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I cambiamenti cognitivi e linguistici dell’esotico nella pratica meditativa orientale alla luce delle scienze occidentali

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Heteroglossia

n.10 | 2009

Cambiamenti nella percezione e rappresentazione

dell’esotico

eum edizioni università di macerata

€ 14,50 isbn 978-88-6056-192-3

eum x quaderni

a cura di Hans-Georg Grüning con la collaborazione di

Gianna Angelini

eum

edizioni università di macerata

Heteroglossia

Hans-G. Grüning

Cambiamenti nella percezione e rappresentazione dell’esotico

heteroglossia

Quaderni della Sezione Linguistica

del Dipartimento di Studi su Mutamento Sociale, Istituzioni Giuridiche e Comunicazione

n. 10 | anno 2009 eum x quaderni

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eum

Cambiamenti nella percezione e

rappresen-tazione dell'esotico

a cura di Hans-Georg Grüning con la

collabora-zione di Gianna Angelini

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Isbn 978-88-6056-192-3

©2009 eum edizioni università di macerata

via Carducci (c/o Centro Direzionale) - 62100 Macerata info.ceum@unimc.it

http://ceum.unimc.it Stampa:

stampalibri.it - Edizioni SIMPLE via Trento, 14 - 62100 Macerata info@stampalibri.it

www.stampalibri.it

Heteroglossia

Quaderno della Sezione Linguistica del Dipartimento degli Studi su Mutamento Sociale, Istituzioni giuridiche e Comunicazione

Comitato di redazione:

Hans-Georg Grüning Danielle Lévy

Graciela N. Ricci Maria Amalia Barchiesi

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I cambiamenti cognitivi e linguistici dell’esotico nella pratica meditativa orientale alla luce delle scienze occidentali

A veces en las tardes una cara Nos mira desde el fondo de un espejo El arte debe ser como ese espejo Que nos revela nuestra propia cara.

J.L. Borges, Arte poética

Introduzione

In questo lavoro vorrei proporre qualche riflessione gene-rale sul concetto di ‘esotico’, per poi relazionare la dimensione dell’esotico alla pratica meditativa orientale, con l’obiettivo di segnalare i cambiamenti avvenuti nell’approccio a questa pratica da parte del mondo scientifico. Ritengo opportuno perciò iniziare con una domanda rivolta ad approfondire il concetto di ‘esotico’: esiste oggi in verità un tale concetto?

La vita di ogni essere umano, come sappiamo, si basa sul raccontare. Ognuno di noi, quando torna a casa, si sente dire: -Come è andata oggi? E la risposta, se vogliamo veramente comu-nicare, non è il solito ‘bene’ di chi vuole essere lasciato in pace, bensì una storia; cioè, si parte raccontando il vissuto della gior-nata: “-Pensa, mi è successo questo e quell’altro, e quell’altro”…. E così raccontando, costruiamo e modifichiamo la forma della nostra vita, confermando l’etimologia della parola poiesis, che in greco rinviava, più che ad un testo poetico, ad una forma di

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azione rituale che, con il canto, si trasformava in in-cantesimo. Per questo motivo, poesia e magia erano, in passato, strettamente collegate, e qualcuno ha potuto dire che “se noi ripercorressimo a ritroso il cammino della società giungeremmo al punto in cui non sapremo disgiungere l’ispirazione poetica da un rituale magico, dal mito, dalla religione1”.

Quindi, se nel raccontare noi modifichiamo e deformiamo la realtà, magari senza esserne consapevoli dato che ogni percezio-ne è già una costruziopercezio-ne e si basa sui nostri filtri cognitivi, la concezione dell’esotico può ritenersi anch’essa il prodotto di un racconto collettivo consensuale basato su una percezione della realtà già definita e costruita, perciò fittizia.

Vorrei commentare in proposito le riflessioni di uno scrittore spagnolo contemporaneo, Juan Goytisolo, quando spiega perché, dopo la morte di Franco, egli decide di non ritornare in Spagna. Il suo racconto descrive una sensazione molto vicina a quella che potrebbe produrre la percezione dell’esotico, perché Goytisolo la paragona a quella di un estraneo che entra ad un ballo di masche-re senza essemasche-re invitato e senza maschemasche-re: si produce una specie di immediato cortocircuito che separa irrimediabilmente colui che guarda da coloro che si sentono osservati. Riassumo i concetti principali:

Goytisolo racconta che nel 1976, quando cominciano a scio-gliersi lentamente le strutture totalitarie tipiche del regime di Franco, molti degli scrittori esiliati, come lui, si sono chiesti se ritornare oppure no al proprio paese, e decidono di non farlo per via delle caratteristiche che aveva assunto, nel lungo perio-do repressivo della Spagna di Franco, il gruppo degli intellettuali rimasti nel proprio paese: il daltonismo morale, il servilismo di fronte al potere, il desiderio di arrampicarsi e di impossessarsi di premi letterari e di alte cariche politiche, la docilità nel piegarsi a seconda di come soffiava il vento, la disposizione alla compra-vendita, la facilità del ‘cambalache’ (trad. it.: barattare oggetti di

1 Cfr. Le parole di A. Seppilli, in Dona’, M., Magia e filosofia, Milano: Bompiani

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poco valore). Allora, aggiunge Goytisolo (che abitava ed abita tuttora tra Parigi e Marrakesh), di fronte alla attaccaticcia gloria ufficiale dei camaleonti, con tanto di premi e di riconoscimenti ufficiali, la decisione è stata di restare fuori dal paese perché il fatto di mantenere la distanza permetteva un ironico distacco da quel mondo, senza la contaminazione di una prossimità imba-razzante e mortificante. Lo scrittore spagnolo spiega che questa decisione ha provocato una serie di attacchi da parte dei gruppi intellettuali menzionati, per cui se gli esiliati pensavano ingenua-mente di essere ascoltati da quelli che prima erano protetti dal sistema, nel dopo Franco l’accanimento si è visto invece rafforza-to. E’ a questo punto che si inserisce la metafora delle maschere che permette di ricollegare questa storia all’esotico2.

2 “En 1976, al iniciarse en nuestro país el lento derrumbe de sus pasadas

estruc-turas totalitarias, algunos de los intelectuales y escritores que habíamos aguardado pacientemente en el extranjero la muerte de Franco nos planteamos la conveniencia del regreso a España a fin de intervenir de algún modo en el proceso esperanzador que se abría. Entre las razones que nos indujeron finalmente a seguir al margen y permanecer en donde estábamos, una de las de mayor peso fue el instintivo recelo, fortalecido por la experiencia y los años, del gremio intelectual y literario configurado en las cuatro décadas del franquismo: de su daltonismo moral, servilismo ante el poder, afán de trepar a posiciones de influencia, destreza en plegarse a la dirección en que sopla el viento, disposición a la compraventa, proclividad al cambalache. Nuestro prolongado ostracismo por parte del Régimen –en contraposición a la empalagosa gloria oficial de los camaleones enmedallados- nos permitía ver las cosas con irónico distanciamiento. (...) Habiendo recuperado la voz –la posibilidad de ser publicados en el país y expresar nuestra opinión en voz alta-, la decisión de preservar nuestra independencia, no aspirar a ninguna ganga o poder, no quitar puestos, privilegios ni sinecuras a nadie nos hacía creer, inocentemente, que sería acogida con indulgencia por sus directos beneficiarios (...) Nuestra convicción no tenía en cuenta el hecho de que, al actuar así, íbamos a ser objeto por las figuras y figurones del día de una saña idéntica a la que amparados entonces por el sistema, nos profesaban en tiempos de Franco. Cuando alguien penetra a rostro descubierto en una asamblea de antifaces o máscaras, su irrupción produce el efecto de desnudar a los asistentes, les obliga a mostrar la hilaza. Los vistosos ropajes de barítono, puños de bastón, gorras capitanas, poses faulknerianas, decandentismo en góndola, invisibles durante el arrobo autoadmirativo de la representación, despiden de pronto, por obra del intruso, un tufillo penoso a guardarropía y alcanfor. La exhibición se vuelve farándula y el rostro crispado del mimo o farsante emerge lentamente bajo el maquillaje de cartón o pintura”. In Goytisolo, J., El universo imaginario, Madrid: Espasa Calpe 1997, pp. 36-37.

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L’immagine che Goytisolo dispiega di fronte a questo gruppo di intellettuali camaleontici è quella di una persona che entra a un ballo di maschere senza nascondere la sua identità: la nudità di uno sottolinea la farsa della ‘farandula’, cioè dei mascherati, e il volto dei mimi o commedianti emerge sotto il trucco in modo quasi spietato.

Difatti, nel mascherarsi, la persona nasconde la propria iden-tità e può sbizzarrirsi senza sensi di colpa nel prendere le forme più esilaranti o più fantastiche, nel desiderio di voler essere per un giorno un altro. Ricordiamo che per l’Europa l’esotico, il favolo-so ballo di maschere, è stato per molti anni l’America, l’America del Nord ma soprattutto l’America del Sud, l’America delle gran-di civiltà scomparse, degli Dei sanguinari, l’America della frutta ‘esotica’ (ancora oggi chiamata in questo modo), l’America dei fiumi giganteschi, degli animali strani, reali o inventati, il famoso Eldorado dei conquistadores. Ma questa America, come ha spie-gato molto bene Todorov3 e ancora meglio O’Gorman4, è stata il

frutto dell’invenzione europea, il prodotto di una certa percezione della realtà, influenzata anche dalle utopie sorte nel ‘500 e ‘600.

Perciò nel momento attuale, in cui i confini della realtà si sono spostati in modo manifesto e il reale è percepito diversamente, a partire dalla fisica quantica e dal ormai non tanto nuovo paradig-ma della complessità, con le scoperte della prospettiva sistemica, della cibernetica, dell’antropologia, della neurologia, della inge-gneria biogenetica, si può dire che il fenomeno della dimensione esotica è cambiato notevolmente, e lo stesso concetto di esotico appare quasi sprovvisto di fascino. Che cosa può essere consi-derata ‘esotica’, agli occhi della gioventù del nostro tempo, che viaggia nelle dimensioni abbaglianti del cyberspazio, che parla di clonazione umana, che assume l’identità di avatar nelle città virtuali della rete, che si sposta addirittura nel postumano con estrema facilità? Per questi giovani così abituati alla velocità e alla

3 Todorov, T. (1982), La conquista dell’America, trad. it., Torino: Einaudi 1992.

4 O’Gorman, E., La invención de América. Investigación acerca de la estructura

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predisposizione ‘camaleontica’ del virtuale, è difficile trovare una esperienza od un evento che possa essere considerato ‘esotico’.

Viene quasi da pensare che ci sia qualcosa di irreale e di fitti-zio in un discorso sull’esotico perché, se da una parte si utilizza il termine per richiamare luoghi, persone e oggetti non usuali, lontani nel tempo e/o nello spazio, dall’altra, con l’avvicinamento dei paesi cosiddetti ‘esotici’ dovuto al fenomeno della globalità, alla facilità di spostamento e all’incremento migratorio, l’esoti-smo è diventato un fenomeno quasi obsoleto, e la parola ha perso la sua carica semantica, una volta piena di romanticismo e di fascino. Come succede con i luoghi comuni o con le metafore cristallizzate, oggi si potrebbe parlare di un esotismo stereotipa-to, di un fenomeno di consumo di fronte a chi guarda stancamen-te il reale, abituato ai continui mutamenti nel mondo virtuale. Ormai si fa fatica persino a riconoscere ‘la meraviglia’ nascosta nel quotidiano, non si guarda più il mondo come se fosse visto per la prima volta. Anzi, forse è proprio questa capacità di stupir-si che dovrebbe essere ritenuta esotica, esotica perché estranea e rara.

L’avvicinamento alle tradizioni lontane, nel tempo e nello spazio, con il fenomeno della globalizzazione, fa sì che anche pratiche ritenute una volta ‘esotiche’, come la pratica meditativa orientale, possano essere riprese attualmente anche a livello mass mediatico e persino a livello scientifico, per cui forse sarebbe più appropriato parlare di innovazione e non di esotico, visto che nei rapporti asimmetrici che si creano tra una determinata tradizione costruita sul corpus di una serie di conoscenze già note e rico-nosciute, e le possibilità che uno sguardo innovativo può appor-tare, si produce quello sfasamento che ha punti di contatto con il concetto di meraviglia che scaturiva un tempo dal così detto ‘fenomeno esotico’.

Un noto astrofisico indiano, Jayant Vishnu Narlikar5, dopo

aver elencato alcuni eventi spettacolari del cosmo che egli

deno-5 Cfr. Narlikar, J.V. (1999), Le sette meraviglie del cosmo, trad. it., Roma: Le

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mina ‘meraviglie’, quali la evoluzione ed esplosione delle stelle, l’espansione del cosmo, i buchi neri, i quasar, i nuclei attivi delle galassie, e alcuni misteri ancora irrisolti, commenta che, secondo lui, la meraviglia maggiore da sottolineare riguarda il successo raggiunto dai metodi scientifici nell’affrontare i misteri del cosmo. Mi viene da rettificare: del macro e del microcosmo. Tenendo conto di questa precisazione, il presente lavoro si propone di indagare nell’esperienza meditativa, una volta considerata ‘esoti-ca’, riflettendo sui cambiamenti cognitivi e linguistici della pratica meditativa orientale alla luce della scienza occidentale, special-mente delle scienze neurocognitive, avvantaggiate attualspecial-mente da strumenti di misurazione scientifica assolutamente sofisticati per rilevare i minimi movimenti del cervello umano. Gli attuali esperimenti sono importanti quali dimostrazione del modo in cui un fenomeno come la meditazione, proprio perché lontano dalle abitudini occidentali dell’uomo medio, attiri nel momento presen-te l’inpresen-teresse della prospettiva scientifica, al punto da venir speri-mentato nel campo della neurofenomenologia. In questo modo, la pratica meditativa rientra non dalla porta tradizionale delle religioni bensì dalla finestra insolita delle scienze neurocognitive, a testimonianza del mutamento dei tempi attuali; i quali tempi ci segnalano come si sta modificando, e in maniera piuttosto radica-le, la percezione del mondo da parte della scienza occidentale.

1. Oriente ed Occidente

Gli essere umani appartenenti alla cultura occidentale, abitua-ti a muoversi in maniera piuttosto freneabitua-tica, tendono a vedere il vissuto mistico come qualcosa di molto lontano dalla loro espe-rienza e riservato a chi -come i monaci e le suore di clausura in Occidente o i samnyasi in Oriente-, sceglie di rinchiudersi in se stesso e di meditare sul senso della vita in luoghi appropriati a tal fine, come i monasteri o le grotte del deserto. Tuttavia, questo è un senso ristretto della parola mistica. Come ben dice Raimon Panikkar, nel suo bel libro L’esperienza della vita, la mistica

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non è un privilegio di pochi prescelti, ma la caratteristica umana per eccellenza. L’uomo è essenzialmente un mistico, o, se lo si considera come animale (un essere mosso da un’anima), un animale mistico –benchè (…) l’animalità (anche se razionale) non definisce l’uomo. L’uomo è più uno spirito incarnato che un vivente razionale, un animale spirituale, si potrebbe dire, se si interpreta anima secondo l’etimologia indoeuropea (aniti, colui che respira; anilah, soffio). Anima comprenderebbe in tal caso anche lo spirito6.

Tutte le pratiche spirituali, come lo yoga, lo zen, il tantra, la meditazione vipassana, le recite del rosario e via dicendo, consi-gliano al praticante o fedele di concentrarsi sugli aspetti essenziali del vivere e di dirigere l’attenzione sul qui e ora del momento meditativo, senza lasciare che le distrazioni del quotidiano lo tentino. L’obiettivo è quello di realizzare la pienezza del vivere, la dimensione dell’infinito presente in ogni essere, dimensione che di solito ci sfugge perché siamo troppo distratti e troppo intenti a perseguire obiettivi molto più concreti e vicini al nostro tram-tram quotidiano.

In questo nostro vivere da esseri umani pieni di impegni, la coscienza della nostra vita ci sfugge anche se, a volte, crediamo di esserne consapevoli perché facciamo delle attività o delle riflessio-ni attinenti la ricerca psico-spirituale. Infatti, tranne qualche rara eccezione, noi non permettiamo alla vita di essere consapevole di se stessa, proprio perché la nostra consapevolezza interiore è troppo ego-centrata mentre, per poter sperimentare un vissuto mistico, bisogna avere trasceso l’egoismo e le limitazioni dell’io. A quel punto, quando si riesce a cogliere il silenzio dietro alle parole, paradossalmente non c’è più un ego che lo colga e che possa parlarne, e allora le parole tacciono. Per questo motivo, si dice che dell’esperienza mistica non si può parlare, non perché sia segreta, bensì perché in quel momento non c’è più un sogget-to che la sperimenti e che riesca a oggettivarla con descrizioni linguistiche. Perciò l’esperienza della vita, l’esperienza del mistero o dell’ineffabile e l’esperienza della morte vanno insieme, perché

6 Panikkar, R. (2004), L’esperienza della vita. La mistica, trad. it., Milano: Jaca

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colui che è il destinatario dell’attimo di pienezza, sta sperimen-tando un qualcosa che non può essere né pensato né ragionato, non può nemmeno essere vissuto insieme ad un altro, perché non c’è più un confine tra l’io e l’alterità, per lo meno a quel livello. È per questo motivo che la scienza, attraverso i secoli, non si è mai preoccupata di studiare la coscienza o gli aspetti spirituali del vivere, ritenuti divagazioni romantiche e prive di un qualsiasi fondamento scientifico.

Tuttavia il linguaggio è inseparabile dall’esperienza, la confi-gura e la rivela. E anche se l’esperienza mistica è ineffabile, l’uo-mo ne parla comunque. L’essere umano non può fare a meno del logos, che forma parte della sua cultura e contribuisce a costru-irla. E, come vedremo, nella prospettiva delle scienze neuroco-gnitive la parola diventa importante anche nel campo della prati-ca meditativa, sia per il suo signifiprati-cato che per la sua corporeità sonora e musicale.

2. L’approccio scientifico

Anche se la scienza, come ho già menzionato prima, non si è mai preoccupata di studiare la coscienza o la spiritualità, la spinta verso questo tipo di studio è stata sempre molto forte. A riprova di questo, negli ultimi tempi, un gruppo di ricercatori della comunità scientifica internazionale si è riunito periodica-mente con il Dalai Lama, durante una certa quantità di anni, per discutere aspetti che riguardavano precisamente questa zona d’ombra, per cercare di raggiungere una sintesi tra Oriente e Occi-dente e, all’interno di OcciOcci-dente, tra scienze naturali e fenomeno-logia. Tra questi investigatori c’era Francisco Varela, che aveva intrapreso delle ricerche a Princeton, durante un lungo periodo, con Humberto Maturana, conosciuto per aver coniato il concet-to di auconcet-topoiesi7 all’interno della scuola di pensiero denominata

“costruttivismo”.

7 Cfr. Maturana, H. e F. Varela (1984), L’albero della conoscenza, trad. it., Milano:

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I due biologi cileni sono scomparsi già da qualche anno, ma il progetto che Varela aveva maturato negli ultimi tempi della sua vita ha avuto una risonanza mondiale enorme e un grande rico-noscimento accademico, per la sua solidità nel cercare di riformu-lare le domande fondamentali riguardanti le scienze della mente con delle risposte radicalmente nuove, nell’ambito dei protocolli delle scienze, e tenendo anche conto dell’esperienza soggettiva; esperimento che non era mai stato fatto prima. Perciò cercherò di dare un’idea riassuntiva di quale era questo suo progetto, che è diventato operativo sotto il nome di neurofenomenologia, cioè un progetto di fenomenologia neuro-psico-evolutiva che ha a che vedere con la conoscenza di se stessi e i rapporti con la meditazio-ne e la mistica, ma all’interno di una cornice di tipo scientifico8.

2.1 Il paradigma della complessità

Prima di introdurre l’argomento, spiegherò un paio di concet-ti fondamentali che riguardano il paradigma della complessità, concetti che sono la base per poter capire cosa vuol dire la prati-ca della conoscenza di sé in termini sistemici. Come sappiamo, nella fisica quantica i confini svaniscono, ogni particella può esse-re considerata come onda oppuesse-re come corpuscolo. Qualcosa di simile avviene nel processo cognitivo all’interno del paradigma della complessità: il soggetto epistemico occupa una posizione centrale nella sua funzione simultanea di osservatore e di atto-re della situazione studiata; doppia funzione che implica una dissoluzione dei confini e una duplice o triplice descrizione del fenomeno osservato. Per questo motivo, l’azione di raccontare o raccontarsi diventa essenziale perchè mette in evidenza le rela-zioni complesse, cognitive, emotive, relazionali che interagiscono nel nostro ruolo di osservatori-protagonisti, considerando che la

8 È uscito da pochi anni un volume collettivo a cura di M. Cappuccio, dal titolo

Neurofenomenologia (Milano: Mondadori 2006), che si apre con un saggio di Varela

e continua con gli interventi dei suoi successori, i quali forniscono una testimonianza molto suggestiva sull’attualità della fenomenologia applicata al campo delle scienze della mente.

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teoria della complessità ha proposto, in questi anni, un contesto metodologico che esige al soggetto una partecipazione totale.

Un simile atteggiamento conoscitivo implica l’accettazione delle incertezze dell’ignoto e una conoscenza diversa nella quale l’osservatore-protagonista riconosce che una sola prospettiva non è più sufficiente e che l’azione multiprospettica può portare a modificare la sua identità; la quale, secondo le ultime teorie, non è più considerata un nucleo solido e permanente attraverso il tempo, bensì un processo in continua ristrutturazione di memo-rie, valori, modelli, credenze e conoscenze.

Lo stesso succede con le frontiere ritagliate dal linguaggio. Ogni cultura costruisce la propria lingua seguendo la filosofia che sorregge la sua visione del mondo. Così, ad esempio, i prin-cipi della scienza medica cinese, contrariamente alla medicina occidentale, sono spiegati con metafore e seguendo un percorso linguistico di tipo poetico. Anche gli aspetti fonetici e paraver-bali della lingua cinese sono molto complessi e una stessa parola può avere molteplici significati secondo il ritmo e l’intonazione della pronuncia. Per questo motivo, la scienza occidentale rifiuta la prospettiva cinese, dimostrando una conoscenza molto limi-tata della visione sistemica. Infatti, lo sguardo tradizionale nelle lingue occidentali è dominato dalla struttura sequenziale sogget-to-verbo-oggetto, che tende alla frammentazione analitica del pensiero mentre, d’accordo con il paradigma della complessità, ci vorrebbe un uso innovativo e flessibile della lingua, a partire da una modalità diversa di ripensare l’architettura grammaticale; un utilizzo adatto ad una pluralità di prospettive e basato sul movimento, dove sia il verbo ad avere una posizione prioritaria e processuale. Qualcosa di affine a queste problematiche s’intrave-de nei concetti proposti dalla riflessione di Varela, i quali hanno delle connotazioni linguistiche che spingono verso il movimento e la creatività, come per esempio i concetti di ‘enazione’, ‘embodi-ment’, ‘emergenza’, tutte parole che iniziano con la /e/ di Essere, di Esperienza, di Energia, e anche di Movimento verbale

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secon-do l’alfabeto primordiale. Infatti, spiega Fabre d’Olivet9 che la

“E”, radice vivente del linguaggio primordiale e, nella Cabala, simbolo della matrice e del femminile, non è mai stata impiega-ta allora come nome; è, dalla sua formazione, un verbo unico dal quale derivano gli altri10. Vediamo quindi il significato dei

concetti menzionati, inseriti nella cornice operativa della neuro-fenomenologia.

3. La prospettiva della neurofenomenologia

Per cercare di arrivare alla consapevolezza meditativa con degli strumenti scientifici, Varela ha progettato una forma di psicologia cognitiva che è stata chiamata ‘enattiva’, la quale si propone come una alternativa al cognitivismo classico. Il suo progetto elabora una visione estesa della mente attraverso l’accesso a un livello di descrizione che è superiore sia a quello puramente fisiologico (caratterizzato da descrizioni di strutture neuronali e di processi biochimici), sia a quello funzionale degli algoritmi (le operazioni logico-simboliche), e che ha a che vedere con la sfera del vissu-to psichico, in prima persona, che è il livello più strettamente implicato con l’emergere della coscienza. Attraverso la nozione di enazione, Varela si richiama a una fenomenologia della perce-zione di radice merleau-pontyana dove, con le sue parole, “la cognizione è fondata sull’attività concreta dell’intero organismo, cioè sull’accoppiamento senso-motorio. Il mondo non è qualcosa che ci è “dato”, ma è qualcosa a cui prendiamo parte tramite il modo in cui ci muoviamo, respiriamo e mangiamo. Questo è ciò che io chiamo cognizione come enazione”11.

Da questa prospettiva il mondo non è soltanto un conteni-tore oggettivo di rappresentazioni già pre-definito dove noi ci muoviamo, bensì uno scenario d’infiniti atti possibili, ciascuno

9 Cit. nel libro di D’Amato, G., L’alfabeto sacro di Adamo. Aum, Genova: Fratelli

Melita ed. 1987, p. 218.

10 La doppia E con la Vau in mezzo (EVE) vuol dire ‘essere essente’. Ibidem.

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con il proprio significato pragmatico e contestuale. La realtà diventa quindi una co-creazione reciproca tra io e mondo, e il processo cognitivo avviene non attraverso rappresentazioni bensì attraverso azioni incarnate. In questa frase, troviamo l’altra paro-la fondamentale del progetto di Vareparo-la, l’embodiment, l’azione incarnata, che egli descrive in questo modo:

Con la parola “incarnato” vogliamo sottolineare due punti: innanzitut-to, la cognizione dipende dai tipi di esperienza che dipendono dal fatto di avere un corpo dotato di diverse capacità senso-motorie; in secondo luogo, queste capacità individuali senso-motorie s’iscrivono esse stesse in un conte-sto biologico, psicologico e culturale più ampio12.

Dalle sue parole si deduce che l’azione incarnata è un atto intenzionale contestuale dotato di significato e finalità, quindi carico di senso e di motivazione. Il cognitivismo enattivo proble-matizza la dicotomia oggettivo-soggettivo, esterno-interno; perciò l’azione incarnata non è riducibile né a un approccio di matrice dualistica, né a un evento meccanico, né a un processo di elabo-razione d’informazioni: è qualcosa di molto diverso.

Ricordiamo che, nell’attuale paradigma scientifico, la psiche e il corpo rappresentano due livelli di complessità diversi ma appartenenti alla medesima realtà fisica; perciò pur essendo due realtà differenziate da un punto di vista funzionale, sono tra di loro fortemente interconnesse e logicamente non in manie-ra lineare, vista la incredibile complessità del cervello. Bisogna tener presente che il fenomeno complesso ha delle proprietà che sono emergenti (questo è il terzo concetto che abbiamo elencato prima). Cosa vuol dire ‘emergenti’? le proprietà emergenti sorgo-no come risultato di un’interazione fra processi, il che significa che le proprietà di un sistema complesso non sono predefinite e non possono essere conosciute in precedenza (si pone sempre come esempio la farfalla che scatena un uragano nel lato oppo-sto del pianeta). Il comportamento, ad esempio, è una proprie-tà emergente di uno schema neuronale in interazione con altri

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processi mentali; anche il linguaggio è una proprietà emergente della società. Quindi, “non sono i componenti quanto piuttosto lo schema delle connessioni a conferire una nuova proprietà”13.

Inoltre, questa emergenza non deve essere intesa in un’unica dire-zione bottom-up (cioè dagli strati inferiore dell’organizzadire-zione verso quelli superiori) ma in una duplice direzione causale. Perciò la coscienza, che è vista come l’effetto di una concatenazione infi-nitamente complessa che trascende i limiti dell’individuo, è consi-derata non un epifenomeno bensì un processo globale emergente con un ruolo causale attivo nei processi organizzativi cognitivi. Da questa prospettiva, e poiché tutto è profondamente interrela-to, non ci può essere un’emozione pura o un pensiero puro senza un supporto neuronale e corporeo, per cui “la dialettica tra livelli di organizzazione emergenti si risolve nella ben nota disconti-nuità strutturale e gnoseologica che un osservatore constata tra l’esperienza (globale) vissuta in prima persona e caratterizzata qualitativamente, e il resoconto fisicalistico dell’interazione tra gli oggetti (locali) studiati in terza persona dalla scienza”14.

La neurofenomenologia cerca di trovare una soluzione a questa frattura gnoseologica ed epistemologica; tentativo importante in un’epoca come la nostra, in cui l’essere umano si trova ad agire in un corpo del quale si parla tanto ma che si sperimenta poco poiché le esperienze corporee, a causa delle tecniche multimedia-li, stanno diventando sempre di più un fenomeno virtuale. Per di più, nelle grandi città la quantità d’informazione è talmente eccessiva che la gente preferisce evitarla e diventa quasi insensibi-le a ciò che avviene davanti ai loro occhi, al dolore e la sofferenza che si riscontrano in ogni angolo della strada. Ma nel chiudere gli occhi al dolore, limitiamo anche la nostra capacità per il piacere, visto che il sistema sensoriale è equipaggiato per reagire all’asim-metria e, davanti alle immagini o suoni abituali, si chiude (biso-gna ammettere che, purtroppo, la gente che soffre è un fenomeno

13 Cfr. Dalai Lama (1992), Ponti sottili, trad. it., Vicenza: ed. Neri Pozza 2003,

p. 95.

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troppo abituale e in continuo aumento). Così facendo, il corpo si blocca e anche l’intuizione, visto che la sensorialità e l’intuizione si sviluppano a vicenda, per cui se desideriamo recepire le infor-mazioni sottili è importante sviluppare la consapevolezza senso-riale. Alla mancanza di sensibilità sensorio-corporea si aggiunge il fatto che, con l’accelerazione dei tempi e il cambiamento costante delle certezze accumulate, l’essere umano è obbligato ad adat-tarsi troppo velocemente ad un mondo instabile e fluttuante, per cui mentre la mente si proietta verso un futuro che minaccia la sopravvivenza umana, il cervello agisce ancora con le conoscenze e la logica del passato. E anche se il cervello ha notevole plasticità ricostruttiva, le conseguenze di questo agire frammentato sono, oltre allo stress fisico e psichico (che riduce inesorabilmente le cellule dell'ippocampo), le malattie immunologiche, neurologiche e depressive.

Di fronte a questo panorama poco confortante, la tenden-za più avantenden-zata della psicologia moderna propone una nuova scienza della mente che utilizza modelli sistemici pluridimensio-nali insieme con approcci biologici, psicologici, sociali e persino letterari all’interno di una cornice teorica unitaria. Questo per poter risolvere problemi molto diversi da quelli che si poneva la psicologia tradizionale; problemi legati ai valori attribuiti ad eventi e situazioni. Uno di questi approcci, che ho già menzionato altrove15, è l’utilizzo terapeutico di raccontare storie

introducen-do metafore cognitive nell’intreccio dei racconti. Queste storie passano contenuti affettivi nascosti nella memoria implicita, che risultano inaccessibili alla coscienza inducendo, come risultato, attraverso i neuroni mirror (o specchio) come base, ristruttura-zioni del problema in un modo quasi inconsapevole.

L’altro approccio da sottolineare, a mio avviso, è rappresenta-to dalla neurofenomenologia perché è di grande valore, in quesrappresenta-to momento storico incerto, un approccio scientifico che dia rilie-vo agli aspetti spirituali della vita e che, attraverso un proget-to come la meditazione sistemica, si apra alla consapevolezza e

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all’esperienza in prima persona del proprio corpo-mente vissuto come sistema globale e raccontato in maniera precisa, in modo da superare il divario tra la mente biologica e la mente esperienziale. Spiegherò brevemente in cosa consiste l’applicazione di questa teoria.

3.1 La pratica della meditazione secondo la

neurofenomeno-logia

Precisiamo innanzitutto che quello che Varela ha tentato di portare avanti è una scienza cognitiva pluralista, considerando che, nel cuore stesso delle neuroscienze si era venuto a creare, negli ultimi dieci anni, un profondo mutamento paradigmatico con ramificazioni diverse, dopo il crollo delle certezze del model-lo computazionale. Tra l’altro, il prefisso ‘neuro’ oggi si è molti-plicato perché è di moda, e lo troviamo dappertutto. Si parla, ad esempio, di neuro-etica, di neuro-economia, neuro-politica, neuro-fitness, neuro-alimentazione, e via dicendo. Dobbiamo comunque dire che l’orientamento emergente, dopo un periodo di costanti mutamenti, non soltanto riconosce il carattere connet-tivo di tutti i processi neuronali, ma rifiuta l’immagine di una conoscenza astratta, reinserendo la cognizione nella dimensione incarnata (embodiment) e contestuale, e invitando il ricercato-re a tornaricercato-re alle radici delle scienze cognitive, all’epistemologia sperimentale del passato, richiamando la complementarità e il coordinamento dei punti di vista possibili del presente, a livello scientifico.

È una sfida enorme, con problemi e ostacoli che bisogna superare, considerando che l’obiettivo è molto ambizioso e può trasformare l’orizzonte scientifico. È l’idea di una scienza che procede mediante costruzioni, articolando una pluralità di punti di vista teorici, ognuno dei quali, pur producendo zone d’om-bra, può illuminare le zone d’ombra generate dagli altri. Perciò le parole d’ordine sono eteronomia e autonomia in interrelazione. Varela ci ha lasciato un messaggio importante, con il suo

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approc-cio pluralista alla conoscenza della conoscenza, quando spiega che:

“Il mondo non ci si presenta nettamente diviso in sistemi, sotto-sistemi, ambienti e così via. Queste sono divisioni che facciamo noi in vista di vari scopi. È evidente che differenti comunità di osservatori trovano comodo dividere il mondo in modi diversi e sono interessati a diversi sistemi in diversi momenti…16”.

In questa epistemologia della complessità, il progetto della neurofenomenologia risulta fortemente innovativo, con il suo approccio metodologico per vincoli reciproci; approccio che ha come caratteristica l’attenzione alla dinamica che si stabilisce tra un evento neurobiologico e un evento della sfera di coscienza17.

Cosa si intende per questo metodo dei vincoli reciproci? 3.2 I rapporti tra buddismo e neurofenomenologia

Innanzitutto, è bene sottolineare che per la

neurofenomeno-logia lo studio di un fenomeno mentale non è lo studio di un evento isolato, ma lo studio di un soggetto che fa esperienza in prima persona in un contesto determinato (ricordiamo che stia-mo parlando di scienza cognitiva incarnata o situata), in cui mente e mondo sono realtà che agiscono in maniera interrelata. Questa pratica trae la propria ispirazione dalle tradizioni orien-tali, specialmente dalla filosofia buddista, in quanto per il buddi-smo la sostanza del mondo e della mente umana è formata, come sappiamo, da aggregati illusori (gli skandha).

È precisamente il Dalai Lama18 colui che, dialogando con degli

scienziati nel libro Ponti sottili, parla del rapporto tra la pratica meditativa e l’illusione percettiva, differenziando due forme

d’il-16 Cfr. AA.VV., Neurofenomenologia, op. cit., p. 13.

17 Ibidem, p. 33.

18 Nel dicembre del 2007, il Dalai Lama è stato in visita a Milano dove ha tenuto

tre giorni di insegnamento buddista a una platea di diecimila persone; insegnamento che si è concluso con una conferenza sulla pace stracolma di gente. Ecco quindi un insegnamento spirituale, il buddismo tantrico tibetano, ritenuto una volta esotico e nell’attualità diventato un fenomeno di consumo di massa.

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lusione, una casuale o contingente, l’altra fondamentale19. Per

esempio, i diversi colori del vetro influenzano la vista, e sono illu-sioni contingenti, le cui cause sono interne all’oggetto, interne agli organi sensoriali e alla coscienza che riceve in modo imme-diato la cognizione. Se qualcuno è adirato, vedrà tutto il mondo colorato di rosso, perciò sarà preda di un’illusione la cui causa risiede nello stato di coscienza precedente, sottoposta all’influen-za della collera. Ci sono poi altri livelli d’illusione più sottili che si connettono ai condizionamenti a cui si è sottoposti nella società. I buddisti sottolineano molto la ricerca della Verità, cioè della Realtà ultima, e sostengono che non è possibile fare affidamento in modo sostanziale sulla nostra percezione del reale perché esiste una forte disparità fra il modo in cui le cose ci appaiono e il modo in cui esse esistono. Dato che non ci si può fidare dalle apparenze, si debbono adoperare degli strumenti logici, perciò si suddivi-dono le diverse categorie di fenomeni. Esplorando un oggetto, ad esempio un elettrone, per arrivare alla conclusione deduttiva della sua esistenza, si utilizzano come metodo diversi strumenti logici, la deduzione di una conseguenza, poi il sillogismo, infine il ragionamento conclusivo. Ma, come ben dice Varela a proposito del metodo analitico, esistono esempi di tutti i tipi che mostra-no come la logica apparentemente più chiara e impeccabile, può condurre ad una soluzione che domani può cambiare completa-mente. Le nostre convinzioni sono soltanto quello, cioè le nostre convinzioni.

Per il Dalai Lama esiste perciò una distinzione fra qualcosa che esiste e qualcosa che esiste per natura propria, indipendentemen-te dai fattori influenti. Per esempio, quando la scienza occiden-tale parla di esperienza diretta, si riferisce alla esperienza senso-riale, mentre nel buddismo l’aspetto sensoriale dell’esperienza è del tutto marginale; i buddisti parlano di un ordine percettivo diverso che ha quattro livelli: sensoriale, mentale, contemplativo, e l’appercezione o autocognizione. È facile identificare la perce-zione sensoriale; invece, anche fra gli studiosi tibetani, ci sono

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molti punti di vista diversi sulla percezione mentale diretta. Essi sostengono che fino a quando non si percepisce la natura ultima dei fenomeni in modo diretto, cioè fino a quando non si raggiun-ge il sentiero della visione, non si è in grado di vincere i propri dubbi, perchè non si ha la percezione diretta della verità ultima sostanziale che loro chiamano shunyata o vacuità. Dal loro punto di vista, quindi, si potrebbe dire che il fenomeno esotico è una rappresentazione mentale non capita e perciò categorizzata in modo diverso rispetto ad una percezione comune e banale.

Per il Buddismo, disciplina vivente con centinaia d’anni di pratica meditativa attiva e rigorosa, con base fenomenologica, arrivare al livello della vacuità non è una impresa così ardua come per gli occidentali, fortemente distratti dal tipo di vita che conducono. Per questo motivo, quando Varela conia il termi-ne “enaziotermi-ne” cerca di mediare tra le due prospettive, perchè aggiunge all’impostazione orientale, altri aspetti complementari che appartengono alla rigorosità delle scienze secondo il proto-collo di Occidente. E così mentre in Oriente il vincolo reciproco è tra un discepolo e il suo maestro, nella prospettiva dell’Occi-dente scientifico l’approccio si modifica, e la complementarità ed interconnessione costruttiva tra due prospettive interdipendenti porta il concetto di misticismo e di coscienza a un nuovo livello di comprensione, aggiungendo la terza posizione.

Per quel che riguarda il metodo utilizzato, si può dire che il ruolo della prima persona non è difficile da capire, perché in Occidente sono numerose le persone che hanno già una certa dimestichezza con la pratica meditativa (ascolto del corpo e del respiro, sospensione dei meccanismi di pensiero abituali e ri-di-rezione dell’attenzione, non sugli oggetti mentali ma sugli stessi atti cognitivi, con l’intenzione di arrivare ad uno stato ricettivo di apertura silenziosa o visione penetrante -vipassana- e magari, con un po’ di fortuna, all’intuizione diretta dell’essenza o stato di trascendenza). Probabilmente risulta più difficoltoso capire il ruolo della seconda persona, per chi non ha esperienza di un percorso professionale tipo coach o counselor. La terza posizio-ne, anche se comprensibile razionalmente, può essere solo

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utiliz-zata in ambito scientifico, per via della tecnologia che si rende necessaria per misurare i minimi movimenti mentali20.

Il problema di una simile pratica diventa, in Occidente, come tradurre il resoconto descrittivo dei vissuti di coscienza in prima persona con gli standard esplicativi del cognitivismo, basati sulla condivisione di modelli oggettivi e universalmente verificabili. La risposta si trova nel principio dei vincoli reciproci che “defini-scono un principio di interazione e d’interferenza minimale (ma sostanziale) tra il piano naturalistico delle osservazioni in terza persona e il piano fenomenologico delle descrizioni in prima persona”21.

In questa co-determinazione consistono i passaggi generativi che si ripercuotono tanto negli aspetti vissuti in prima persona quanto negli aspetti biologici. Varela specifica che non si tratta soltanto di determinare gli aspetti isomorfi tra eventi fisiologi-ci e fenomenifisiologi-ci e nemmeno di costruire ponti tra percetti e reti neuronali: “il metodo per vincoli reciproci raggiunge il suo massi-mo grado di compimento solo quando riesce a stabilire relazioni vincolanti di emergenza sancite da dispositivi generativi descrivi-bili preferibilmente in termini quantitativi”22, anche se forse non

è necessario arrivare a questo estremo di rigore matematico. Cioè, in parole povere, si tratta di vivere in prima persona il vissuto meditativo, di essere in grado, in un secondo momento, di descriverlo o raccontarlo ad una seconda persona in modo detta-gliato e preciso, in modo che ci sia una condivisione empatica del vissuto di coscienza da parte dell’altro che generi un signifi-cato intersoggettivo, e il resoconto dell’esperienza globale s’inse-risce in una cornice in terza persona adeguata agli usi scientifici,

20 La risonanza magnetica permette di realizzare osservazioni molto dettagliate del

cervello, in tutta la gamma degli stati mentali che il soggetto sperimenta in quel momen-to. Il problema risiede non tanto nel possedere strumenti di misura di grande precisione ma piuttosto nel trovare dei soggetti-osservatori capaci non soltanto di produrre degli stati mentali specifici e di ricrearli più volte, ma anche di fornire resoconti accurati ed oggettivi dei loro stati mentali.

21 Ibidem, p. 31. 22 Ibidem, p. 33.

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cioè case studies a livello quantitativo, con analisi matematiche a partire da strumenti adeguati, brain images, utilizzo della riso-nanza magnetica funzionale per studi specifici e molto precisi dei movimenti del cervello durante il processo meditativo, ecc. Perciò in questo processo sistemico intervengono tre punti di vista, la prima, la seconda e la terza posizione percettiva, e abbiamo quin-di tre descrizioni con vissuti e prospettive quin-diverse quin-di un unico evento. Il risultato è un’interrelazione stratificata e generativa, poiché dalla pluralità del vissuto scaturiscono proprietà emergen-ti che non possono essere previste con anemergen-ticipo rispetto ai tempi dell’esperienza analizzata.

3.3 La funzione dei neuroni mirror nella

neurofenomeno-logia

Un ruolo importante in questa esperienza spetta ai neuroni mirror o specchio, senza i quali il vissuto empatico della secon-da persona non sarebbe possibile. I neuroni mirror sono diven-tati ultimamente occasione di numerosi incontri e dibattiti con ulteriori pubblicazioni perché più si studiano, più si realizza la funzione basilare che essi hanno avuto lungo i secoli, nell’appren-dimento e nella crescita della conoscenza, persino nella nasci-ta del linguaggio. I neuroni mirror sono alla base del modello simulativo della teoria della mente, la quale postula che quando un bambino vede fare determinate azioni ad un adulto, tende ad attribuirle il significato uguale a quello che egli darebbe all’azione se la realizzasse lui stesso, cioè il bambino s’identifica con l’al-tro e tende a comprendere il comportamento altrui come se quel comportamento lo avesse fatto lui stesso in prima persona. Sono precisamente i neuroni mirror quelli che danno fondamento a questa teoria. Vengono chiamati “mirror” (o specchio) perché costituiscono un sistema che compara le azioni esterne fatte da altri con il proprio repertorio interiore di azioni, e si attivano sia quando si fa qualcosa in prima persona sia quando si osserva la stessa azione compiuta da qualcun altro. Presentano quindi

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un doppio aspetto, esecutivo e rappresentazionale; il primo ci permette di entrare in rapporto con il mondo, il secondo ci forni-sce una semantica degli oggetti e delle azioni.

I neuroni specchio svolgono un ruolo fondamentale nell’ap-prendimento perché, se l’osservazione di un’azione implica la simulazione della stessa attraverso l’attivazione dei suddetti neuroni, la comprensione degli stati mentali altrui si basa nella possibilità di stabilire un’equivalenza motoria tra l’azione altrui e la propria, nel principio di somiglianza esistente tra gli altri e se stessi. Lo stesso avviene con le emozioni e le sensazioni: l’altro è percepito come un noi attraverso la relazione di somiglianza e le sue reazioni attivano nell’osservatore gli stessi neuroni, come se l’emozione provata dall’altro fosse sua. Per esempio, una sensa-zione di dispiacere attiva la stessa regione dell’insula, nel cervello, tanto quando il dispiacere è proprio quanto che se l’osserviamo nel volto di un interlocutore23. Quindi la comprensione in prima

persona delle emozioni altrui che i neuroni mirror rendono possi-bile, è il pre-requisito necessario per il comportamento empati-co, tenendo presente che, in ogni modo, la compassione non è automatica perché dipende anche da altri fattori (se la persona ci risulta simpatica, se abbiamo intenzione di condividere la sua situazione emotiva, ecc.). Perciò, considerando che comprende-re il significato di un’azione equivale a simularla24 internamente,

ogni attività imitativa aumenta la comprensione del funziona-mento mentale di sé stesso e degli altri in base ad un sistema di analogie sé-altri. Come ben dice Anolli, nel suo libro La mente

multiculturale: “Non si tratta di imparare da altri adulti (esperti)

ma con e attraverso essi, poiché la condivisione dell’attenzione, l’imitazione e la comprensione degli altri come soggetti intenzio-nali conducono a quella condizione simbolica che è la caratteri-stica distintiva della specie umana”25.

23 Cfr. Rizzolati, G. e C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni

specchio, Milano: R. Cortina 2006, pp. 170-172.

24 In questo caso, ‘simulazione’ s’intende non come inganno bensì nel suo senso

etimologico, dal lat. similis, somigliante.

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Tenendo presente che l’empatia è l’elemento operativo che rende possibile il rapporto d’interscambiabilità, cioè il tentativo di trasferire il vissuto in prima persona ad una seconda persona, risulta evidente l’importanza dei neuroni specchio come pre-re-quisito del rapporto empatico, in questo particolare approccio. Certo, è molto importante avere in questi casi un coach o tutor addestrato sia al lavoro su di sé che a fare da mediatore empatico, cioè ad assumere una prospettiva in seconda persona, per poter agire il passaggio transferale dal vissuto soggettivo all’oggettivi-tà verificabile (per il tutor, è anche importante sapere porre le domande giuste su particolari invarianti e sull’osservazione del comportamento per poter avere una lettura condivisa precisa, e anche ripulita il più possibile da interpretazioni). L’esperienza descritta si traduce a posteriori in modelli e strutture, e così si fissano gli elementi invarianti che fungono da tracce per riper-correre l’esperienza. È senza dubbio un lavoro che richiede un addestramento cognitivo sul processo meditativo e sulla seconda persona per poter indagare sulla struttura dell’esperienza.

4. Conclusioni

Arriviamo quindi alle conclusioni. L’approccio fenomenolo-gico punta, come l’approccio psico-spirituale, alla crescita della consapevolezza. La scienza mira, invece, alla verifica oggettiva, pubblica e quantitativa degli eventi analizzati. Ora, consideran-do che la tradizione permette di conservare la memoria storica degli eventi e il rinnovamento propone invece nuove prospettive e collegamenti per arricchire il vecchio; mi pare, a questo propo-sito, che l’approccio della neurofenomenologia sia importante e pertinente perché è un tentativo di integrare domini sinora tenu-ti strettamente separatenu-ti: l’esperienza contemplatenu-tiva, con i suoi componenti innovativi e, perché no, anche ‘esotici’; l’esperienza fenomenologica e, infine, quella scientifica.

È vero che ci sono parecchi ostacoli da risolvere; il principale, a mio avviso, è il passaggio da una esperienza di trascendenza al

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livello linguistico e dialogico dove si rende necessario raccontare il vissuto meditativo. È altrettanto vero che la memoria può anche modificare l’esperienza originale facendola rivivere in modo diver-so. In ogni modo, il passato, come ricordo, è sempre una espe-rienza presente e ogni espeespe-rienza umana, per quanto ‘mistica’, è un esperienza corporea ed è importante registrare il vissuto a tutti i livelli del sistema uomo. Dice un proverbio spagnolo: “Obras son amores y no buenas razones” (trad. it.: “Opere sono amori e non buone ragioni”). Mi pare che dietro alla pratica complessa del metodo neurofenomenologico, che integra l’approccio occi-dentale a quello orientale, e la metodologia scientifica alla consa-pevolezza meditativa, ci sia una bella carica di entusiasmo verso dimensioni mistiche che, sotto un certo profilo, possono ritenersi esotiche perché estranee all’esperienza quotidiana del vivere; e quando un’idea possiede una carica di verità, prima o poi prende corpo nella vita degli uomini. Dice sempre Panikkar: “Sta scritto che il criterio della verità è ciò che ci rende liberi – e la libertà si manifesta nell’azione”26. Perciò ben venga un modo diverso

e pluriprospettico di sperimentare e di trasmettere il momento contemplativo, che diventa ogni volta un nuovo cammino e che sicuramente porterà delle trasformazioni a livello sia individuale che collettivo. Tra l’altro, il fatto che ci si avvii ad una prima inte-grazione di aree così lontane, è il sintomo dell’inizio di un nuovo modo di percepire la profonda unicità dell’universo.

Finisco con un pensiero di Krishnamurti che conferma le rifles-sioni già espresse prima, nelle pagine dell’Introduzione: oggi, più che parlare di cambiamento dell’esotico, sarebbe più appropriato parlare di come recuperare la capacità di stupirsi davanti a quel quid di ‘nuovo’ e di meraviglioso che si racchiude nella quotidia-nità del vivere, ma che solo uno sguardo diverso, libero da filtri cognitivi ed emotivi, può arrivare a scoprire:

La verità è sempre nuova; è vedere lo stesso sorriso e scoprire che è nuovo; vedere la stessa persona e scoprire che è nuova; vedere nuovi gli alberi che si muovono al vento, trovare la vita di nuovo ad ogni momento […]. Quando

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la mente è libera da tutte le sue proiezioni, c’è uno stato di quiete dove fini-scono tutti i problemi ed esiste soltanto l’eternità27.

27 La trad. è mia. La citazione è tratta da un epigrafe, per cui non è stato possibile

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Heteroglossia

n.10 | 2009

Cambiamenti nella percezione e rappresentazione

dell’esotico

eum edizioni università di macerata

isbn 978-88-6056-192-3

eum x quaderni

a cura di Hans-Georg Grüning con la collaborazione di

Gianna Angelini

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edizioni università di macerata

Heteroglossia

Hans-G. Grüning

Cambiamenti nella percezione e rappresentazione dell’esotico

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Quaderni della Sezione Linguistica

del Dipartimento di Studi su Mutamento Sociale, Istituzioni Giuridiche e Comunicazione

n. 10 | anno 2009 eum x quaderni

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