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© Pensa Multimedia Editore srl ISSN 1722-8395 (print) / ISSN 2035-844X (on line) Studium Educationis • anno XVII - n. 3 - ottobre 2016

Il Moloch del centralismo

________________________ di Giuseppe Bertagna ________________________

I propositi della cosiddetta «Buona scuola» (legge 107/2015) erano ottimi. Come quelli di quasi tutte le riforme scolastiche che si sono succedute. Niente più girandole di precari e di supplenti. Valutazione esterna dei docenti e dei dirigenti. Riconoscimento e valorizzazione del merito di ciascuno. Almeno parziale chiamata diretta dei docenti negli ambiti ter-ritoriali. Concorsi per il reclutamento rapidi ed efficaci. Collegamento obbligatorio tra scuola e lavoro.

Ma la via dell’inferno è sempre lastricata di buone intenzioni. Perché nei fatti non si è andato, su tutti questi aspetti, molto oltre i propositi. Magari ribaditi con enfasi propagandistica sui mass media e, sul piano amministrativo, accompagnati da centinaia di pagine di decreti e regola-menti scritti nel solito gergo iniziatico che gratifica i funzionari che li scrivono, ma deprime qualunque intelligenza che sia costretta a leggerle. Le volenterose promesse, tuttavia, nella sostanza, sono ancora tutte da mantenere.

Si può far sconto dell’addebito, a dire il vero, su due temi. Il primo è quello relativo al collegamento obbligatorio tra scuola e lavoro. Dopo de-cenni di pavloviana opposizione ideologica al riconoscimento del lavoro, se ben usato, come straordinaria risorsa formativa, non ci si poteva aspettare che le 400 ore obbligatorie di alternanza previste nell’ultimo triennio dei tecnici e dei professionali e le 200 nel triennio dei licei potessero andare molto oltre l’incistamento di qualche stage aziendale nel curricolo ordi-nario. Quasi fossero due esperienze parallele e tra loro estranee, l’una la scuola, con le sue lezioni, e l’altra, qualche esperienza di “assistenza” al la-voro più che di lala-voro in senso proprio, per di più senza connessioni espli-cite con la prima. Il secondo è il tema della pur parziale chiamata diretta dei docenti. In un sistema come il nostro prendere sul serio questa ipotesi sarebbe stato, del resto, eversivo. Anche nella sua limitata applicazione. Non a caso, dopo gli accordi centralizzati stipulati tra Ministero e sindacati, la chiamata diretta si è svuotata e si è ridotta, per i dirigenti scolastici, ad un’ulteriore prova della loro reale «non dirigenza».

Sul resto, tuttavia, lo scarto tra dichiarazioni e dati di fatto, tra promesse e realizzazioni è più che visibile e la delusione più che giustificata. Par-ticolarmente evidente resta la “supplentite” e la girandola dei docenti. Le

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immissioni in ruolo, pur molto numerose, si può dire che, per problemi imperscrutabili a chi non sia addentro alle intricatissime «segrete cose» degli organici ministeriali, abbiano aumentato invece che diminuito il fenomeno. A maggior ragione, se si aggiunge che il concorsone nazio-nale, in via di completamento, non riuscirà a coprire nemmeno la catte-dre libere. Soprattutto nel sostegno e in discipline fondamentali come quelle fisico-matematiche. Il problema è che, l’anno prossimo, tra sen-tenze del consiglio di stato, vincitori di concorso mancati, Tfa e abilita-zioni per il sostegno che non si vedono all’orizzonte, organici gonfiati al sud e bucati al nord sarà ancora peggio.

Ha scritto Guido Rossi: «l’ultima risorsa degli Stati sovrani è una

re-gulatory overshooting mestamente provinciale, una frenesia legiferante che

si traduce in un intrigo di norme il cui unico scopo sembra quello di annullarsi a vicenda». L’ha scritto per le regole finanziarie. Ma perché non conosceva quelle scolastiche.

Non è questione di inefficienza dei singoli operatori. La ormai storica girandola italiana delle assegnazioni “ballerine” di inizio anno che si ri-proporrà tale e quale anche nei prossimi anni, infatti, ripropone quanto era già chiaro a don Sturzo nel 1919, quando fondò il Partito Popolare, gli fu ancora più chiaro al rientro dall’esilio americano dopo la parentesi del Fascismo e gli divenne addirittura abbacinante dinanzi alla realtà di una Repubblica che mantenne le vecchie abitudini del centralismo: nes-suna tecnocrazia amministrativa ministeriale e nessun eccezionale algo-ritmo programmatorio fatto girare a viale Trastevere potranno mai gestire (e nemmeno cogestire con il sindacato) un sistema, con oltre un milione di dipendenti, che voglia non solo proclamarsi, ma essere «educativo». Ciò che riguarda l’educazione, infatti, coinvolge prima di tutto la rela-zione interpersonale tra docente, studente e famiglia. Ha bisogno di in-nestarsi sulle storie reali delle persone, sulle caratteristiche di un territorio, sui valori, non perorati, ma testimoniati nella fatica delle rela-zioni quotidiane, sulla reputazione che va ogni volta difesa e riguadagnata in situazione.

La scala locale, del resto, garantirebbe anche maggiore efficienza am-ministrativa. Se una rete di scuole autonome bandisse, ad esempio, il con-corso per i docenti che le servono sarebbe sicura di reclutarli in tempi brevi e corrispondenti alle proprie esigenze. Questo non significa con-segnare all’arbitrio di qualche dirigente scolastico o potentato locale il reclutamento del personale delle scuole. Significa solo volere uno Stato che governi, e bene, emanando norme generali poche e chiare, su questa come su altre partite, e controlli con rigore e competenza che siano poi rispettate dai giocatori. Punendo con rapidità chi le trasgredisce. E pre-miando chi le rispetta al meglio. Ben consapevole, come ammoniva il Nobel per l’Economia Milton Friedman, che se lo Stato volesse gestire «il deserto del Sahara», allo stesso modo con cui gestisce il falansterio scolastico centralizzato, «in cinque anni ci sarebbe carenza di sabbia».

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