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"Antitrust e mercato farmaceutico: il caso Avastin - Lucentis"

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

Corso di Laurea Magistrale in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni

TESI DI LAUREA

“Antitrust e mercato farmaceutico: il caso Avastin - Lucentis”

CANDIDATO

RELATORE

Diana Colombai Chiar.mo Prof. Andrea Mangàni

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“Una volta divenuti maturi, fecero conoscere il valore della propria natura non solo ai propri concittadini ma a tutti gli uomini. Esiste, sì che esiste un’origine per ogni aspetto della virtù, ed è l’intelligenza, così come il coraggio ne è la realizzazione perfetta: in base alla prima si decide la giusta azione da compiere, con il secondo ci si salva”.

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INDICE

Introduzione – pag. 5

Capitolo I – La disciplina del diritto Antitrust

 1.1 Cenni storici – pag. 8

 1.2 La disciplina della concorrenza in Europa – pag. 9  1.3 La disciplina della concorrenza in Italia – pag. 14

 1.4 Il recente assetto normativo europeo del diritto Antitrust –pag. 21  1.5 L’impresa ed il mercato rilevante : aspetti generali – pag. 23  1.6 Caratteristiche generali delle intese – pag. 25

Capitolo II – Il mercato farmaceutico

 2.1 L’evoluzione del settore farmaceutico – pag. 28

 2.2 L’oggetto di analisi del mercato farmaceutico – pag. 30  2.3 Le caratteristiche del mercato del farmaco – pag. 34  2.4 I criteri di valutazione nel settore farmaceutico – pag. 38  2.5 la determinazione e la regolamentazione dei prezzi dei farmaci – pag. 39

 2.6 I brevetti nel mercato farmaceutico – pag. 42

 2.7 Gli organismi istituzionali nazionali ed internazionali che operano nel settore farmaceutico – pag. 45

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Capitolo III – Il caso “Avastin – Lucentis”

 3.1 Le origini del caso – pag. 51

 3.2 L’immissione in commercio dei due farmaci, la problematica dell’uso off – label di Avastin e l’intervento dell’AGCM – pag. 53  3.3 Gli sviluppi processuali e normativi del caso – pag. 58

 3.4 I rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia Europea – pag. 65  3.5 Le decisioni del Consiglio di Stato – pag. 72

Conclusioni – pag. 78 Bibliografia – pag. 82

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Introduzione

La tesi presentata affronta un caso di concorrenza all’interno del mercato farmaceutico, in particolare quello relativo ai farmaci Avastin e Lucentis prodotti rispettivamente dalle aziende Roche e Novartis. Questo caso ha coinvolto l’Italia negli ultimi anni fino alla decisione definitiva da parte del Consiglio di Stato lo scorso luglio.

Prima di trattare nello specifico la questione dei due medicinali, la tesi affronterà le principali caratteristiche della disciplina Antitrust, con cenni storici relativi alle sue origini negli Stati Uniti, con riferimenti alla disciplina Europea ed a quella italiana. Riguardo alla normativa italiana verranno effettuati confronti con i principi costituzionali e con le norme contenute nel codice civile. Si tratterà in qual modo l’ordinamento italiano ha recepito la disciplina comunitaria e l’importanza che questa riveste come fonte normativa sovraordinata per le decisioni del giudice nazionale. Vi saranno riferimenti anche al concetto di impresa, di mercato rilevante e alle principali caratteristiche delle intese.

Dopo aver fornito queste informazioni verrà affrontata l’analisi del mercato del farmaco, illustrandone le principali caratteristiche e le maggiori differenze rispetto alle altre tipologie di mercati. Saranno trattati vari aspetti del mercato farmaceutico, in primis l’analisi dell’oggetto di tale mercato, ovvero il farmaco, come bene differente rispetto al concetto di bene contenuto nella concezione del mercato “tradizionale”. I medicinali tutelano non solo l’interesse economico del soggetto che ne fa uso, tutelano anche il diritto ad uno stato di salute migliore. Proprio il riferimento al diritto alla salute permette di inquadrare meglio anche la figura del consumatore, che in questo caso è anche paziente, portatore di un interesse soggettivo che si configura nella possibilità di poter trovare una cura per una determinata patologia. Sarà affrontata anche la disciplina dei brevetti, dal momento che il settore del farmaco si caratterizza per ingenti investimenti nel settore della

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ricerca e sviluppo, il brevetto quindi rappresenta il primo strumento di tutela per la proprietà intellettuale delle aziende che riescono a realizzare un prodotto nuovo e ad immetterlo sul mercato, a seguito di numerosi studi scientifici e clinici. In questo stesso capitolo verranno menzionati anche i principali organismi istituzionali nazionali ed internazionali che operano nel settore farmaceutico, quali l’Agenzia Italiana del Farmaco e l’Agenzia Europea dei Medicinali. L’ultimo argomento trattato saranno i medicinali utilizzati in modalità “off – label”, letteralmente “al di fuori dell’etichetta” ovvero tutti quei medicinali utilizzati dal medico per scopi terapeutici diversi a quelli contenuti nella loro scheda tecnica e diversi da quelli per cui è stato autorizzato. Tale prassi è assai diffusa tra i medici ed infatti è stata la questione che ha dato origine al caso Avastin – Lucentis trattato nel terzo capitolo. Questi due farmaci, come già menzionato, prodotti da Roche e Novartis erano impiegati rispettivamente in ambito oncologico ed in ambito oftalmologico. Il primo farmaco fra i due immesso sul mercato fu l’Avastin, dedicato alla terapia del carcinoma del colon, successivamente Novartis immise sul mercato il Lucentis, preposto invece alla terapia della degenerazione maculare. Il Lucentis però era derivato dal frazionamento della molecola costituente l’Avastin, infatti in campo medico si diffuse l’utilzzo off-label di Avastin per la cura della maculopatia, con il vantaggio che una dose di Avastin fosse assai meno costosa di una dose del Lucentis. Quando la prassi dell’uso off – label di Avastin iniziò a farsi sempre più frequente, Roche tentava di sfavorire l’utilizzo off – label di questo farmaco, poiché aveva concesso a Novartis la licenza sulla commercializzazione di Lucentis, molto più costoso, la cui molecola era stata scoperta dalla Genentech, società controllata da Roche.

Sulla condotta delle due aziende è intervenuta l’AGCM, che ne ha sanzionato il comportamento collusivo. Tale comportamento collusivo si rifletteva poi sulla spesa pubblica con un aggravio notevole per il Servizio Sanitario Nazionale, in termini di rimborsi per i medicinali.

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A seguito di vari ricorsi delle aziende, delle questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte di Giustizia Europea da parte del giudice nazionale, sul caso si è definitivamente pronunciato il Consiglio di Stato il 15 luglio 2019 condannando le due imprese ad una sanzione di circa 90 milioni di euro ciascuna.

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1. LA DISCIPLINA DEL DIRITTO ANTITRUST

1.1 Cenni storici

Il diritto antitrust nacque alla fine del XIX secolo negli Stati Uniti, al termine della guerra civile, che aveva fortemente danneggiato il sistema economico americano, fino a quel momento fondato prevalentemente sull’agricoltura. Durante questi anni gli stati Uniti furono protagonisti di un rapido e consistente sviluppo economico-industriale, che portò alla crescita di infrastrutture per il trasporto ferroviario e alla nascita di società di capitali. Ebbero così inizio i cosiddetti “trusts”: gruppi di potere economico a capo dei settori strategici dell’industria, tra quelli più noti, il settore del tabacco, del petrolio, dello zucchero e dell’acciaio.

Da evidenziare però che il termine trust negli Stati Uniti era utilizzato con una valenza diversa rispetto al significato letterale del termine inglese trust

(ovvero fiducia), poiché indicava tutti quegli accordi volti a generare un

monopolio.

Alla luce di questi eventi che ebbero notevole rilevanza all’interno del mercato, nel 1890 entrò in vigore lo Sherman Antitrust Act, che prendeva il nome dal suo promotore, il senatore dell’Ohio, John Sherman.

Caratteristica principale di questa legge era l’attenzione all’influenza che determinate imprese potevano esercitare all’interno del funzionamento di una libera economia di mercato, per evitare la concorrenza sui profitti a danno dei consumatori e dei concorrenti più piccoli.

Lo Sherman Act fu però anche la causa dell’aumento della concentrazione1

tra le imprese di allora, sia dal punto di vista della la produzione, sia dal 1“Si ha concentrazione quando: due imprese si fondono dando così luogo ad un’unica impresa (concentrazione legale), due o più imprese, pur restando giuridicamente distinte, diventano un’unica entità economica (concentrazione economica), due o più imprese indipendenti costituiscono un’impresa societaria.” Cfr. Campobasso ( 2015).

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punto di vista della distribuzione. Infatti lo scenario economico americano volse verso grandi gruppi di potere economico, superando il modello delle piccole imprese a conduzione familiare. Il mercato quindi era inevitabilmente dominato dalle imprese più forti che potevano assicurarsi il controllo dei prezzi sul mercato. Queste dinamiche furono indirettamente prodotte dallo Sherman Act, poiché quest’ultimo non prevedeva alcuna disciplina delle concentrazioni; al contrario, introduceva per la prima volta il concetto di invalidità e illegittimità degli accordi anti-competitivi, con la possibilità di azioni cautelari o di risarcimento dei danni.

In seguito vi fu la necessità di definire con maggior chiarezza l’ambito di applicazione della disciplina antitrust, così nel 1914 venne adottato il Clayton Act, che prevedeva espressamente il divieto di costituire concentrazioni volte a restringere la concorrenza o creare monopoli. La disciplina definiva (e vietava) anche varie fattispecie abusive, tra le quali le “pratiche leganti” (tying agreements), gli accordi di esclusiva e le discriminazioni di prezzo.

Nello stesso anno, venne promulgato il Federal Trade Commission Act, che insieme allo Sharman Act ed al Clayton Act, rappresenta ancora oggi il pilastro del diritto antitrust degli Stati Uniti (Prosperetti et al,. 2013).

1.2 La disciplina della concorrenza in Europa

Sul finire del XIX secolo, mentre negli Stati Uniti si giunse all’adozione dello Sherman Act, l’economia europea era caratterizzata da una tendenza verso politiche protezioniste ed interventiste per favorire le imprese nazionali, che perdurò fino al dopoguerra. Infatti si guardava con favore agli accordi tra imprese nazionali affinché sviluppassero le loro dimensioni e di conseguenza potessero incrementare il loro potere di mercato.

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Questo fenomeno diventò ancor più evidente dopo la prima guerra mondiale, con l’emergere di sistemi di mercato basati su accordi riconosciuti dalle autorità e da forti protezioni doganali (Pera 2005).

Nel 1923 la Germania emanò la prima legge a tutela della concorrenza a seguito della pesante inflazione che l’aveva colpita al termine della prima guerra mondiale. Con questa legge non si impediva la costituzione dei cartelli, si punivano altresì eventuali comportamenti abusivi dei partecipanti se contrari al pubblico interesse.

In un consistente numero di paesi, i cartelli divennero un vero e proprio strumento di politica economica, tanto da essere impiegati come rimedio per riequilibrare l’economia nei settori industriali più rilevanti quali il settore del carbone, dell’acciaio dell’alluminio e della carta. Questo meccanismo mirava a contenere, ex post, i danni del primo conflitto mondiale e della successiva depressione del 1929.

Soltanto alla fine della seconda guerra mondiale, sotto l’influenza degli Stati Uniti, l’Europa cominciò ad avvicinarsi ai sistemi di tutela della concorrenza. Nel 1950 infatti Robert Schuman suggerì di nuovo di unificare la produzione franco–tedesca del carbone e dell’acciaio per favorire il mantenimento della pace.

Tale proposito però contrastava con l’insieme di regole posto a tutela della concorrenza previste dal trattato, che nel 1951 istituì la Comunità Europea del carbone e dell’acciaio, le quali prevedevano il divieto di intese restrittive e di abusi di posizione dominante, nonché un sistema di controllo delle concentrazioni.

Fu poi nel 1957, con il Trattato di Roma, con il quale venne istituita la Comunità Economica Europea (poi divenuta Comunità Europea, e successivamente integrata nell’Unione Europea con il trattato di Maastricht del 1992), che si affermò l’attuale diritto comunitario della concorrenza.

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Anche il trattato di Roma, come in precedenza, affermava un divieto di intese restrittive e un divieto di abusi di posizione dominante. Il trattato non prevedeva invece un sistema di controllo delle concentrazioni, ma si poteva far affidamento su un complesso di numerose regole volte a limitare l’intervento pubblico nell’economia (Prosperetti et al., 2013).

Il progetto contenuto nel trattato di Roma era quello di istituire un mercato comune europeo, che avrebbe permesso alle imprese di specializzarsi, crescere e poter essere in grado di operare in mercati sempre più grandi. In questo senso il Trattato di Roma costituiva la nascita di “una res publica comunitaria. Per la prima volta gli Stati europei, in opposizione a quanto successo nei decenni precedenti, si univano per creare un proprio “bene comune” tutelato anche nell’interesse dei cittadini degli Stati membri. I cittadini, infatti, tramite le norme di tutela del “mercato comune” divenivano titolari di diritti soggettivi comunitari” (Pace, 2007).

Il diritto della concorrenza fu identificato anche nella possibilità per le imprese di poter mettere in pratica le cosiddette “quattro libertà” fondamentali riconosciute nel trattato: libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone.

Ad oggi è possibile individuare tre pilastri della politica comunitaria in materia di concorrenza:

I) il divieto di intese restrittive della concorrenza che possano pregiudicare il commercio tra gli Stati membri (art. 81 CE);

II) il divieto di sfruttamento abusivo di una posizione dominante nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra stati membri (art. 82 CE);

III) il controllo preventivo delle operazioni di concentrazione di dimensioni europee (introdotto a livello comunitario solo con il Regolamento CE del Consiglio n.4064/89 del 21 dicembre 1989) (Prosperetti et al., 2013);

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Sulla corretta applicazione delle norme sulla concorrenza vigila la Commissione Europea, affiancata dai giudici, dalle autorità di concorrenza nazionali e dalla Corte di giustizia delle comunità europee (CGCE) che ha dato un importante contributo per l’arricchimento dei principi base della concorrenza sanciti dagli artt. 81 e 82 CE.

Dal 1989 la Corte di Giustizia delle comunità europee è affiancata da un tribunale di primo grado delle comunità europee (TPG), per garantire sia una maggiore tutela giurisdizionale ai cittadini, sia per permettere alla CGCE di garantire una interpretazione e una applicazione uniforme del diritto comunitario.

In questo modo le sentenze di CGCE e del TPG hanno dato inizio ad un diritto di matrice giurisprudenziale, come del resto avvenne negli Stati Uniti.

Successivamente l’ordinamento comunitario è stato protagonista di due cambiamenti normativi, dovuti ad un mercato sempre più in espansione in relazione anche all’ingresso nell’Unione Europea di nuovi stati. Nel 2003 è stato emanato il Regolamento 1/2003, che ha consentito alla Commissione di poter analizzare e valutare con più efficacia le gravi infrazioni delle regole di concorrenza, precisando allo stesso tempo il ruolo delle autorità e delle giurisdizioni nazionali nell’attuazione del diritto della concorrenza, favorendo così l’applicazione uniforme di quest’ultimo.

Il Regolamento n.1/2003 ha dato inizio ad un nuovo sistema di gestione delle attività di concorrenza; nella fattispecie, il passaggio da un sistema di divieti ad un sistema di liceità ed eccezioni direttamente applicabili.

La disciplina della concorrenza ha subito un ulteriore cambiamento con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il 1° dicembre 2009.

Il più rilevante cambiamento che occorre evidenziare è contenuto nell’art. 3 in cui si ridefiniscono gli obiettivi dell’Unione Europea:

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“L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico”.

Nella nuova formulazione dell’art 3, la concorrenza sembra assumere un ruolo minore, se non addirittura scomparire, dal momento che non vi è più alcun diretto riferimento alla sua disciplina. A questo proposito occorre fare cenno quindi al 27° protocollo allegato al Trattato (dedicato al mercato interno ed alla concorrenza che così afferma “il mercato interno ai sensi dell'articolo 3 del Trattato sull'Unione europea comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata”. Con questa definizione viene nuovamente chiarito il principio della concorrenza quale “elemento immanente del mercato interno” (Porena, 2018, p.3)

Appare quindi condivisibile l'identificazione della concorrenza, sul piano comunitario, come sorta di principio “costituzionale” o, comunque, principio fondamentale nel governo e nella regolazione dell’economia dell’Unione.

Sono state inoltre confermate, senza nessuna modifica, le norme antitrust contenute nei trattati europei che oggi sono confluite nell’art. 101 e seguenti del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Da evidenziare che già nell’art. 120 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, a cui, nel suo stesso art. 1, viene conferito medesimo valore giuridico del Trattato sull’Unione Europea, viene disposto che:

“Gli Stati membri attuano la loro politica economica allo scopo di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti all’articolo 3 del trattato sull’Unione europea e nel contesto degli indirizzi di massima

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di cui all’articolo 121, paragrafo 2. Gli Stati membri e l’Unione agiscono nel rispetto dei principi di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo un’efficace allocazione delle risorse, conformemente ai principi di cui all’articolo 119”.

Anche in questo articolo si fa menzione della libera concorrenza seppur in riferimento alla efficace allocazione delle risorse e richiamando l’art. 119 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, che disciplina la politica economica del continente.

È evidente infine che, anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il diritto europeo della concorrenza non rimane immutato, come ad una prima analisi sembrerebbe apparire, bensì assume un livello di generalità maggiore, confermando la tutela della concorrenza come principio generale e fondamentale del diritto dell’Unione europea.

1.3 La disciplina della concorrenza in Italia

Nell’ordinamento italiano la normativa antitrust trova origine in una doppia matrice: una nazionale ed una europea, che rispettivamente si intersecano, si compensano e si completano.

La Costituzione italiana all’art. 41 sancisce e garantisce il diritto all’iniziativa economica:

“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

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In questo articolo il legislatore intende sottolineare un modello di economia mista, dove l’iniziativa privata coesiste quella pubblica.

Ancora all’art. 117 Cost. (investito dalla riforma del titolo V con la l. Cost. n.3 del 18 ottobre 2001) viene attribuita potestà legislativa allo Stato in relazione alla materia della tutela della concorrenza, conferendole quindi una rilevanza costituzionale (Coppa et al,. 2013 – 2014).

In particolar modo, al secondo comma, lettera e), dove si può espressamente apprezzare l’affidamento esclusivo della potestà legislativa statale per la tutela della concorrenza, materia che, come definita dalla Corte Costituzionale “costituisce una delle leve della politica economica statale e pertanto non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali” (Gambino, 2009, p.59).

Da evidenziare che, inizialmente, quanto espresso dal legislatore in Costituzione era stato interpretato come norma di garanzia volta a tutelare la libertà di iniziativa economica privata e non vi era nessuna propensione al concetto di concorrenza come strumento regolatore per il funzionamento del mercato.

È evidente che nel nostro ordinamento la disciplina organica della concorrenza è stata adottata con ritardo rispetto agli altri paesi industrializzati. Tale ritardo può trovare spiegazione nel fatto che l’Italia ha fatto affidamento per lungo periodo ad un sistema economico basato su un consistente intervento pubblico, che non permetteva la permeazione di idee di stampo liberale e non prendeva in considerazione la potenziale capacità della tutela della concorrenza, quale spinta propulsiva per un processo virtuoso di innovazione, di progresso ed efficienza all’interno del mercato

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italiano. Libertà di concorrenza quindi come sintesi tra libertà di iniziativa economica privata, che spetta in egual misura a tutti i soggetti che decidono di inserirsi nel mercato e protezione della collettività, poiché un maggior numero di imprenditori, in concorrenza tra loro, favorisce il miglioramento della qualità dei prodotti ed il contenimento dei prezzi (Coppa et al., 2013 – 2014).

Alla fine degli anni ‘80 però, la matrice europea ha dato inizio ad un processo di riduzione dell’intervento pubblico nell’economia ed il sistema legislativo italiano ha recepito i contenuti del Trattato istitutivo della Comunità Europea del 1957 nella legge 287 del 1990, che per la prima volta indica le modalità di tutela della concorrenza nel mercato.

La legge 287/90 premette che le sue disposizioni sono emanate “in attuazione dell’art. 41 della Costituzione, a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica”. In questo modo la legge vuole sicuramente precisare i contenuti costituzionali ma allo stesso tempo vuole reinterpretarli con un significato innovativo: da un lato la norma costituzionale tutela la libertà di iniziativa economica del singolo soggetto, dall’altro lato la normativa antitrust europea si concentra nella tutela del processo concorrenziale in sé considerato.

Ecco quindi che la concorrenza all’interno dell’ordinamento italiano viene inserita in un sistema normativo che è il risultato della sintesi tra i contenuti dell’articolo 41 della Costituzione e i principi del diritto comunitario. Altra fonte normativa all’interno del sistema giuridico italiano per quanto riguarda la disciplina della concorrenza è il codice civile.

Della concorrenza si tratta all’art. 2598 c.c., non per fornire una definizione “pura” di concorrenza, bensì si affronta la disciplina della concorrenza in un suo aspetto “patologico”: la concorrenza sleale.

Ecco che il legislatore inserisce la disciplina di questa materia in un contesto dinamico: vengono presi in considerazione un atto o una serie di atti che

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saranno identificati e qualificati sulla base di questo criterio discriminante di concorrenza sleale.

Occorre precisare che l’aggettivo “sleale” può essere soggetto a due tipi di interpretazione: una prettamente giuridica che asserisce ai comportamenti conformi alla legge e di conseguenza “leali”, l’altra attiene all’etica; questa seconda interpretazione fa riferimento al comportamento dell’imprenditore come enunciato al n.3 dell’art. 2598 c.c.: l’imprenditore è tenuto ad agire rispettando i principi della “correttezza professionale” (Franceschelli, 2007, p.4).

La disciplina della concorrenza sleale è quindi circoscritta all’ambito specifico dei rapporti tra imprenditori concorrenti con l’obiettivo di prevenire e interrompere atti idonei a procurare un danno ingiusto. Questa funzione quindi non si distacca dalla disciplina generale dell’illecito civile, subisce soltanto un adattamento alla specificità del tipo di illecito, l’illecito concorrenziale, e trova attuazione in sanzioni tipiche svincolandosi dal ricorrere all’elemento soggettivo del dolo o della colpa.

Sempre riguardo al tema della concorrenza sleale occorre ricollegarsi alla legge n. 287 del 1990 ed in particolar modo all’art. 2 e poi all’art. 3, che a loro volta riferiscono alle disposizioni oggi contenute agli art. 101 e 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, e agli articoli 85 e 86 del Trattato di Roma (divenuti poi artt. 81 e 82 del Trattato CE) al momento della stesura della legge.

L’art. 2 della legge 287 del 1990 dichiara:

1. Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordate tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari.

2. Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della

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concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel:

a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali;

b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico;

c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;

d) applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza;

e) subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l'oggetto dei contratti stessi. 3. Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto.

Già al punto n.1 dell’articolo si notano le differenze con l’art. 85 del Trattato. Si inquadrano le intese e le pratiche concordate tra i consorzi, le associazioni di imprese ed altri organismi a questi simili ed è evidente un maggior livello di attenzione e di precisione rispetto all’art. 85 del Trattato che riferiva, più genericamente, a “decisioni di associazione di impresa”. Altra formulazione, migliore rispetto all’art.85 del Trattato, riguarda il punto d) dell’art 2 della legge, relativo alle condizioni contrattuali discriminatorie. L’articolo prende in considerazione le condizioni contrattuali “oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti”, mentre l’art. 85 menzionava “condizioni dissimili per prestazioni equivalenti”. In questo modo il legislatore italiano marca il concetto di differenza oggettiva e necessaria per giungere a “ingiustificati svantaggi nella concorrenza”.

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All’ultimo punto poi, l’articolo dispone che “le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”, ciò significa che, tali intese saranno affette da nullità non solo tra le parti, ma anche nei rapporti con i terzi. Questo tipo di precisazione è assai più incisiva rispetto a quanto disponeva l’art. 85 del Trattato, che riferiva ad una nullità di “pieno diritto”. La normativa italiana assevera ad una nullità di tipo estensivo che inevitabilmente ricadrà nella sfera giuridica di tutti i soggetti che metteranno in atto intese vietate dall’ordinamento. Occorre inoltre fare cenno all’art. 3 della legge 287 del 1990 che ha ad oggetto l’abuso di posizione dominante:

1. È vietato l'abuso da parte di una o più imprese di una posizione dominante all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, ed inoltre è vietato:

a) imporre direttamente o indirettamente prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose;

b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico, a danno dei consumatori;

c) applicare nei rapporti commerciali con altri contraenti condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza;

d) subordinare la conclusione dei contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l'oggetto dei contratti stessi.

Quanto disposto dal precedente articolo, riguardo alla posizione dominante, in ipotesi assunta da una o più imprese nel mercato nazionale o in una parte rilevante di esso, diverge da quanto previsto nell’art. 86 del Trattato. Questa

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Trattato fornisce una serie ben precisa di esempi di comportamenti per definire concretamente l’abuso di posizione dominante e li introduce con la proposizione “tali pratiche abusive possono consistere in particolare”; ecco che la normativa europea sembra quasi tipizzare e racchiudere in una sorta di numerus clausus i comportamenti idonei a porre in essere un abuso di posizione dominante.

L’articolo 3 della legge 287 del 1990 si limita ad un generico “ed inoltre è vietato”, quasi da lasciar spazio ad eventuali comportamenti che potrebbero integrare la fattispecie.

Infine da ricordare è un altro elemento introdotto dalla legge 287 del 1990 riguardante la costituzione di una autorità amministrativa indipendente per l’applicazione delle regole di concorrenza. Trattasi della Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, più nota come autorità antitrust. All’autorità è assegnato il compito di vigilare sull’applicazione della normativa antitrust, di intervenire, di accertare ed eventualmente sanzionare le condotte contrarie a concorrenza poste in essere dalle imprese sul mercato. Gli eventuali provvedimenti emanati dalla AGCM sono sottoposti al controllo giurisdizionale del giudice amministrativo: il TAR del Lazio in primo grado, mentre in appello il Consiglio di Stato.

La previsione di un unico giudice di primo grado (TAR Lazio) è dettata da esigenze, oltre che di economia processuale, di garanzia e certezza per i cittadini e le imprese, visti anche i brevi tempi imposti dal mercato. Ciò inoltre va a vantaggio delle imprese perché non saranno soggette ad oscillazioni giurisprudenziali e potranno contare su precedenti uniformi su cui basare le loro condotte future. Al contempo vi è un vantaggio anche per l’amministrazione che seguirà indirizzi univoci per i suoi interventi in ambito di normativa antitrust, dal momento che questa incide in maniera consistente sulla convenienza economica degli investimenti e sulle decisioni di impresa.

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1.4 Il recente assetto normativo europeo del diritto Antitrust

Nel 2003, con l’emanazione del Regolamento 1/2003, assistiamo ad una riassetto normativo che prende il nome di “modernizzazione del diritto antitrust”(Lamarca, 2017). Questa riforma investe quanto disposto dagli artt. 101 e 102 TFUE, rendendo effettivo il decentramento dell’applicazione del diritto europeo ed incentivando le Autorità nazionali nell’attuazione della disciplina antitrust.

Le novità principali introdotte del regolamento possono identificarsi in: i) la riaffermazione dell’effetto diretto dell’art. 101 n.1;

ii) l’affermazione, all’art.1, del principio dell’eccezione direttamente applicabile ex art. 103 n.3 del TFUE;

iii) l’attribuzione (artt. 5 e 6) alle Autorità antitrust e ai giudici nazionali della facoltà di applicare ai casi individuati l’eccezione sopra menzionata. Le Autorità nazionali ottengono in questo modo i medesimi poteri inibitori e sanzionatori della Commissione, possono: far cessare la condotta che ha generato un’infrazione, applicare misure cautelari, imporre sanzioni e qualunque altra conseguenza prevista dal diritto nazionale.

Le nuove normative precisano anche che le Autorità nazionali sono obbligate ad applicare l’art. 101 del TFUE ad ogni fattispecie che potrebbe danneggiare il commercio intra-europeo, anche in parallelo con la norma nazionale che tratta della medesima fattispecie. In caso di eventuale contrasto tra la normativa europea e quella nazionale, prevarrà quella dell’Unione, come prevede il principio della supremazia del diritto europeo su quello interno.

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Il Regolamento inoltre precisa che la Commissione può “riservarsi di esercitare un potere di avocazione nelle fattispecie aventi rilevante interesse europeo” (Lamarca 2017) e conseguentemente l’Autorità nazionale,già investita del caso, dopo essere stata preventivamente consultata dalla Commissione, perde la possibilità di applicare le norme del Trattato.

Questo aspetto però, non fa venir meno il principio di cooperazione tra Commissione ed Autorità nazionali, entrambe tenute ad applicare in stretta collaborazione le regole di concorrenza europee.

Il Regolamento, quindi rappresenta il presupposto giuridico per l’istituzione di una “struttura” che permette la stretta collaborazione tra le Autorità di concorrenza, siano esse a livello nazionale o comunitario. Ciò permette un elevato livello di intesa e armonizzazione tra Commissione ed Autorità nazionali, per meglio coordinare le proprie azioni.

Questi aspetti hanno permesso anche la riduzione di contrasti e disomogeneità nell’applicazione del diritto comunitario da parte degli stati membri, consentendo alle Autorità di potersi confrontare meglio, acquisire e scambiarsi più facilmente informazioni, alla luce di una sempre più marcata integrazione dei mercati.

Alla luce dei cambiamenti normativi, è possibile concludere che il legislatore, sia a livello comunitario che nazionale, attribuisce un ruolo centrale alla corretta dinamica di mercato, non ammettendo comportamenti volti a ottenere una posizione di vantaggio a scapito degli altri concorrenti. “La concorrenza genera benefici per i consumatori, e dunque rende possibile che l’economia svolga una funzione sociale; sia utile alla collettività, e non semplicemente a poche imprese che concentrano il profitto” (Marullo Di Condojanni, 2018).

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1.5 L’impresa ed il mercato rilevante: aspetti generali

Le imprese, nonostante non siano definite precisamente né dal Trattato CE né dalla legge italiana sulla concorrenza, sono gli unici soggetti sottoposti ai divieti di intese restrittive e abusi di posizione dominante, nonché al sistema di controllo sulle concentrazioni. Gli elementi che emergono dall’analisi del diritto della concorrenza, si basano in particolare su criteri sostanziali ed economici, tralasciando l’aspetto formale. Non vi è quindi una nozione sistematica di impresa, che è sicuramente più ampia di quelle che propongono le altre branche del diritto.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha però tracciato una linea guida nel definire il concetto di impresa e lo ha fatto nella sentenza Höfner: “un’impresa è qualsiasi soggetto, sia esso una persona fisica o giuridica, che eserciti una attività economica, cioè offra beni o servizi su un determinato mercato, indipendentemente dal suo status giuridico o dal modo in cui è finanziata” ( Cfr. Sentenza della CGCE del 23 aprile 1991, causa C-41/90, Höfner).

Stando alla suddetta definizione sembra che l’attività di impresa sia identificabile in qualsiasi attività che possa essere svolta in regime di concorrenza, facendo venir meno la necessità dello scopo di lucro.

Vi è poi un’altra definizione di impresa che si basa sulla “teoria dell’unità economica” (Prospretti al., 2013): l’impresa, da un punto di vista economico, è un’organizzazione di beni e persone riconducibile ad un singolo centro decisionale.

Altro elemento di cui fornire una generale definizione per classificare una fattispecie antitrust è il mercato rilevante, un concetto che serve a individuare e circoscrivere l’ambito in cui le imprese sono in concorrenza tra loro.

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Tale ambito riguarda la capacità delle imprese di praticare prezzi superiori a quelli che proporrebbero in un mercato perfettamente concorrenziale, con il risultato di una diminuzione generale del benessere sociale. Se l’impresa riesce ad alzare i prezzi oltre quelli concorrenziali, significa che esistono prodotti che i consumatori ritengono sostituibili con quelli dell’impresa in questione. Se questi prodotti esistono, l’impresa, praticando prezzi più elevati, finirebbe per perdere i suoi clienti. In sintesi, nel mercato rilevante, tenuto conto delle possibilità di sostituzione, è possibile mantenere un significativo potere di mercato, definito come la capacità di un’impresa di alzare costantemente i prezzi al di sopra del loro livello concorrenziale. La definizione di mercato rilevante meglio si può meglio comprendere facendo riferimento alle definizioni ulteriori di mercato rilevante del prodotto e mercato rilevante geografico. La prima definizione riferisce all’insieme di tutti quei prodotti che di per sé il consumatore reputa intercambiabili e sostituibili date le loro caratteristiche, i loro prezzi e l’uso a cui sono destinati. La seconda definizione attiene alle condizioni di concorrenza riscontrabili dalle imprese che operano in zone geografiche diverse. Si presuppone quindi che le imprese forniscano o acquistino prodotti o servizi in zone geografiche dove le condizioni di concorrenza sono sufficientemente omogenee.

Occorre quindi individuare prima la possibilità di sostituzione dei prodotti e poi l’area geografica dove questa sostituzione può esser messa in atto. La combinazione tra il mercato prodotto ed il mercato geografico fornisce la misura dell’ampiezza del mercato rilevante.

Da aggiungere, infine, che per la definizione di mercato rilevante sono considerati tre tipi di sostituibilità, delle quali si fa breve cenno:

i) la sostituibilità dal lato della domanda, ovvero la possibilità di reperire beni che i consumatori reputano sostituibili;

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ii) la sostituibilità dal lato dell’offerta, ovvero l’esistenza di produttori in grado di sostituire, in tempi accettabili, la loro offerta con quella dell’impresa in questione;

iii) la concorrenza potenziale, ovvero la possibilità che nuove imprese, in tempi brevi, siano in grado di entrare nel mercato offrendo nuovi prodotti che i consumatori ritengano poter sostituire quelli già reperibili sul mercato.

1.6 Caratteristiche generali delle intese

Il concetto di intesa riguarda l’interesse razionale che possono avere le imprese a colludere all’interno del mercato. Questo comportamento è, di solito, adottato dalle imprese all’interno di un mercato oligopolistico. La presenza sul mercato di un numero ristretto di imprese incentiva queste ultime ad accordarsi per controllare la produzione e aumentare i prezzi ad un livello ben superiore rispetto ai prezzi in un mercato concorrenziale. Inoltre se tutte le imprese presenti all’interno di un mercato oligopolistico partecipano ad una intesa collusiva (cartello), si otterrà lo stesso effetto di un regime di monopolio, con la riduzione del benessere dei consumatori e di tutti gli altri soggetti presenti sul mercato. Stessa dinamica potrebbe verificarsi anche se l’accordo non coinvolgesse tutte le imprese presenti sul mercato. Le imprese che decidono di aderire all’intesa si comporteranno come un monopolista facendo leva sulla domanda residuale che le altre imprese non possono soddisfare.

Gli elementi essenziali che devono sussistere affinché si possa parlare di cartello sono innanzitutto il poter disporre di una vasta quantità di informazioni sul comportamento di ciascun partecipante al cartello, per poi poter punire qualsiasi comportamento che si distacchi da quanto stabilito. Riguardo alla singola impresa, questa non deve aver alcun incentivo

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razionale ad allontanarsi dagli accordi, vendendo, ad esempio, maggiori quantità di prodotto rispetto a quanto le era stato assegnato, oppure, praticando in modo occulto prezzi nettamente inferiori rispetto agli altri soggetti, così da allontanare i clienti dagli altri partecipanti. Vi è dunque la necessità che le caratteristiche sopra elencate siano manifeste e riscontrabili con certezza da parte delle autorità di concorrenza, altrimenti non sarà possibile veder perfezionato alcun tipo di intesa.

Talvolta il comportamento collusivo non risulta di facile identificazione, dal momento che vi è differenza tra il concetto giuridico ed il concetto economico di “collusione”, infatti: “nella terminologia giuridica, la collusione è definita come la circostanza nella quale le imprese stabiliscono le proprie strategie di comune accordo, nella presunzione che tale accordo sia finalizzato a riprodurre la soluzione di monopolio. Il riferimento è sia agli accordi formali ed espliciti, sia al coordinamento informale (questa seconda fattispecie è esplicitamente prevista nel diritto antitrust europeo con il nome di “pratica concertata”), ma in ogni caso l’enfasi è sulla condotta che ha come contenuto il coordinamento delle strategie di impresa. Quando invece gli economisti parlano di collusione, l’enfasi è sull’esito di mercato, cioè sulla circostanza che, nell’equilibrio oligopolistico, le strategie perseguite da ciascuna impresa sono tali da replicare la soluzione di monopolio.” (Grillo, 2006. p.336)

Vi sono casi poi dove il comportamento delle imprese si identifica in due tipologie di accordo che differiscono in base al livello economico in cui operano. La prima categoria di riguarda gli accordi verticali, che sono definiti come “accordi fra imprese poste ad un diverso livello del ciclo economico e che non sono direttamente in concorrenza, ma, anzi, la cui cooperazione appare essenziale per il coordinamento delle attività produttive” (Adinolfi et al,. 2010); è possibile quindi riferirsi all’ambito

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L’altra categoria ha ad oggetto la cooperazione orizzontale, che riguarda imprese operanti sullo stesso livello economico.

Talvolta questo tipo di cooperazione può essere vantaggioso per le imprese e per il mercato stesso perché permette di condividere rischi, mettere in comune il know-how e immettere velocemente sul mercato innovazioni. Questi vantaggi però non devono tramutarsi in un rischio per la concorrenza e quindi dovranno essere soggetti ad un attento controllo da parte delle autorità antitrust. La difficoltà delle autorità però, sta nella corretta e precisa identificazione degli accordi orizzontali, dal momento che vi è un’estrema diversità di tipologie di cooperazione orizzontale, con un vasto numero di combinazioni possibili tra queste tipologie. Le autorità possono riferire però a dei criteri di analisi per i singoli tipi di accordi di cooperazione orizzontale: “qualora un accordo fosse di natura complessa, combinando diversi tipi di cooperazione, sarà il centro di gravità di dell’accordo a determinare il regime applicabile. Il centro di gravità di un accordo si definisce in base all’analisi di due fattori: l’oggetto e l’intensità della cooperazione” (Raffaelli et al , 2006, p. 119).

Gli accordi orizzontali saranno lo sfondo degli argomenti trattati nei capitoli successivi. Dopo una analisi del mercato del farmaco, verrà esaminato il caso di due farmaci utilizzati in ambito oculistico: Avastin e Lucentis, prodotti rispettivamente dalle case farmaceutiche Genetech/Roche e Norvartis.

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2. IL MERCATO FARMACEUTICO 2.1 L’evoluzione del settore farmaceutico

Nel periodo tra gli anni ‘60 e i primi anni ‘90 gran parte dei paesi sviluppati ha visto un incremento del peso del settore sanitario e della relativa spesa, che hanno fortemente inciso sul Prodotto Interno Lordo. Nel contempo vi è una nuova concezione di salute, che viene identificata come un nuovo bisogno, in relazione ai nuovi modelli di consumo, alla quale devono corrispondere beni in grado di soddisfare tale bisogno.

La salute inizia ed essere considerata un bene economico collettivo anche se storicamente il divario tra risorse disponibili e quelle necessarie per assicurare a tutti uguale accesso all’assistenza sanitaria si accresce in misura rilevante. “Le cause di tale divario sono da ricercarsi in fattori quali l’allungamento della vita con un conseguente aumento della popolazione anziana bisognosa di assistenza sanitaria, l’aumento delle malattie croniche, l’aumento del livello generale dei prezzi e l’ampliamento dei programmi pubblici di carattere sanitario” (Auteri, 2013).

Tutti questi elementi hanno contribuito, in misura diversa, ad aumentare la spesa sanitaria totale e quella pubblica rispetto al PIL. Altri elementi che hanno favorito la crescita della spesa sanitaria sono le variazioni nella ricerca e nel progresso scientifico e tecnologico, a causa del sopraggiungere di nuove patologie che necessitano di costante ricerca per nuove cure. Altra voce che incide fortemente sulla spesa sanitaria è la spesa farmaceutica. Nel suo complesso l’industria farmaceutica europea, come ricorda l’European Federation of Pharmaceutical Industries and Association, EFPIA nel suo codice sulla trasparenza, “rappresenta un asset fondamentale” per l’economia comunitaria.

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Ecco perché, allo stesso tempo, l’industria farmaceutica rappresenta un settore di eccellenza e con un’ampia capacità di contribuire allo sviluppo economico dei paesi.

Anche l’Italia si colloca tra i più grandi mercati farmaceutici mondiali e negli ultimi anni ha assistito ad un contenimento della spesa farmaceutica, tramite iniziative regionali finalizzate al consumo di molecole a prezzo inferiore, vista anche la scadenza di numerosi brevetti e di un gran numero di politiche di incentivazione all’utilizzo dei farmaci equivalenti.

Permangono però, a livello regionale, notevoli differenze riguardo alla spesa per l’assistenza farmaceutica, a causa di fattori comportamentali dei cittadini, di aspetti socio – economici differenti e di diversi assetti dei Servizi Sanitari Regionali, con conseguenti scelte sulla spesa farmaceutica diverse da una regione all’altra.

La moderazione della spesa farmaceutica accomuna sicuramente tutti i paesi occidentali, dove, negli ultimi decenni, ampie fasce della popolazione hanno potuto accedere ad importanti farmaci ed hanno assistito ad una rapida evoluzione ed innovazione delle terapia farmacologica.

Questi fattori hanno dato la possibilità di raggiungere importanti traguardi in ambito sanitario e sociale, come l’aumento dell’aspettativa e della qualità della vita di persone affette da malattie fino ad oggi incurabili e la possibilità di reinserimento nel contesto sociale di pazienti affetti da patologie neurologiche o psichiatriche.

Da evidenziare che l’aumento dell’aspettativa di vita e della qualità degli anni acquistati sono eventi riscontrabili nei sistemi economici avanzati, e sono attribuibili per il 40% all’innovazione farmaceutica.

L’Italia, oggi, si colloca tra i primi paesi al mondo per il numero di anni di aspettativa di vita e nelle graduatorie internazionali sui sistemi della salute. L’ottenimento di questo risultato ha però generato la crescita ininterrotta della spesa farmaceutica che talvolta ha sacrificato i bilanci degli enti finanziatori pubblici e privati. Questa dinamica quindi non può che

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affermare la rilevanza assunta negli ultimi anni dal settore farmaceutico, sia per quanto riguarda la regolamentazione sia in relazione alle sue peculiari caratteristiche.

2.2 L’oggetto di analisi del mercato farmaceutico e la definizione di farmaco

Causa principale dello sviluppo dell’economia del farmaco è da ricercare in primis nella nascita dell’economia sanitaria. Questa disciplina, nata negli anni ‘60, era il riflesso di un crescente interesse per il settore sanitario e per le caratteristiche socio economiche che tendono ad influenzare lo stato di salute del singolo soggetto. L’economia del farmaco quindi diventa una sottodisciplina della più vasta economia sanitaria, grazie anche allo sviluppo sempre più marcato dell’industria del farmaco. In particolare, l’economia del farmaco tratta di numerosi aspetti in relazione al mercato farmaceutico, che vanno dalla differenza tra soggetti finanziatori e beneficiari, alle notevoli asimmetrie informative tra soggetti finanziatori, medici, farmacisti e beneficiari, fino alla presenza di brevetti che creano monopoli temporanei. È possibile affermare allora che l’oggetto dell’economia del farmaco è la struttura della regolamentazione e del finanziamento dell’industria farmaceutica, con la conseguente fissazione dei prezzi dei farmaci, la regolamentazione dei brevetti e lo studio dei canali di commercializzazione. Tutti questi aspetti non sono indipendenti tra loro, ma anzi sono fortemente collegati: se si fissa il prezzo di un farmaco innovativo si deve tener conto sia del costo di produzione, sia dei benefici che si possono trarre dal suo utilizzo, così come occorre tenere in considerazione il costo ed il tempo necessario di ricerca per sviluppare il farmaco in questione e altri farmaci da parte dell’impresa produttrice, della durata, della copertura brevettuale e della domanda stimata del farmaco.

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Oltre a quanto menzionato, è da considerare anche il ruolo riservato ai prodotti farmaceutici nella produzione di salute e al ruolo degli effetti dell’innovazione tecnologica sull’uso dei farmaci.

“L’economia del farmaco può essere, quindi, definita come quella branca specializzata dell’economia che cerca di applicare la metodologia e gli strumenti della teoria economica generale alle particolari caratteristiche del mercato farmaceutico”(Auteri, 2013).

Definire il mercato del farmaco non è comunque semplice, poiché il mercato della salute a cui è connesso ha elementi diversi rispetto ai mercati dei beni normalmente studiati dagli economisti.

Sicuramente il mercato del farmaco ha caratteristiche peculiari rispetto a qualsiasi altro mercato in relazione al tipo di beni prodotti e all’esistenza di una forte interdipendenza fra i diversi interessi economici e sociali dei numerosi agenti coinvolti (imprese farmaceutiche, Sistema Sanitario Nazionale, medici e farmacisti, pazienti).

A questo punto è necessario definire che cosa sia un farmaco. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce i farmaci come “tutti i composti che introdotti in un organismo vivente, possono modificarne una o più funzioni”. Alla luce di questa definizione è possibile identificare un farmaco o medicinale come una sostanza o una associazione di sostanze, in grado di intervenire nei processi di un organismo, per curare o prevenire malattie.

In senso materiale poi, un farmaco è composto da un principio attivo, ovvero l’elemento da cui dipende l’azione terapeutica vera e propria, e da una o altre sostanze sprovviste invece di qualsiasi capacità terapeutica, chiamate eccipienti, che hanno il compito di proteggere la sostanza “attiva”e facilitarne l’assorbimento da parte dell’organismo.

Un farmaco quindi è il fattore che permette di riequilibrare lo stato di salute del consumatore ed è un input imprescindibile nel processo di produzione del “bene salute”. Date queste definizioni, la salute può essere identificata in

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un bene economico, perché è fortemente connessa al concetto di utilità: un soggetto che si trova in un cattivo stato di salute, non solo subisce un disagio fisico, con conseguente disutilità per l’individuo malato stesso, ma diminuisce anche l’utilità complessiva che l’individuo avrebbe potuto ottenere dal consumo di tutti gli altri beni.

La salute quindi è soggetta a deterioramenti e gli individui sono disposti a pagare pur di conservarla, ad acquistare farmaci e prestazioni sanitarie; ecco perché in questo senso è possibile considerarla come un bene economico. Se inserito nel processo di produzione della salute come input, il farmaco ha caratteristiche distintive. Prima di tutto il suo prezzo finale grava soltanto per una parte sul consumatore finale nei casi dove è previsto il contributo dello stato come soggetto terzo pagante o di assicurazioni private. Da osservare che la domanda del bene farmaco è per la maggior parte “indotta”, dal momento che per la maggior parte dei farmaci in commercio il paziente è obbligato ad avere la prescrizione del medico. La vendita dei farmaci e la loro distribuzione è regolamentata dal legislatore in base alla categoria alla quale appartengono e a cui si fanno brevi cenni.

Nella prima categoria rientrano i farmaci etici, ovvero tutti i farmaci che possono essere dispensati al pubblico solo dal farmacista, soltanto in farmacia e previa presentazione di ricetta medica. Il prezzo per tali farmaci è lo stesso su tutto il territorio nazionale e viene stabilito per legge se il farmaco è rimborsato dal Servizio Sanitario Nazionale, oppure è indicato direttamente dalle aziende che lo producono. Per questa categoria è vietato qualunque tipo di pubblicità a meno che non avvenga in riviste destinate a medici o farmacisti.

La seconda categoria comprende i farmaci senza obbligo di ricetta (SOP), che possono essere dispensati al pubblico solo dal farmacista, in farmacia, ma senza obbligo di ricetta del medico. Vi rientrano quindi i medicinali a basso dosaggio o per patologie di lieve entità. Il prezzo di questi farmaci è uguale in tutto il territorio ma è stabilito liberamente soltanto dall’azienda

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produttrice. Anche per questi farmaci la pubblicità è consentita soltanto all’interno di riviste specializzate.

L’ultima categoria riferisce ai farmaci di automedicazione, detti anche farmaci Over the Counter (OTC), ovvero i “farmaci da banco”. Questi medicinali, data la loro composizione ed il loro obiettivo terapeutico, possono essere utilizzati anche senza l’intervento di un medico e possono essere richiesti direttamente dal paziente. I requisiti fondamentali prevedono che il loro principio attivo sia già largamente impiegato in ambito medico, che siano in commercio da più di cinque anni e che siano utilizzati per disturbi che il paziente è in grado di riconoscere autonomamente. Per questi farmaci è permessa pubblicità a seguito di autorizzazione del Ministero della Sanità.

A quale categoria appartenga un farmaco è stabilito dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), un ente di diritto pubblico, istituito con la legge 326/2003, che opera sulla base degli indirizzi del Ministero della Salute, in autonomia, seguendo i principi di trasparenza e di economicità. L’AIFA ha inoltre il compito di vigilare sull’unitarietà delle attività in materia farmaceutica e di assicurare il controllo della spesa farmaceutica. Un farmaco quindi che verrà inserito in una di queste tre classi avrà le caratteristiche delle cosiddette specialità medicinali, cioè farmaci commercializzati con un nome specifico e in una confezione particolare, protetti in origine da brevetto. Una volta scaduto il brevetto sarà possibile trovare sul mercato anche i cosiddetti farmaci generici, che potranno essere prodotti da un grande numero di imprese, venuta meno la protezione brevettuale, e che affiancheranno la specialità medicinale già presente sul mercato. Anche i farmaci generici sono classificabili secondo i criteri delle tre categorie precedentemente elencate, anche se per essere immessi nel mercato non necessitano di un marchio commerciale, ma saranno soggetti alla Denominazione Comune Internazionale (DCI o International Non – proprietary Name). Infine da menzionare un’ulteriore differenziazione all’interno dei farmaci generici: i

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branded generics, imitazioni con marchio dei generici in commercio anche sotto la DCI seguiti dal nome del produttore e i farmaci generici unbranded, privi invece di qualunque marchio.

2.3 Le caratteristiche del mercato del farmaco

La prima considerazione all’interno del mercato farmaceutico riguarda il bene oggetto di scambio. Il medicinale infatti, è difficilmente sostituibile con altri farmaci che appartengono a classi terapeutiche diverse. Perciò si può definire il mercato di prodotto rilevante facendo riferimento alle proprietà terapeutiche del farmaco e non alla forma farmaceutica, ovvero il tipo e la concentrazione di principio attivo. Altro elemento di analisi riguarda la rilevante estensione nazionale del mercato geografico, dovuta alle molteplici differenze tra le politiche sanitarie dei paesi, siano esse riguardanti la regolamentazione dei prezzi, dei canali di distribuzione e dei sistemi di accesso. Queste peculiarità fanno si che l’analisi del mercato farmaceutico sia complessa, dal momento che la difficile sostituibilità di un farmaco porta ad individuare un elevatissimo numero di mercati, considerando la classe terapeutica. A ciò si affianca anche la difficile valutazione di questi mercati perché le politiche di ogni nazione per la tutela della salute sono di gran lunga differenti e conseguentemente difficoltosa sarà anche il controllo della spesa pubblica a causa del considerevole numero di soggetti privati portatori di interessi economici diversi. Al contempo, nel settore farmaceutico troviamo la presenza del soggetto pubblico, che sottolinea l’importanza del bene – farmaco come strumento essenziale per la tutela della salute del singolo e per quella della società e di conseguenza ne evidenzia la natura di bene meritorio. Lo Stato assume così il duplice ruolo di terzo pagante e di regolatore a tutela del bene meritorio, intervenendo sulla domanda e sulla determinazione del prezzo del

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farmaco ed assoggettando l’offerta a diversi vincoli nelle varie fasi del ciclo di vita del prodotto farmaceutico. Dal punto di vista dell’offerta, questa viene influenzata attraverso i brevetti, il controllo sui canali di distribuzione e sulla pubblicità dei farmaci. Per quanto riguarda invece la determinazione dei prezzi, lo Stato interviene in questi meccanismi per controllare la spesa pubblica e nello specifico sui criteri di classificazione e di rimborso dei medicinali.

Se fosse poi effettuato un confronto tra un mercato tradizionale ed il mercato del farmaco sarebbero evidenti varie differenze e emergerebbe la non applicabilità dei criteri tradizionali di mercato in ambito farmaceutico. All’interno del mercato tradizionale è possibile infatti individuare due agenti principali: i produttori che generano offerta e i consumatori che definiscono la domanda. Il punto di incontro tra domanda ed offerta permette di identificare il prezzo di equilibrio di mercato. In un mercato concorrenziale l’obiettivo dei consumatori è quello di massimizzare la propria utilità, quello dei produttori è la massimizzazione dei profitti, coprendo i costi del lavoro, del capitale e delle materie prime.

Il mercato del farmaco difficilmente si adatta alla caratteristiche sopra elencate perché innanzitutto è presente una forte asimmetria informativa tra medici, pazienti e Servizio Sanitario Nazionale. Al contempo vi è la complessità della materia medica e farmacologica che impedisce ai consumatori, dal lato della domanda, di poter valutare l’utilità che potrà derivare dalla scelta di un determinato trattamento sanitario o farmacologico; per questo si dovranno necessariamente rivolgere ad un medico. “Il medico quindi farà da intermediario in relazione alla domanda di prodotti farmaceutici da parte del consumatore finale, cioè il paziente, nel momento in cui prescriverà il farmaco alla luce delle informazioni scientifiche sul prodotto fornitegli dall’azienda produttrice. In questo modo si configurerà il cosiddetto effetto SID (supply – induced demand), ovvero l’ «induzione della domanda da parte dell’offerta» poiché sarà lo stesso

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medico ad individuare i bisogni del paziente e a determinare la domanda di prestazioni sanitarie e di farmaci. Tra paziente e medico si stabilisce, dunque, un accordo, un contratto, attraverso il quale il paziente delega al medico la tutela della propria salute. Si instaura pertanto un «rapporto di agenzia» che, in assenza di opportuni meccanismi incentivanti, tanto dal lato del paziente quanto dal lato del medico, può alimentare comportamenti di moral hazard da parte del medico” (Auteri, 2013).

Il medico, nel rapporto medico-paziente, è il soggetto informato e che riveste un ruolo di indirizzo rispetto alla prescrizione di farmaci o rispetto al ricovero in ospedale, poiché possiede informazioni strategiche che talvolta potrebbe utilizzare per amplificare degli indicatori rispetto alla natura clinica del caso. Tra il medico ed il soggetto pubblico o privato che provvederà al rimborso delle prestazioni sanitarie e farmaceutiche intercorre un rapporto di tipo “principale–agente”. Il soggetto principale ha l’obiettivo che il medico prescriva terapie e farmaci in base ad una valutazione di costo–efficacia, mettendo a confronto la convenienza di ciascuna prescrizione in base al confronto tra il suo costo ed i suoi benefici terapeutici. È evidente poi che nella concezione del medico, non vi è certo il confronto tra costo marginale e beneficio marginale come primo obiettivo, bensì vi è il compito di prescrivere una terapia risolutiva per la patologia, attraverso prescrizioni efficaci, per il raggiungimento del benessere del paziente.

Il rapporto principale–agente si può identificare anche tra il soggetto pubblico o privato ed il paziente. Quest’ultimo può comportarsi in maniera opportunistica, acquistando una quantità di farmaci maggiore rispetto a quella di cui ha veramente bisogno, poiché la spesa che egli sosterrà sarà coperta dall’agente. In questo modo il paziente non avrà nemmeno l’incentivo ad ottimizzare la propria scelta. Una soluzione a questo problema, inquadrabile in un comportamento di moral hazard, è quella di

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prevedere una compartecipazione del paziente alla spesa per l’acquisto del prodotto farmaceutico (co–payment).

La particolare struttura del mercato farmaceutico è rilevabile anche analizzando l’offerta. Questo mercato è caratterizzato da elevati costi per gli investimenti in ricerca e sviluppo, per l’ingresso sul mercato ma anche per l’uscita da quest’ultimo (sunk costs). Per la copertura dei costi di ricerca interviene il legislatore con la disciplina dei brevetti, che permettono di garantire una posizione di monopolio a chi li detiene, fino alla loro scadenza.

Da evidenziare che all’interno del settore del farmaco, soprattutto in Italia, vi sono numerosi mercati di piccole dimensioni ma con una elevatissima concentrazione, dati dall’alto grado di specializzazione di alcuni prodotti per la cura di particolari malattie. Le aziende produttrici tendono poi ad espandere l’offerta anche nei mercati internazionali, a causa della dimensione insufficiente di quelli nazionali, per poter recuperare i costi che ha comportato l’immissione sul mercato di un nuovo prodotto.

Da aggiungere che molti mercati farmaceutici presentano una struttura oligopolistica che permette alle imprese di fissare i prezzi con modalità diverse rispetto a quelle delle regole della libera concorrenza. Vi è poi l’intervento del soggetto pubblico per la fissazione del prezzo dei farmaci, attraverso un procedimento amministrativo negoziato. L’ultima distinzione da effettuare è quella tra farmaci di categoria “con prescrizione”, il cui prezzo è determinato per via negoziata e farmaci di “automedicazione”, il cui prezzo è liberamente determinato sul mercato. Il mercato del farmaco dunque presenterà una bassa elasticità della domanda, perché il prodotto farmaceutico è bene indispensabile per la salute del singolo e della collettività.

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2.4 I criteri di valutazione nel settore farmaceutico

Prima di analizzare nello specifico ulteriori elementi del mercato del farmaco, quali la determinazione e la regolamentazione dei prezzi, può essere utile far cenno ad alcuni criteri di valutazione generali.

Il primo criterio riguarda il controllo della spesa, che ha assunto sempre un peso sempre maggiore negli ultimi anni, a seguito dell’invecchiamento della popolazione e dell’aumento della richiesta di benessere sanitario, con conseguente progresso tecnologico e tecnico. Ciò comporta un aumento della spesa sanitaria che dovrà essere presa n considerazione sia dal sistema sanitario pubblico sia dai soggetti privati.

Accanto al controllo della spesa vi è l’efficacia, ovvero la capacità che dovrebbe avere un sistema di regolamentazione di rendere costantemente accessibili e disponibili ai pazienti consumatori i prodotti e le terapie, garantendone anche la idonea quantità e qualità.

Il terzo criterio è l’equità, definibile come “il grado con cui l’accesso ai farmaci e la compartecipazione del consumatore finale al loro prezzo sono resi coerenti con la dimensione di equità sociale e con i diritti universali di cittadinanza.” (Pammolli et al., 2004). L’equità può essere analizzata tenendo conto di due dimensioni. L’equità orizzontale riguarda pazienti con stesse esigenze di salute, che hanno accesso a medesimi trattamenti farmacologici; ai pazienti con la stessa capacità contributiva si richiede uguale partecipazione al finanziamento della spesa. L’equità verticale si riferisce ai pazienti con esigenze di salute diverse, che hanno un conseguente accesso differenziato alle terapie farmacologiche; in questo caso ai pazienti con diverse capacità contributive è richiesta una partecipazione al finanziamento opportunamente differenziata. Poter raggiungere l’equità risulta molto difficile poiché la sua valutazione va inserita in un complesso di valori sociali, politici e culturali, tenendo di conto allo stesso tempo delle differenziazioni di trattamento necessarie a

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crearla. Il concetto di equità è inevitabilmente connesso a quello di accesso universale alle prestazioni, ovvero un accesso garantito a tutti i soggetti che sono parte di una determinata collettività o di un determinato paese.

Il penultimo criterio è quello dell’efficienza che riferisce al rapporto costo– efficacia più basso dei farmaci presenti sul mercato. Seguendo tale criterio si avrà l’obiettivo di contenere la spesa per i soggetti finanziatori e la massimizzazione della somma dei surplus dei consumatori finali (pazienti). Se un intervento sarà più efficiente, minori saranno le risorse da esso utilizzate per raggiungere gli obiettivi prefissati.

L’ultimo criterio da ricordare è quello dell’innovazione, ovvero quello di incentivare e premiare la scoperta di prodotti e di terapie, migliori e in grado di curare patologie ulteriori. L’innovazione nel settore farmaceutico può essere identificata in un processo che introduce cure clinicamente più efficaci, con un rapporto costo–efficace più vantaggioso e per condizioni in precedenza non curabili (Pammolli et al., 2004). Per favorire l’innovazione sono necessarie anche alcune condizioni quali: un regime efficace e non distorsivo della proprietà intellettuale, la presenza di una concorrenzialità reale all’interno del mercato farmaceutico (sia dal punto di vista dell’offerta che della domanda) ed un sistema di regolamentazione efficace.

2.5 La determinazione e la regolamentazione dei prezzi dei farmaci

Negli ultimi anni molti studi empirici hanno dimostrato che i profitti dell’industria farmaceutica sono tra i più alti. Una spiegazione a questo fenomeno può essere riscontrata nel fatto che tale settore è caratterizzato da un potere monopolistico per poter ottenere più alti tassi di rendimento e incrementare il capitale, dal momento che in questo settore gli investimenti per la ricerca e lo sviluppo sono molto più rischiosi rispetto ad altri. La messa in commercio dei nuovi prodotti è protetta dai brevetti; anche se sono

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