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I. Il protocollo IUCN 9 I. I IUCN

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I.

Il protocollo IUCN

Come accennato precedentemente, il protocollo IUCN al giorno d’oggi è uno degli strumenti più importanti a livello conservazionistico, in quanto permette sia di individuare le specie da considerarsi prioritarie, sia di verificare periodicamente lo status delle popolazioni.

In questo paragrafo si descriverà in maniera sommaria come funziona questo protocollo.

La versione 3.1 del 2001 prevede cinque criteri quantitativi stabiliti da indicatori biologici connessi al rischio di estinzione. Questi criteri permettono una valutazione del grado di rischio di estinzione di un taxon e, conseguentemente, l’assegnazione della categoria di rischio.

I criteri sono stati definiti sulla base dell’analisi dei fattori di rischio più significativi per la maggior parte degli organismi, mentre i valori quantitativi proposti sono stati sviluppati grazie ad un’ampia consultazione e posti ad un livello giudicato appropriato e coerente con le conoscenze inerenti alla conservazione degli organismi selvatici. Per rendere più oggettiva l’assegnazione di un taxon ad una determinata categoria di rischio, i criteri sono stati suddivisi in sottocriteri ed opzioni (IUCN, 2001).

I criteri, con le relative ripartizioni, sono riportati in seguito:

Criterio Sottocriterio Opzione Descrizione

A Popolazioni in declino

A1 La riduzione della popolazione osservata, stimata, dedotta o sospettata in passato è stata causata da fattori reversibili, ben noti e cessati sulla base di una delle opzioni a-e

A2 La riduzione della popolazione osservata, stimata, dedotta o sospettata in passato è stata causata da fattori che possono non essere reversibili, noti o cessati sulla base di una delle opzioni a-e

A3 La riduzione della popolazione è prevista o sospettata nel futuro (fino ad un massimo di 100 anni) sulla base di una delle opzioni b-e

A4 La riduzione di popolazione osservata, stimata, dedotta, prevista o sospettata (indipendentemente dalla lunghezza del periodo fino ad un massimo di 100 anni), dove il periodo di tempo include sia il passato sia il futuro, può non essere cessata o ben nota o reversibile secondo una delle opzioni a-e

a osservazione diretta

b indice di abbondanza appropriato

c declino della superficie occupata (AOO), dell’areale (EOO) e/o

della qualità dell’habitat

d tassi attuali o potenziali di sfruttamento

e effetti prodotti da taxa introdotti, eventi di ibridazione, azione di

patogeni, presenza di sostanze inquinanti, competitori o parassiti

B Distribuzione geografica congruente con le soglie indicate per l’areale (EOO) e/o la superficie occupata (AOO)

B1 Superficie dell’areale inferiore alla soglia e almeno due delle opzioni a-c

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a-c

a severamente frammentata o numero di locations inferiore alla

soglia

b continuo declino a carico di uno dei parametri i-v

c fluttuazioni estreme che interessano uno dei parametri i-iv i areale

ii superficie occupata

iii numero di locations o sottopopolazioni iv numero di individui maturi

v superficie, diffusione e/o qualità dell’habitat

C Popolazioni di dimensioni ridotte e in declino

Il numero degli individui maturi è inferiore al valore soglia

C1 Stime che suggeriscono la possibilità di un declino pari al valore soglia (indipendentemente dalla lunghezza del periodo fino ad un massimo di 100 anni)

C2 Declino continuo del numero di individui maturi ed almeno una delle seguenti opzioni a-b

a i numero degli individui maturi nella sottopopolazione più grande inferiore alla soglia

a ii percentuale degli individui maturi inclusi in una sola sottopopolazione pari al valore limite

b estreme fluttuazioni nel numero degli individui maturi D Popolazioni moto piccole o ristrette

D1 Numero degli individui maturi inferiore al valore soglia D2 Superficie di occupazione ristretta

E Analisi quantitativa della probabilità di estinzione

La probabilità di estinzione è pari alla soglia (indipendentemente dalla lunghezza del periodo fino ad un massimo di 100 anni).

Le categorie di rischio, invece, sono suddivise in dieci livelli. Esse sono definite sulla base della soddisfazione di almeno uno dei cinque criteri. Si ricorda che, tuttavia, è consigliabile valutare un

taxon con il maggior numero di criteri che è possibile applicare in base ai dati a disposizione e, qualora i criteri dessero responsi differenti, va data la precedenza a quelli che conducono all’assegnazione nella categoria di rischio più elevato, secondo il principio di precauzione (IUCN Standards and Petitions Subcommittee, 2010).

Le categorie di rischio sono le seguenti:

Estinto (EX)

Una specie è considerata estinta se non esistono più dubbi sul fatto che il suo ultimo individuo è morto. Una specie è supposta estinta, invece, quando verifiche approfondite, condotte nei periodi più appropriati, nel suo habitat noto o presunto e su tutto l’areale storico non hanno fatto registrare la presenza di alcun individuo. Le ricerche, chiaramente, dovranno protrarsi per un arco di tempo adeguato al ciclo vitale ed alla forma biologica della specie.

Estinto localmente (RE)

Riguarda i taxa che sono estinti solo localmente, ma non su tutta la loro area distributiva.

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Una specie è considerata estinta in natura quando è noto che sopravvive solo in cattività, in coltivazione o come entità naturalizzata in aree esterne al suo areale di origine. Una specie è supposta estinta in natura, invece, quando idonee ricerche condotte nei periodi più appropriati, nel suo habitat noto o presunto e su tutto l’areale storico non hanno portato al rinvenimento di alcun individuo. Le ricerche, chiaramente, dovranno protrarsi per un arco di tempo adeguato al ciclo vitale ed alla forma biologica della specie.

Gravemente minacciato (CR)

Una specie risulta essere gravemente minacciata quando i migliori dati disponibili dimostrano che soddisfa uno qualsiasi dei criteri A-E, risultando così esposta ad un rischio di estinzione in natura estremamente alto. I valori limite sono riportati in tabella 1.

Minacciato (EN)

Una specie risulta essere minacciata quando i migliori dati disponibili dimostrano che soddisfa uno qualsiasi dei criteri A-E, risultando così esposta ad un rischio di estinzione in natura molto alto. I valori limite sono riportati in tabella 1.

Vulnerabile (VU)

Una specie risulta essere vulnerabile quando i migliori dati disponibili dimostrano che soddisfa uno qualsiasi dei criteri A-E, risultando così esposta ad un rischio di estinzione in natura alto. I valori limite sono riportati in tabella 1.

Tabella 1. Valori limite per i vari criteri e sottocriteri, volti all'attribuzione alle categorie di rischio CR, EN o VU.

Criterio CR EN VU A1 > 90% in 10 anni o 3 generazioni > 70% in 10 anni o 3 generazioni > 50% in 10 anni o 3 generazioni

A2, A3, A4 > 80% in 10 anni o 3 generazioni > 50% in 10 anni o 3 generazioni > 30% in 10 anni o 3 generazioni B1 < 100 km2 < 5.000 km2 < 20.000 km2 B2 < 10 km2 < 500 km2 < 2.000 km2 B1a, B2a = 1 ≤ 5 ≤ 10 C < 250 < 2.500 < 10.000 C1 25% in 3 anni o 1 generazione 20% in 5 anni o 2 generazioni 10% in 10 anni o 3 generazioni C2ai < 50 < 250 < 1.000 C2aii 90-100% 95-100% 100% D1 < 50 < 250 < 1.000 D2 AOO < 25 km2, n. locations < 5 E 50% in 10 anni o 3 generazioni 20% in 20 anni o 5 generazioni 10% in 100 anni

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Prossimo alla minaccia (NT)

Una specie è considerata quasi a rischio se valutata con i criteri A-E, pur non risultando gravemente minacciata, minacciata o vulnerabile, appare prossima alle soglie indicate in tabella 1 o è probabile che divenga a rischio nell’immediato futuro.

Non minacciato (LC)

Una specie è ritenuta a minor rischio se, in base ai criteri A-E, non risulta gravemente minacciata, minacciata, vulnerabile o quasi a rischio, e non vi sono dati che indicano la possibilità che lo diventi a breve.

Mancanza di dati (DD)

Una specie è attribuita alla categoria dati insufficienti nel caso in cui vi sia una mancanza di informazioni adeguate per una stima verosimile, diretta o indiretta, del suo rischio di estinzione in natura.

Non valutato (NE)

Una specie è considerata non valutata quando non è ancora stata oggetto di alcuna valutazione tramite i criteri IUCN.

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II.

Inquadramento generale

1.

Il

Parco

Regionale

di

Migliarino-San

Rossore-Massaciuccoli

Il Parco, istituito con la legge n. 61 del 13 Dicembre 1979 della Regione Toscana, si sviluppa lungo la fascia litoranea per 32 km e, nell’entroterra, arriva fino alle falde dei Monti d'Oltre Serchio, allargandosi in distese pianeggianti che ricadono entro i confini amministrativi tra Pisa e Livorno, fino allo scolmatore dell’Arno (Fig. 1). La superficie complessiva del Parco è di 23.114 ettari, così ripartiti: 5.846 ettari costituiscono la Tenuta di San Rossore, 3.776 ettari la Macchia di Migliarino, 3.705 ettari la zona del lago di Massaciuccoli e 780 ettari la Macchia Lucchese.

1.1. Il territorio

L’area del Parco ricade all’interno del litorale versiliese-pisano. Quest’ultimo è situato su una depressione tettonica di forma sub-triangolare orientata NO-SE, che si estende dalla foce del Magra fino ai dintorni di Pisa e Livorno. Questa depressione è delimitata ad oriente dagli alti morfo-strutturali rappresentati dalle Alpi Apuane, i Monti d’Oltre Serchio ed il Monte Pisano, ad occidente dalla “dorsale di Viareggio”, attualmente sommersa dal mare, e a sud dalla linea di faglia trascorrente Livorno – Sillaro (Francini, 2006).

All’inizio del Terziario (65,5 milioni di anni fa) gran parte della pianura pisana-versiliese era sommersa in un mare subtropicale. Nelle epoche successive, invece, l’assetto era decisamente diverso; infatti durante il Miocene superiore (11,6 – 5,2 ma), in seguito a sprofondamenti avvenuti all’interno della catena paleo-appenninica, si formò una fossa tettonica. In questo periodo la fossa pisano-versiliese formava un grande bacino di acque dolci, testimoniato dalla presenza di sedimenti lacustri. Successivamente, tra il Pliocene (5,3 – 2,6 m.a.) e il Pleistocene inferiore (2,6 – 0,8 m.a.) ci fu un’ingressione marina (Cavalli & Lambertini, 1990). In questo periodo il Tirreno si estendeva in tutta la regione della bassa Val d’Arno, sino alle pendici del Montalbano. Il Monte Pisano costituiva una penisola protesa a S-SE, mentre i Colline Livornesi costituivano delle isole (Cervellati & Cardellini, 1988). Alla fine del Pleistocene ebbero sviluppo le glaciazioni, che provocarono notevoli fenomeni di erosione sia dovuti al formarsi e allo sciogliersi di grandi masse di ghiaccio, sia per le variazioni eustatiche ad esse collegate, portando così alla formazione del substrato superiore della pianura pisana. Con l’Olocene (11.000 anni fa) il clima migliorò e si stabilizzò. Il livello del mare si innalzò ed invase la terraferma.

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I fiumi trasportarono materiale alluvionale depositandolo alla foce, provocando un avanzamento della linea di costa e dei lembi deltizi. Con l’azione del moto ondoso e delle maree si formarono dei cordoni di sabbia paralleli alla linea di costa. Dapprima si formarono delle barre sommerse, poi, man mano che il materiale si accumulava e gli elementi si consolidavano, si formarono delle barene, formazioni costituite dall’accumulo di sedimenti sabbiosi o fangosi soggette a periodica immersione, in seguito dei lidi veri e propri che tendevano a congiungersi con la costa preesistente definendo uno specchio d’acqua tra la duna nuova e la vecchia riva.

In un primo tempo il cordone sabbioso isolava parzialmente lo specchio d’acqua, portando alla formazione di una laguna; successivamente isolava completamente il bacino, portando alla formazione di stagni retrodunali.

Man mano che il litorale avanzava, si formavano nuove dune, determinando il fatto che le prime formazioni venivano a trovarsi sempre più all’interno.

Gli stagni retrodunali, con l’avanzare della linea di costa, tesero ad essere colmati con gran parte della sabbia proveniente dalle creste delle dune. Le depressioni interdunali si allagarono e vi si insediò una vegetazione igrofila, cioè adattata agli ambienti umidi, mentre sui terreni sabbiosi e asciutti delle dune si insediò la vegetazione tipica della macchia mediterranea (Cavalli & Lambertini, 1990).

All’epoca dell’imperatore Augusto, nell’area di Coltano e Pisa vi era una laguna, denominata Laguna di Fasania, racchiusa da uno sbarramento di una dorsale di dune pleistoceniche. All’interno della laguna si riversavano le acque del delta dell’Arno e del Serchio (Corti, 1953). Nei secoli successivi quest'area è stata oggetto di numerose opere di bonifica che ne hanno completamente trasformato l’assetto.

1.2. La storia

Il parco ricopre una vasta area denominata Selva di San Rossore; tale selva esisteva già al tempo della repubblica romana e a quell’epoca l’area boschiva si estendeva anche alla tenuta di Migliarino, all’attuale lago di Massaciuccoli ed ai boschi dei Monti d'Oltre Serchio. La selva divenne proprietà degli imperatori romani; successivamente divenne riserva di caccia dei re (Corti, 1953).

Nel quindicesimo secolo l’intera area della fascia costiera divenne proprietà delle grandi famiglie fiorentine e, in particolare, della famiglia dei Medici. Nel sedicesimo secolo cominciarono, ad opera dei Medici, le prime opere di bonifica, al fine di valorizzare il territorio ed incentivare il ripopolamento delle campagne toscane. Verso la fine del diciassettesimo secolo le proprietà granducali aumentarono la loro estensione in maniera tale che tutta la fascia costiera dal Serchio fino alla Maremma si poteva considerare un unico latifondo mediceo. Per esigenze amministrative,

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le proprietà granducali erano suddivise in diverse unità produttive autonome: le tenute e le fattorie. Le tenute erano delle vaste estensioni che, per caratteristiche ambientali e pedologiche, potevano essere sfruttate economicamente senza eccessivi impieghi di capitale, poiché non si riteneva conveniente procedere con opere di bonifica e al successivo dissodamento e messa a coltura del territorio, nonché la suddivisione della proprietà in poderi. Le principali attività erano costituite dalla produzione del legname, dallo sfruttamento delle praterie per il pascolo del bestiame, dalla caccia e dalla pesca. Le fattorie, invece, basavano la loro economia sul podere a conduzione mezzadrile e in queste aree furono effettuate numerose opere di bonifica. I terreni, anche se solo parzialmente bonificati, erano concessi con contratti parziari (obbligazioni che coinvolgono più soggetti, ciascuno dei quali può richiedere o eseguire solo la propria quota di prestazione) a contadini residenti nei villaggi circostanti, a cui toccava il duro lavoro del dissodamento e della messa a coltura. Le principali attività economiche delle fattorie erano la produzione di cereali e l’allevamento di bovini, suini e cavalli.

Dopo la seconda metà del Settecento, sotto il governo di Pietro Leopoldo, si cominciò ad alienare parte del patrimonio: le fattorie furono vendute o allivellate; in altri termini, furono suddivise in piccoli lotti separati e ceduti a chi era disposto a coltivarli. Le tenute, al contrario, restarono saldamente in mano granducale ed assunsero un ruolo di rappresentanza e svago del granduca e dei suoi ospiti.

Dopo la prima guerra mondiale, le tenute granducali passarono in mano ai Savoia e successivamente divennero proprietà della Repubblica (Cervellati & Cardellini, 1988).

Tra il 1948 e il 1965 diversi enti, tra cui la Società Botanica Italiana, l’Accademia Nazionale dei Lincei e la Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell’Università di Pisa, proposero un’istanza per l’istituzione di un parco naturale. Nel maggio 1965 il Partito Comunista presentò alla Camera dei Deputati una proposta di legge per la creazione di un istituto di tutela nazionale. Negli stessi anni, però, si avviarono anche diversi progetti di lottizzazione di varie aree che ricadevano all’interno delle vecchie tenute e fattorie. Negli anni Settanta si susseguirono numerosi dibattiti sull’istituzione del parco e nell’ottobre 1976 fu presentato alla Regione Toscana un primo progetto di parco. Solo nel settembre 1979 il parco fu istituito con la legge regionale n. 61. Il Consorzio del Parco, inizialmente, fu costituito dagli Enti territoriali coinvolti nella perimetrazione dell’area Parco: i comuni di Massarosa, Pisa, San Giuliano Terme, Vecchiano e Viareggio, e le province di Lucca e Pisa.

Nel marzo 1985 il Consorzio del Parco affidò agli architetti Cervellati, Corlaita e Citterio l’incarico della redazione del Piano Territoriale e di Coordinamento del Parco (P.T.C.) (Cavalli & Lambertini, 1990).

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Gli architetti decisero che per il progetto era opportuno tenere come riferimento gli aspetti storici e naturalistici dell’area. In primo luogo furono analizzati documenti e carte storici, per ricostruire sia i limiti territoriali delle tenute e delle fattorie, sia gli interventi eseguiti nel corso dei secoli, sia le vicende storiche ed economiche che hanno interessato le diverse aree. Successivamente, essi procedettero alla perimetrazione del parco seguendo sia i limiti delle tenute e delle fattorie, sia i confini storici delle aree paludose, andati persi a causa dei numerosi interventi di bonifica. Il parco, quindi, risulta attualmente suddiviso in sette subunità:

 Tenuta di Borbone e Macchia Lucchese;  Lago di Massaciuccoli e padule settentrionale;

 Fattoria di Vecchiano e padule meridionale di Massaciuccoli;  Tenuta di Migliarino;

 Tenuta di San Rossore;  Tenuta di Tombolo;

 Tenuta di Coltano e Castagnolo.

Il risultato ottenuto è un parco caratterizzato da un insieme di luoghi contraddistinti da biotopi con ricchezza di specie vegetali ed animali, variamente intrecciati con aree fortemente modificate dagli interventi antropici, le quali fungono da tessuto connettivo per organizzare ed usufruire della struttura del parco. All’interno dell’area parco, poi, sono stati effettuati numerosi interventi di ripristino ambientale; in particolare sono state riallagate numerose aree umide bonificate (Cervellati & Cardellini, 1988).

Nel 1987 la Giunta Regionale adottò il Piano Territoriale di Coordinamento del Parco e divenne esecutivo, ma solo nel febbraio 1990 il P.T.C. venne approvato definitivamente (Cavalli & Lambertini, 1990).

Sicuramente l’aspetto più caratterizzante del Parco è la presenza di foreste planiziali, ovverosia foreste che si sviluppano nelle pianure; infatti, il principale fattore che ha spinto alla creazione di un’area parco è senza dubbio la presenza di tali foreste in un buono stato di conservazione. I boschi planiziali, soprattutto nelle aree costiere, in Italia sono ormai notevolmente ridotti a causa di una cattiva gestione del territorio e si possono ricondurre a poche unità: in Lazio i frammenti di maggiore estensione sono riconducibili al bosco di Castelporziano – Capocotta e al bosco del Parco Nazionale del Circeo, in Basilicata c’è solo il bosco di Policoro, mentre in Emilia Romagna c’è il bosco della Mesola; in altre aree sono presenti solo dei frammenti di poche decine di ettari.

La situazione geografica della pianura pisano-versiliese ha determinato la presenza di caratteristiche molto particolari: nella fascia costiera compresa tra Punta Bianca e le Colline Livornesi la pianura alluvionale è contraddistinta dalla presenza di falde acquifere superficiali che consentono un approvvigionamento idrico costante, inoltre la presenza delle Alpi Apuane a Nord

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e dei Monti d'Oltre Serchio e del Monte Pisano, in minor misura, ad Est comporta un aumento della piovosità nell’area costiera antistante, assicurando un rifornimento nelle falde sotterranee pressoché costante. Questi fattori hanno determinato l’instaurarsi di condizioni mesoclimatiche, vale a dire condizioni climatiche locali, decisamente atipiche in ambiente mediterraneo. La ricchezza di acqua, sotto forma di precipitazioni, falde freatiche ed umidità atmosferica, ha permesso la coesistenza di elementi tipici della vegetazione mediterranea con elementi caratteristici di associazioni più continentali. Tuttavia, per spiegare la presenza di specie continentali nel settore mediterraneo occorre ricostruire la storia delle flore. Il Terziario (65,5 – 2,5 m.a.) era caratterizzato da un clima caldo-temperato, mentre dal Quaternario il clima subì un progressivo raffreddamento ed ebbero inizio le glaciazioni. Ad ogni glaciazione seguì una migrazione delle specie verso Sud ed un loro innalzamento verso il piano della vegetazione montana, mentre ad ogni fase interglaciale, caratterizzata da un clima più mite, si osservava un processo di risalita verso nord ed una discesa dalle vette montane verso piani inferiori. Le conseguenze delle glaciazioni per la flora europea furono devastanti: molte specie si estinsero, altre ridussero il loro areale di diffusione, altre andarono incontro a speciazione, altre, infine, frantumarono il loro areale di distribuzione grazie all’individuazione di stazioni-rifugio. Le zone umide, in particolare, hanno rappresentato particolari stazioni di rifugio soprattutto per le specie oceaniche, tipiche di climi freschi e piovosi.

La pianura pisano-versiliese, come visto nell’inquadramento del territorio, è caratterizzata dalla presenza di una seriazione di dune con disposizione Nord – Sud in senso parallelo alla costa. Le dune più antiche, col tempo, sono diminuite in altezza a causa dell’erosione e dell’azione disgregatrice della componente biotica su di esse insediatasi. Le aree interdunali, analogamente, sono state sommerse dalle acque di falda, con parziale interramento, portando alla formazione di zone umide lunghe e strette denominate "lame". Si sono venute così a formare sulle dune due tipi di ambienti, che hanno determinato l’insediarsi di cenosi differenti. Osservando la foresta dall’alto, quindi, si può notare come questa assuma una sorta di "zebratura" in senso longitudinale, determinata dall’alternarsi di varie tonalità di verde.

Le principali tipologie forestali presenti all’interno del parco sono:

1. la macchia costiera di sclerofille (specie vegetali caratterizzate dalla presenza di foglie coriacee) sempreverdi mediterranee, caratterizzata dalla presenza del corbezzolo (Arbutus

unedo L.), del ginepro ossicedro (Juniperus oxycedrus L.), dell’ ilatro (Phillyrea angustifolia L.), della salsapariglia (Smilax aspera L.) e dall’asparago pungente (Asparagus acutifolius L.); 2. la lecceta, che si trova sui rilievi dunali, è caratterizzata dalla presenza del leccio (Quercus

ilex L.), della robbia (Rubia peregrina L.), del pungitopo (Ruscus aculeatus L.), del ciclamino (Cyclamen repandum Sm. subsp. repandum), del cisto (Cistus salviifolius L.) e dell’erica (Erica

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arborea L.). Di particolare interesse sono la presenza del ginestrone (Ulex europaeus L.), un relitto atlantico, e della quercia da sughero (Quercus suber L.), che testimonia l’esistenza di epoche difficili per il bosco, come incendi ed eccessivo pascolamento;

3. il bosco misto di specie mesofile, caratterizzato da specie caducifoglie tipiche di climi freschi e umidi che generalmente si trovano nell’Europa centrale. Le specie principali sono la farnia (Quercus robur L.), il frassino ossifillo (Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa (Willd.) Franco & Rocha Alfonso), il pioppo bianco (Populus alba L. e P. canescens (Aiton) Sm.), l’ontano nero (Alnus glutinosa L.) e il carpino bianco (Carpinus betulus L.). All’interno di queste formazioni si può trovare l’alloro (Laurus nobilis L.), elemento tipico della flora maccaronesica. Queste formazioni si trovano nelle depressioni interdunali e seguono una seriazione in base alla durata della sommersione dell’apparato radicale. Un’altra tipologia di bosco misto di specie mesofile è il bosco di cerro (Quercus cerris L.), carpino bianco ed alloro, presente però solo a Coltano;

4. il bosco di specie igrofile, caratterizzato da specie ben adattate a lunghi periodi di ristagno idrico. Si trova nelle paludi e nelle lame ed è principalmente costituito da frassini, ontani e pioppi. Sono presenti anche altre specie di particolare pregio, come la liana Periploca graeca L., un elemento colchico.

A queste tipologie si aggiungono i boschi d’origine artificiale, impiantati tra il Settecento e l’Ottocento:

1. le pinete a pino domestico (Pinus pinea L.), impiantate per la produzione di pinoli, lo sfruttamento del legname e l’estrazione della resina vegetale, all’epoca impiegata nell’industria chimica e farmaceutica;

2. le pinete a pino marittimo (Pinus pinaster Aiton), impiantate principalmente per la difesa delle pinete a pino domestico, in quanto il pino marittimo è maggiormente resistente all’aerosol marino e all’impetuosità dei venti, tuttavia queste pinete erano sfruttate anche per il legname e per l’estrazione della resina vegetale;

3. i pioppeti (Cavalli & Lambertini, 1990).

Nella fascia strettamente costiera, invece, si trova la vegetazione della seriazione psammofila, in altri termini si assiste ad una successione di differenti consorzi vegetali che compiono il proprio ciclo vitale su terreni sabbiosi, dalla battigia fino alle dune più interne. Si tratta di specie adattate a fortissime escursioni termiche, pronunciata ventosità, povertà di nutrienti nel substrato e, soprattutto, all’azione dell’aerosol marino.

Lungo i corsi d’acqua è possibile osservare qualche lembo della vegetazione ripariale. Essa è limitata agli argini dei fiumi ed è costituita principalmente da saliceti a salice bianco (Salix alba L.) e salice cinereo (S. cinerea L.). Si trovano frequentemente anche i pioppi bianchi (Populus alba) e i

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pioppi tremuli (P. tremula L.) (Baldaccini et al., 1983). Nelle vicinanze della foce e lungo i canali artificiali, invece, si trovano i canneti a Phragmites australis (Cav.) Trin.

Le lame, infine, possono essere suddivise in due tipologie: la prima è riconducibile alle depressioni interdunali caratterizzate da substrati salati o salmastri, la seconda, invece, riguarda le depressioni interdunali caratterizzate da acque dolci e le zone umide localizzate nelle antiche interdune dove è ospitata la foresta di latifoglie mesofile. Infine, all’interno dell’area parco sono presenti varie aree che hanno risentito maggiormente dall’attività antropica o sono tutt’ora utilizzate direttamente. Si tratta per lo più di campi, orti, pascoli, insediamenti produttivi, aree residenziali, margini delle strade ed incolti. Qui la vegetazione ha scarso valore naturalistico ed è costituita principalmente da specie sinantropiche e specie esotiche(Baldaccini et al., 1983).

1.3. La fauna

Analogamente alla vegetazione, anche la fauna ha avuto una genesi complessa in seguito alle vicende paleo-climatiche, come è testimoniato dai reperti fossili ritrovati in stazioni adiacenti. All’interno del parco l’insieme faunistico può essere suddiviso in quattro tipologie principali:

 popolamenti legati agli ambienti umidi e fluvio-lacustri,

 popolamenti legati alle zone boschive ed agli ambienti planiziali mediterranei,  popolamenti alobi (organismi che vivono in ambiente marino) dell’arenile,  popolamenti dei prati, pascoli e coltivi.

1.3.1. La fauna acquatica

All’interno del Parco si riscontra una fauna tipica delle acque lentiche (acque stagnanti), o dell’ambiente iporreico (habitat situato al di sotto del letto fluviale), caratterizzati da acque a lento deflusso o stagnanti. In questi ambienti si incontrano specie euriece, in altre parole adattate a tollerare ampie variazioni delle condizioni ecologiche.

Nei corsi d’acqua si possono trovare principalmente specie appartenenti alla famiglia dei ciprinidi, come l’alborella (Alburnus albidus), il cavedano (Leuciscus cephalus) e la scardola (Scardinius

erythrophthalus); più rari sono la tinca (Tinca tinca), il barbo comune (Barbus barbus) e la carpa (Cyprinus carpio). Vi sono anche numerose specie introdotte, come la gambusia (Gambusia affinis), il persico sole (Lepomis gibbosus) e il pesce gatto (Ictalurus melas). Va segnalata, inoltre la presenza dell’anguilla (Anguilla anguilla) e alcune specie degli ambienti salmastri che risalgono negli ambienti estuariali, come ad esempio il pesce ago (Syngnathus abaster), il cefalo (Mugil cephalus) e il muggine dorato (Liza aurata). Lungo le ripe vi trovano rifugio numerosi anfibi, tra cui dominano la raganella (Hyla arborea) e il tritone comune (Triturus vulgaris subsp. meridionalis). Sono piuttosto comuni anche il rospo comune (Bufo bufo) e il rospo smeraldino (Bufo viridis). Tra i rettili si citano la biscia dal collare (Natrix natrix), il ramarro (Lacerta viridis) e, di particolare interesse protezionistico,

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la testuggine d’acqua (Emys orbicularis), specie in forte declino a causa della competizione con le testuggini nordamericane (Trachemys scripta) rilasciate in natura. Nell’avifauna tipica di questi ambiente si trova la gallinella d’acqua (Gallinula chloropus), il martin pescatore (Alcedo atthis), il cannareccione (Acrocephalus arundinaceus) e la ballerina bianca (Motacilla alba). Lungo le sponde spesso nidifica il gruccione (Merops apiaster). Tra i mammiferi si segnala la presenza del surmolotto (Rattus norvegicus), dell’arvicola acquatica (Arvicola terrestris) e della nutria (Myocastor coypus). Nelle lame la fauna ad invertebrati assume caratteri assai complessi a causa della siccità stagionale e delle ampie variazioni di salinità e temperatura. In questi ambienti sono particolarmente favorite le specie che hanno evoluto strategie di sopravvivenza al disseccamento: cladoceri, rotiferi, turbellari e ciliati. Tra i pesci solo la gambusia è ampiamente diffusa, mentre sia il tritone comune sia il tritone crestato (Triturus cristatus carnifex) trovano un habitat particolarmente adatto alle loro esigenze. Sono molto comuni anche le rane e i rospi. I rettili che frequentano questi ambienti sono rappresentati dalla biscia dal collare, la natrice tassellata (Natrix tessellata) e la testuggine palustre. Le lame sono frequentate, soprattutto nel periodo invernale, da numerosissime specie ornitologiche, sia nidificanti che di passo. I principali gruppi sono rappresentati dagli Anatidi, Rallidi, Trampolieri e Laro-Limicoli. Tra le specie di passo di particolare interesse naturalistico si possono citare l’airone bianco maggiore (Egretta alba), il mignattaio (Plegadis falcinellus) e il fenicottero (Phoenicopterus ruber), mentre tra le nidificanti si possono ricordare il cavaliere d’Italia (Himantopus himantopus), il tarabuso (Botaurus stellaris) e il mestolone (Anas clypeata) (Baldaccini et

al., 1983).

1.3.2. La fauna boschiva

La presenza di varie tipologie forestali ha permesso la compresenza di varie specie. La fauna degli invertebrati è molto ricca ed articolata. Tra i gasteropodi, le specie più comuni sono la chiocciola di bosco (Cepaea nemoralis), il chiocciolone (Helix aspersa) e le limacce. Nella lettiera, invece, si possono ritrovare facilmente collemboli, proturi e comunità di acari. Gli insetti sono molto numerosi, con vari ordini e specie. Tra gli scarabeidi si possono ricordare Thorectes intermedius e Ceratophysus

rossii, tra i tenebrionidi si citano Helops rossiii e Carabus granulatus. Numerose sono le specie xilofaghe, ovverosia specie che si nutrono di legno, rappresentate dai sottordini degli scolitidi e dei cerambicidi. Tra le specie di particolare interesse, perché rare, si vogliono ricordare il coleottero

Thamiaraea cinnamorea e il dittero Keroplatus tipuloides. Tra i rettili si possono ricordare il biacco (Coluber viridiflavus) e la biscia (Natrix sp.) e le due specie più tipiche: Coronella austriaca e C.

girondica. Anche l’ornitofauna risulta essere molto ricca, soprattutto di uccelli stanziali di piccole dimensioni come il pettirosso (Erithacus rubecola), lo scricciolo (Troglodytes troglodytes), il picchio muratore (Sitta europaea) e la cinciallegra (Parus major). Tra le specie di particolare interesse si

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possono menzionare il picchio verde (Picus viridis), il picchio rosso maggiore (Dendrocopus major), il colombaccio (Columba palumbus) e l’usignolo (Luscinia megarhynchos). Passando ai mammiferi, infine, si può osservare che vi sono numerose specie: i roditori sono abbondanti, tra cui prevalgono gli scoiattoli (Sciurus vulgaris) ed i ghiri (Glis glis). Altri piccoli abitanti del sottobosco sono il topo selvatico (Apodemus sylvaticus), il moscardino (Muscardinus avellanarius), il topo quercino (Eliomys

quercinus) e la crocidura (Crocidura suaveolens). Si segnala anche la presenza dell'istrice (Hystrix

cristata), specie il cui areale è in espansione. Tra i piccoli mammiferi, inoltre, si segnalano ancora il coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus), la donnola (Mustela nivalis), la puzzola (Mustela putorius), la faina (Martes foina) ed il tasso (Meles meles). Tra i carnivori di medie dimensione si segnala la presenza della volpe (Vulpes vulpes) (Baldaccini et al., 1983) e del lupo (Canis lupus).

Il principale gruppo di grandi mammiferi è formato dagli Ungulati, rappresentati soprattutto dai daini (Dama dama) e dai cinghiali (Sus scrofa). Queste due specie, a causa del loro numero eccessivo, spesso esercitano un’intensa azione degradante: i cinghiali, grufolando, attuano un continuo sommovimento del suolo compromettendo i complessi sistemi micorrizici e portando alla scomparsa di varie specie erbacee ed arbustive, mentre i daini, con l’eccessivo pascolamento, possono annullare il rinnovo spontaneo del bosco (Baldaccini et al., 1983).

1.3.3. La fauna psammofila

Gli elementi della fauna sicuramente più caratteristici degli ambienti sabbiosi litoranei e dunali sono gli invertebrati. Si tratta di animali ad elevato grado di euritermia ed eurialinità, cioè in grado di tollerare ampie variazioni di temperatura e salinità dell’ambiente in cui vivono. La zona di battigia è caratterizzata dalla presenza di piccoli crostacei saltatori: le pulci d’acqua (Talitrus

saltator). Numerosi sono i coleotteri, tra cui principalmente specie appartenenti ai sottordini dei tenebrionidi, degli stafilinidi e dei carabidi; tra questi si possono menzionare i generi Phanelia,

Cincidela e le specie Pimelia bipunctata e Scarabeus semipunctatus.

Lungo i cordoni dunali, nella fascia ad ammofileto, si trovano numerosi gasteropodi, tra cui la chiocciola pisana (Euparypha pisana) e la chiocciola marinella (Eobania vermiculata).

La fauna a vertebrati, invece, è meno caratteristica, poiché si tratta di specie che provengono da altri distretti e sono attratte da questo ambiente per motivi principalmente trofici. Tra i rettili si possono menzionare la testuggine comune (Testudo hermanni) e la testuggine marginata (T.

marginata), due specie di particolare interesse naturalistico, in quanto ormai poco diffuse. Spesso si incontrano vari lacertidi e talora può essere presente anche il biacco (Coluber viridiflavus), uno dei serpenti più grandi dell’erpetofauna italiana. Numerosi a frequentare questi ambienti sono gli uccelli. I gabbiani sono molto diffusi, con diverse specie: gabbiano reale (Larus argentatus), gabbiano comune (Larus ridibundus), gabbianella (Larus minutus) e gabbiano corallino (Larus

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melanocephalus). Nella stagione delle migrazioni primaverili, invece, è possibile osservare numerose specie tra cui i corrieri (Charadrius sp.), i piovanelli (Caladris sp.), i beccapesci (Sterna

sandvicensis) e i fraticelli (Sterna albifrons). La fascia retrodunale, infine, è anche frequentata da piccoli mammiferi, tra cui si citano il coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus), il surmolotto (Rattus

norvegcus) e il topo domestico (Mus musculus); occasionalmente anche qualche ungulato (daini e cinghiali) si spinge in questa fascia (Baldaccini et al., 1983).

1.3.4. La fauna dei prati, pascoli e coltivi

In questi ambienti la fauna è fortemente determinata dall’uomo. Spesso si formano dei microhabitat in cui è facile rinvenire specie tipiche degli ambienti precedentemente descritti, soprattutto per quanto riguarda gli invertebrati.

Tra gli uccelli, le specie più tipiche di questi ambienti sono l’allodola (Alauda arvensis) e il fagiano (Phasianus colchicus), introdotto per scopi venatori. Altre specie che frequentano questi ambienti sono la gazza ladra (Pica pica), la cornacchia grigia (Corvus corone cornix), lo storno (Sturnus

vulgaris) e la pavoncella (Vanellus vanellus). Negli incolti, invece, nidificano i gruccioni (Merops

apiaster).

I micromammiferi costituiscono la parte più cospicua della mammalofauna insediata stabilmente. Tra le più comuni si possono indicare l’arvicola di Savi (Pitymys savii) e il topo domestico (Mus

musculus). Anche gli insettivori sono abbastanza diffusi, come la crocidura maggiore (Crocidura

leucodon), il mustiolo (Pachyura etrusca) ed il riccio (Erinaceus europaeus); si segnala, infine, nella tenuta di Migliarino la presenza della lepre comune (Lepus capensis) (Baldaccini et al., 1983).

2.

La tenuta di San Rossore

2.1. Il territorio

La tenuta di San Rossore ricade nella fascia centrale del Parco. Il suo limite settentrionale è delimitato dal fiume Serchio, mentre la parte meridionale è delimitata dell’Arno e si estende tra 43°35’24.33’’ e 43°46’58.43’’ di latitudine Nord e tra 10°16’0.48’’ e 10°25’11.46’’ di longitudine Est. L’area, al suo interno, è attraversata dal fiume Morto Nuovo e da una rete di canali minori che frammentano questo territorio in un mosaico di unità ambientali spesso di piccole dimensioni. All’interno della Tenuta di San Rossore sono state istituite tre riserve naturali: la riserva naturale delle Lame di Fuori (640 ha), la riserva naturale del Paduletto (140 ha) e la riserva naturale del Palazzetto (100 ha); è inoltre presente una porzione della riserva di Bocca di Serchio, la quale, con i suoi 116 ha di superficie, ricade sul limite tra la tenuta di Migliarino e la tenuta di San Rossore (Cavalli & Lambertini, 1990).

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2.1.1. La geologia

Osservando la Carta geologica 1:10.000 (Testa, 1996) della Provincia di Pisa (Fig. 2), si può notare che l’area della Tenuta è caratterizzata principalmente da depositi alluvionali ed eolici.

La fascia più interna è caratterizzata dalla presenza di depositi alluvionali di età olocenica, che sono stati cartografati secondo le classi granulometriche prevalenti. Si tratta di materiali di colore grigiastro deposti dai fiumi durante le esondazioni. Si può notare che nelle aree limitrofe alle aste fluviali prevalgono sedimenti della classe sabbioso-limoso, mentre, man mano che ci si allontana dall’alveo si riscontrano sedimenti appartenenti ad una classe granulometrica inferiore (limi e argille). Solo in un punto è presente un affioramento di sabbie.

Avvicinandosi alla costa si trova la fascia dei cordoni dunali, costituita da un alternanza di depositi di lime e argille, nelle interdune, e di depositi eolici di età olocenica. Questi depositi eolici sono costituiti da sabbie sciolte, generalmente ben classate, di granulometria da media a fine. Talvolta presentano una leggera cementazione ed intercalazioni di livelli limo-sabbiosi e torbosi-argillosi. La zona in cui sorge il Bosco del Palazzetto, invece, è costituita da affioramenti di sabbie e limi di Vicarello (Pleistocene superiore). Si tratta di sabbie finissime di origine eolica e limi palustri, depositati in corrispondenza dell’antica linea di costa pleistocenica. Queste litologie si distinguono dai depositi eolici precedentemente descritti per un leggero arrossamento e per la posizione molto arretrata dei cordoni.

La fascia strettamente costiera è costituita da sabbie di spiaggia affioranti lungo il litorale di età olocenica (depositi di spiaggia).

In alcuni punti, infine, in corrispondenza del fiume Serchio e del fiume Morto Nuovo si trovano dei terrreni di riporto, che testimoniano gli interventi di sistemazione idraulica avvenuti in passato.

2.1.2. La geomorfologia

Osservando la Carta geomorfologica 1:10.000 della Provincia di Pisa (Fig. 3), infine, si può comprendere come questa zona sia stata fortemente influenzata sia dall’attività fluviale, sia dall’attività del vento e del mare. La prima cosa che si può notare è la predominanza di morfologie di origine eolica-marittima. Si tratta principalmente dei cordoni dunali che si susseguono fino al raggiungimento della linea di costa.

Nella porzione meridionale di questi cordoni sono messe in evidenza le zone in cui c’è un costante ristagno idrico, che porta alla formazione delle lame. È ben evidente anche la morfologia fluviale, soprattutto nella porzione settentrionale della Tenuta in cui sono presenti alcuni dossi fluviali e numerose tracce di dossi e alvei fluviali abbandonati fatte dal Serchio nel corso degli anni.

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Figura 2. Dettaglio della Carta Geologica 1:10.000 della Provincia di Pisa.

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Nella porzione retrostante le dune pleistoceniche, infine, è possibile rinvenire delle tracce di canali che testimoniano la presenza, in passato, di una laguna.

2.1.3. L’idrogeologia

L’area della Tenuta di San Rossore ricade sopra il Sistema acquifero della pianura pisana, in particolare sulla fascia in cui la successione sedimentaria, caratterizzata da un alternanza di materiali impermeabili e materiali permeabili, ha dato luogo ad un acquifero multistrato confinato. Partendo dal piano di campagna ed andando in profondità si incontrano due orizzonti acquiferi principali: uno, prevalentemente sabbioso, che contiene la Prima falda in pressione in sabbia, e uno costituito da depositi alluvionali più grossolani e più permeabili, che contiene la Prima falda in pressione in ghiaia. Entrambe le falde presentano buona qualità delle acque e sono ampiamente sfruttate per uso civile e industriale. L’orizzonte superficiale (fino a profondità di 20-50 m dal piano di campagna) nell’insieme funziona da Copertura impermeabile e, verso la fascia costiera, si interrompe al di sopra dei depositi sabbiosi del sistema delle “lame e dei lidi litoranei”, trovandosi così in collegamento con il “Primo acquifero artesiano in sabbia”.

La profondità del tetto delle sabbie raggiunge il valore massimo di 50 m sotto il piano di campo presso la periferia nord-orientale di Pisa e un valore minimo presso la zona costiera; in questa zona, infatti, l’acquifero affiora, raccordandosi con le dune antiche e recenti, e la falda da artesiana diventa freatica ricaricandosi direttamente per infiltrazione delle acque meteoriche; tuttavia essa si ricarica anche indirettamente dal versante occidentale del Monte Pisano e dai Monti d’oltre Serchio, grazie ad un collegamento idraulico con gli apparati alluvionali intrapedemontani. In corrispondenza del margine nord-occidentale della pianura, poi, l’acquifero in sabbia si collega con i depositi ghiaiosi e ciottolosi degli apparati alluvionali del “Paleo-Serchio da Ripafratta” dai quali riceve le acque della falda confinata di subalveo del Serchio e le acque provenienti dagli acquiferi carbonatici dei Monti d’oltre Serchio.

Il livello ghiaioso che costituisce il secondo orizzonte acquifero, invece, è rappresentato nella zona meridionale della pianura dai “Conglomerati dell’Arno e del Serchio da Bientina” che si trovano tra i 40 e i 60 m di profondità, e si raccordano, nella zona centro-settentrionale, con altri livelli ghiaiosi più discontinui e più profondi di origine marina o probabilmente sempre relazionati al paleosistema idrografico Arno-Serchio. La ricarica della falda artesiana in ghiaia avviene direttamente dalle dune antiche di Palazzetto, Castagnolo e Coltano e indirettamente sia dal versante settentrionale delle Colline Pisane, dove i livelli acquiferi ghiaiosi sono collegati con le sabbie e i limi di Vicarello, sia dal versante occidentale del Monte Pisano, dove i livelli ghiaiossi sono collegati con gli apparati alluvionali intrapedemontani.

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Passando alla carta della permeabilità (Fig. 4), invece, si osservano quattro classi litologiche che permettono di distinguere gli acquiferi, vale a dire unità litologiche - o parte di esse - che permettono il deflusso, l’immagazzinamento ed il recapito di acque sotterranee, dagli acquitardi, cioè un complesso idrogeologico saturo, poco permeabile che si comporta, in generale, da impermeabile relativo, ma capace di cedere o drenare quantità anche apprezzabili di acqua sotterranea da o in acquiferi adiacenti.

In particolare, i depositi eolici delle dune e dei lidi litoranei costituiti da sabbie medio-fini, ed i depositi di spiaggia attuale costituite da sabbie fini sono stati classificati come acquiferi con un grado di permeabilità medio; tuttavia, nelle sabbie di duna possono essere presenti dei livelli limosi e torbosi che ne riducono localmente la permeabilità. I depositi sabbiosi riconducibili alla presenza di paleoalvei sono stati classificati come acquiferi con un grado di permeabilità da medio a medio-basso.

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I depositi alluvionali di esondazione costituiti da sabbie limose, invece, sono stati accorpati con le Sabbie e limi di Vicarello, poiché presentano caratteristiche idrogeologiche simili. Questi sono dotati di permeabilità primaria e rappresentano acquiferi con grado di permeabilità medio-basso. I depositi fluvio-palustri di interduna, retroduna e di colmata consistono in limi argillosi con sporadica presenza di frazioni sabbiose fini o di lenti sabbiose-torbose che possono aumentarne localmente la permeabilità. Avendo un coefficiente di permeabilità basso, questi sono considerati acquitardi (Francini, 2006).

Le analisi idrochimiche delle acque di falda hanno evidenziato che in due punti d’acqua superficiale (Serchio a 300 m dalla costa e Arno a 5 km dalla costa) ed uno sotterraneo, campionato nelle vicinanze del fiume Serchio a circa 2 Km dalla foce, appartengono alla famiglia di acque clorurato-alcaline, presentando un mescolamento tra acque dolci e acque marine. Gli altri punti di campionamento, invece, risultano avere acque di tipo bicarbonato-alcalino terroso, in cui comunemente si osserva una salinità relativamente bassa.

In generale è stato osservato che nelle attuali condizioni di sfruttamento idrico nella fascia costiera più prossima alla linea di riva, i fenomeni di intrusione marina sono legati soprattutto alla risalita del cuneo salino lungo i corsi d’acqua. Un altro possibile fattore d’ingressione marina è legato all’azione delle mareggiate che talvolta invadono le zone più depresse delle lame costiere (Francini, 2006).

2.2. La storia

Il nome di San Rossore deriva da un martire cristiano, San Lussorio, ucciso in Sardegna sotto l’impero di Diocleziano, i cui resti furono trasportati nel 1080 in una chiesa che sorgeva presso l’attuale località Cascine Nuove. Nel 1099 la chiesa di San Lussorio fu incorporata in un monastero. Nel XIV secolo il monastero divenne di proprietà della Mensa Arcivescovile ed assunse un ruolo centrale nell’organizzazione della tenuta (Cavalli & Lambertini, 1990).

Nel 1535 l’area di San Rossore fu acquistata dai Medici dalla Mensa Arcivescovile. Per le condizioni ambientali e per la presenza di un folto bosco, già nel Cinquecento la proprietà fu organizzata a tenuta, con lo sfruttamento delle selve e dei pascoli. Gli interventi di bonifica furono limitati solo sul corso dei fiumi che limitavano o transitavano per San Rossore: il taglio Ferdinando, che ha comportato lo spostamento della foce dell’Arno verso Nord per evitare un presunto interramento del porto di Livorno; la deviazione del fiume Morto nel Serchio nel 1568 e la successiva riapertura del suo sbocco a mare nel ’600; infine l’apertura del canale navigabile di Ripafratta.

Nel 1789 la tenuta di San Rossore fu acquistata dai Lorena. Sotto Pietro Leopoldo la tenuta fu sottoposta ad un’intensa riorganizzazione basata su interventi nei boschi, interventi di assetto

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idraulico e apertura di una serie di percorsi. Negli stessi anni furono tagliate vaste aree di bosco e sostituite da querce e olmi nelle zone più basse e umide, mentre sui rilievi dunali, denominati cotoni, sono stati impiantati pini domestici. Venne così a crearsi una combinazione di macchia di querce, lecci e ontani, che rappresenta la vegetazione originale, e di pinete. Il bosco del Palazzetto, tuttavia, fu l’unica area interessata solo in piccola parte da questi interventi. Furono effettuate delle colmate nella zona dell’Oncino e di Piaggelta, che contribuirono ad aumentare l’estensione delle praterie per le pasture. Alla fine del Settecento, tuttavia, erano ancora numerosi i terreni in condizione paludosa, nonché le depressioni umide interdunali con andamento parallelo alla linea di costa. Nel Settecento l’ingresso principale della tenuta si trovava in via delle Cascine, per il quale si giungeva alle Cascine vecchie attraverso il Ponte delle Trombe. L’ingresso secondario, invece, era situato in Via Barbaricina, che portava direttamente alle Cascine Nuove. Le Cascine Vecchie rappresentavano il centro direzionale della tenuta e vi erano presenti gli alloggi per i ministri. Dalle Cascine Vecchie, all’epoca, si poteva percorrere lo stradone dalle Cascine Vecchie fino alle Cascine Nuove, nei pressi dell’Arno oppure, in senso opposto, dirigersi verso la casa del Femminello e la zona del Marmo nei pressi del Serchio. Da qui partiva un viottolo all’interno del bosco del Palazzetto che conduceva alle pasture di Lampiena e ad alcune case e stalle. Dalle Cascine Vecchie, inoltre, era possibile percorrere la via del Gombo, che conduceva fino alla torre del Gombo, a pochi metri dal mare. A metà distanza si poteva accedere alla casa dei Vaccai e da qui si raggiungevano le Lame di Fuori, sito idoneo per l’osservazione e la caccia degli uccelli acquatici. Nelle prossimità dell’inizio della pineta marittima si trova la strada di Marina, con la quale si percorreva la tenuta per tutta la sua lunghezza, dalla casa del Boschetto, nei pressi dell’Arno, fino alla Bocca di Serchio al Fortino (Cervellati & Cardellini, 1988).

Tra il 1799 e il 1814 la tenuta passò in mano ai francesi e subì numerosi danni. Successivamente la tenuta ritornò sotto il possesso dei Lorena, i quali iniziarono i lavori di ricostruzione della tenuta, con un’accentuazione dell’aspetto di rappresentanza della stessa (Cavalli & Lambertini, 1990). Nel 1829 venne costruita la villa reale al Gombo, mentre nel 1838 fu costruito uno stabilimento balneare nei pressi del Gombo. Vennero, inoltre, tracciati dei nuovi viali più ampi che univano i punti centrali per le attività economiche e le zone più rappresentative.

Con l’unità d’Italia la tenuta fu ceduta ai Savoia. Nel 1826 fecero costruire lo stabilimento delle scuderie reali alla Sterpaia. Nel 1864 si aprì il vione del Prini. Vennero effettuate anche delle bonifiche e, in particolare, per accogliere l’aumento degli scarichi idrici della pianura retrostante, negli anni ’20 fu realizzato il Fiume Morto Nuovo con un taglio parallelo al viale del Gombo (Cervellati & Cardellini, 1988).

Nel dopoguerra l’area divenne di proprietà demaniale e successivamente fu data in dotazione alla presidenza della Repubblica con la legge del 21 febbraio 1957 (Cavalli & Lambertini, 1990). In

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generale la tenuta ha mantenuto l’assetto ottocentesco, perché le ultime modifiche non hanno alterato le caratteristiche in maniera decisiva. Nell’area prossima alle Cascine Vecchie è stato costruito un ippodromo, mentre nell’area posta di fronte è stata realizzata un’area attrezzata per l’allenamento dei cavalli da corsa (Cervellati & Cardellini, 1988).

2.3. La flora e la vegetazione

La Tenuta di San Rossore è forse la zona del parco che maggiormente conserva le formazioni frammentarie e relitte dell’antica Selva Pisana, infatti, grazie ad una ininterrotta tradizione di proprietà demaniale, la tenuta conserva i più preziosi relitti floristici e faunistici dell’intero comprensorio. Questo lembo della Selva Pisana si estende in un territorio pianeggiante di 5000 ha, delimitato dai fiumi Serchio e Arno. La sua particolare posizione geografica e le particolari condizioni ambientali presenti hanno conferito a quest'area una funzione conservativa e di rifugio secondario, durante le varie vicende paleoclimatiche e paleogeografiche. Oggi si possono ancora ritrovare delle popolazioni relitte, conservate in delicato equilibrio, riferibili a quattro diversi contingenti biogeografici: boreale, atlantico, orientale-colchico e subtropicale.

La vegetazione montana, sospintasi nella zona planiziale durante le fasi glaciali, persiste nelle aree palustri, caratterizzate da una maggiore uniformità di condizioni ambientali grazie anche all’azione mitigatrice delle riserve acquee del terreno sul clima. Le paludi costiere, come quelle presenti a San Rossore, tuttavia furono interessate dai movimenti eustatici e per questo presentano una minore ricchezza di elementi microtermi rispetto alle zone umide interne. Tra le specie tipiche del contingente boreale si possono citare il narciso selvatico (Narcissus poëticus L.), le campanelle maggiori (Leucojum aestivum L.) ed il trifoglio fibrino (Menyanthes trifoliata L.).

Durante i periodi ascendenti delle glaciazioni, caratterizzati da clima fresco ed umido, si espansero nel cuore del Mediterraneo le specie atlantiche; tra queste si ricordano il centonchio palustre (Lysimachia tenella L.), il becco di gru marittimo (Erodium maritimum (L.) L'Hér.) e l’erba di San Giovanni delle torbiere (Hypericum elodes L.). Grazie alla presenza di un clima di tipo marino con decise influenze atlantiche queste specie sono riuscite a sopravvivere in un ambiente mediterraneo. La vicinanza delle paludi costiere al mare e la presenza di dossi montani e collinari con esposizione a ponente hanno permesso la sussistenza di un microclima meno freddo durante gli acme glaciali e allo stesso tempo hanno consentito a specie maggiormente esigenti dal punto di vista climatico di oscillare tra le pendici montane nelle fasi più fredde e tra gli orli degli specchi d’acqua nelle fasi più siccitose. Sono così giunte fino ad oggi sia specie subtropicali, come la felce florida (Osmunda regalis L.), sia specie colchiche, come Periploca graeca (Corti, 1969).

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2.3.1. Pinete artificiali miste a sclerofille sempreverdi

Si tratta di vecchi impianti artificiali a pino domestico (Pinus pinea) e pino marittimo (Pinus

pinaster) gradualmente ricolonizzati dalla lecceta. Il bosco di sclerofille originario, ascrivibile all’associazione Viburno tini–Quercetum illicis (Br. Bl. 1936) Rivas-Martinez 1975, ha, infatti, un’estensione piuttosto ridotta proprio a causa dei vari interventi selvicolturali avvenuti in passato.

Gli impianti a Pinus pinaster si trovano lungo una fascia prossima al mare. Frequentemente si tratta di popolamenti coetanei ad elevata densità. Lo strato arboreo, soprattutto ai livelli più alti, è costituito quasi esclusivamente da Pinus pinaster, mentre negli strati inferiori si possono trovare anche il leccio (Quercus ilex), il lentisco (Pistacia lentiscus L.), l’ilatro (Phillyrea angustifolia), l’erica (Erica arborea), la salsapariglia (Smilax aspera), la canna del Po (Erianthus ravennae (L.) P. Beauv.) e la dafne (Daphne gnidium L.).

Nella fascia più interna, fino al raggiungimento dei boschi di latifoglie, si trovano gli impianti di

Pinus pinea. Si riscontrano vari aspetti, in base a fattori edafici, microclimatici, luminosi ed antropici. Nelle pinete pure si possono trovare il paleo selvatico (Brachypodium sylvaticum (Huds.) P. Beauv.), il camedrio comune (Teucrium chamaedrys L.), la nebbia maggiore (Aira caryophyllea L.), la dafne, il bambagione (Holcus lanatus L.) e l’asparago pungente (Asparagus acutifolius); dove il bosco diventa più luminoso si sviluppa una discreta copertura di cisto femmina (Cistus salviifolius). In altre aree si riscontra una situazione in cui lo strato aboreo più alto è dominato da Pinus pinea, mentre gli strati sottostanti sono occupati dalla lecceta. Nelle pinete più rade, con copertura che arriva fino un massimo del 70%, infine, si può osservare nel sottobosco una notevole presenza di eriche, la cui copertura talvolta può arrivare fino al 100% (Tomei et al., 2004).

2.3.2. Boschi planiziali mofili a latifoglie decidue

Questa tipologia di boschi si trova nelle fasce di dune più antiche, dove è presente un ristagno idrico. L’associazione maggiormente diffusa nelle zone umide della tenuta è il Fraxino angustifoliae–

Quercetum roboris Gellini, Pedrotti, Venanzoni 1986, in cui le due specie dominanti sono la farnia (Quercus robur) e il frassino ossifillo (Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa). Nello strato arbustivo si possono trovare lo spinocervino (Rhamnus cathartica L.), il biancospino (Crataegus monogyna Jacq.) e l’acero campestre (Acer campestre L.). Le specie caratteristiche dello strato erbaceo, invece, sono l’erba lucciola mediterranea (Luzula forsteri (Sm.) DC.), Moheringia trinervia (L.) Clairv. e la viola silvestre (Viola reichenbachiana Jord. ex Boreau).

Nelle zone interdunali con sommersione stagionale molto prolungata si trova l’associazione

Hydrocotylo-Alnetum glutinosae Gellini, Pedrotti, Venanzoni 1986, caratterizzata da uno strato arboreo dominato dall’ontano nero (Alnus glutinosa), in cui possono comparire anche il frassino

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ossifillo ed il pioppo bianco (Populus alba). Nello strato erbaceo si trovano la soldinella acquatica (Hydrocotyle vulgaris L.), la felce palustre (Thelypteris palustris Schott), Periploca graeca e due specie rare: la mestolaccia (Baldellia ranunculoides (L.) Parl.) e il centonchio palustre (Lysimachia tenella). Alcuni autori considerano le ontanete miste a frassino come associazione Alno glutinosae–

Fraxinetum oxycarpae (Br. Bl. 1915) Tchou 1946.

Infine, dove il terreno è meno depresso e, quindi, la durata del ristagno idrico è minore, compare il

Carici remotae–Fraxinetum angustifoliae Pedrotti (1970) 1992, in cui lo strato arboreo è rappresentato principalmente dal frassino ossifillo e occasionalmente si trovano l’olmo (Ulmus minor Mil.), Alnus

glutinosa e Quercus robur; nello strato erbaceo, invece, si trovano principalmente la carice ascellare (Carex remota L.), il romice sanguineo (Rumex sanguineus L.), il giunco comune (Juncus effusus L.), il lino d’acqua (Samolus valerandi L.) e i cappellini comuni (Agrostis stolonifera L.). Questa associazione si interrompe dove sono presenti delle aree depresse, lasciando ampie superfici ricoperte dalla carice spondicola (Carex elata All. subsp. elata) dominata dal frassino ossifillo, ascrivibili all'associazione Carici elatae–Fraxinetum oxycarpae (Gellini et al., 1986; Tomei et al., 2004).

2.3.3. Vegetazione palustre

Si trova principalmente nelle aree retrodunali e la maggior parte di questi ambienti si possono ricondurre all’associazione Phragmitetum australis Schmale 1939. Oltre alla cannuccia palustre si possono trovare il caglio delle paludi (Galium palustre L.), il falasco (Cladium mariscus (L.) Pohl), varie specie di giunchi e lische (Juncus spp., Typha spp.), il giaggiolo acquatico (Iris pseudacorus L.) e la mazza d’oro (Lysimachia vulgaris L.).

Nelle zone umide a disseccamento estivo si possono trovare comunità quasi pure di giunchina palustre (Eleocharis palustris (L.) Roem. & Schult. subsp. palustris), che identificano l’Eleocharicetum

palustris Schennikov 1919. Altre zone umide dulciacquicole, invece, ospitano il Caricetum elatae Koch 1926, caratterizzato da una comunità vegetale molto compatta e formata da Carex elata. Il Juncetum acuti Molinier et Tallon 1970, costituito principalmente da popolamenti di giunco pungente (Juncus acutus L. subsp. acutus), si può trovare sia nelle comunità più interne assieme al frassino ossifillo, sia su suoli salsi assieme al limonio (Limonium narbonense Mill.) (Tomei et al., 2004).

Nelle deboli depressioni sabbiose soggette ad inondazione per le mareggiate si riscontra una vegetazione caratterizzata da chenopodiacee succulente, come Suaeda maritima (L.) Dumort. e

Salicornia patula Duval-Jouve, specie caratteristiche dell’associazione Suaedo maritimae–Salicornietum

patulae (Brullo et Furnari 1976) Géhu et Géhu-Frank 1984. Nelle depressioni salmastre si rinviene un mosaico di varie associazioni riconducibili alla classe Juncetea maritimi Br. Bl. 1952 em. Beeftink 1965. Nelle depressioni più esterne si può ritrovare il Limonio narbonensis–Juncetum gerardii Géhu et

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Biondi 1994, dove sono presenti Limonium narbonense e il giunco di Gerard (Juncus gerardii Loisel.); nelle depressioni poco profonde e ai margini delle lame si riscontrano estese praterie a Spartina

versicolor Fabre. In altri punti, ancora, si trovano fitti giuncheti con dominanza di Juncus acutus. Nelle aree topograficamente più elevate, invece, si riscontrano comunità alofile con prevalenza di enula bacicci (Limbarda crithmoides (L.) Dumort.). Nelle depressioni interdunali in fase di interrimento, infine, si trova l’associazione Schoeno nigricantis–Erianthetum ravennae Pignatti 1953, indicata dalla presenza della canna del Po (Erianthus ravennae). A contatto con questa associazione si possono ritrovare comunità a giunchetto comune (Scirpoides holoschoenus (L.) Soják) e, dove le aree sono maggiormente degradate, popolamenti a falasco bianco (Imperata cylindrica (L.) P. Beauv.) (Sani et al., 2006).

2.3.4. Vegetazione ripariale

Questa vegetazione è limitata agli argini dei corsi d’acqua ed è rappresentata dal Populetum albae (Br.-Bl. 1931) Tchou 1948, in cui si trovano Polulus alba, Alnus glutinosa, Ulmus minor e varie specie di Salix e Fraxinus. Tra le specie erbacee si possono trovare la carice maggiore (Carex pendula Huds.), l’equiseto massimo (Equisetum telmateia Ehrh.), la salcerella comune (Lythrum salicaria L.), il giunco tenace (Juncus inflexus L.) e Juncus acutus (Gellini et al., 1986; Tomei et al., 2004).

2.3.5. Vegetazione delle dune litoranee

Procedendo dalla battigia verso l’entroterra si osserva il succedersi di varie associazioni vegetali: a poca distanza dal bagnasciuga si può riscontare il Salsolo kali–Cakiletum maritimae Costa et Manz. 1981 corr. Riv. – Mart. et al. 1992, nel quale prevalgono specie alotolleranti, come Salsola tragus L. subsp. pontica (Pall.) Rilke e il ravastrello marittimo (Cakile maritima Scop. subsp. maritima); successivamente, dove le dune cominciano a stabilizzarsi (fascia delle dune embrionali), si riscontra l’associazione a gramigna delle spiagge (Elymus farctus (Viv.) Runemark ex Melderis subsp. farctus), spesso associato, laddove i settori sono più disturbati, ad euforbia marittima (Euphorbia paralias L.). Avanzando ulteriormente si trova la fascia delle dune in via di consolidamento (fascia delle due mobili o dune bianche), caratterizzate dall’alleanza Ammophilion

australis Br. Bl. 1921 corr. Riv. – Mart. et al. 1990. Qui si trovano popolazioni di sparto pungente (Ammophila arenaria subsp. australis (Mabille) Laínz) che grazie al fitto sistema di rizomi stabilizza le dune, impedendo al vento di spostare la sabbia. In questa fascia si incontrano altre specie caratteristiche, come la santolina (Achillea maritima (L.) Ehrend. & Y. P. Guo), la calcatreppola marittima (Eryngium maritimum L.) e la specie endemica Solidago litoralis Savi (verga d’oro delle spiagge). Infine si giunge alla fascia delle dune consolidate (dune grigie), in cui si riscontra una situazione piuttosto eterogenea caratterizzata da un mosaico di comunità camefitiche, cioè raggruppamenti costituiti da piccoli arbusti e suffrutici con gemme collocate ad una distanza dal

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suolo inferiore ai 30 cm, rappresentate da popolamenti a perpetuini profumato (Helichrysum

stoechas (L.) Moench), comunità terofitiche, ovverosia di specie annuali che superano la stagione avversa sottoforma di seme, riconducibili all’associazione Sileno coloratae–Vulpietum membranaceae (Pignatti 1953) Géhu et Scoppola 1984, e a comunità arbustive, rappresentate dal ginepro ossicedro (Juniperus oxycedrus) (Sani et al., 2006). In questa zona si trovano diverse specie introdotte, perché in passato vi furono eseguiti vari interventi per frenare l’arretramento della pineta. In particolare, negli anni ’60 fu tentata la ricostruzione artificiale di una duna a 50–100 m dalla linea di battigia. Nella fascia retrostante, invece, si provvide a formare un imbrigliamento della sabbia mediante un reticolo di siepette morte e la semina, o piantumazione, di specie erbacee, come Ammophila arenaria, canna domestica (Arundo donax L.), Erianthus ravennae e specie legnose, come Yucca spp., il pittosporo (Pittosporum tobira (Thunb.) W. T. Aiton), le tamerici (Tamarix spp.) e Juniperius oxycedrus subsp. macrocarpa (Sibth. & Sm.) Neirl. (De Philippis, 1970).

2.3.6. Superfici coltivate ed incolti

Queste aree sono distribuite in vari settori della Tenuta. Si ritrovano numerose specie sinantropiche e avventizie, come la gramigna (Elymus repens (L.) Gould. subsp. repens), l’orzo perenne (Hordeum secalinum Schreb.), la gramigna tenacissima (Sporobulus indicus (L.) R. Br.), l’enula cepittoni (Dittrichia viscosa (L.) Greuter subsp. viscosa), la mentuccia comune (Clinopodium

nepeta (L.) Kuntze), la verbena comune (Verbena officinalis L.) e il centauro maggiore (Centaurium

erythraea Rafn).

2.4. Problematiche ambientali

Le fasce litorali, ed in particolare le pinete, furono oggetto di fenomeni di deperimento a causa dell’inquinamento e dell’erosione marina sin dalla fine degli anni ’40, come testimoniato da Corti e da de Philippis. Nel 1971, in seguito all’applicazione di una legge che vietava l’utilizzo di detersivi non biodegradabili, il tasso d’inquinamento delle acque superficiali regredì e si osservò una ripresa della rinnovazione delle specie arboree; tuttavia dall’autunno del 1976 i danni ed il tasso dell’inquinamento si ripresentarono più marcati ed interessarono non solo il litorale, ma anche l’entroterra versiliese e pisano. L’incremento dei danni era correlato sia ad un nuovo aumento dei detersivi nelle acque superficiali, sia ad un incremento del numero di giornate con forti venti di mare. L’origine dei tensioattivi era principalmente domestica e derivavano dagli scarichi del settore Nord della città di Pisa. I principali collettori erano il Fosso Cuccia ed il Canale Ozeretto, i quali convogliavano nel Fiume Morto, che a sua volta scaricava le acque in mare nel bel mezzo della tenuta. In questi corpi idrici, nel 1981, fu monitorato il contenuto in tensioattivi anionici (Acrilonitrile, Butadiene, Stirene) e si osservò che nel Fosso Cuccia vi era una concentrazione media di 5.53 ppm con massimi fino a 8.7 ppm, mentre nel Canale Ozeretto i valori medi erano di

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