A
curA
di
Catia GiaConi, noemi Del BianCo
in azione
Prove di inclusione
Presentazione
di lucia chiaPPetta cajola
La passione per le conoscenze
FrancoAngeli
g 19,00 (U)
nato in occasione della prima edizione di “unimc for inclusion”, iniziativa promossa
dall’u-niversità degli studi di Macerata, il volume intende proporre, in un’unica opera collettanea,
coordinate teoriche e traiettorie operative applicabili in plurali contesti inclusivi formativi,
siano essi scolastici, di aggregazione o residenziali.
il paradigma dell’inclusione viene pertanto indagato in ragione delle sue declinazioni,
nonché plurime prospettive di ricerca, attraverso una molteplicità di approfondimenti tematici.
sfide attuative, proposte laboratoriali e ipotesi progettuali prendono vita nel testo, offrendo al
lettore pratici spunti di riflessione e di sperimentazione dal carattere inclusivo.
Per tali motivazioni il volume è particolarmente consigliato a pedagogisti, insegnanti ed
educatori, sia in formazione che in servizio, poiché nella loro professione sono costantemente
chiamati ad intraprendere “prove di inclusione”.
11750.6
Catia Giaconi è professore ordinario di didattica e pedagogia speciale presso il dipartimento di scienze della formazione, dei Beni culturali e del turismo dell’università degli studi di Macerata. i suoi principali interessi di ricerca sono rivolti alla presa in carico delle persone con disabilità in età adulta e alla forma-zione dei docenti, degli educatori e dei pedagogisti. È responsabile scientifica di collane editoriali in italia e in Brasile. ha pubblicato diversi volumi e articoli in riviste nazionali e internazionali. Per la casa editrice Francoangeli, ricordiamo Qualità della vita e adulti con disabilità (2015), e Conoscere per includere (con s.a. capellini, 2015).
Noemi Del Bianco è dottoranda di ricerca presso l’università degli studi di Macerata. i suoi maggiori inte-ressi di ricerca sono orientati alla costruzione di servizi e interventi rivolti alla presa in carico di adolescenti e giovani con disabilità. ha pubblicato diversi articoli in riviste nazionali di fascia a.
C. Giac
oni,
n. Del Bianc
o
in azione
ISBN 978-88-917-7217-6Il presente volume è pubblicato in open access, ossia il file dell’intero lavoro è liberamente scaricabile dalla piattaforma FrancoAngeli Open Access
(http://bit.ly/francoangeli-oa).
FrancoAngeli Open Access è la piattaforma per pubblicare articoli e
mono-grafie, rispettando gli standard etici e qualitativi e la messa a disposizione dei contenuti ad accesso aperto. Oltre a garantire il deposito nei maggiori archivi e repository internazionali OA, la sua integrazione con tutto il ricco catalogo di riviste e collane FrancoAngeli massimizza la visibilità, favorisce facilità di ricerca per l’utente e possibilità di impatto per l’autore.
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possono consultare il nostro sito Internet: www.francoangeli.it e iscriversi nella home page al servizio “Informatemi” per ricevere via e-mail le segnalazioni delle novità.
Collana diretta da
Catia GiaConi, Pier GiusePPe rossi,
simone aPareCida CaPellini
la collana “traiettorie inclusive” vuole dare voce alle diverse
propo-ste di ricerca che si articolano intorno ai paradigmi dell’inclusione e
della personalizzazione, per approfondire i temi relativi alle
disabili-tà, ai Bisogni educativi Speciali, alle forme di disagio e di devianza.
Si ritiene, infatti, che inclusione e personalizzazione reifichino una
prospettiva efficace per affrontare la complessa situazione
socio-culturale attuale, garantendo un dialogo tra le diversità.
i contesti in cui tale tematica è declinata sono quelli della scuola,
dell’università e del mondo del lavoro. Contemporaneamente sono
esplorati i vari domini della qualità della vita prendendo in esame
anche le problematiche connesse con la vita familiare, con le
di-namiche affettive e con il tempo libero. Una particolare attenzione
inoltre sarà rivolta alle comunità educative e alle esperienze che
stanno tracciando nuove piste nell’ottica dell’inclusione sociale e
della qualità della vita.
la collana presenta due tipologie di testi. Gli
“Approfondimenti”
permetteranno di mettere a fuoco i nodi concettuali oggi al centro del
dibattito della comunità scientifica sia nazionale, sia internazionale.
i
“Quaderni Operativi”, invece, documenteranno esperienze,
pro-getti e buone prassi e forniranno strumenti di lavoro per
professioni-sti e operatori del settore.
la collana si rivolge a tutti i professionisti che, a diversi livelli, si
occupano di processi inclusivi e formativi.
direzione
Catia Giaconi (Università di Macerata),
Pier Giuseppe Rossi (Università di Macerata), Simone Aparecida Capellini (Università San Paolo Brasile).
CoMitato SCientifiCo
Paola Aiello (Università di Salerno) Fabio Bocci (Università roma3)
Stefano Bonometti (Università di Campobasso) Elena Bortolotti (Università di trieste)
Roberta Caldin (Università di Bologna) Lucio Cottini (Università di Udine)
Noemi Del Bianco (Università di Macerata) Filippo Dettori (Università di Sassari) Laura Fedeli (Università di Macerata) Alain Goussot (Università di Bologna)
Pasquale Moliterni (Università di roma-foro italico) Annalisa Morganti (Università di Perugia)
Liliana Passerino (Università Porto alegre, Brasile) Valentina Pennazio (Università di Macerata) Loredana Perla (Università di Bari)
Maria Beatriz Rodrigues (Università Porto alegre, Brasile) Maurizio Sibilio (Università di Salerno)
Arianna Taddei (Università di Macerata) Andrea Traverso (Università di Genova) Tamara Zappaterra (Università di firenze)
A
CURA
DI
CATIA GIACONI, NOEMI DEL BIANCO
IN AZIONE
PROVE DI INCLUSIONE
Il presente volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze della formazione, dei Beni culturali e del Turismo dell’Università degli Studi di Macerata.
Isbn open access: 9788891785039
Copyright © 2018 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy.
Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non Commerciale-Non opere derivate 3.0 Italia (CC-BY-NC-ND 3.0 IT)
L’opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sul diritto d’autore. L’Utente nel mo-mento in cui effettua il download dell’opera accetta tutte le condizioni della licenza d’uso
dell’opera previste e comunicate sul sito
http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/legalcode
Indice
Premessa: teorie e pratiche a confronto per nuovi scenari in-clusivi, di Catia Giaconi, Noemi Del Bianco, Maria Beatriz
Rodriguez, Gianluca Amatori
Parte I – Tecnologie e disabilità
Bambini e Robot. La Robotica Educativa nella scuola dell’in-fanzia, di Lorella Giannandrea, Ilaria D’Angelo
Narrazione e realtà virtuale: nuovi scenari per l’inclusione so-ciale, di Aldo Caldarelli
La sfida inclusiva delle tecnologie assistive, di Andrea
Mon-teriù
I Social Robot e il Disturbo dello Spettro Autistico: emer-genze e potenzialità educative, di Catia Giaconi, Noemi Del
Bianco, Maria Beatriz Rodrigues, Elisa Cirilli
Robotic-Lab: nuovi spazi di connessione tra Robotica e inclu-sione, di Noemi Del Bianco
Parte II – Percorsi laboratoriali nel segno dell’Inclusione
Lezione al buio. Percorsi inclusivi al Museo della Scuola, di
Anna Ascenzi, Marta Brunelli
pag. 9 » 15 » 24 » 34 » 41 » 50 » 67
Ti racconto una storia… ma ho bisogno di te!, di Rosita Deluigi MeTe - Abili Equilibri d’Arte, di Mara Mancini
Il Mio Labrador – Laboratorio di pet therapy (Interventi As-sistiti con gli Animali), di Andrea Zenobi, Federica Zucchini,
Manuela Pasutto
MusE-Lab: Laboratorio di Musica ed Emozioni per classi in-clusive, di Noemi Del Bianco, Aldo Caldarelli
Parte III – Percorsi di ricerca nel segno dell’Inclusione
Rafforzare le comunità educative in contesti vulnerabili: un Index for inclusion and empowerment in Palestina, di Arianna
Taddei, Elena Pacetti
La Qualità della Vita nei servizi per persone con disabilità: sfide e prospettive, di Catia Giaconi, Claudia Barboni,
Bar-bara Emiliozzi, Ilaria D’Angelo, Noemi Del Bianco
Lavorare in rete per favorire l’inclusione dei bambini adotta-ti: gli aspetti psicosociali e l’esperienza dell’Associazione La Goccia onlus di Macerata, di Alessia Sacchi, Valeria Rossi,
Alessandra Fermani, Caterina Busilacchi
Parte IV – Focus ed approfondimenti
Distimia: la grande esclusa dal novero delle condizioni margi-nalizzanti, di Massimiliano Stramaglia
Famiglie con figli disabili: il contributo della pedagogia spe-ciale per la promozione di percorsi inclusivi, di Catia
Giaco-ni, Noemi Del Bianco, Manuela CrescimbeGiaco-ni, Maria Beatriz Rodrigues
La relazione genitoriale nella famiglia con disabilità: una ri-flessione pedagogica sul ruolo e sulla funzione paterna, di
Gianluca Amatori
Dall’integrazione scolastica all’inclusione sociale: riflessioni, criticità e prospettive, di Luca Ghirotto
pag. 83 » 94 » 106 » 114 » 129 » 153 » 170 » 189 » 208 » 222 » 234
Parte V – Parole chiave: accessibilità ed inclusione
Università degli Studi di Macerata: verso la costruzione di una biblioteca inclusiva, di Concetta Lovascio, Elisabetta
Michet-ti, Claudia Pierangeli
Accessibilità dei contenuti Web: passato, presente e futuro di www.unimc.it, di Simone Carletti, Roberto Rascioni
Il servizio Disabilità e DSA dell’Università degli Studi di Macerata, di Pamela Lattanzi, Carla Bufalini, Lucia
Compa-gnoni
Didattica universitaria e dispositivi tecnologici inclusivi: il progetto Inclusione 3.0, di Catia Giaconi, Noemi Del Bianco Ripensare i servizi in chiave inclusiva: l’esperienza della bi-blioteca e dei musei civici di Macerata, di Giuliana Pascucci,
Meri Petrini pag. 247 » 261 » 274 » 284 » 296
Distimia: la grande esclusa dal novero
delle condizioni marginalizzanti
di Massimiliano Stramaglia*
I tracciati euristici abbozzati dal tema, a maglie larghe, dell’inclusione (obiettivo) consentono – in un approccio perlopiù induttivo (dal particolare esperito al generale esperibile) – di pervenire alla macro-categoria fondan-te dell’esclusione sociale (situazione iniziale, di parfondan-tenza o status quo) qua-le principio cardine di unità intorno a nucqua-lei marginalizzanti socialmente condivisi, come le disabilità, l’appartenenza a culture minoritarie o a cate-gorie di genere e di orientamento sessuale svantaggiate, il disagio psichico e la patologia psichiatrica. In ordine a quest’ultimo asse, la rilevazione esatta di condizioni che espongono all’isolamento sociale (polo opposto all’inclusione) è sempre più incerta e sempre meno attendibile, dacché la casistica è reperibile solo sulla base periodica del numero dei TSO com-plessivi, del numero degli ospiti che soggiornano (talora permanentemente) presso apposite comunità di accoglienza per soggetti psichiatrici, e del consumo di psicofarmaci a livello nazionale. Mentre nei casi delle disa-bilità è possibile circoscrivere la fenomenologia socio-culturale del dato con un buon livello di approssimazione (eccetto che per le disabilità latenti oppure non conclamate), mentre il controllo demografico consente la crea-zione di un panel di riferimento sufficientemente valido (eccezion fatta per l’elemento in crescita smisurata dell’immigrazione clandestina), mentre le problematiche del genere femminile e degli orientamenti sessuali risultano categorizzabili e di volta in volta, probabilmente, ri-negoziabili (ad esem-pio, il comportamento omosessuale odierno appare finalmente sdoganato dai pregiudizi testamentari e malamente post-freudiani che lo screditava-no in quanto perverso e contro-natura), il margine sempre più decentrato (Rossini, 2001) del quadrilatero dell’esclusione è lo psichiatrico sommerso.
* Dipartimento di Scienze della Formazione, dei Beni Culturali e del Turismo, Univer-sità degli Studi di Macerata.
Per intendersi, non già, fra le patologie mentali, la depressione nelle sue manifestazioni più gravi, di cui si scrive da secoli1, ma le forme più lievi
o soffuse di depressione, che possono causare, a titolo esemplificativo, i cosiddetti “suicidi inspiegabili” – nella più infausta delle ipotesi – oppure condotte disadattive, distruttive e autodistruttive, come la scelta condizio-nata di un’esistenza appartata (“ai margini”), priva di aspirazione alcuna e a socialità ridotta, quando non inesistente (alla stregua di Eris, dea della discordia); l’incapacità di intessere relazioni durevoli e significative (in ordine al codice maschile, si pensi ad Attila, il cui incedere rende arido il terreno; o a Circe, che trasforma gli uomini in porci, nel rispetto del codice femminile); infine, la sensazione di esserci solo per il tramite della soffe-renza (nel segno della morte: Thánatos, o del lutto: Elettra).
In questa sede, ci si propone di elaborare un quadro analitico non esau-stivo, eppure significativo, dei rischi legati alla condizione del soggetto affetto da distimia. Quest’ultima, come si avrà modo di capire, pare es-sere cagionata da una serie concatenata di fattori bio-psico-sociali; dopo una breve descrizione della sintomatologia specifica di questa importante variante del malessere depressivo, ci si soffermerà su taluni fattori sociali che assecondano l’innescarsi della patologia, nello sforzo di fornire alcuni tracciati educativi (impliciti nel corpo del testo) di affrontamento e deco-struzione del:
a) mito attuale del “tempo come denaro” versus rallentamento psicomoto-rio tipico del distimico;
b) mito contemporaneo della bellezza versus trascuratezza dell’igiene del corpo spesso connessa al disagio in oggetto;
c) mito coevo della conquista e del successo versus sentimenti di inferiori-tà e di perdita protratti nella sintomatologia distimica.
Pur restando, l’oggetto di siffatto contributo scientifico, di ambito emi-nentemente psichiatrico, si rifiuta l’idea di una pedagogia e di un’educa-zione conchiuse nel loro orto e si sollecitano le stesse a una
trans-disci-plinarità (più dell’interdisciplinarità), o a un allargamento di campo, che consentano di aprire lo sguardo su quanto di educativo vi sia nello psichia-trico, e viceversa, pena lo scollamento o la giustapposizione di prospettive scientiste utili soltanto al sapere disciplinare e non al soggetto-persona nella sua globalità in tempi di globalizzazione avanzata.
1. Cfr., fra le ultime pubblicazioni in merito, M. Stramaglia, M.B. Rodrigues,
Educa-re la depEduca-ressione. La scrittura, la lettura e la parola come pratiche di cura, Junior (Spag-giari), Parma 2018.
1. Una “cronicità” dissimulata
Nel suo saggio dedicato al tema della depressione, Alberto Siracusano, Professore Ordinario di Psichiatra, esordisce nel descriverne la variante stagionale ricorrendo alla cultura popolare, o a due brani di musica leg-gera: “Il ritornello di una famosa canzone diceva: “Scende la pioggia, ma che fa, crolla il mondo addosso a me…”; mentre le parole di un’altra van-tavano l’effetto taumaturgico del sole: “Here comes the sun and I say it’s
all right”, che significa: “Sta arrivando il sole e io dico che va tutto bene” (Siracusano, 2017, pp. 27-28). Fra Gianni Morandi e i Beatles, non può mancare il ricordo melanconico di due grandi cantastorie del secolo scorso a opera di Gaetano Bonetta, Professore Ordinario di Pedagogia, in un sug-gestivo “romanzo scientifico” dedicato (sebbene solo in parte) alla persona-le esperienza di depressione:
Jannacci, aspetto borghese ma intellettuale anticonformista, nato e cresciuto nel cabaret meneghino del boom economico, era anche medico chirurgo. Califano, di origine campana e molto popolare, era un affermato chansonnier, scapigliato e un po’ maledetto, nella Roma notturna di fine Novecento (Bonetta, 2014, p. 160).
Prima ancora di addentrarci nei meandri della patologia in oggetto, ci si concede, proprio come i due Colleghi, una divagazione (in verità, una facilitazione esplicativa) su un brano contemporaneo che pare raccontare per filo e per segno il vissuto del soggetto distimico. Il titolo della lirica è
Quasi quasi, che indica, per l’appunto, uno stato di attesa e di sospensione, come se il piano di realtà fosse scisso fra una percezione di sé obnubilata dal malessere (morte) e la sensazione di esistere al di là dello stesso (so-pravvivenza); come se le azioni poste in essere fossero inutili e lasciassero una scia, un velo o comunque una parvenza di lucidità alla quale aggrap-parsi per rimanere ancora in vita. Chi soffre di distimia, combatte senza sosta contro un non-esistere o contro un essere che, a fronte del nulla che sopravanza, si ritrae.
Questa mattina quasi mi alzo/Quasi mi vesto/Quasi bevo il caffè/Quasi lavoro/E quasi fumo/Quasi apro la finestra/Quasi non ti penso/Ti aspetto, ti aspetto/Vita mia, ti aspetto/E sembro più triste/E sembro più freddo/E sembro l’inverno/Quasi compro qualcosa/Quasi faccio la fila/Quasi apro la ferita/Quasi era chiusa/Quasi entro in un bar/E ordino una birra/Quasi quasi non piango/Nel mezzo della stra-da/Non tremano le gambe/Però ti aspetto, ti aspetto/Vita mia, ti aspetto/E sem-bro più triste/E semsem-bro più solo/E semsem-bro l’inverno/Quasi il silenzio grida/Che tu non hai chiamato/Quasi quasi sorrido/Quasi quasi mi calmo/E quasi invece ti scrivo/E quasi ora non sembra/Un film di Almodóvar/Quasi quasi mi piace/Quasi quasi capisco/Quasi quasi mi insegna/Però ti aspetto, ti aspetto/Vita mia, ti
aspet-to/Mi sento più vuoaspet-to/Mi sento più debole/Come l’inverno/Le tre della mattina/ Girandomi nel letto/Quasi accendo la luce/Quasi vado allo specchio/Quasi mi ri-conosco2.
Una prima definizione provvisoria di distimia è esattamente quella di una patologia di marca depressiva caratterizzata da un lento trascinarsi nel tempo di sintomatologie dolorose e disturbanti al punto da poter com-promettere la sfera pubblica e privata del paziente. Essa, infatti, ne mina alla radice la Qualità della Vita3 alterando il tono dell’umore, ingenerando
un’acuta mestizia e soprattutto favorendo lo sviluppo di una sensibilità
do-lorante nei riguardi del reale e dell’accadere fenomenico degli eventi.
I sensi, in effetti, non ci presentano semplicemente dei dati, ma sempre dei
signi-ficati. Contrariamente a quanto affermano gli empiristi, noi non facciamo mai
esperienza della semplice qualità sensoriale, ma sempre di un oggetto che la pos-siede. Vale a dire: non vedo l’azzurro del cielo, ma che il cielo è azzurro; non sen-to la morbidezza del vellusen-to, ma che il vellusen-to è morbido, e viceversa (Bruzzone, 2016, p. 29).
Il depresso, per intendersi, guarda il cielo e lo vede nero; il distimico, piuttosto, a volte grigio, a volte nero. Il depresso arriva addirittura a sentire la juta nel toccare il velluto; il distimico la alterna al feltro. In termini me-dici, il disturbo distimico, o PDD (Persistent Depressive Disorder), è con-traddistinto dalla seguente fenomenologia diagnostica: nel DSM-4 (APA, 2003), esso esclude dal proprio novero il disturbo depressivo maggiore; quest’ultimo è contemplato, di contro, nel DSM-5 (APA, 2013) quale po-tenziale sintomatologia cronica connessa allo sviluppo o alla strutturazione del disturbo depressivo persistente.
The essential feature of persistent depressive disorder (dystymia) is a depressed mood that occurs for most of the day, for more days than not, for at least 2 years, or at least 1 year for children and adolescents (Criterion A). This disorder represents a consolidation of DSM-IV-defined chronic major depressive disorder and dystymic disorder. Major depression may precede persistent depressive disorder, and major depressive episodes may occur during persistent depressive disorder. Individuals whose symptoms meet major depressive disorder criteria for 2 years should be given a diagnosis of persistent depressive disorder as well as major depressive disorder.
2. T. Ferro, S. Magari, Quasi quasi, in Ferro T., Il mestiere della vita, Universal, Los Angeles e Milano 2016.
3. Sul concetto di “qualità della vita” (in relazione alla disabilità), si veda C. Giaconi,
Qualità della vita e adulti con disabilità. Percorsi di ricerca e prospettive inclusive, Fran-coAngeli, Milano 2016.
Individuals with persistent depressive disorder describe their mood as sad or “down in the dumps”. During periods of depressed mood, at least two of the six symptoms from Criterion B are presents [1. Poor appetite or overeating. 2. Insomnia or hypersomnia. 3. Low energy or fatigue. 4. Low self-esteem. 5. Poor concentration or difficulty making decisions. 6. Feeling of hopelessness, p. 168]. Because these symptoms have become a part of the individual’s day-to-day experience, particularly in the case of early sunset (e.g., “I’ve always been this way”), they may not be reported unless the individual is directly prompted. During the 2-year period (1 year for children or adolescents), any symptom-free intervals last no longer than 2 months (Criterion C)4.
Per comprendere le tonalità affettive del soggetto distimico, si rifletta su quanto è stato additato nella lirica di Ferro come inverno e sul malu-more da early sunset cui allude la diagnosi del DSM. La “temperatura emotiva” maggiormente chiamata in causa è quella del freddo, dell’assenza di luce o di ciò che taluni definiscono “penombra”. I bambini con diagno-si di distimia avvertono un intenso sentimento di vuoto e di pesdiagno-simismo, talora somatizzato in un’irritabilità che: si accompagna a un cattivo/può incidere sul rendimento scolastico. Il disfattismo si traduce in assenza di aspettative circa il futuro: se quanto esperito nell’arco della giornata si è connotato di una valenza positiva, può talora sorgere nel bambino la paura immotivata e irrazionale che ciò che è accaduto non ritorni più, nell’in-genua convinzione che gli eventi siano frutto del caso e non già di una pianificazione adulta e, pertanto, intenzionale. Gli adolescenti distimici, se ansiosi, possono avvertire, sul finire della giornata, la sensazione che “il tempo stringa” o che “non si abbia più tempo a disposizione”. In un circolo vizioso, quanto esperibile nell’ultima parte del giorno diviene quasi irrisorio – col calare del buio, il tempo sembra scaduto – e il momento del riposo è minato a monte dalla distorsione per cui dormire equivalga a morire. Motivo per cui possono manifestarsi insonnia, agitazione e conse-guente risveglio affaticato.
Sono [in ballo] quei giovani – l’insorgenza è precoce: adolescenza o infanzia addi-rittura – che trovano volgari le risate e i divertimenti dei compagni; tutto è vuoto e inutile, soltanto loro sono sensibili e profondi; gli altri, superficiali, non apprez-zano Kant e pensano solo ad andare in discoteca o alla partita. Avendo un’insor-genza precoce, il temperamento depressivo viene spesso preso per un tratto stabile e immodificabile di quella persona (Zoli e Cassano, 1993, p. 182).
4. American Psychiatric Association (APA), Diagnostical and Statistical Manual of
Mental Disorders (DSM-5), American Psychiatric Publishing, Washington and London 2013, pp. 169-170.
Gli adulti, incentrati – per esigenze concrete – più sugli aspetti pragma-tici che su quelli emotivi del loro esistere, per un verso tendono a “natura-lizzare” i sintomi come parte del proprio essere – con dolorosissime soma-tizzazioni o negazioni/rimozioni pericolose e autodistruttive (è il concetto di “cronicità” dissimulata); per altro verso, scelgono di focalizzarsi su pal-liativi talvolta dannosi che rischiano di assumere un carattere ossessivo e caricaturale, rinforzando, peraltro, la bassa autostima del depresso: si tratta di manie come il fumo smodato di sigarette, la mistica dell’amore genito-riale, la scelta di un’etica calvinista e sacrificale. “Alcuni distimici sono re-ligiosamente votati al lavoro: mossi da continui sensi di colpa, imprigionati da un’idea incalzante del dovere, occupano con impegni lavorativi anche il tempo libero. Così aumentano le difficoltà nella vita familiare o di coppia” (ivi, p. 183). Ciò che sconcerta, nondimeno, è l’(apparente) insensatezza di questa sofferenza: il tono “giù di morale”, spesso accompagnato a disturbi fisici e comportamentali, pare non trovare una vera e propria spiegazione. Complessa e sconcertante è altresì la comprensione (o l’auto-comprensione) delle reazioni umorali dinanzi a talune costanti cliniche: nel caso menzio-nato del “primo tramonto”, una soluzione logica all’assenza di luminosità potrebbe darsi nell’accendere la luce artificiale e nel goderne i benefici; in-vero, il distimico potrebbe addirittura preferire il buio ovvero la luce soffu-sa a quella artificiale, perché egli è la penombra, sembra l’inverno e il gelo è una condizione dell’anima.
Una giornata di sole, per esempio, non è la stessa per chi è allegro e per chi è de-presso: se chi si sente felice “risuona” o entra in “consonanza” più facilmente con un paesaggio verdeggiante e assolato, chi è triste si sente irrimediabilmente “sto-nato” rispetto a tanta vitalità, se ne sente estraneo e non riesce a gioirne (Bruzzo-ne, 2009, p. 48).
Sul crinale della terapia del distimico, non paiono concordare in pieno le tesi del compianto Giovanni Jervis con quelle di Giovanni B. Cassano: a parere del primo, “[…] vacanze e circostanze favorevoli possono regalare al distimico giornate o settimane di umore perfettamente equilibrato e sa-no; poi tutto ricomincia come prima” (Jervis, 2002, p. 51); per il secondo, invece, “[…] aspetto caratteristico è la fissità dello stato affettivo che si prolunga per mesi, per anni e che non è modificato dagli eventi favorevoli” (Zoli, Cassano, p. 83). Studi recenti attestano come la variante depressiva “atipica” possa dirsi maggiormente correlata, rispetto alla distimia, al sol-lievo temporaneo legato a episodi di segno positivo (Siracusano, 2017, pp. 25-26).
La sofferenza correlata alla depressione persistente è inenarrabile: come la goccia che scava la roccia, la distimia non contempla i sintomi
caratteri-stici del disturbo depressivo maggiore o delle crisi depressive profonde, ma è invisibile e, pertanto, espone al rischio di esclusione. Nel periodo pre-tecnologico o ad ampia socialità, la marginalizzazione del “distimico” (o di colui che veniva banalmente definito depresso o perdente) avveniva attra-verso strategie (ritenute convenzionali) di etichettamento e stigmatizzazio-ne: le società bambine, adolescenti e adulte creavano emarginati sui quali esercitavano una sorta di controllo sociale; eppure questi, in vista della comune appartenenza a una medesima condizione, erano in grado non solo di riconoscersi reciprocamente, ma di creare resistenze e forme struttura-te di contro-postruttura-tere nei riguardi dell’ordine costituito: si rifletta, solo per intendersi, sui concetti di influenza minoritaria, di minoranza attiva (Mo-scovici, 1976) e di contro-cultura, che hanno largamente pervaso il lessico delle scienze umane e sociali degli ultimi decenni. In tempi di socialità leggera o ristretta (Tirocchi, 2009, p. 193), i distimici possono agevolmente mimetizzarsi nella folla dei nessuno ma non hanno termini di paragone,
identizzazione e socializzazione concreti o incarnati che consentano una riduzione del danno psicosociale correlato al disagio durevolmente espe-rito. Semmai, il contesto societario fornisce loro rituali di esorcizzazione finalizzati al mantenimento dell’assetto sociale, non all’integrazione del disagio: form (schede da compilare) di dissimulazione di sé, “reti” sociali ad alto tasso di anonimato sostanziale e modelli di riferimento e immede-simazione irraggiungibili.
Segnali del tempo presente che, in chiave socio-pedagogica, favoriscono il radicalizzarsi di un tono dell’umore disfunzionale e di una “fatica […] [di] vivere […] sistematicamente sottovalutata sia dall’interessato che dai familiari” (Jervis, 2002, p. 51) sono, per l’appunto, i primati socialmente pattuiti del tempo che fugge, dell’apparire fine a se stesso e della performa-tività.
2. Economia del tempo “impiegato”
L’economia mentale (Montari, 2002) del soggetto distimico è alquanto ponderata: dacché le energie psichiche a disposizione sono scarse e il teno-re di vita cui il medesimo è esposto è tuttavia pari a quello di un soggetto in condizioni di salute normali, il soggetto deve lesinare gli sforzi in vista degli obiettivi sostanziali che la quotidianità esige. Per queste ragioni, egli:
a) “ha”, ad esempio, “difficoltà a concentrarsi” (Jervis, 2002, p. 51): la concentrazione è un’attività cognitiva che richiede un enorme dispendio di risorse ed è poco funzionale all’esistenza senza gioia e rigidamente scandi-ta “prescelscandi-ta” dal distimico;
b) “è poco socievole” (ibidem): la socievolezza, difatti, risponde a una logica comunicativa eccedente rispetto ai bisogni contingenti del distimico, il quale può scadere in un’apparente misantropia o tendere all’evitamento di situazioni che necessitino la messa in atto di competenze socio-rela-zionali – in fondo, essere socievoli implica una perdita di tempo sensibile rispetto alle mete pragmatiche o “culturalmente elevate” prestabilite dal soggetto, che non si ferma “per un caffè né per leggere il giornale: si […] [sentirebbe] in colpa” (Zoli e Cassano, 1993, p. 183);
c) “prova scarso interesse per le attività abitualmente gradevoli” (Jervis, 2002, p. 51): l’incapacità di provare piacere (anedonia) è una dolorosissima costante nella vita del distimico, assimilabile al vissuto “della donna che nella sua giornata include di tutto: figli, lavoro, casa, incombenze varie, senza permettersi di tralasciare niente. La sua operosità è tuttavia lenta e faticosa, senza gioia, dominata da un rigido senso del dovere che la can-dida alla sconfitta, allo scacco della depressione clinica” (Zoli e Cassano, 1993, p. 183). Lungo questo sentiero, la distimia può persino aprire le porte all’anorgasmia, può innescare un penoso senso di colpa dinanzi a situazio-ni potenzialmente piacevoli (come il festeggiare: un’azione che il distimico non si concede o tende ad aggirare), può condurre all’incapacità di formu-lare giudizi di valore sul “da dirsi/da farsi” a seconda delle circostanze. Ragioni per cui chi soffre di distimia può diventare cinico, insensibile o dal cuore di pietra; invero, egli nasconde una sofferenza tragica, assieme alla paura/desiderio di morire (si rifletta sui suicidi “inspiegabili”) se que-sta venisse a galla;
d) “si dimostra eccessivamente pessimista sul futuro o si abbandona a tormentose ruminazioni sul passato” (Jervis, 2002, p. 51): l’umore depres-so condiziona la percezione degli eventi futuri, che appaiono allo sguardo come viali del tramonto; interrogarsi incessantemente, e senza venirne a capo, sul passato diviene non solo una tecnica di risparmio contro gli spre-chi che verrebbero dall’investire le proprie risorse sui fallimenti a seguire, ma una vera e propria ipoteca sul futuro, perché il passato è tutto sommato controllabile e il ristagno consente una fuga dal reale dalla valenza forte-mente contenitiva. Ruminare, nondimeno, è l’opposto dell’atto del concen-trarsi: laddove non è possibile pensare in termini propositivi, costruttivi e dediti, scatta il senso di colpa per la propria, presunta, inettitudine, che si traduce in un continuo domandarsi il perché della personale condizione esi-stenziale ove il chiedere, però, è fine a se stesso e “cieco”, senza alcuna via di uscita. Nei casi più gravi, il ruminare può assumere la forma di delirio;
e) “quasi sempre soffre d’insonnia ma in altri casi – meno frequenti – dorme molto più di quanto sia normale” (ibidem): si immagini, al riguardo, cosa possa comportare per il distimico affrontare ogni singola giornata percependosi sovraccarico di affanni non già circostanziali, ma
connatu-rati al vivere; la patologia, che ha una radice cognitiva assieme a quella organica, implica che l’impegno correlato a ogni gesto, movimento o scelta sia elevato esponenzialmente rispetto allo sforzo profuso dal soggetto in buone condizioni psicofisiche; ecco che scegliere, decidere, concentrarsi divengono un problema, che i movimenti si fanno lenti e tormentati, che la psiche innesca disturbi ossessivo-compulsivi per compensare il sentimento di inadeguatezza nei confronti del reale (come controllare infinite volte i cassetti o verificare più volte di seguito che la porta sia chiusa). Ecco che dormire, quando accade, diviene il momento meno faticoso (non già più
riposante) di una giornata trascorsa fra ripensamenti e scoramenti vari. Difficile, all’interno di un quadro di codesta natura, interpretare in maniera adeguata il sintomo dell’ipersonnia, che si configura come comportamento disfunzionale laddove, in verità, potrebbe di fatto rispondere al principio di piacere ed essere di tipologia adattiva (tempo dis-investito).
La dicotomia che si innesta a fronte dello scenario attuale è quella fra tempo sostenibile e tempo emergenziale/accelerato, con le fenomenologie incalzanti della scomparsa del tempo dell’attesa, del tempo privato e del tempo perso, che diviene inesorabilmente tempo perduto. L’estremizzazio-ne dell’intuizioL’estremizzazio-ne di Martin Heidegger – essere è tempo (Heidegger, 1927) – ridotta alla sua versione “commerciale” ha portato l’Occidente (o “la civiltà”) all’ideologia della capitalizzazione del tempo inteso quale risorsa disponibile, ma limitata. Il tempo, in effetti, è la sola risorsa (o “fondo”) umanamente percepita, oggi, quale finita. Perdere tempo a fronte del “nuo-vo che avanza” significa essere fuori dal tempo, inattuali, ai margini dei processi sostanziali che incombono frenetici. La versione inedita del tempo postmoderno, surmoderno, dopomoderno o oltremoderno che sia è quella “puntillistica” (Bauman, 2008, p. 56): una serie di frammenti isolati, privi di un tessuto logico connettivo, fra i quali ci si sposta come nomadi/come monadi alla ricerca di un’unitarietà che non verrà mai. Una miriade di atti-vità e di identità cangianti nelle quali è vietato riconoscersi, pena la perdita della propria integrità itinerante: dalla flessibilità invocata sul piano delle professioni (d’Aniello, 2009), alla moltiplicazione crescente degli aggregati familiari (Dizard e Gadlin, 2002, p. 176); dalla proliferazione indistinta e confusionaria dei generi sessuali (ne basterebbero quattro: eterosessuale, omosessuale, bisessuale e transessuale) alla dilatazione dell’identità adole-scenziale all’intero ciclo di vita del genere umano5. Il valore aggiunto della
possibilità di non-essere è dato dall’ampiamento incondizionato dei termini di scelta – ma come scegliere è ciò che sfugge al distimico. Il solo luogo del ritrovamento del cittadino-consumatore dell’oggi è il tempo: “Sfrutta il
5. Per ulteriori approfondimenti, cfr. M. Stramaglia, Amore è musica. Gli adolescenti
tuo tempo!” – come fosse un “fondo”, perciò giammai “a fondo perduto” – è il nuovo imperativo categorico e il nucleo di individuazione del bambino e della bambina, dell’uomo e della donna odierni. Ciò che non produce, ossia che produce perdita di tempo, è da scartarsi: il dolore, la sofferenza, la fatica. Il distimico combatte la sua guerra quotidiana fra l’affastella-mento di proto-identità vaganti in seno a una cornice che possa attestarsi “sensata” e la percezione che la sua patologia, naturalizzata quale parte di
sé, sia controproducente. La cura della distimia viene spesso scambiata da colui che ne è affetto quale tentativo di adeguamento ai desiderata socia-li coevi; in questo sforzo, però, si nasconde la presa di coscienza sempre maggiore della personale inettitudine, ossia un rinforzo al disagio percepito con la relativa pericolosità legata a qualunque condotta rinunciataria. Non
soltanto il distimico è impossibilitato a stare al passo coi tempi, ma è a rischio di isolamento dal contesto societario, adesso improntato a criteri di produttività totale/totalizzante/totalitaria. Condotte di una siffatta spe-cie (interamente proiettate sull’immagine sociale e sul controllo del tempo, elevati ad assoluti) sono ravvisabili in quanti si presentano al mattino con un aspetto impeccabile, iper-curato se non addirittura caricaturale, per poi ridursi nei giorni di riposo o nei fine settimana a clochard che si trascina-no, per casa, dal letto al tavolo della cucina e viceversa. Il tempo, a fronte di codeste sintomatologie – chiamarle “scelte” sarebbe un grave errore –, si dilata in maniera ipertrofica nella cura dell’identità pubblica e si contrae terribilmente negli spazi della vita privata.
Nella nostra modernità inquieta, ogni opportunità di calcare il prosce-nio diviene preziosa e irripetibile: occorre affrettarsi, perché da un momen-to all’altro si potrebbe perdere l’occasione (Bauman, 2008, p. 58). Il tempo puntiforme perde, così, la profondità storica6 del tempo ciclico o lineare e
nel presente arrivano a coincidere i tre assi temporali. Il distimico, afflitto da un tendenziale rallentamento psicomotorio, assiste inerte alla messa alla berlina del proprio male: da un lato, la distimia finisce per convergere in una perdita progressiva (e colposa) di tutte le occasioni che l’esistenza ha posto in essere (non avendo la possibilità di concentrarsi sull’adesso,
guar-6. “La fugacità, la precarietà, la frammentazione caratterizzano [pure] la circolazio-ne degli attuali messaggi televisivi. Senza pausa, istantacircolazio-neamente arrivano nuove notizie, l’immagine passata si perde velocemente senza lasciare tracce. La saturazione di finta in-formazione ci propone un presente continuo senza passato e senza futuro, in questo modo, la parola e la storia sono annullate dall’immagine istantanea che trasforma il soggetto in uno spettatore pietrificato dal godimento della morte, delle catastrofi, della carne. […] Lo spettacolo mediatico […] [è sempre più] costante e onnipresente, evocando un godimen-to sconfinagodimen-to, senza scansioni temporali”. M. Castrillejo, Le gabbie della bellezza, in Mie-rolo G., Rodriguez M.T. (a cura di), Il disagio della bellezza, FrancoAngeli, Milano 2006, pp. 142-143.
dando al futuro con lo sguardo nostalgico del passato7, egli perde di volta
in volta le chance di potersi autoaffermare come à la page, ossia come vivo ed esistente nel qui e ora). Poiché “perde tempo”, egli è inoltre etichet-tato dal sistema come ignavo, sfaccendato e, in ultima battuta, inutile: il danno della patologia e la beffa dell’incomunicabilità della stessa.
3. Il corpo come dispositivo chirurgico
Il mito imperante della “bellezza a tutti i costi” è un derivato del “tem-po come denaro”, ovvero un sotto-prodotto della cultura/contro-cultura/in-cultura dominante che ha finito col ridurre l’uomo e la donna a “materiale umano”8 o a residuo dell’età della tecnica (del logos della tecnica); se, per
un verso, la tecnologia è divenuta protesica, al punto tale da divenire par-te della psiche e dell’identità umane – per inpar-tendersi, noi siamo i nostri
tablet e nostri iPhone: a essi affidiamo i nostri gusti e le nostre memorie –, per altro verso il corpo umano si è trasfigurato in un’inedita unità psi-cosomatica postorganica9: un dispositivo che si pone ben oltre il corpo
postumano (Ferrante, 2014), dacché feticisticamente orientato a ridurre la materia organica a contenitore di un oggetto-merce. In altre parole, il mito della bellezza corporea chiamerebbe in causa la dimensione del tempo, in quanto ciò che è bello è destinato a decadere sotto la scure di questo; ma la bellezza cui la società ambisce oggi è “perfetta, statuaria e pietrificata” (Rodriguez, 2006, p. 155), atemporale e “disumana” (ibidem): impossibile da raggiungere, a meno che il modello vigente transiti dalla bellezza
cor-porea a quella incorporata, sino a trasformare la persona in cosa e la fic-tion in una delle tante versioni possibili del reale – la preferibile. Il corpo è, così, la cornice che ospita illustrazioni dei tattoo, la carne da macello da appendere al chiodo del piercing o da gonfiare con estrogeni, la merce di scambio e l’oggetto di più desideri, la sede degli impianti (le “installa-zioni” degli artisti contemporanei) e dei materiali “plastici” i più vari
al-7. “L’atteggiamento ambivalente e paradossale del nostro tempo […] si esprime nel-la tendenza, da un nel-lato, a conservare tutto il passato, possedendolo attraverso gli strumen-ti messi a disposizione dalla tecnologia avanzata, dall’altro a svincolarsi dal passato in una rimozione perseguita come smemoratezza e libertà dal peso dell’antico”. V. Iori, Nei
sentie-ri dell’esistere. Spazio, tempo, corpo nei processi formativi, Erickson, Trento 2006, p. 118. 8. “Se […] l’uomo è […] impiegato, non farà parte anche lui […] del ‘fondo’? Il parla-re comune di ‘materiale umano’, di ‘contingente dei malati’ di una clinica, lo fa pensaparla-re”. M. Heidegger (1954), La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1991, p. 13 (ed. or. Die Frage nach der Technik, in Vorträge und Aufsätze, Gunther Neske, Pfullingen 1954).
9. Sul crinale artistico (sull’arte quale forma di anticipazione del vero e sull’artista co-me profeta), cfr. T. Macrì, Il corpo postorganico, Costa & Nolan, Milano 2006.
loggiati al fine di garantirne l’appetibilità/il valore commerciale. L’indivi-duo con disturbo depressivo persistente, in linea di massima, non trascura l’aspetto esteriore (Jervis, 2002, p. 51) e, se tendenzialmente adattivo, sa nascondere egregiamente il proprio stato, sì da rendersi insospettabile; in alcuni casi, però, il depresso cronico (o il distimico) “si riconosce a vista: è trasandato nel vestire, porta colori spenti, […] è trascurato nell’igiene personale” (Zoli e Cassano, 1993, p. 42). Può accadere che, da parte dei molti, questo modo di presentarsi e di autorappresentarsi venga interpreta-to quale forma di ribellione ideologica, politica o sociale contro il dettame dell’apparire; più spesso, la parvenza di un principio occulta la convin-zione radicale di non essere all’altezza delle convenzioni sociali. Un look non in linea con canoni estetici condivisi può apparire persino espressione di controtendenza, quando, invece, nasconde una trasformazione affetti-va simile a quella della volpe nei riguardi dell’uaffetti-va nella favola di Esopo. Esiste una specifica strategia pubblicitaria di (pre)disposizione chirurgica sulla cui analisi e fenomenologia concordano i grandi sociologi Roland Barthes – che scriveva addirittura nel 1957 – e Zygmunt Bauman: si tratta dell’appello alla cura delle profondità (alla rimozione dell’involucro orga-nico), che procede di pari passo con l’assenza di profondità storica cui si è poc’anzi accennato.
[…] oggi la pubblicità dei detersivi favorisce essenzialmente un’idea di profondi-tà: lo sporco non è più strappato dalla superficie, bensì espulso dai nidi più se-greti. Tutta la pubblicità dei prodotti di bellezza è anch’essa fondata su una sor-ta di rappresensor-tazione epica dell’intimo. Le brevi indicazioni scientifiche destinate a introdurre pubblicitariamente il prodotto gli prescrivono di pulire in profondi-tà, eliminare in profondiprofondi-tà, nutrire in profondiprofondi-tà, insomma di infiltrarsi a qualun-que costo. L’idea di profondità è perciò generale, non manca in nessun testo pub-blicitario. Sulle sostanze che si devono infiltrare e convertire all’interno di questa profondità, vuoto totale; ci si limita a indicare che si tratta di principi (vivificanti, stimolanti, nutritivi) o di succhi (vitali, revitalizzanti, rigeneranti) […]. […] il ve-ro dramma di tutta questa piccola psicanalisi pubblicitaria è il conflitto di due so-stanze nemiche che si disputano sottilmente l’instradamento dei “succhi” e dei “principi” verso il campo della profondità. Queste due sostanze sono l’acqua e il grasso. […] La maggior parte delle nuove creme sono perciò in special modo
li-quide, fluide, ultrapenetranti ecc.; l’idea di grasso, così a lungo consustanziale all’idea stessa dei prodotti di bellezza, si vela o si complica, si corregge di liqui-dità, a volte sparisce addirittura, fa posto alla fluida lozione, al tonico spirituale, gloriosamente astringente se si tratta di combattere l’untuosità della pelle, pudica-mente speciale se si tratta al contrario di nutrire abbondantepudica-mente quelle voraci profondità di cui ci vengono esposti senza pietà i fenomeni digestivi. Tale pubbli-ca apertura dell’interiorità del corpo umano è d’altra parte una pubbli-caratteristipubbli-ca gene-rale della pubblicità dei prodotti da toilette (Barthes, 1957, pp. 77-79).
Le grandi aziende specializzate nella vendita di servizi alla persona che si con-centrano sulle cure del corpo hanno seguito l’esempio. Ciò che esse pubbliciz-zano più avidamente e vendono con il maggiore profitto economico sono servizi di escissione, rimozione e smaltimento: di grasso corporeo, rughe facciali, acne, odori del corpo, depressioni post-questo e post-quello, enormi quantità di miste-riosi fluidi ancora privi di un nome, avanzi mal digeriti di una lunga serie di ab-buffate che si sono depositati illegittimamente dentro il corpo e non se ne vo-gliono andare se non con la forza, e comunque tutto ciò che può venire staccato, strizzato e smaltito (Bauman, 2008, p. 30).
Il biologico (an)estetizzato ingenera pratiche comuni di detersione totale che passano – si noti la grande raffinatezza del normanno – dai rivestimen-ti arrivestimen-tificiali alla pelle umana; bellezza diviene sinonimo di purezza, idrata-zione e ossigenaidrata-zione – scarnificaidrata-zione, ovvero rimoidrata-zione del grasso.
Bello, pulito e ordinato (Freud, 1989) è il corpo privato delle sue nefan-dezze: asettico, perciò impersonale, di conseguenza anoressico – “ridotto”, deprivato, cosificato. Sino al paradosso del “leopardo che si cambia le macchie” (Bauman, 2008, p. 66-67), metafora della persona che getta “la vecchia pelle, con le sue macchie, i suoi nei o ogni altra imperfezione, e” ne compra “una nuova” (ivi, p. 66). Le conseguenze sono profondamente disumanizzanti: il corpo scavato dal bisturi del chirurgo estetico diviene, per forza di cose, oggetto replicante, seriale, merce. Eludendo la dimen-sione del tempo – essere è tempo significa, invero, che il nostro essere (o esser-ci) si disvela nel tempo, nel divenire: ciò che non diviene semplice-mente non è –, il corpo umano si trasforma in simulacro di morte, di vita eterna (o non-vita terrena), dove il non-essere rende davvero tutti – avrebbe poetato Antonio de Curtis – “di pari livello”.
La chirurgia estetica […] promette di sospendere il logoramento incessante dell’invecchiamento, cancellando i segni del tempo. I risultati di tale operazione sono sotto gli occhi di tutti: quello che si ottiene non è un corpo di nuovo giova-ne ma un corpo mummificato, sottratto allo sfregio del tempo ma perché pietrifi-cato in una eternità fuori dal tempo. Visi tirati, né giovani né vecchi, né maschili né femminili, che si somigliano tutti in una desolante uniformità sintetica (Rodri-guez, 2006, p. 157).
Tracce delle reificazione del bios sono desumibili da talune prassi dif-fuse di ingrandimento del seno per mezzo di “sostegni di nylon, silicone e soluzione salina suturati chirurgicamente” (Kuczynski, 2009, p. 13); di rinvigorimento della “sporgenza” degli zigomi “grazie all’aiuto di strisce di Gore-Tex (il materiale con cui si fanno i giacconi invernali), impiantate sotto la pelle” (ibidem), di gonfiamento delle labbra con collagene “ottenuto dalle cellule staminali estratte dal prepuzio di un bambino, o dai cadaveri
di persone che hanno donato il corpo alla scienza, o da animali da alleva-mento […]” (ibidem). Dispositivo o “supporto” dei “bisogni indotti dalla nostra cultura e […] [dai] desideri da essa manipolati” (Galimberti, 2009, p. 46), il corpo smembrato e ricomposto in unità etero-diretta (purificato dalla sporcizia e reso desiderabile) è la grande ragione delle ansie, depres-sioni e ipocondrie postmoderne (ivi, p. 45): dall’ansia da prestazione (di natura pubblica o privata, sociale o sessuale) alle distimie generate dalla precarietà di un’esistenza legata alle apparenze e dal folle intento di negare il disfacimento, fino alla nevrosi prodotta dalla cura costante del corpo (to
care) psichicamente decrittata come cura di un corpo malato (to cure). L’equivoco di “fondo” nasce, anche in questo caso, da un’interpretazio-ne errata/estremizzazioun’interpretazio-ne del pensiero fondativo di Martin Heidegger e da una postulata e moralizzante scissione fra essere e avere, quasi che l’uno debba necessariamente escludere l’altro. L’esser-ci heideggeriano, di fatto, è un essere-in-corpo (in-abitare) e, al contempo, un avere-corpo (esserci dell’essere). Da più parti, si è ritenuto operare il passaggio vagamente post-cartesiano dall’avere un corpo all’essere tale. Per un verso, si è trattato di un’apertura feconda: come attesta Vanna Iori, “avere un corpo richiama […] un possesso (“il corpo che ho”), e quindi la possibilità di commercio e uso, in un prendersi cura di sé secondo le modalità degli oggetti […] che mantiene il corpo al rango di cosa (ciò che accade, ad esempio, nelle mode del fitness). L’essere un corpo implica invece una maggiore consapevolez-za, un maggiore rispetto perché quel corpo (proprio o altrui) è espressio-ne della stessa persona umana esistente a cui si addice l’aver cura” (Iori, 2006, p. 169). Per altro verso, è stata forse l’eccessiva coscientizzazione postmoderna dell’essere-corpi a portare, in linea con i barlumi di coscienza corporea che salivano a galla, alla totale identificazione di corpo ed essere, o del corpo come espressione (esteriorizzazione) dell’essere, e dunque co-me identità totale sulla quale intervenire attraverso dispositivi di controllo, contabilizzazione e aggiornamento.
4. Identità per-formanti (essere come fare)
La patologia distimica e ciò che essa comporta inducono a una socialità e a una sociabilità simili a quelle di un individuo sovrappeso all’interno di una società anoressica e anoressizzante – che fa pendant con quanto redat-to sopra a proposiredat-to della scarnificazione. Il nucleo dell’anoressia è daredat-to dal piacere che si prova nel pieno controllo delle proprie pulsioni, ovvero nell’annichilimento pieno del versante della corporeità, avulso da quello dei vissuti. La centralità del controllo quale mezzo precipuo per il conse-guimento di un fine è massimamente presente nel concetto post-fordista,
più che mai attuale, di performance. Si potrebbe addirittura assimilare la
performance unicamente alla capacità di esercitare controllo: essa è con-trollo delle procedure finalizzate a un obiettivo che, per molti, perde di vi-sta il come in vivi-sta del cosa. Come per l’astinenza dalla nutrizione in vivi-sta di un corpo perfetto, lungo la strada dell’eclisse dell’umano e del sorgere materico10. E in conformità con la fenomenologia delle pause pranzo:
que-ste, sino a pochi decenni fa prolungate per almeno due ore sì da consentire un consumo domestico, si sono gradatamente ridotte a soli trenta minuti e possono risultare, oggi, addirittura superflue in ambito dirigenziale. Tutto ciò in vista del massimo profitto, di volta in volta stabilito da appositi stan-dard di performance i quali esulano dalle risorse effettive a disposizione e sposano l’ideologia reificante, prima richiamata, dell’impiego del materiale umano, comparabile a qualsiasi altro fondo. Di un impiego dell’uomo-massa/merce funzionale a più sistemi di produzione: i genitori, che aspi-rano per i propri figli al meglio (al massimo delle performance); la scuola, apparentemente centrata sul profitto e invero tendente allo smaltimento dei troppi che, oggi, sanno leggere (eppure non leggono) e non sanno scrivere; il mercato del lavoro, che usa-e-getta in ragione di professionalità dai con-torni sfumati e difficilmente decifrabili – ecco il grande tranello post-orga-nico, che responsabilizza l’uomo di dinamismi oltre-umani alla stregua di una madre nevrotica che percuote il proprio figlio perché è caduto. All’in-terno di questa cornice societaria11, l’identità finisce per assimilarsi a un
utopico fare identitario: in altre parole, l’essere equivale al fare senza che
10. Suggestiva è la tesi di Massimo Recalcati, per il quale: “Il principio di prestazione del programma sociale della Civiltà esige oggi che il corpo si macchinizzi in nome della salute e del suo ideale, ma questa macchinizzazione del corpo è tendenzialmente contraria alla vita”. M. Recalcati, L’icona anoressica del corpo-magro, in G. Mierolo e M.T. Rodri-guez, op. cit., p. 128.
11. “Tutto è diventato business, ogni cosa deve funzionare ed essere utilizzabile. Non esiste un sentimento di identità: esiste un vuoto interiore. Non si hanno convinzioni né scopi autentici. Il carattere mercantile è l’essere umano completamente alienato, privo di qualunque altro interesse che non sia quello di manipolare e di funzionare. È proprio que-sto il tipo umano conforme ai bisogni sociali. Si può dire che la maggior parte degli uo-mini diventano come la società desidera che essi siano per avere successo. La società fab-brica tipi umani così come fabfab-brica tipi di scarpe o di vestiti o di automobili: merci di cui esiste una domanda. E già da bambino l’uomo impara quale sia il tipo più richiesto”. E. Fromm, “Intervista di Reif 1977, pp. 27-28”, in R. Funk (a cura di), Fromm. L’arte di
vi-vere, Mondadori, Milano 1996, p. 25 (ed. or. Life Between Having and Being, The
Contin-uum Publishing Company, New York 1995). Il processo descritto da Eric Fromm sul fini-re degli anni Settanta del secolo scorso pafini-re stia giungendo alle sue estfini-reme conseguenze: l’“organico” sarà presto sostituito, di questo passo, dal meccanico, e su tutti i fronti: in fa-miglia, dove ruoli e funzioni sono già stati appaltati a terzi e presto saranno interamente surrogati; sul lavoro, depredato all’uomo dalle macchine, con la possibile scomparsa a ve-nire del cosiddetto “organico di ruolo”; alle relazioni inter-umane, ormai scalzate da rap-porti impersonali, o con le cose.
questo abbia modo di essere – si pensi alle incertezze ingenerate dall’ag-giornamento, dall’internazionalizzazione e dalla flessibilità, tre parole-chia-ve che abitano l’oggi e che pur tuttavia non offrono garanzie di riuscita.
Il per-formante è un modo di darsi del polimorfico: è sapere assume-re forme diverse, tutte lecite, in vista di un fine circostanziale, che ha pertanto un valore relativo quanto la stessa identità che ne consegue. Il per-formante è il motivo per cui al docente tutto d’un pezzo è subentrato, oggi, un insegnante che pubblica sui social network immagini di sé in contesti-altri, perturbando, spiazzando e spaesando (componendo e ricom-ponendo il familiare e l’estraneo, la metodicità della “disciplina” in classe e l’umanità ludiforme di altro luogo), con tanto di plauso della popolazione studentesca, che però non lo riconosce più in quanto docente; è il motivo per cui il genitore che somministrava le regole è stato rimpiazzato da un genitore (persino post-organico) che premia le prestazioni e tratta il figlio come un prolungamento di sé, al punto da punire il docente “punitivo”; il per-formante è alla radice del narcisismo dei giorni nostri, che non tollera le perdite e si rifugia nei falsi miti estetizzanti del “tempo come denaro”, del “bello come valore” e del “successo come must”. Il modello delle tre E (efficacia, efficienza ed economicità), applicato in ambito aziendale-am-ministrativo, è divenuto il criterio di base di gestione delle anime, il nuovo credo politeistico per cui Dio fa rima con Io e i tanti Io che ciascuno mette in campo (non già le diverse parti integrate di un solo Io/un solo Dio) sono rappresentazioni delle tante divinità che in lui co-abitano. Inversamente alla risposta ultima, che, piuttosto, dovrebbe essere unitaria (di un esser-ci tendente all’essere).
La vita ha senso solo quando si riesce a dare un senso a tutto ciò che fa la vi-ta dell’uomo. La vivi-ta è una realtà che si snoda nel tempo, un succedersi di eventi, una strada piena di bivi e di incroci, una serie di perché che postulano una rispo-sta. Se non c’è risposta, anche a un solo perché, la vita non ha senso […] (Alun-no, 1987).
La diagnosi di un’identità concepita come performativa allude, difatti, a una serie di conseguenze a carattere fortemente emergenziale: la riduzione del consesso identitario in sistemi parziali di oper-azioni tali per cui ognu-no è ciò che di volta in volta viene a essere e ognu-non ciò che è, accompagnato da una sensazione crescente di precarietà, incertezza, smania di conquista e terrore della perdita12; la rinuncia a qualsiasi progetto possa dirsi
esausti-12. Una metafora del processo odierno di performatizzazione identitaria è quella che paragona il villaggio come ambito socio-demografico al villaggio globale: mentre l’artigia-no del villaggio gode delle certezze che gli provengol’artigia-no dall’esercizio di un ruolo (a)
asse-vo in vista di zone prossimali di performatività, con la fuorviante coinci-denza che si crea fra prestazione e persona performante – essere (umano) come fare (im-)produttivo –; la parcellizzazione in molteplici comparti-menti stagni di singoli “framcomparti-menti identitari” i quali, separati gli uni dagli altri, inevitabilmente cominciano a vivere di vita propria (confusione o dif-fusione di identità). L’analisi di Bauman al riguardo è più che mai calzante: le identità possono oggi realizzarsi per il tramite di “congegni e dispositivi pronti all’uso, acquistabili a cifre modiche e senza grande dispendio di tempo” (Bauman, 2008, p. 65). Da una banale immagine postata su un
so-cial network (apparire) a un acquisto su un sito di e-commerce (avere), sino a una pluralità di partner occasionali a riprova della personale capacità di marketing e infiniti amici a distanza (di sicurezza?) a conferma della pro-pria socievolezza (farsi-amici, che è tutt’altro dall’essere tali). Il dispositivo merceologico, come una sonda che penetra nelle aree più profonde del cervello, rende le persone in carne e ossa intercambiabili: tutte rilevan-ti, nessuna insostituibile, ovvero ciascuna relativizzabile alla funzionalità delle prestazioni che pone in essere. Ragion per cui il paziente distimico (con “una diffusa sensazione di astenia, disturbi a carico dell’apparato digerente, disturbi a carico della libido, […] e soprattutto una insonnia di tipo ansioso: ovverosia con difficoltà all’addormentamento”) (Fasullo 2011, p. 120), il quale non detiene potenzialità residue per “per-formare” ma solo per eseguire, rischia ancora una volta ampi margini di isolamento dal con-testo produttivo. Il solo ambito, probabilmente, a godere ancora oggi della dignità di saper includere (sani e normodotati) in ragione di un fine al con-tempo socialmente desiderabile, predisponente alla distimia e aggravante i quadri clinici compromessi.
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