operazione risulterebbe molto macchinosa o addirittura impossibile (nel caso di una visione al cinema).

Un altro tipo di intervento che viene molto utilizzato per accrescere la partecipazione del pubblico prevede l’innalzamento della posta in gioco: il protagonista non solo è portato a risolvere il problema in questione per migliorare una data situazione o venire a capo di un problema, ma è costretto a farlo perché è in ballo qualcosa di molto importante. Ci ritroviamo così di fronte a un dualismo opportunità-pericolo, in cui o si vince o si perde tutto e non è

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possibile accontentarsi e mantenere la situazione di partenza. Anche questo meccanismo aiuta il pubblico a mantenere un alto livello di tensione e ad immedesimarsi nella situazione.

Fra i vari tipi di intervento che vengono normalmente messi in atto, ce n’è uno che tende ad avere più ripercussioni anche a livello di contenuto: la modifica del finale.

Il finale della storia è un elemento assolutamente essenziale, perché è ciò verso cui tutto converge, è la soluzione del climax, è il punto a cui tende tutto quello che era successo precedentemente.34

Fumagalli sintetizza così questa tematica, aggiungendo inoltre che il cambiamento di finale di molti romanzi classici è indice del fatto che è avvenuto un forte cambiamento di contesto e che quindi per la necessità di appropriarsi della storia e dei personaggi si finisce poi a trovare soluzioni opposte a quelle dei romanzi stessi.

Il cinema può avvalersi, oltre che del linguaggio visivo, anche di quello sonoro. Un sonoro che, per la presenza delle immagini, su cui l’attenzione dello spettatore è concentrata, tende quasi a passare inosservato. La parte audio di un film si guadagna quindi una capacità di condizionamento più potente rispetto a quella prodotta dall’ascolto di un disco o un concerto. Molte scene sono passate alla storia come leggendarie, penso ad esempio alla scena dell’omicidio nella doccia del già citato Psycho, anche grazie al supporto della giusta colonna sonora. Colonna sonora che comprende oltre naturalmente alle musiche e ai suoni sia intra che extradiegetici, anche i dialoghi.

Quello dei dialoghi potrebbe sembrare un finto problema, nel senso che si potrebbe pensare che sia sufficiente riprendere in maniera letterale i dialoghi diretti o trasformare quelli indiretti. Bisogna invece considerare la valenza che le parole hanno se pronunciate da degli

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attori. Sabouraud riporta nel suo testo una citazione di André Bazin35 che ritengo molto esaustiva per puntualizzare questo argomento:

Nel mostrare ciò che racconta il romanziere, [l’autore del film] deve trasformare il resto in dialoghi, fino ai dialoghi stessi. Vi sono poche possibilità, infatti, che le battute scritte nel romanzo non cambino valenza. Se fossero pronunciate tali e quali dall’attore, la loro efficacia e il loro stesso significato ne sarebbero snaturati.36

Sono pochi i casi in cui i dialoghi del testo di partenza vengono ripresi in maniera letterale per la sceneggiatura (La leggenda del pianista sull’oceano è uno di questi, ma analizzeremo la questione nel terzo capitolo). La struttura intrinseca del mezzo presenta delle esigenze e delle potenzialità. Mentre in un romanzo o in teatro la parola è ciò che guida l’azione, nel cinema è l’azione stessa ad essere protagonista. Ciò che vedo nell’inquadratura guida il mio cammino di spettatore fino alla comprensione della storia. La parola è secondaria.

Normalmente, quindi, nel passare da romanzo a film, i dialoghi subiscono un processo di essenzializzazione, che significa di solito una notevole riduzione quantitativa. Questa riduzione può essere radicale e amplissima se si ha a che fare con romanzi molto dialogati o addirittura prolissi […]. La riduzione è minore nel caso di autori più “moderni”, che hanno già introiettato le caratteristiche del dialogo cinematografico.37

Può capitare che si rivelino necessari ulteriori tagli in fase di ripresa, infatti può capitare di accorgersi solo in quel momento che un gesto o un cenno del capo siano molto più efficaci rispetto ad una battuta, che viene quindi eliminata. In altre occasioni ci si accorge di tutto ciò solo in fase di montaggio, e viene quindi tagliata qualche battuta. Confrontare la sceneggiatura ed il film finito può essere utile a scoprire queste situazioni. Cercheremo di evidenziare tutti questi passaggi per quanto riguarda il nostro caso di studio, nel terzo capitolo.

35 André Bazin, «Journal d’un cure de campagne et la stylistique de Robert Bresson», in Qu’est-ce que le cinéma?, Les éditions du Cerf, Paris, 1987, p.109.

36 Frédéric Sabouraud, L’adattamento cinematografico, cit., p. 44.

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All’inizio di questo paragrafo ho accennato alle varie operazioni che possono essere effettuate sulla trama del testo di partenza per ricavarne una storia adatta ad un contesto nuovo. Con contesto intendo sia il periodo storico della pubblicazione dell’adattamento, sia la diversità del mezzo espressivo. In relazione a quest’ultimo abbiamo visto che è possibile operare sulla trama attraverso i meccanismi di restrizione, dilatazione ed ellissi. Vediamo ora nel dettaglio il significato di tutto ciò.

Definiamo ellissi un salto temporale, un taglio nella narrazione, l'eliminazione degli eventi intermedi tra un'azione e l'altra. Il tempo del racconto è azzerato, quella parte di storia non viene espressa. Il narratore tralascia porzioni più o meno ampie della storia, creando un "vuoto" nel racconto.38 Trovandosi di fronte ad un’ellissi, lo spettatore è portato naturalmente a colmare il vuoto della narrazione.

Parliamo di restrizione quando per un adattamento vengono utilizzate solo delle parti del testo di partenza, come ad esempio solo l’inizio o solo il finale. Questo meccanismo viene utilizzato quando ci si vuole concentrare su un aspetto della narrazione, su una tematica, e raccontare la storia per intero avrebbe l’effetto di attenuare la tematica principale.39 Secondo Vanoye invece la restrizione è semplicemente da ricondurre ai tagli di cui parla Dwight Swain: soppressione di episodi, concentrazione di personaggi e accorciamento drammatico.40

Il meccanismo inverso è la dilatazione: può accadere che nella storia non siano presenti elementi sufficienti per una trattazione cinematografica, è possibile quindi aggiungerli. Questo accade frequentemente quando il testo di partenza è molto breve (è il caso anche del monologo Novecento di Baricco), ma possono esserci situazioni in cui del testo di partenza

38 Cfr. Gerard Genette, Figure III, Seuil, Paris, 1972.

39Giorgio Tinazzi, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia, 2007, p. 84. 40 Francis Vanoye, La sceneggiatura. Forme, dispositivi e modelli, cit., p. 133.

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viene presa solamente una parte o solamente la linea di trama principale. Diventa quindi necessario reintegrare gli elementi che si è deciso di omettere con altri più adeguati al tipo di storia che si vuole raccontare. Anche nel caso di una trasposizione spazio-temporale si presenterà l’esigenza di aggiungere episodi o personaggi. Abbiamo visto prima il caso di Apocalypse Now di Coppola, ma possiamo portare anche l’esempio di un film italiano come San Michele aveva un gallo dei fratelli Taviani, liberamente tratto dal racconto Il divino e l'umano di Lev Tolstoj.

Trovo interessante il tentativo di Tinazzi di stilare una lista di tipologie di tattiche narrative, ciascuna seguita dall’esempio di un caso di trasposizione41. Si tratta per lo più di tipologie di adattamento che abbiamo già visto, le riporterò comunque qui di seguito per avere una schematizzazione per punti sull’argomento. Secondo l’autore è possibile intervenire sulla narrazione: a) giocando sulla differenze apparentemente marginali, come può ad esempio essere il mestiere del protagonista; b) aggiungendo personaggi che possono essere utili a chiarire alcuni aspetti caratteriali del protagonista: c) togliendo personaggi, per concentrare solo su alcuni tutte le energie della narrazione; d) cambiando l’ordine delle scene, per “modificare i congegni narrativi e quindi alterare le attese dello spettatore”42; e) dosando in modo diverso le informazioni allo spettatore; f) cambiando la fine o l’inizio (il finale fornisce il punto di vista dal quale la storia può essere vista nel suo insieme); g) mutando il contesto; h) rendendo differente il peso del referente storico: avvenimenti che nel testo letterario fanno da sfondo vengono dilatati e assumono un valore emblematico; i) attuando modifiche allo schema dei fatti (situazioni si presentano prima o dopo rispetto alla struttura letteraria); j) operando una contaminazione fra più testi, spesso dello stesso autore; k) lavorando sulla costruzione del racconto, ovvero sul ruolo del narratore.

41 Giorgio Tinazzi, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, cit., p. 85-97. 42 Ivi, p. 86.

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Uno dei problemi principali che si pongono nel caso di un adattamento si ha quando le vicende originali sono raccontate non secondo una narrazione oggettiva e impersonale, ma attraverso gli occhi e la voce di un personaggio.43

Esordisce così Fumagalli nel paragrafo del suo libro dedicato alla voce del narratore. Come abbiamo già accennato in precedenza, è sempre problematico per chi è alle prese con la stesura di un adattamento capire come fare a trasformare un narratore in prima persona in un corrispettivo cinematografico.

Sembra tuttavia che il punto chiave, per un adattamento fedele ed efficace, non sia quello di rispettare il tipo di narratore che il romanzo propone (per esempio focalizzazione interna di un personaggio della storia), ma piuttosto di verificare quale funzione narrativa ha questa scelta dello scrittore.44

Troviamo così degli adattamenti che riescono a riproporre le sensazioni e i punti di vista del romanzo grazie ad escamotage narrativi, come ad esempio l’anteporre alcune situazioni ad altre o l’uso di inquadrature particolari, ed evitano di cadere nel banale uso della voce narrante. Fumagalli precisa che però non sempre riuscire ad individuare e rispettare lo stile narrativo è garanzia di successo. Non sempre la massima fedeltà è la soluzione migliore. Possiamo citare il caso di Momo di Michael Ende: l’autore partecipò attivamente all’adattamento cinematografico, scontento del film tratto dal suo La storia infinita. La massima fedeltà al romanzo produsse però una versione troppo cupa e statica del film. Il tipo di personaggi e problemi erano perfetti per una narrazione scritta, ma non per uno schermo. Fu quindi la troppa vicinanza con il romanzo a causare il fallimento del film e il mancato apprezzamento del pubblico.

Abbiamo visto in questo paragrafo le principali modalità di intervento su un testo per ricavarne un adattamento cinematografico: le modifiche alla trama per renderla adeguata al supporto (in modo che abbia abbastanza elementi da poter approfondire ma non troppi,

43 Armando Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore. L’adattamento da letteratura a cinema, cit., p. 139. 44 Ibidem.

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perché qualcosa ne risulterebbe trascurato); gli inserimenti di musiche (ovviamente non presenti nel testo originale); le modifiche ai dialoghi; le tipologie di tattiche narrative; l’importanza di comprendere la funzione narrativa dell’opera. Solo riuscendo a cogliere questa è possibile attualizzare un’opera senza snaturarla.

Vorrei concludere con le parole di Sabouraud:

Ciò che distingue un adattamento riuscito oggi non sembra essere tanto legato alla “fedeltà” nel senso riduttivo del termine, quanto piuttosto al modo in cui, resistendo alla pressione di una logica di produzione d’immagini uniformi, standard, svuotate di senso, riesce, attraverso sistemi diversi di credibilità, a mantenere una scrittura particolare fondata su una lettura intima di un’opera adattata e una coscienza profonda del tempo presente nel quale si inscrive questo lavoro: attualizzare l’opera […] oggi potrebbe essere la scommessa costante e complessa dell’adattamento cinematografico.45

IV. L’adattamento di testi teatrali

Ci stiamo pian piano avvicinando al nostro caro Novecento, pianista leggendario vissuto sull’oceano, frutto della penna di Alessandro Baricco. Il sottotitolo dell’opera è “un monologo”, ma in apertura al libro Baricco confessa di non essere sicuro che si tratti effettivamente di un testo teatrale. Racconta di aver scritto questa storia per un attore ed un regista, ma ritiene che questo testo rimanga in bilico fra una messa in scena ed un racconto da leggere a voce alta. Ai fini della nostra analisi prenderemo per buono il sottotitolo e tratteremo Novecento come un monologo.

In questo paragrafo intendo affrontare il tema dell’adattamento di testi teatrali, sottolineando le differenze fra la trasposizione di questo tipo di produzione scritta e quella di un romanzo.

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Cercherò poi di individuare le caratteristiche intrinseche di teatro e cinema, soffermandomi sul modo in cui il pubblico li percepisce in quanto atti di ritualità collettiva.

Fra gli uomini di cinema è abbastanza noto che quando un’opera è nata per il teatro ci sono altissime probabilità che non funzioni per il grande schermo.46

Scrive Fumagalli. Le caratteristiche specifiche degli spettacoli teatrali e cinematografici infatti sono molto diverse. Cambia l’ambientazione, cambia il tipo di pubblico e cambia anche l’ambito di esistenza dell’opera.

Vanoye ritiene che per trasformare un testo teatrale in un prodotto cinematografico sia possibile operare in più modi: 1) ci si può accontentare di filmare una messa in scena teatrale del testo, in questo caso il lavoro di adattamento interviene soprattutto sul piano della regia, tramite cui sono selezionate le inquadrature e i tagli di montaggio; 2) sempre sfruttando una rappresentazione teatrale si può decidere di mettere in risalto lo spazio scenico tramite scelte artistiche di montaggio e decoupage; 3) si può adattare il testo in maniera classica, come si fa con i romanzi. In questi casi intervengono spesso delle leggere modificazioni, come tagli o spostamenti di scene; 4) è possibile infine selezionare alcune scene chiave, l’intreccio o i personaggi e partire da questi elementi per elaborare una nuova sceneggiatura.

Fondamentale importanza per Vanoye ha lo spazio scenografico, che può essere modificato e reso reale in alcuni casi oppure limitato e teatrale anche nel contesto cinematografico. Si tratta di un’operazione di “appropriazione scenografica”, in cui le scelte estetiche possono rimanere fedeli allo spazio-tempo della scena o elaborare nuove soluzioni non teatrali.47

Le differenze fra teatro e cinema non si limitano alla sola ambientazione e scenografia, seguiamo le indicazioni di Fumagalli per cercare di individuarle48.

46 Armando Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore. L’adattamento da letteratura a cinema, cit., p. 158. 47 Francis Vanoye, La sceneggiatura. Forme, dispositivi e modelli, cit., pp.153-155.

48 Armando Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore. L’adattamento da letteratura a cinema, cit., p. 160. Qui Fumagalli riprende Linda Seger, The Art of Adaptation, Henry Holt, New York, 1992, pp. 36-43.

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- Il teatro è tematico: di solito si occupa di analizzare la condizione umana e non ha bisogno di una trama forte per reggere il tempo dello spettacolo. Nel cinema un percorso del genere, di pura esplorazione tematica, non sarebbe abbastanza coinvolgente per il pubblico.

- Il teatro si occupa soprattutto di esplorare la condizione umana. Più o meno la stessa cosa del punto precedente: mentre nel teatro l’intero spettacolo può andare avanti con personaggi che confessano i loro sogni e le loro speranze, nel cinema questo non è sufficiente, è necessaria una trama d’azione.

- Il teatro usa spazi astratti. Negli spettacoli lo spazio è spesso solo un contorno e si limita ad essere evocato più che rappresentato. Uno stesso angolo di palcoscenico può quindi rappresentare luoghi diversi grazie alla “magia dell’immaginazione”. Ci sono rari casi di film in cui avviene lo stesso meccanismo, ma si tratta di rarità non apprezzate da un largo pubblico.

- Il teatro si basa sul dialogo. Come abbiamo già visto in precedenza, il dialogo è ciò che porta avanti l’opera in teatro. Al cinema un meccanismo del genere non è usato perché non è apprezzato dal pubblico.

Dopo aver esaminato le caratteristiche che differenziano uno spettacolo teatrale da uno cinematografico, sempre seguendo le indicazioni di Fumagalli vediamo quali sono le opere che si possono prestare ad un adattamento cinematografico. Occorre ribadire che il pubblico di riferimento del teatro è molto diverso da quello del cinema. Mediamente gli spettatori teatrali sono più colti e attenti a cogliere riferimenti intertestuali. Inoltre, un’opera teatrale può essere ritenuta un successo se raggiunge centomila spettatori, un numero assai piccolo per un contesto cinematografico. Alla luce della differenza del target di riferimento, cerchiamo di individuare le caratteristiche che un’opera teatrale dovrebbe avere per essere facilmente adattabile per il cinema:

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- Una trama: è emblematico il caso delle opere di Shakespeare, in cui la trama è molto solida e ricca anche di colpi di scena.

- “Reggere” in un contesto realistico: le opere teatrali che sono pensate per essere astratte sono più difficilmente adattabili. In questi casi la trasformazione in un contesto realistico toglie credibilità e la storia perde la sua “magia”.

- Non basarsi troppo sulla compresenza di attori e pubblico. Se è necessario per l’opera instaurare una relazione di intimità fra gli attori ed il pubblico durante lo spettacolo, sarà ben difficile ricreare una sensazione simile in un contesto filmico, questo quindi diventerebbe causa di una perdita di forza del testo.

- Possibilità di “aprire” visivamente aggiungendo ambienti e movimento. Fumagalli porta qui l’esempio di Amadeus49: il film arricchisce la storia con riprese di esterni e inquadrature in movimento, che non fanno avvertire l’origine teatrale del testo.50

Sabouraud individua due rischi legati all’adattamento teatrale: il primo consiste nel mantenere solo l’intreccio dell’opera, senza guardare allo stile; il secondo invece deriva dall’apparente immediatezza di riprendere i dialoghi così come sono, senza tener conto della loro dimensione specifica. L’autore suggerisce la necessità di trovare attraverso il cinema un modo per rivelare la specificità della scrittura teatrale.51

Così come per gli adattamenti da testi letterari si parla di letterarietà, nei casi di adattamenti da testi teatrali si può parlare di teatralità. In entrambi i casi la definizione rimanda a qualcosa di negativo, che fa percepire quel prodotto finito come limitato nella propria essenza.

“letterari” potrebbero essere quei film che richiamano l’attenzione dello spettatore sulla loro derivazione52

49 Amadeus è un film del 1984 diretto da Miloš Forman.

50 Armando Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore. L’adattamento da letteratura a cinema, cit., pp. 160-162. 51 Frédéric Sabouraud, L’adattamento cinematografico, cit., p. 68.

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Scrive Tinazzi. E allo stesso modo possiamo definire dei film “teatrali”: brulicanti di dialoghi, statici, con poca azione narrativa. Non sempre tutto ciò è visto negativamente, il cinema francese, ad esempio, ha da sempre alle spalle una tradizione letteraria, teatrale, cinematografica, che ha tratto vantaggio dalle infiltrazioni tra linguaggi, senza preoccuparsi di eventuali fenomeni di “impurità”.53

In realtà tutti questi elementi, questi mezzi di comunicazione, sono parte di un unico mondo narrativo54. Fin dalla nascita del cinema ci sono state critiche e teorie complottiste che accusavano quest’ultimo di minacciare l’esistenza del teatro. Adesso che è evidente che questo problema non sussiste, cinema e teatro possono tornare a guardare ai loro reciproci rapporti evidenziando “la fitta trama di intrecci, scambi, prestiti e interferenze”55 che li caratterizzano da sempre.

Potremmo tentare una definizione: il cinema come avventura dialogica. Anche per questa via ci si accorge insomma che la letterarietà da supposto limite può diventare esplorazione di possibilità. Tutto sta a saperla praticare bene. Cosa difficile.56

Tornando ad occuparci delle differenze fra cinema e teatro, vorrei proporre il punto di vista di Lino Micchichè, espresso nel saggio Lo schermo, la scena, contenuto nella raccolta curata da Fabrizio Deriu57. Miccichè individua fra le caratteristiche:

- Il diverso comportamento attoriale: l’attore teatrale interpreta il personaggio vivendo le scene in maniera consecutiva, quello filmico è sottoposto ad una schizofrenia dettata da ragioni produttive;

53 Ivi, p. 99.

54 Armando Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore. L’adattamento da letteratura a cinema, cit., p. 16. 55 Fabrizio Deriu (a cura di), Lo schermo e la scena, Marsilio, Venezia, 1999, p. 10.

56 Giorgio Tinazzi, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, cit., p. 105.

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- Il diverso rapporto con la prescrittura “letteraria” dello “spettacolo”: il testo teatrale resta dopo la messa in scena, la sceneggiatura invece non è destinata ad un’esistenza autonoma e svanisce al momento della sua trasformazione in film;

- Il diverso contratto spettatoriale: a teatro lo spettatore riconosce il luogo drammatico come finzione, mentre al cinema è immerso nella storia ed è portato a vivere come propria la finzione filmica;

- La diversa realtà scenografica: come abbiamo già visto prima, a teatro il luogo drammatico è delimitato ed è riconosciuto dal pubblico come una convenzione di realtà. Sullo schermo invece è illimitato e aperto.

Micciché prosegue analizzando il problema delle matrici del senso. In ambito teatrale queste sono mobili a causa del fatto che ogni messa in scena ed ogni replica in generale ha una propria irripetibilità. Ogni regista ed ogni attore interviene sul testo dando una propria chiave interpretativa, ad ogni replica un pubblico diverso ha un’influenza sulla dinamica del “loop di feedback”58 e provocando così dei cambiamenti nello stato d’animo e quindi nella recitazione degli attori. Basta una mosca entrata per caso in sala, oppure qualche goccia di pioggia nel caso di uno spettacolo all’aperto, e tutti gli equilibri e le dinamiche avranno bisogno di riassestarsi: «allo spettacolo teatrale non “si assiste”, ma “si partecipa”»59. Nel cinema invece le matrici del senso sono immodificabili. Qualsiasi atteggiamento assuma il pubblico, qualsiasi imprevisto possa accadere, il prodotto filmico non ne risentirà. Il pubblico rumoreggiando «condizionerà la propria fruizione, ma non la realtà del “testo”»60.

58 Cfr. Erika Fischer-Lichte, Ästhetik des Performativen (2004), tr. di Tancredi Gusman e Simona Paparelli: Estetica del performativo. Una teoria del teatro e dell’arte, Carocci editore, Roma, 2014, p. 76.

59 Lino Micciché, Lo schermo, la scena, in Fabrizio Deriu (a cura di), Lo schermo e la scena, cit., p. 15. 60 Ibidem.

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È molto diversa l’influenza che gli spettatori teatrali e cinematografici possono avere sull’esperienza di percezione dello spettacolo. I primi infatti vi partecipano attivamente e di conseguenza hanno la possibilità di variare il flusso degli eventi. I secondi invece non possono interferire con la produzione del film, ma con la percezione che loro stessi e gli altri spettatori ne hanno. In comune hanno la percezione della partecipazione allo spettacolo come un atto di ritualità collettiva.61 Nel caso di un film questo è vero solamente se la visione avviene in un cinema, o al più in un cineforum. Nel caso di uno spettacolo teatrale invece questa situazione si verifica sempre, dal momento che lo spettacolo prende forma nell’istante in cui viene prodotto. C’è un altro tipo di fruizione da prendere in considerazione: è quella del lettore. Leggere un libro è però una forma di ritualità diversa, più personale. La lettura è un atto per lo più individuale, ha un tempo di fruizione diverso, che non è imposto come quello del film. Inoltre, quando si ha a che fare con un libro è possibile sfogliare le pagine, tornare indietro a rileggere alcuni passaggi o sbirciare le conclusioni. Negli ultimi anni la possibilità di guardare film in maniera autonoma sul proprio televisore o pc sta togliendo ritualità all’andare al cinema e sta portando una reperibilità e consultabilità al film che è molto vicina a quella del romanzo.62

In questo capitolo ho cercato di elaborare una sintesi del pensiero di varie personalità del settore, analizzando le teorie più importanti legate all’adattamento e alla traduzione. Ho provato a distinguere le varie definizioni, aiutandomi in questo riprendendo gli studi semiologici di Jakobson ed Eco. Ho affrontato la questione della fedeltà dell’adattamento, che non necessariamente risulta essere positiva, soprattutto quando è fedeltà di forma. Ben

61 Per “atto di ritualità collettiva” intendo un’attività di gruppo al termine della quale si ha la sensazione aver subito dei cambiamenti nel profondo del nostro essere. Un rituale, quindi con una fase iniziale di “separazione”, una intermedia di “liminalità” e un’ultima di “reintegrazione”, che segni un passaggio da una fase a un’altra della vita. Cfr. Erika Fischer-Lichte, Estetica del performativo. Una teoria del teatro e dell’arte, cit.

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diversa è la questione della fedeltà allo spirito dell’opera originale, perché è proprio in questa che viene trovato il punto di forza di un adattamento. In seguito, ho cercato di individuare quali sono nel concreto i problemi tecnici e le soluzioni adoperate da chi si trova a scrivere la trasposizione di un’opera. Abbiamo visto che spesso la trama viene modificata aggiungendo o tagliando degli elementi e che i dialoghi difficilmente possono essere lasciati tali e quali. Sul finire ci siamo affacciati al mondo del teatro, individuando le caratteristiche degli adattamenti che derivano proprio da testi teatrali. Questa scelta è dovuta alla teatralità del testo che intendo analizzare nei prossimi capitoli: Novecento. Un monologo.

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Capitolo 2 – Il cinema di Giuseppe Tornatore

I. Un percorso lungo tutta una vita

Ha solo dieci anni Giuseppe Tornatore (classe 1956) quando gli viene regalata la prima macchina fotografica63, ed è altrettanto giovane quando inizia a fare il proiezionista nella sala cinematografica del suo paese di origine, Bagheria.

Nei primi anni Settanta il giovane Tornatore, con già tanta esperienza di proiezionista alle spalle, arriva a coronare il suo sogno di imprimere movimento alle proprie immagini: con la sua Super 8 inizia a girare per le strade di Bagheria e riprendere i luoghi e le persone del paese. Il regista ha spesso ricordato queste esperienze come fondamentali, raccontando come le ore passate nell’attesa di soggetti fotografabili e «da pedinare»64 gli abbiano insegnato a riconoscere la genuinità e la spontaneità dei gesti che le persone compiono.

Quando metto in piedi una scena, la prima cosa che colgo subito è se c’è un gesto che non funziona: come un modo di camminare, di prendere una valigia… Questa cosa l’ho imparata negli anni della fotografia. Osservare la gente… La fotografia mi ha costretto, senza che me ne accorgessi, a imparare a guardare il mondo.65

A soli sedici anni si confronta con la messa in scena di due opere teatrali di Pirandello e De Filippo, ma quella teatrale è una parentesi piuttosto breve. Le prime realizzazioni

63 Tornatore racconta nel dialogo con Ferdinando Scianna che il suo amore per la fotografia nasce come interesse strumentale, per potersi avvicinare al mondo del cinema che all’epoca era per lui assolutamente inaccessibile. «Ma i regali non facevano parte della nostra vita» spiega, così all’età di dieci anni decide di usare tutti i risparmi che aveva messo da parte facendo dei lavoretti e di impiegarli per acquistare una macchina fotografica. Per permettergli di comprare un oggetto dignitoso il padre contribuisce in maniera sostanziale alla spesa, Tornatore ottiene così la sua prima Rolleicord. Cfr. F. Scianna, G. Tornatore, Baaria Bagheria: dialogo sulla memoria, il cinema, la fotografia, Roma, Contrasto, 2009, pp. 75-76.

64 Il riferimento qui è al cosiddetto Pedinamento Zavattiniano. Si tratta di una tecnica di ripresa molto usata nel periodo del Neorealismo che permette di cogliere con la cinepresa i comportamenti più genuini delle persone comuni.

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cinematografiche di Tornatore sono dei documentari sulla sua Sicilia, come ad esempio Il Carretto (1980), che racconta le tradizioni popolari dell’isola. La fase documentaria non è comunque circoscritta al periodo della giovinezza del regista, troviamo infatti produzioni anche degli anni successivi, come ad esempio il famoso Lo schermo a tre punte pubblicato nel 1995, una sorta di reportage antologico che tramite un sapiente montaggio di spezzoni tratti da più di cento film racconta la cultura dell’isola di Tornatore.

Nel 1979 inizia a collaborare con la Rai, dirigendo produzioni televisive come Diario di Guttuso (1982) e Scrittori siciliani e cinema: Verga, Pirandello, Brancati, Sciascia (1983). Poco dopo, nel 1984 gli viene data l’occasione di partecipare alla realizzazione di Cento giorni a Palermo di Giuseppe Ferrara, girato quasi completamente in Sicilia in coproduzione con la cooperativa di giovani cineasti che Tornatore presiedeva in quegli anni.

Per la carica che ricoprivo mi ritrovai ad essere una specie di produttore esecutivo del film e anche collaboratore alla sceneggiatura. In seguito, grazie alla generosità di Ferrara, fui anche regista della seconda unità del film. Quell’esperienza mi consentì di conoscere Goffredo Lombardo, imperatore della Titanus e distributore di

Cento giorni a Palermo. Nacque un rapporto molto bello, e di lì a poco, quando

decisi quale poteva essere il mio primo film, glielo proposi.66

Il primo film a cui Tornatore fa riferimento nell’intervista è Il camorrista, realizzato nel 1985. Piuttosto anomalo per essere un’opera prima, questo film ha avuto un budget di ben 3 miliardi ed 800 milioni di Lire ed ha perciò potuto permettersi un cast di attori e maestranze di tutto rispetto. La storia è tratta dal romanzo omonimo di Giuseppe Marrazzo (1984, Pironti editore) e con la sua durata di quasi tre ore racconta la vita del boss della “Nuova camorra riformata”, o’ Professore e’ Vesuviano, dall’infanzia alla decadenza.

Ho voluto che il mio primo film raccontasse una storia oggettiva senza riferimenti autobiografici. Molti registi si bruciano e realizzano film che la critica stronca come rappresentazioni di sé stessi. Io avevo paura che potesse accadere anche per il mio

66 C. Carabba, G. M. Rossi, La continua metamorfosi. Conversazione con Giuseppe Tornatore, in M. Luceri, L. Nepi (a cura di), L’uomo dei sogni. Il cinema di Giuseppe Tornatore, ETS, Pisa, 2014, p. 91.

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debutto alla regia. Nuovo Cinema Paradiso era già nel mio cassetto. Ma lo accantonai per una storia estranea al mio mondo.67

Dopo un esordio in cui le tematiche affrontate erano legate alla politica e all’etica, il regista nel suo secondo film sente l’esigenza di raccontare la sua Sicilia, e lo fa con una storia quasi autobiografica e che per certi versi fu in grado di prevedere il futuro. Nuovo Cinema Paradiso è la storia di un uomo, un regista famoso, che manca da casa da trent’anni e che vi fa ritorno a causa della morte dell’uomo che gli ha fatto da mentore e padre quando era bambino: Alfredo, il proiezionista del paese, l’uomo che gli consigliò quando era ragazzo di andar via dalla Sicilia. Quest’opera segna un punto di svolta fondamentale nella carriera del giovane regista, che dopo alcune insistenze con il produttore ottenne le musiche di Ennio Morricone. Il rapporto fra i due è andato consolidandosi negli anni, fino a diventare una vera e propria collaborazione.

Quando ho scritto Nuovo Cinema Paradiso avevo fatto un film solo, e dopo quello le mie cose non si erano messe molto bene, nel senso che continuavo a scrivere soggetti, proponevo storie, ma non riuscivo a mettere in piedi nulla; si stava vivendo una grande crisi in quel momento, a metà degli anni Ottanta tutti dicevano di no, mi sembrava più difficile fare il secondo film del primo. E allora la chiave di scrittura di quel personaggio, nella sua impropria prospettiva autobiografica, fu quasi più una fuga in avanti del subconscio; non potevo considerare autobiografico ciò che non era accaduto, non ero un regista che aveva fatto molti film e men che meno un regista famoso. Le dico di più, nella versione lunga68 si capisce chiaramente – in quella corta

no – che lui ha vinto l’Oscar, ma quella fu una mia follia inventiva; se mi avessero detto che poi sarebbe successo e che «sei stato troppo vanesio», avrei respinto tutto, perché escludevo che nella mia vita sarebbe potuto accadere qualcosa di simile. Fu soltanto una prospettiva della scrittura o, se vogliamo, una trovata di sceneggiatura, forse proprio perché mi sembrava impossibile.69

67 A. Piroso, Niente di personale - servizio di Daniela Tornatore, La7, 3 febbraio 2009.

68 Tornatore si riferisce al montaggio di Nuovo Cinema Paradiso che fu pubblicato inizialmente. Dal momento che i risultati ottenuti al botteghino furono molto scarsi e la critica trovava nella lunghezza di due ore e mezza la causa di tutto ciò, il regista si decise alla fine di tagliare un blocco di una ventina di minuti dal film. La seconda versione venne a durare due ore e cinque minuti, ma anche così nessuno andò a vederla. Fu al Festival di Cannes che si ribaltarono le sorti della pellicola.

69 C. Carabba, G. M. Rossi, La continua metamorfosi. Conversazione con Giuseppe Tornatore, in M. Luceri, L. Nepi (a cura di), L’uomo dei sogni. Cit., p. 102.

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