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Modelli consensuali e istituti negoziali nell'attuazione della norma tributaria: l'istituto della conciliazione giudiziale.

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Indice

Introduzione………..pag.3

1. Inquadramento generale dell’istituto...………...pag.5 1.1. Natura giuridica………...pag.5 1.2. Evoluzione normativa………...pag.11 1.3. Conciliabilità delle questioni di diritto………....pag.20 2. L’articolo 48 nell’attuale formulazione: punti critici………pag.23

2.1. Ambito oggettivo di applicazione………pag.23 2.2. Ambito soggettivo di applicazione………..pag.29 2.3. Procedimento di conciliazione……….pag.31

2.3.1. Rito ordinario……….pag.32 2.3.2. Rito abbreviato………...pag.34 2.4. Ruolo del Giudice competente……….pag.36 2.5. Il perfezionamento dell’accordo e l’estinzione del processo……….pag.38

2.5.1. La conciliazione parziale………pag.42 3. Conseguenze dell’intervenuta conciliazione………..pag.44 3.1. Le impugnazioni………pag.44 3.2. Effetti della conciliazione……….pag.45 3.2.1. Effetti sulle spese processuali……….pag.46 3.2.2. Effetti sulle sanzioni amministrative………..pag.46 3.2.3. Effetti penali………pag.47 3.2.4. Ambito soggettivo………...pag.48 4. Spunti di riflessione e probabili linee evolutive future……….pag.52

4.1. La conciliazione giudiziale nel sistema degli istituti deflattivi del contenzioso………....pag.52 4.1.1. Conciliazione giudiziale e Acquiescenza………..pag.54 4.1.2. Conciliazione giudiziale e Accertamento con adesione……...pag.54 4.1.3. Conciliazione giudiziale e Reclamo………...pag.59

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4.1.4. Conciliazione giudiziale e Autotutela……….pag.61 4.2. Istituto della conciliazione giudiziale nel caso di fallimento……..pag.64 4.3. Sviluppi futuri……….pag.69

4.3.1. Il punto di vista europeo e il recente progetto di riforma.…..pag.69 4.3.2. Principali limiti dell’istituto……….pag.76 4.3.3. Nuova forza alla luce della delega fiscale contenuta nella legge

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3 Introduzione

Anche in materia tributaria, la composizione delle liti tra fisco e contribuente è apparsa uno sbocco meritevole di essere perseguito. Ne è scaturita una disciplina particolarmente ricca ed articolata che, dall’inizio degli anni novanta sino ai giorni nostri con la legge delega n. 23/2014, ha offerto molteplici modelli conciliativi, nell’intento di deflazionare il contenzioso. All’esigenza di abbreviare il contenzioso, che ha anteposto la tempestività alla giustizia del prelievo (facendo riferimento solo alla prevedibile ragionevolezza dello stesso), si è affiancato l’interesse del legislatore all’acquisizione immediata del gettito anche in contrasto con la tutela giurisdizionale del contribuente e, anzi, cercando di escludere ogni possibile contestazione sin dal principio.

Alle citate esigenze rispondono istituti quali: l’accertamento con adesione1, la

conciliazione giudiziale e, di più recente introduzione, l’istituto della mediazione

tributaria2, la quale tenendo conto del grado di sostenibilità della pretesa e

dell’economicità dell’azione amministrativa ha sancito un evoluzione nella definizione negoziale del tributo. Tali strumenti, tesi alla realizzazione di una definizione non contenziosa del rapporto tributario, hanno come tratto comune la funzione di determinare in modo autonomo e definitivo la natura e la misura della fattispecie tributaria e di concludere il procedimento prima dell’inizio del giudizio o nella sua fase embrionale; inoltre sono condizionati negli effetti all’integrale e tempestivo pagamento del tributo dovuto.

Essi prevedono la partecipazione in posizione paritaria delle parti che intervengono nel procedimento di attuazione del tributo. Per questo, se da un lato hanno consentito di allentare la rigidità e i formalismi propri del sistema italiano, determinati dalla riserva di legge, dal principio di legalità e dal principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, dall’altro hanno incentivato la

1 D.Lgs n. 218 del 19.06.1997.

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privatizzazione del rapporto fisco contribuente3: la struttura del rapporto tributario

pur restando ancorata ai principi del procedimento amministrativo, è stata integrata da consistenti elementi di consensualità, estesi a tutte le fasi della sequenza attuativa del tributo.

Il presente lavoro è volto ad analizzare la conciliazione giudiziale, quale strumento deflattivo del contenzioso tributario, diretto a definire le controversie tributarie in modo agevolato rispetto al processo tradizionale, con riduzioni sia sul piano delle imposte che delle relative sanzioni. Infatti con l’accordo conciliativo, il Fisco può definire la lite prima di giungere a qualsiasi trattazione nel merito, procedendo inoltre ad una pronta liquidazione delle entrate erariali.

Dopo una breve disanima sull’inquadramento della natura dell’istituto, sulla sua evoluzione storica e sui profili tecnici dello stesso, si passa ad esporre alcuni profili problematici evidenziati da dottrina e giurisprudenza in particolare riguardanti i poteri del giudice, il perfezionamento dell’accordo e l’estinzione del processo.

Infine si propone un inquadramento della conciliazione all’interno dell’insieme degli istituti deflattivi del contenzioso tributario, mettendo in luce tratti comuni e differenze con ognuno di essi, tentando di tracciare una possibile linea evolutiva futura dell’istituto, anche alla luce della delega fiscale l. 11/03/2014, n. 23.

3 Ad esempio, nel caso dell’istituto in esame, inizialmente questo aveva causato non pochi dubbi o perplessità, nell’ottica della possibile violazione del principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria: in questo senso Batistoni Ferrara, Conciliazione giudiziale, 1029 ss.; Tosi, Il fisco 96, 11125; Redi, Diritto e

pratica tributaria, 96, I, 407; Gallo, in Rass. Trib., 94, 1490 ss., secondo i quali l’eccesso di autonomia e la

mancanza di criteri e procedure istituzionalizzati avrebbe determinato atti dispositivi del credito tributario e la violazione del principio di capacità contributiva del soggetto passivo ex articolo 53 della Costituzione. Successivamente ha, però, prevalso un atteggiamento più pragmatico, sulla base del dettato normativo sempre più esplicito nella sua volontà di attribuire tale facoltà ai funzionari pubblici.

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5 1. Inquadramento generale dell’istituto

1.1. Natura giuridica

La conciliazione giudiziale è collocata a cavallo tra il campo amministrativo e quello processuale, ed è uno degli strumenti predisposti dall’ordinamento al fine di favorire

una definizione concordata della lite, non ancora matura nella fase precontenziosa4,

ma che potrebbe trovare spazio in sede contenziosa anche attraverso l’effettivo

incentivo ad opera degli organi giudicanti5.

L’istituto dell’ordinamento tributario, trae la sua origine da quello previsto dal

Codice di Procedura Civile, attualmente disciplinato agli artt. 183 comma 3, e 1856.

4

La conciliazione è stata, soprattutto in passato, definita ‘patteggiamento’ o ‘giudizio abbreviato’, usando termini relativi ad istituti penalistici dai quali in realtà è nettamente distinta. Infatti, come asserisce M. Blandini, Il processo tributario, in Il Sole 24ore, 2005, pag. 290: “va ricordato che la disciplina del processo penale relativa ai reati attribuiti alla competenza del Giudice di pace ha previsto che il giudice quando il reato è perseguibile a querela, promuove la conciliazione tra le parti, affidandosi così al giudice penale un ruolo propositivo obbligatorio”.

5

Circolare n. 98/E del 23/04/1996, in Bancadati fisconline, e circolare Agenzia delle dogane n. 26/D del 04/04/2002, in Bancadati fisconline.

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Così come novellati dal D.l. n. 35 de 14.03.2005, convertito con modificazioni dalla l. 14.05.2005, n. 80, a sua volta modificato dalla l. 28.12.2005, n. 263 e all’art. 88 delle Disposizioni di attuazione del codice di procedura civile. Con tale ultima formulazione viene eliminato l’obbligo, finora imposto in prima udienza di trattazione, di procedere all’interrogatorio libero e al tentativo di conciliazione delle parti. Il nuovo 1° comma dell’art 185, a sua volta espressamente richiamato dall’art. 183, comma 3, così come modificato, stabilisce che il Giudice, in caso di richiesta congiunta delle parti (che, secondo l’interpretazione prevalente rappresenta la richiesta concorde di tutte le parti costituite, anche se non necessariamente contestuale), deve fissare un’apposita udienza per la loro comparizione personale, al fine di procedere all’interrogatorio libero di esse nonché al tentativo di conciliazione. La norma prevede comunque la facoltà del Giudice istruttore di fissare l’udienza di comparizione personale e l’interrogatorio libero delle parti. Ne deriva che l’interrogatorio libero può essere ordinato e rinnovato dal Giudice nel corso del processo e quindi anche in prima udienza; il tentativo di conciliazione può esser rinnovato in qualunque momento dell’istruzione ai sensi dell’invariato secondo comma della norma. È inoltre previsto che il tentativo di conciliazione possa essere esperito anche nella prima udienza di trattazione dell’appello, ai sensi dell’art. 350 del codice di procedura civile in base al quale il Collegio procede al tentativo di conciliazione ordinando, quando occorre, la comparizione personale delle parti. Al contrario, il giudizio di cassazione esclude la possibilità di un componimento giudiziale: in tale fase, l’eventuale accordo raggiunto autonomamente dalle parti, determina la cessazione della materia del contendere.

L’avvenuta conciliazione è documentata in un processo verbale al quale è espressamente attribuita la natura di titolo esecutivo, dal Giudice istruttore. Il Legislatore dispone che l’esecuzione forzata può aver luogo solo in presenza di diritti certi, liquidi ed esigibili. La conciliazione presuppone un accordo tra le parti che può assumere diversa valenza giuridica, ad esempio di transazione o rinuncia, e, formalizzandosi in un atto di valenza processuale, consegue l’effetto di porre termine alla lite, operando come modo di estinzione del processo civile.

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6

La scelta operata dal Legislatore, di mutuare un istituto conciliativo delle controversie fiscali dall’analogo strumento operante nel processo civile, ha suscitato molti dubbi, in quanto pare non tenere di conto delle profonde differenze tra le due branche del Diritto, tra le quali la più incisiva e problematica è sicuramente il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, dal quale discende che l’obbligazione tributaria deve senz’altro rispondere ai principi costituzionalmente previsti agli artt. 23, 53 e 97 della Costituzione, e che si scontra con i principi

dispositivi legati nella natura processuale dell’istituto7

.

Alcuni punti fondamentali della disciplina civilistica della conciliazione, furono trasfusi nel processo tributario, delineando nel tempo l’istituto oggi vigente.

Il testo originario dell’art. 48 del D.Lgs. n. 546 del 31.12.1992, regolamentando la definizione preventiva della controversia, prevedeva, su richiesta del ricorrente e con adesione successiva dell’Amministrazione Finanziaria, che la Commissione Tributaria facesse un esame preventivo, in camera di consiglio; la sentenza che ne risultava, costituiva titolo esecutivo ed era impugnabile soltanto per errore materiale

o violazione di norme procedimentali.

L’art. 48 del D.Lgs. n. 546 del 31.12.1992, nell’attuale testo, disciplina la conciliazione giudiziale, inserendola nel titolo secondo (Il processo), capo secondo (I procedimenti cautelare e conciliativo), del citato decreto. Tale collocazione contribuisce a dimostrare come la conciliazione giudiziale sia oggi concepita dal

7 “…la transazione è possibile solo se gli elementi della sua trattazione siano posti interamente nella disponibilità delle parti; di conseguenza, se anche l’amministrazione ha la facoltà di rivedere gli estremi della pretesa tributaria manifestata nell’atto oggetto della lite, sono state elevate obiezioni da autorevole dottrina circa la contraddizione del principio generale dell’indisponibilità del rapporto tributario da parte dell’amministrazione stessa. Anche la conciliazione giudiziale presenta tratti caratteristici degli istituti transattivi, soprattutto nella considerazione che il rapporto tra fisco e il contribuente è sempre più improntato alla collaborazione paritetica, prevedendo l’elevazione del contribuente dallo stato passivo a quello di parte attiva. Tuttavia, non è possibile ignorare che la natura giuridica della conciliazione in materia tributaria non può essere assimilata in toto alla conciliazione giudiziale civile, dal momento che quest’ultima è da considerarsi caratterizzata dalla natura negoziale, possibile in quanto le parti dispongono liberamente del rapporto controverso, cosa che non è, sic et simpliciter, attuabile nel processo tributario, senza andare a violare l’art. 53 della Costituzione italiana”. Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con adesione,

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7

legislatore quale istituto processuale8, sebbene i suoi effetti siano anche sostanziali

poiché la conciliazione si concretizza in un atto con il quale le parti in causa

pongono fine alla controversia9.

Se gli effetti processuali generalmente riconosciuti alla conciliazione nel processo civile sembrano poter essere estesi anche all’istituto disciplinato dall’art. 48 del D.Lgs. n. 546 del 31.12.1992, appare oggettivamente problematico applicare al medesimo gli schemi negoziali della transazione o della rinuncia alla pretesa o

riconoscimento della pretesa altrui.

La difficoltà di inquadrare la conciliazione giudiziale all’interno di uno schema transattivo discende infatti dall’indisponibilità in capo all’Amministrazione Finanziaria del diritto che forma oggetto della contesa. Infatti, la conciliazione giudiziale si risolve in un accordo tra l’Amministrazione Finanziaria e il contribuente, che, con la contestuale accettazione lo traducono in un atto modificativo del precedente, con il quale l’ente impositore aveva determinato la

propria pretesa.

Secondo gran parte della dottrina, “la contiguità della conciliazione all’accertamento

con adesione10 si è trasformata in continuità”11, fino al punto che la conciliazione

appare come la versione giudiziale del concordato12, cioè una “specie di ultima

spiaggia” per il contribuente che non abbia trovato altro accordo con l’ufficio

8

In tal senso F.Carrirolo, La conciliazione giudiziale nell’ultimo stadio dell’attività amministrativa prima del

processo tributario, in Fisco, 2002, pag. 3189.

9 “L’istituto in argomento ha, come principale effetto giuridico, quello dell’estinzione della controversia tributaria sotto il profilo processuale e quello della definizione del rapporto tributario, sotto il profilo sostanziale”. A. Cepparulo, Il nuovo processo tributario, Quaderni n. 2/96, I.P.Z.S., 1996, pag. 78.

10 Come disciplinato dal D.Lgs. 19.06.1997, n. 218. 11

P. Russo, Manuale di diritto tributario, Il processo tributario, Giuffrè, 2005, pag. 194.

“..la conciliazione giudiziale può considerarsi un accertamento con adesione stipulato in corso di giudizio”. S. La Rosa, Principi di diritto tributario, Giappichelli, 2004, pag. 253.

12

Come sostenuto da M. Versiglioni, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Giuffrè, 2001, pag.385 e ss, la conciliazione è tesa a risolvere la controversia tra privato ed ente creditore, “sacrificando la certezza del rapporto alla sollecita definizione della pretesa”, questo profilo la assimila all’accertamento con adesione ma, mentre nella conciliazione si vuole impedire la prosecuzione di una lite, l’altro istituto è volto ad impedire l’insorgere della lite stessa. Tale differenza si riflette solo sull’entità della riduzione delle sanzioni nei due casi, ma in nessun modo incide sugli effetti prodotti che in entrambe i casi portano ad una differente determinazione dell’entità della pretesa dell’ente creditore rispetto a quella iniziale.

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8

riguardo all’imposta dovuta13

. La conciliazione giudiziale, assimilabile in questo all’ accertamento con adesione, si risolve in un atto non negoziale, bensì amministrativo, che non importa alcuna disposizione dell’obbligazione tributaria, ma soltanto una nuova valutazione delle prove dei fatti ovvero, per gli autori che ritengono applicabile la conciliazione alle questioni di diritto, una diversa e nuova interpretazione di una norma. Con la conciliazione, infatti, l’Amministrazione Finanziaria dispone solo della lite, non del credito d’imposta, potendo accordarsi con il contribuente solo per raggiungere una giusta composizione della controversia nel rispetto del principio di legalità, che non può essere derogato attribuendo concessioni non conformi al diritto.

Per quanto riguarda, invece, i rapporti tra conciliazione giudiziale ed autotutela14 si

riscontra una diversità sostanziale e una contiguità solo apparente15.

Sulla natura giuridica della conciliazione giudiziale la dottrina oscilla tra l’assimilazione all’istituto del patteggiamento del diritto processuale penale e all’istituto della transazione ex art. 1965 e ss. del Codice Civile: secondo tale orientamento la composizione della lite deve avvenire necessariamente facendosi

“reciproche concessioni” (aliquid datum e aliquid retentum)16

rispetto alle loro posizioni originarie, che per l’Amministrazione si sostanziano nell’originario atto

13

Consolo – Glendi, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Cedam, 2012, pag. 437.

14 Istituto regolato da D.l. 30.09.1994 n. 564, convertito nella l. 31.11.1994 n. 656, art. 2 quater; D.M. 11.02.1997 n. 37, in Bancadati fisconline; Circ. 198/98, in Bancadati fisconline, del Ministero delle finanze e Circ. 143/00 e 103/01 dell’Agenzia delle Entrate, in Bancadati fisconline.

15 L’ambito applicativo dei due istituti non coincide affatto, infatti: “il presupposto dell’autotutela è un grave vizio dell’atto, evidente e riconoscibile, tale da indurre l’amministrazione a ritirare la propria pretesa onde evitare la soccombenza in giudizio e la condanna al rimborso delle spese di lite; alla base della conciliazione, invece, vi è una questione e una lite dall’esito incerto, suscettibile di soluzioni di compromesso. Nella conciliazione si ricerca insomma un patto sull’imposta, proprio per l’incertezza della questione controversa, mentre alla base dell’autotutela vi è l’abbandono della pretesa da parte dell’amministrazione e la rinuncia ad una lite destinata a chiudersi con la soccombenza. In presenza di vizi dell’atto tali da indurre l’amministrazione al ritiro della pretesa, il contribuente non ha del resto alcun interesse a conciliare e gli risulterà più conveniente attendere, in una posizione di relativa tranquillità, la decisione del giudice tributario”. Consolo – Glendi, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Cedam, 2012, pag. 451. 16 “..la reciprocità delle concessioni sarebbe insita nello schema delineato dalla norma, essendo previsti, da un lato, la riduzione delle sanzioni, nella quale consisterebbe il datum dell’Amministrazione, e, dall’altro, il pagamento immediato delle somme dovute, che sarebbe il datum del contribuente”. M. Cantillo,

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impositivo e per il contribuente nel ricorso introduttivo1718; mentre altra parte della

dottrina colloca l’istituto nella più ampia categoria dei negozi giuridici processuali19

.

Il primo orientamento, non pare condivisibile20. Infatti, il riferimento alle reciproche

concessioni come elemento principe dell’accordo, non ha alcun sostegno nella

17 “…la dottrina maggioritaria, dopo aver preso atto dell’evoluzione normativa dell’istituto e del venir meno di ogni limite espresso alla conciliazione, si è progressivamente dimostrata propensa a riconoscere, dapprima larvatamente ma poi con sempre maggiore convinzione, una natura transattiva alla conciliazione giudiziale. Questa visione non è peraltro accettata da chi sottolinea la diversità tra la conciliazione disciplinata nel diritto pubblico e la transazione: questa tesi enfatizza l’assoluta indisponibilità del diritto asseritamente oggetto di disposizione e la necessità di rispettare il principio di legalità. Per superare le preoccupazioni che, attraverso una ricostruzione in termini transattivi della conciliazione, si finisca per assegnare alla conciliazione un ruolo abnorme e per vulnerare il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, una parte della dottrina ha infine relativizzato le modifiche normative all’istituto via via succedutesi e la soppressione dei limiti espressi alla conciliazione. Sembra d’altro canto trovare sempre più assertori l’idea che nella conciliazione e nell’accertamento con adesione l’amministrazione finanziaria eserciti poteri discrezionali in senso proprio sebbene non vi sia concordia di opinioni circa l’individuazione degli interessi da ponderare nel caso concreto”. Consolo – Glendi, Commentario breve alle leggi del processo

tributario, pag. 440.

“La conciliazione giudiziale è un vero e proprio atto negoziale, infatti, essa può avere a oggetto, oltre alla determinazione dell’imponibile anche la misura dell’imposta che, quindi, può essere diminuita. Non trattasi di atto autoritativo cui si aggiunge, in adesione esterna ma senza fondersi con esso, il consenso del contribuente. È, invece, un vero e proprio atto negoziale istituito con l’articolo n. 48 del D.Lgs. n. 546/1992. Ecco perché la misura dell’imposta può, in sede di conciliazione, risultare diversa, quindi inferiore. Del resto, l’autonomia delle parti in ordine all’accordo comporta anche la possibilità di concordare un risultato finale complessivo riduttivo dell’entità del prelievo originariamente richiesto dall’amministrazione”. A. Buscema,

La conciliazione giudiziale è un atto negoziale, in Fisco-oggi, del 13/11/2006.

18 La natura transattiva dell’istituto è stata riconosciuta anche dalla giurisprudenza di legittimità: “La conciliazione giudiziale, di cui all’art. 48 del D.Lgs. n. 546 del 31/12/1992, attiene all’esercizio di poteri dispositivi delle parti onde, nella fattispecie a formazione progressiva prevista dalla citata norma, va escluso che taluni atti negoziali (nella specie la proposta di conciliazione) siano esenti dai requisiti propri del negozio alla cui formazione sono preordinati. In ragione della riconosciuta natura negoziale dell’accordo conciliativo indicato, la disciplina della sua eventuale rettifica per errore di calcolo deve rispondere ai criteri dettati in via generale per i contratti dall’art. 1430 c.c. con la conseguenza che non risulta rettificabile per errore di calcolo l’accordo conciliativo intercorso tra il contribuente e l’amministrazione fiscale avente ad oggetto somme dovute a titolo di reddito imponibile, imposte, sanzioni ed interessi laddove non appaiano evidenti i termini da prendere in esame per rilevare detto errore di calcolo, ovverosia non emergano chiaramente i presupposti giuridico-aritmetici in base ai quali dovrebbe computarsi il prelievo fiscale”. Cass. civ., sez. trib., n. 21235 del 03/10/2006, in Bancadati Fisconline.

19 “Circa la natura giuridica va avvertito che non è convincente la tesi prospettata da più parti secondo la quale la conciliazione giudiziale delle controversie tributarie sarebbe assimilabile alla transazione disciplinata dagli artt. 1965 e segg. del codice civile. Infatti, pur se i due istituti hanno la medesima funzione di porre fine ad una lite, l’oggetto delle controversie tributarie attiene a rapporti di diritto pubblico i quali non sono nella disponibilità delle parti del processo tributario. La conciliazione giudiziale sostanziandosi, comunque, in manifestazioni di volontà delle parti dirette a conseguire effetti giuridici processuali potrebbe essere inquadrata nella più ampia categoria dei negozi giuridici processuali”. A. Cepparulo, Il nuovo processo

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10

norma che non statuisce nulla a tal proposito, permettendo, quindi, di pervenire alla conciliazione anche attraverso il semplice riconoscimento della fondatezza del ricorso (o della pretesa dell’Amministrazione). Inoltre, la riduzione delle sanzioni, non può essere qualificata come concessione dell’amministrazione, in quanto: “..non è espressione di un atto dispositivo della stessa, avente rilievo quale elemento causale dell’accordo, bensì deriva ab estrinseco dalla legge, come effetto premiale finalizzato alla definizione del contenzioso, ed opera nei casi in cui con l’atto

impugnato siano state irrogate sanzioni, ciò che non necessariamente accade”21.

Inoltre, non è possibile neanche definire come concessione di parte privata, il pagamento immediato delle somme concordate nell’accordo che, in realtà, si può far

rientrare nel profilo meramente attuativo della conciliazione22, infine occorre

ricordare che esistono fattispecie nelle quali il pagamento non è affatto dovuto, in quanto il contribuente nulla deve all’erario.

In conclusione, è da rilevare che: sebbene la maggior parte delle volte le parti pervengono all’accordo finale modificando in parte le proprie posizioni in senso favorevole alla controparte, e attraverso valutazioni assimilabili a quelle delle transazioni tra privati, questo non presuppone che la conciliazione sia inquadrabile nello schema del contratto di transazione (né di riconoscimento o rinunzia, che sono le altre due forme negoziali di definizione della controversia civile). Nella

conciliazione tributaria23, la funzione dell’accordo è quella di modificare o sostituire

il provvedimento oggetto della controversia, mediante un nuovo regolamento accettato dalle parti: rispetto alla funzione prospettata, non importa il modo (reciproche concessioni, riconoscimento o rinunzia) che determina il realizzo del

20

Anche se, tale tesi, non incide in alcun modo sulla disciplina dell’istituto ed ha quindi scarso rilievo pratico, in quanto meramente descrittiva.

21

M. Cantillo, Conciliazione III) Processo Tributario, Treccani, 2002, pag. 4. 22

A sostegno di tale tesi, il pagamento immediato delle somme è stato assunto (in sede di ultima modificazione della disciplina della conciliazione giudiziale) dalla stessa legge quale elemento perfezionativo della fattispecie esterno all’accordo medesimo.

23

A differenza di quella di diritto comune, nella quale “..la convenzione conciliativa non è una figura negoziale a sé, ma si identifica con il tipo di negozio utilizzato dalle parti per la composizione”. F. Santoro Passarelli, La transazione, II edizione, Napoli, 1975.

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risultato finale. Appare quindi preferibile l’orientamento secondo il quale, la conciliazione è un autonomo istituto negoziale di diritto pubblico, utilizzato allo scopo di concludere la controversia nel modo più conveniente nel singolo caso,

senza implicare necessariamente concessioni reciproche24.

Negli ultimi anni, il dibattito sulla natura dell’istituto non sembra destinato a scomparire, anzi ha trovato nuovo vigore nel recente indirizzo giurisprudenziale che da un lato nega il carattere negoziale della conciliazione dall’altro ne afferma la natura “autonoma, pubblicistica e tributaristica”, definendola come una fattispecie a formazione progressiva e procedimentalizzata finalizzata a sostituire il rapporto giuridico tributario (sostanziale e unilaterale) con un nuovo rapporto certo e

concordato25.

1.2. Evoluzione della normativa

Nella recente storia del sistema tributario italiano, la debolezza politica dei governi di coalizione, la loro precarietà e le vicende riguardanti la finanza pubblica dagli anni ottanta ad oggi, hanno determinato un’attività legislativa più diretta ad incidere sui profili formali del tributo e su accertamento, riscossione e sanzioni, che sui presupposti e sulle aliquote dei tributi in modo strutturale e sistematico. Questo orientamento, ormai consolidato, è stato dettato sia da esigenze di gettito che spingevano verso la massima anticipazione del prelievo, sia da esigenze di contrastare l’evasione con strumenti di carattere generale, vista anche la scarsa capacità del fisco di reagire a comportamenti evasivi ed elusivi dei singoli contribuenti.

24

“..la conciliazione apparterrebbe al novero di quegli istituti del diritto tributario che, pur mutuando scopi e tipologia da istituti consimili di altre branche del diritto, assumono una propria particolare e specifica connotazione in rapporto al contesto sistematico in cui sono collocati”. M. Polano, Errore di calcolo e

rettifica di somme dovute nella conciliazione giudiziale tributaria, in Giur. Trib., 2007, 226 e ss.

25

Cass. Sez. Trib. 13.02.2009, n. 3560, in Bancadati Fisconline; Cass. Sez. Trib. 21.04.2011, n. 9219, in Bancadati Fisconline; Cass. Sez. Trib. 25.11.2011, n. 24931, in Bancadati Fisconline.

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A ciò si devono affiancare le continue pressioni per un “fisco più umano” e le esigenze di origine europea e internazionale di riconoscere più “civiltà” ai rapporti

fisco-contribuente26, anche al fine di contrastare l’incapacità di gestire la fiscalità di

massa27 e la legislazione spesso intricata e inintellegibile.

Considerando tali esigenze, si è quindi affermata, come principale linea evolutiva, il

rafforzamento della posizione del privato nella fase di accertamento28 e si sono

moltiplicate le misure premiali di definizione consensuale e di partecipazione del contribuente alle fasi di attuazione del tributo, per garantire al massimo il rispetto dei principi di buona fede e affidamento sanciti nello Statuto dei Diritti del contribuente, e consentire un ripensamento del sistema tributario alla luce degli stessi.

In contrasto con tali considerazioni, nel 1971, la Riforma Tributaria soppresse

l’istituto del concordato29

ovvero l’accordo tra fisco e contribuente che poteva

riguardare il quantum del debito tributario (e non i termini legali dell’imposizione30).

La ragione sottesa a tale radicale decisione, fu la presa di coscienza dell’abuso che

26 Principi definitivamente sanciti nella legge 27.7.2000, n. 212, contenente “Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente”.

27

Sul piano del diritto sostanziale, la necessità di contrastare attraverso la legislazione comportamenti evasivi o elusivi, determinò l’ampliamento della base imponibile: a parità di aliquota, si modificava la base imponibile con il risultato finale di inasprire il carico fiscale (cd. Fiscalità di massa).

28 Alcuni esempi sono stati: il moltiplicarsi degli obblighi di chiamata, di interlocuzione, di comunicazione, di notifica al contribuente degli atti tributari al fine di partecipare al procedimento con finalità sia collaborative che difensive (nel rispetto del principio del contraddittorio).

29

L’antecedente storico più antico del concordato è il regolamento 11.07.1907, n. 560, per l’applicazione dell’Imposta di Ricchezza Mobile all’art. 81. Dopo la seconda guerra mondiale, cominciarono a diffondersi dubbi riguardo al fatto che il concordato potesse essere assimilato ad una vera e propria transazione, finchè nel 1956 fu definitivamente sostituita la parola ‘concordato’ con la perifrasi ‘la dichiarazione prevista dall’art. 81 del RD 11.07.1907, n. 560’. La soppressione fu dettata sia dall’esigenza di responsabilizzare maggiormente fisco/contribuente sugli atti emessi (avviso di accertamento/dichiarazione), sia dall’opportunità di escludere che la determinazione dell’imponibile potesse formare oggetto di una transazione fisco-contribuente. Si arrivò così alla formulazione dell’art. 34 del TUID del 1958, ma rimase il problema che non si realizzava un vero contraddittorio con il contribuente, restando una sorta di patteggiamento sulla misura dell’imposta dovuta in base a criteri non espliciti.

30 L’accordo non poteva essere una transazione onnicomprensiva: questa conclusione era l’unica che sembrava compatibile con il principio costituzionale di legalità.

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ne era stato fatto come “contrattazione”31

, conducendo nel tempo il fenomeno fuori dall’ambito della legalità; e, per questo motivo, la volontà di dimostrare la rinnovata attenzione della riforma al principio costituzionale di legalità. Le ragioni pratiche, decisive al fine della sua reintroduzione nel sistema tributario italiano, nella sua ultima versione, sono state: la crescita esponenziale del numero di liti tributarie e l’esigenza di incrementare la riscossione, vista anche l’inadeguatezza dello Stato di pretendere il normale pagamento delle imposte (per l’incapacità di controllare il fenomeno dell’evasione, l’eccessiva pressione fiscale e le inefficienze della Pubblica Amministrazione).

Dopo la sua reintroduzione, l’evoluzione della normativa in tema di conciliazione giudiziale è stata caratterizzata da modifiche continue, ma prive di qualsiasi coordinamento, che hanno determinato alcune delle ambiguità che l’istituto presenta tutt’oggi.

La prima formazione legislativa dell’istituto è da ricercare nell’art. 30, comma 1, lett. b), della l. 30.12.1991, n. 413, avente ad oggetto il riesame del contenzioso tributario, che imponeva al legislatore delegato di prevedere “la facoltà di richiedere, in tutto o in parte, l’esame preventivo e la definizione da parte della commissione tributaria di primo grado del rapporto tributario con conseguente estinzione dei reati

in materia tributaria per i quali è ammessa l’oblazione”3233

. Con tale norma, il

31 “..contrattazione che trovava la sua espressione ‘nei concordati’ e che derivava dalla difficoltà degli accertamenti, dalla insufficienza dei mezzi dei quali l’amministrazione disponeva, dalla inadeguatezza degli obblighi del contribuente e delle sanzioni, dalla eccessiva discrezionalità attribuita agli uffici, dalla insufficienza dei controlli”. E. De Mita, Profili storici e costituzionali del concordato tributario, in Riv. Dir. trib., 2011, pag. 63.

32

La relazione governativa evidenziò che la suddetta norma si poneva, con la predetta formulazione, a distanza di sicurezza sia dal concordato di cui all’art. 34 del D.P.R. n. 645/1958, poiché nella “definizione preventiva” l’accordo tra fisco e contribuente non cadeva sulla determinazione dell’imponibile o dell’imposta né sull’entità delle sanzioni, ma sulla instaurazione di un rito abbreviato, avente carattere alternativo rispetto al processo ordinario e restante comunque saldamente incardinato all’interno di esso, sia sotto il profilo formale (svolgendosi il rito alternativo davanti allo stesso giudice competente per il rito ordinario), sia sostanziale (avendo lo stesso giudice il potere esclusivo di valutare la proposta di definizione e, in ultima analisi, di definire la controversia); sia dal patteggiamento di cui all’art. 444 del codice di procedura penale, in quanto l’art. 48 non prevedeva alcuna forma di “applicazione della pena su richiesta

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14

legislatore si poneva come obiettivo l’inserimento all’interno del processo tributario, di un rito alternativo che permettesse ed incentivasse la composizione bonaria della controversia, con l’ulteriore garanzia (rispetto al soppresso concordato) del controllo

giurisdizionale34. L’istituzione della conciliazione è avvenuta quando, attraverso la

reiterazione di tre decreti legge35 ciascuno dei quali aveva apportato modifiche

all’originaria disposizione, fu definitivamente introdotto nell’ordinamento, con art. 2

sexies della l. 30.11.1994, n. 656, di conversione del D.l. 30.09.1994, n. 564, l’art.

20 bis nel D.P.R. 636/1972 che regolava il precedente contenzioso36 (ciò avvenne

coordinandosi con altri interventi diretti all’istituzione di ulteriori strumenti deflattivi del contenzioso, quali l’accertamento con adesione e la chiusura delle liti fiscali pendenti).

delle parti”, e inoltre non era detto che il contribuente che chiedeva la definizione si dichiarasse sempre responsabile del pagamento del tributo.

33 Il tratto peculiare del nuovo istituto era costituito senza dubbio dall’affidamento al giudice di un ruolo attivo di mediazione e di decisione ai fini del perfezionamento della definizione. Ciò si deduce dal fatto che alla commissione tributaria provinciale era attribuito il potere di esame preventivo e definizione “del rapporto tributario”, e, pertanto, il giudice, pur se all’interno di un particolare procedimento preventivo e subordinatamente alla manifestazione del consenso dell’Ufficio, manteneva pieni poteri di cognizione sul merito della controversia.

34

In tal senso F. Tesauro, Osservazioni sulla delega per la riforma al processo tributario, in Boll. Trib., 1992, pag. 1477 ed 1480, osserva come il carattere abbreviato del nuovo rito fosse la soluzione alle necessità di snellimento del processo tributario.

35

D. l. 18.07.1994, n. 452; D. l. 17.09.1994, n. 538; D. l. 16.11.1994, n. 630.

36 “Nella prima apparizione della conciliazione, la procedura era espressamente ammessa anche davanti alla Commissione centrale e alle udienze istruttorie dinanzi alla Corte d’appello, quindi a maggior ragione anche nei giudizi di secondo grado, sia per le controversie di impugnazione che per quelle di rimborso. Si pone il problema dell’applicabilità dell’istituto alle controversie pendenti avanti alle Commissioni tributarie di secondo grado e centrale, alle Corti d’appello e alla Corte di Cassazione. L’interpretazione meramente letterale porterebbe a concludere che non è più consentita la conciliazione nei gradi successivi al primo: in altre parole, per quanto il comma 2 dell’art. 2 sexies sia ancora formalmente in vigore, esso non avrebbe alcun effetto giuridico, essendo stata abrogata la norma cui faceva rinvio, cosicché di dovrebbe ritenere che la conciliazione delle suddette controversie pendenti sarebbe ammissibile solo se perfezionata prima dell’entrata in vigore del decreto di riforma del contenzioso, vale a dire anteriormente al 01/04/1996. L’opposta conclusione potrebbe invece trovare fondamento in evidenti motivi di equità processuale, quali emergono non tanto con riguardo alla disparità di trattamento che si realizzerebbe tra chi può conciliare avanti la Commissione provinciale e chi non può farlo perché la causa pende innanzi gli altri giudici, bensì dalla considerazione che l’art. 20 bis era già stato reso operativo per i giudizi di grado superiore al primo”. L. Tosi, La conciliazione giudiziale in Il processo tributario, UTET, 1998, pagg. 887 e 898-899.

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Veniva così inserito un istituto tipico del processo civile, nel processo tributario come atto di risoluzione della controversia mediante un accordo preventivo tra le parti. Ciò era sempre stato precluso in nome del principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria che impediva qualsiasi negoziazione in ordine alla pretesa fiscale oggetto del giudizio. Il limite della nuova conciliazione era stato, per questo motivo, individuato dal legislatore nelle controversie che coinvolgevano

“questioni non risolvibili in base a prove certe e dirette”37

, ed il controllo “dei presupposti e delle condizioni di ammissibilità” era demandato al Collegio in udienza. In tale prima formulazione l’oggetto dell’accordo non era la pretesa impositiva, ma la questione sorta tra le parti in ordine ad un elemento o aspetto della fattispecie concreta, determinando che la definizione della controversia conseguiva al superamento di tali questioni. Inoltre si riteneva che l’accordo potesse vertere solo

sulle questioni di fatto38 (attinenti alla base materiale di commisurazione del tributo),

e tra esse solo quelle che per l’assenza di prove sufficienti erano considerate, dal giudice in sede di controllo dell’esistenza dei presupposti, di incerta soluzione. Il requisito appena richiamato era quello che assicurava la limitazione dell’ambito di discrezionalità dell’Amministrazione, e che assimilava la conciliazione a un atto ricognitivo che sostituiva il giudizio probatorio del giudice.

37

“Le prove certe e dirette possono risultare dalle dichiarazioni presentate dai contribuenti e dai documenti allegati, dai questionari, dai verbali di ispezioni e verifiche eseguite anche nei confronti di altri soggetti, da qualsiasi altro documento in possesso dell’ufficio o depositato in giudizio dal contribuente. In sostanza la conciliazione deve considerarsi preclusa quando si sia in presenza di prove documentali che pongono il giudice nella condizione di apprendere direttamente il fatto oggetto della prova”. “Per quanto l’amministrazione abbia cercato di delimitare l’ambito di applicazione della conciliazione alle ipotesi in cui la pretesa fiscale sia basata su stime, valutazioni e presunzioni in genere, e quindi a titolo esemplificativo, alle liti concernenti accertamenti induttivi e sintetici, accertamenti basati su stime di organi tecnici, accertamenti basati sulla diversa qualificazione del reddito, resta pur sempre il fatto che la nozione di prova certa non allude ad una ben determinata categoria di prove ma presuppone un giudizio caso per caso in relazione ai fatti dedotti dalle parti, di modo che il concetto di certezza, riferito alla prova può esprimere soltanto un elevato grado di attendibilità della stessa”. L. Tosi, La conciliazione giudiziale in Il processo tributario, UTET, 1998, pagg. 888-889.

“la conciliazione è inammissibile quando le prove sono talmente convincenti da non lasciare spazi a soluzioni di compromesso”. R. Lupi, Le crepe del nuovo concordato: anatomia di un’occasione perduta, in Rass. Trib., 1994, pagg. 1867-1868.

38

Si differenzia così la conciliazione tributaria da quella regolata nel codice processuale civile: la seconda infatti è sempre ammessa “quando la natura della causa lo consente”, escludendo solo le controversie con ad oggetto diritti assolutamente indisponibili (ex art.183, comma 1, c.p.c.).

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Nel primo dettato normativo, il punto maggiormente problematico era il riferimento alla “prova certa e diretta”: infatti mentre l’aggettivo dirette evocava la distinzione tra prove dirette (o storiche) che hanno ad oggetto lo stesso fatto da provare, e prove indirette che hanno ad oggetto un fatto diverso, dal quale può essere desunto quello da provare; l’aggettivo certe invece non corrispondeva ad alcuna tipologia o categoria delle prove giuridicamente esistenti, e l’opinione prevalente era che fosse usato in modo atecnico, senza riferimento a categorie di costruzione dottrinaria. L’aggettivo dirette fu successivamente espunto con d.l. 630/1994, e la circolare del 30.11.1994, n. 197/E, precisò che potevano essere certe anche le prove indirette: il legislatore aveva voluto individuare il presupposto di ammissibilità della conciliazione nella res dubia, cioè nell’incertezza del fatto da provare; l’espressione prova certa era tesa a delineare una prova idonea a dare certezza al fatto e che quindi precludeva la possibilità di raggiungere un accordo concordato dell’elemento contestato. Restava comunque difficile dal punto di vista pratico poter individuare tali prove certe, quindi con la stessa circolare (30.11.1994, n. 197/E) si cercò di definire maggiormente il contenuto della prova e delineare il miglior ambito di applicazione della conciliazione giudiziale negli accertamenti, in tutto o in parte, presuntivi o di carattere estimativo (rettifiche e accertamenti induttivi o sintetici ex artt. 38 comma 3, 39 comma 1 lett.d DPR 600/1973).

Un ulteriore cambiamento radicale si ebbe con il D.l. 403/1995, convertito con l. 20.11.1995, n. 495 che modificò il primo comma dell’art. 20 bis, eliminando definitivamente il riferimento alle prove e stabilendo contestualmente che la conciliazione fosse ammessa negli stessi casi e nelle stesse ipotesi in cui si poteva applicare l’accertamento con adesione così come previsto agli artt. 2 bis e 2 ter del

citato D.l. 546/199439. Ne derivò che, le violazioni aventi rilevanza penale ex legge

39

“La conciliazione, dunque, risulta esperibile solo con riferimento alle questioni sorte, in seguito a rettifica della dichiarazione, in materia di imposte dirette ed I.V.A., aventi per oggetto l’esistenza, la stima, l’inerenza e l’imputazione a periodo di componenti positivi e negativi di reddito e solo per i titolari di reddito d’impresa e di lavoro autonomo, nei casi in cui non si configuri l’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria e non sussista un rapporto della Guardia di Finanza per uno dei reati di cui agli artt. 1, comma 1, 2, comma 3, 3 e 4

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516/1982, che escludevano la procedura di accertamento con adesione, divenivano

ostative anche per la conciliazione40, che si trasformava in una sorta di concordato in

ambito processuale. In questo modo, nonostante si fosse eliminato il requisito attinente alla qualità della prova, si continuò a far valere l’istituto solo con riguardo agli aspetti fattuali della controversia, rispettando gli stessi limiti stabiliti per l’accertamento con adesione.

L’istituto della conciliazione era stato trasposto nel nuovo sistema processuale41

, all’art. 48 del D.Lgs. 546/1992 che sostituiva integralmente l’istituto dell’ “esame e definizione preventiva della controversia” ritenuto incompatibile con la stessa conciliazione. Il rinnovato dettato, oltre a renderla nuovamente autonoma dall’accertamento con adesione, estese la conciliazione ad ogni tipo di controversia (di valutazione estimativa, di fatto o di diritto), ferma restando l’impossibilità di ottenere la restituzione delle somme già versate all’ente impositore.

L’assetto definitivo dell’istituto risulta dall’art. 14 del D.Lgs 19.06.1997, n. 218, emanato sulla base della delega conferita al Governo con l’art. 3 comma 120 lett. b, l. 23.12.1996, n. 662 con il quale si era previsto il “coordinamento della disciplina dell’accertamento con adesione con quella della conciliazione giudiziale stabilendo

l’identità delle materie oggetto di definizione nonché delle cause di esclusione”42

. Le principali modifiche hanno riguardato: il pagamento delle somme dovute anche in forma rateale; il perfezionamento della conciliazione che avviene con il versamento

del D.l. 429/1982 o non sia comunque stata avviata l’azione penale. In materia di altre imposte dirette, invece, la conciliazione è applicabile alle condizioni testè indicate, solo alle questioni inerenti il maggior valore o il valore stabilito dall’ufficio”. L. Tosi, La conciliazione giudiziale in Il processo tributario, UTET, 1998, pag. 890.

40

L’art. 2 bis, comma 2, del D.l. n. 564 del 30/09/1994, convertito con modificazioni dalla legge n. 656 del 30/11/1994, disponeva che l’accertamento con adesione era inibito allorché dagli elementi degli atti dell’ufficio finanziario procedente era ravvisabile o fosse già stata presentata la denunzia all’autorità giudiziaria per i reati contemplati dagli artt. 1, comma 1, 2, 3 e 4 del D.l. n. 429 del 10/07/1982, convertito con modificazioni dalla l. n. 516 del 07/08/1982.

41 Così come delineato nella nuova disciplina del processo tributario entrata in vigore il 1° aprile 1996. 42

Per questo ultimo aspetto la delega è rimasta inattuata in quanto il decreto legislativo delegato non contempla alcuna causa di esclusione né rispetto all’accertamento con adesione, né rispetto alla conciliazione.

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delle somme dovute con le modalità e nei termini stabiliti; è stata eliminata la disposizione secondo cui “la conciliazione, comunque non dà luogo alla restituzione

delle somme già versate all’ente impositore”43 trovando possibilità di accordo

conciliativo anche le liti che sorgono in seguito al diniego espresso o tacito di rimborso; è stata rideterminata la misura delle sanzioni amministrative dovute a

seguito di conciliazione44; il dirigente dell’Ufficio, che diventa parte nel giudizio

tributario, ha il compito di predeterminare le condizioni necessarie per la formulazione o l’accettazione della proposta conciliativa. Non c’è stata, invece, alcuna innovazione riguardo l’ambito di applicazione che resta qualsiasi controversia salva la limitazione temporale già precedentemente prevista, ovvero non può avere luogo oltre la prima udienza davanti la commissione provinciale. Un’ulteriore modifica è stata apportata con l’art.1 della l. 30.12.2004, n. 311, che ha inserito il comma 3 bis: è stato così disciplinato il caso in cui si verifichi l’omesso pagamento anche di una sola delle rate e predispone l’iter che l’Amministrazione

43

Sul punto:

“Riguardo alla restituzione delle somme versate, prima espressamente impedita dal settimo comma della precedente versione dell’art. 48, del D.Lgs. n. 546/1992 è bene sottolineare che la nuova formulazione consente, ora, di ottenere il rimborso delle iscrizioni a ruolo provvisorie nei casi in cui gli importi conciliati siano inferiori a quanto già versato, laddove la norma previgente consentiva la sola compensazione”. Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con adesione, conciliazione e autotutela, Giuffrè, 1999, pag. 138. Inoltre si veda Circolare n. 235/E dell’08/08/1997, in Bancadati fisconline.

44

“Se nel contesto dello stesso avviso di accertamento vengono irrogate sanzioni a titolo diverso, ad esempio per omessa annotazione, per tardivo versamento, per incompleta dichiarazione ecc, è fuor di dubbio che la riduzione vada applicata singolarmente per ogni sanzione corrispondente alle violazioni conciliate. Nulla quaestio inoltre nei casi in cui nella quantificazione della pena pecuniaria, tra il minimo e il massimo edittali, l’ufficio si sia attenuto al minimo o addirittura sia sceso sotto tale soglia in virtù di disposizioni che autorizzano, a vario titolo, la riduzione delle sanzioni: la conciliazione comporterà la riduzione ad un terzo del minimo conteggiato, in rapporto al minor imponibile conciliato.

Il problema potrebbe porsi, invece, qualora l’ufficio si sia attestato su una somma compresa tra il minimo ed il massimo irrogabili: ad esempio, si supponga che venga accertata un’evasione d’imposta per 10 milioni, cui corrispondono pene pecuniarie da 10 a 20 milioni e che vengano irrogate sanzioni per 15 milioni. Si ipotizzi ora che in sede di conciliazione l’imposta venga ridotta da 10 milioni a 5 milioni, con penalità edittale compresa tra 5 e 10 milioni. Ci si potrebbe chiedere, infatti, se la riduzione vada calcolata sul nuovo minimo edittale corrispondente all’imposta conciliata (nell’esempio, un terzo di 5 milioni) ovvero sulla sanzione che sarebbe irrogabile sull’imposta conciliata secondo lo stesso criterio seguito dall’ufficio per determinare la sanzione originaria (nell’esempio, un terzo della metà tra 5 e 10 milioni, vale a dire un terzo di 7,5 milioni). Per quanto la seconda alternativa non sia del tutto illogica, sembra preferibile ritenere che la formula “un terzo delle somme dovute” alluda al terzi del nuovo minimo edittale, se non altro perché, altrimenti, non avrebbe senso il riferimento al minimo e sarebbe bastato il richiamo alle somme dovute”. L. Tosi, La

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deve seguire per iscrivere a ruolo le somme non riscosse45. Successive modifiche si

ebbero con la legge di Stabilità (1/02/2011) riguardo l’applicazione delle sanzioni amministrative: esse divennero applicabili non più nella misura di 1/3, ma del 40% delle somme irrogabili in rapporto dell’ammontare del tributo risultante dalla conciliazione medesima. In ogni caso la misura delle sanzioni non può essere inferiore al 40% dei minimi edittali. La legge specificava che tale modifica sarebbe stata applicabile ai ricorsi presentati a decorrere dal 1° febbraio 2011 e, per evitare

dubbi interpretativi, si assunse la notifica quale “momento propositivo” del ricorso46.

Infine con il D.l. 6.07.2011, n. 98, convertito con modificazioni, nella l. 15.07.2011, n. 111, si è provveduto a semplificare la definizione degli accertamenti tributari prevedendo, per la rateazione delle somme superiori a 50.000 euro, non è più dovuta la prestazione della garanzia, e in tal caso, le conseguenze derivanti dal mancato pagamento anche di una sola delle rate successive alla prima entro il termine di pagamento della rata successiva, determinano che l'ufficio dell'agenzia delle entrate

provvede ad iscrivere a ruolo le residue somme dovute e le sanzioni previste47.

45

Il nuovo comma prevede: “3 bis. In caso di mancato pagamento anche di una sola delle rate diverse dalla prima entro il termine di pagamento della rata successiva, il competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate provvede all’iscrizione a ruolo delle residue somme dovute e della sanzione di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, applicata in misura doppia, sul residuo importo dovuto a titolo di tributo”.

46

Ammettere che il nuovo regime sanzionatorio trovasse applicazione per gli atti emessi dall’Amministrazione in data successiva al 1° febbraio 2011, ma riferiti a periodi d’imposta antecedenti a quello di entrata in vigore della legge di stabilità, equivarrebbe a dare efficacia retroattiva ad una norma entrata in vigore successivamente al periodo d’imposta accertato. Ciò sembrerebbe contravvenire sia con: • l’art.3 del D.Lgs. n. 472/1997 (principio di legalità) - in tema di norme tributarie sanzionatorie – secondo cui:

- nessuno può essere assoggettato a sanzione se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione (comma 1);

- se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diverse, si applica la legge più favorevole (comma 3);

• il principio costituzionale contenuto nell’art. 25, comma 2 della Cost. – in tema di sanzioni amministrative penali – in base al quale: nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.

47 Prima delle suddette modifiche, in caso di opzione per il pagamento rateale delle somme dovute, qualora l'importo delle rate successive alla prima fosse superiore a 50.000 euro, il contribuente era tenuto, ai sensi del comma 3 dell'art. 48 del D.Lgs n. 546/1992, a prestare idonea garanzia. In tal caso la definizione si perfezionava con il versamento della prima rata e con la presentazione della garanzia, e in caso di mancato pagamento anche di una sola delle rate successive, qualora il garante non versasse l'importo garantito entro

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All’esito dell’evoluzione legislativa descritta, l’istituto ha assunto, un assetto molto distante da quello originario e, tralasciando le differenze procedimentali e quelle ascrivibili agli effetti generati, sembra avvicinarsi maggiormente alla conciliazione del processo civile. Si può notare, a questo proposito, come la conciliazione giudiziale abbia ad oggetto tout court la definizione della controversia (mentre nella disciplina iniziale era circoscritta alle questioni tese a determinare la base imponibile): la nuova formulazione non prevede alcuna limitazione sulle questioni o sul contenuto della conciliazione stessa. Inoltre si può osservare come si sia avvicinato il ruolo dei giudici nei due casi, ai quali è inibito di compiere apprezzamenti sugli elementi fattuali e giuridici di composizione della lite.

Infine è possibile rilevare che nel tracciare il nuovo istituto, il legislatore delegante ha attuato un rovesciamento dell’ottica che, inizialmente, aveva subordinato e limitato la possibilità di proporre la conciliazione ai casi in cui era ammesso l’accertamento con adesione: il ruolo di traino è ora assegnato alla conciliazione, cui la disciplina dell’accertamento con adesione deve essere coordinata.

1.3. Conciliabilità delle questioni di diritto

Le divisioni e le incertezze sulla natura giuridica della conciliazione si riflettono sull’individuazione delle questioni concordabili, in particolare, esiste un acceso

dibattito riguardo le questioni di diritto48.

Partendo dal dato normativo dell’articolo 48, non è scontato che la conciliazione possa riguardare solo profili di fatto, meramente valutativi, per i quali è difficile

trenta giorni dalla notificazione di apposito invito, l'ufficio dovesse procedere all'iscrizione a ruolo delle somme dovute sia a carico del contribuente che del garante.

48

Nel sostenere la tesi della natura negoziale della conciliazione G. Petrillo, La conciliazione giudiziale

tributaria e la teoria germanica della ‘intesa effettiva’, in Giust. trib., 2008, pag. 66 e ss., , precisa che

“l’introduzione di istituti che consentano di concordare il contenuto dell’obbligazione tributaria non fanno venir meno i caratteri di irrinunciabilità ed indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in quanto la discrezionalità amministrativa nell’aderirvi rimane sempre vincolata nel fine predeterminato legislativamente”. Altra parte della dottrina, tra cui possiamo annoverare Falsitta, Batistoni Ferrara e Tosi, sostiene la natura transattiva dell’istituto della conciliazione e afferma che, data la caduta di ogni limitazione espressa, allo stato attuale è possibile conciliare anche le questioni di diritto.

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pervenire a definizioni certe ed incontestabili, oppure riguardare anche questioni di diritto concernenti l’interpretazione di norme giuridiche, fino alla qualificazione della fattispecie e dell’obbligazione tributaria. In altri termini, è incerto se la conciliazione giudiziale, oltre a concernere il quantum dell’obbligazione tributaria

(questioni di fatto), possa riguardare anche l’an della stessa (questione di diritto).49

La soluzione restrittiva che limita la conciliazione giudiziale alle questioni di fatto, trova fondamento nell’argomento che, mentre la definizione degli aspetti materiali della fattispecie (questioni di fatto meramente valutative) è caratterizzata da un

incertezza propria e da valutazioni soggettive50, le questioni di diritto non possono

essere rimesse ad apprezzamenti equivoci51, in quanto l’individuazione della corretta

attuazione della norma deve essere certa, e non può essere oggetto di accordi o di

libere intese52. I dubbi maggiori sul punto, sono sollevati nel caso in cui le questioni

49

M. Polano, La conciliazione giudiziale, in Rass. Trib., n. 1, 2002, pag. 32, osserva che, ancora oggi, sulla conciliabilità delle questioni di diritto esiste una “opposizione di tesi apparentemente inconciliabili. Da una parte si sostiene che la conciliazione sulle questioni di diritto è impossibile, perché nell’interpretazione della norma da applicare non sarebbe raggiungibile una soluzione mediana, conciliativa, dall’altra si nota come spesso le questioni di fatto e di diritto siano connesse da non poter distinguere le une dalle altre”.

50 Sostenitori dell’inammissibilità delle ipotesi riflettenti esclusivamente un problema di diritto, sono S. Menchini, Art.48 conciliazione giudiziale, in T. Baglione – S. Menchini – M. Miccinesi, Il nuovo processo

tributario. Commentario, Milano, 1997, pag. 408; P. Russo, Manuale di diritto tributario, Edizione III, Milano,

1999; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Parte generale, Edizione XI, Torino, UTET 2011, pag.379; in senso conforme G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario, 2003, pag. 414; M. Menchini, Conciliazione

giudiziale, in Il nuovo processo tributario, Commentario, a cura di Baglione, Menchini, Miccinesi, 2004, pag.

541; G. Tabet, Luci e ombre del nuovo processo tributario, in Rass. Trib., 1996, pag. 630; P. Russo, Manuale di

diritto tributario, 1999, pag. 513; G. Fransoni, Osservazioni sui rapporti fra conciliazione giudiziale ed accertamento con adesione, in Rass. Trib., 2000, pag. 1819.

51

“Nella legge non è posto alcun limite. Ciò non comporta, per l’amministrazione l’esonero dalle regole che disciplinano il suo agire, come se il legislatore le avesse espressamente conferito poteri di disposizione, simili a quelli di cui dispone un privato. La mancanza dei limiti espressamente previsti dalla legge processuale non significa, dunque, per l’amministrazione, facoltà di comportarsi arbitrariamente perché operano i limiti deducibili dalla particolare natura dell’oggetto della lite e dal rispetto del principio di legalità. Perciò, l’amministrazione non può accedere ad alcuna soluzione che non appaia conforme al diritto e che non rappresenti la giusta composizione della lite”. F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Parte generale, Edizione XI, Torino, UTET 2011, pag.221.

52

I sostenitori della non conciliabilità, affermano che nelle questioni di diritto la giusta soluzione della lite, non è data da soluzioni intermedie, e la conciliazione dovrebbe in tal caso, se ritenuta ammissibile, essere concepita come pura adesione di una parte al punto di vista dell’altra.

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di fatto e quelle di diritto risultino tra loro interconnesse, non permettendo la

scissione dei due aspetti53.

Per tentare di risolvere le criticità sollevate, si può prendere a riferimento la prima formulazione della normativa sulla conciliazione, contenuta all’art. 20 bis del D.P.R. 636/1972, che delimitava l’applicazione dell’istituto alle controversie riguardanti questioni non risolvibili in base a prove certe e dirette. Il legislatore aveva espressamente circoscritto la conciliazione alle ipotesi caratterizzate da insussistenza di congruità e coerenza: solo la mancanza di prove certe e dirette consentiva di giustificare l’applicazione di uno strumento basato sulla libera contrattazione tra contribuente e Amministrazione.

Successivamente il venir meno di ogni limite espresso alla conciliazione, non significò conciliabilità illimitata, in quanto se nulla è disposto in contrario, operano i limiti legati alla particolare natura dell’oggetto della lite e dal rispetto dei principi generali (anche costituzionali); infatti non si può aver conferito agli uffici una discrezionalità senza limiti nella decisione di conciliare una determinata controversia.

In questa prospettiva, il margine di discrezionalità dell’Amministrazione sarà ampio per la valutazione delle questioni di fatto, come ad esempio in caso di divergenza della stima; mentre si restringerà per le questioni di diritto centrate sul contrasto di interpretazione delle norme. Inoltre, l’attività dell’Erario non dovrà essere rigidamente finalizzata al prelievo, ma dovrà ispirarsi a criteri di economicità e di efficienza.

53 “Si può affermare che, molto spesso, l’utilizzo da parte del legislatore tributario di concetti indeterminati (come abitualità, inerenza, pubblicità e rappresentanza, ecc.) rende impossibile distinguere tra questioni di diritto e giudizi relativi al fatto: non è quindi possibile escludere de plano la conciliazione giudiziale sulle questioni di diritto”. C. Consolo - C. Glendi, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, CEDAM, 2005, p. 440.

(23)

23 2. L’articolo 48 nell’attuale formulazione: punti critici

2.1. Ambito oggettivo di applicazione

L’art. 3 bis del D.l. 30/09/2005 n. 203, collegato alla Legge Finanziaria 2006, ha apportato una serie di modifiche in tema di giustizia tributaria che concernono sia la giurisdizione e la configurazione degli organi (D. Lgs. n. 545 del 31.12.1992) che, in alcuni punti, la disciplina del rito processuale (D. Lgs. n. 546 del 31.12.1992), per le modifiche al rito, l’intervento opera sugli articoli 2, 7, 12, 22 e 53.

In merito all’art. 2, inerente l’oggetto della giurisdizione tributaria, la novella è rilevante, in primo luogo, per l’ulteriore ampliamento dell’ambito delle competenze giurisdizionali, operata mediante la modifica del primo e secondo comma. In virtù di tali disposizioni, i Giudici tributari vengono chiamati a decidere sui tributi di ogni genere e specie, “comunque denominati” compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio Sanitario Nazionale, nonché le sovrimposte e le addizionali, le sanzioni amministrative, comunque irrogate da Uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio.

Nell’attuale conformazione dell’istituto, all’48 del D. Lgs. n. 546 del 31/12/1992, possono formare oggetto di conciliazione tutte le controversie tributarie soggette alla giurisdizione delle commissioni tributarie provinciali di cui all’art. 2 del D. Lgs n. 546/1992, ed in particolare anche alla luce della circolare n. 98/E del 23/04/1996, con quelle inerenti le imposte sul reddito, sono comprese tutte le imposte sostitutive nonché le sovraimposte, le imposte addizionali, la sanzioni amministrative e gli interessi salvo le somme dovute all’Amministrazione Finanziaria a titolo di danno per la svalutazione monetaria di importi indebitamente percepiti, le cui controversie

andranno instaurate dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria5455

. Secondo la

54 “La circostanza che da un unico processo verbale di constatazione sono emerse una serie di violazioni comportanti altrettanti procedimenti d’accertamento, alcuni dei quali sottoposti a sindacato giurisdizionale, non implica che gli effetti della conciliazione su un punto possano estendersi anche ai restanti sui quali non è intervenuto l’accordo conciliativo”. A. Buscema – E. Di Giacomo, il processo tributario, II edizione, Giuffrè, 2004, pag. 504.

(24)

24

circolare n. 98/E del 23/04/1996, per consolidata giurisprudenza, rientrano nella competenza delle commissioni tributarie provinciali anche le controversie instauratesi tra sostituto d’imposta e sostituito, in merito alla legittimità e alla misura delle ritenute alla fonte prelevate e versate. Non sono, invece, ricompresi nell’ambito oggettivo della conciliazione giudiziale, a titolo meramente esemplificativo, le tasse automobilistiche, l’imposta di bollo, i dazi e di diritti doganali, le imposte di fabbricazione e l’imposta sugli spettacoli.

La conciliazione giudiziale, in quanto istituto di natura processuale, presuppone che vi sia un giudizio pendente, e la sua corretta instaurazione è conditio sine qua

non per la conciliabilità della controversia, non potendosi conciliare la lite prima che

questa sorga come lite giudiziaria vera e propria56. Si richiede, altresì, che il giudizio

sia stato instaurato ritualmente, e cioè che il ricorso introduttivo sia “ammissibile”, vale a dire, che il ricorso sia tempestivo, abbia i requisiti previsti dalla legge, che sia stato presentato con l’assistenza obbligatoria (ove prescritta) e che sia stato

depositato entro i termini per la costituzione in giudizio57. In difetto di un ricorso

pendente ed ammissibile, la conciliazione è preclusa. Non sono, invece, conciliabili le liti concernenti atti impositivi emessi dall’Agenzia delle Entrate di valore non superiore a ventimila euro ex art. 17 bis, D. Lgs. 546/92, ovvero in tutti i casi in cui è previsto l’istituto del reclamo.

Sembrano escluse dalla conciliazione le liti concernenti tributi di competenza del tribunale, nonostante parte della dottrina ritiene che, per quanto riguarda le cause

55

I giudici tributari hanno affermato che la puntuale determinazione dei confini d’applicabilità della conciliazione deve seguire un criterio di stretta interpretazione, nel caso non trovi applicazione il principio dell’estensione esplicita: C.T.R. Umbria, sez. V, n. 491 del 22/11/2002, in Bancadati Fisconline.

56

Cass. civ., sez. trib., n. 12314 del 06/10/2001, in Bancadati Fisconline; Cass. civ., sez. V, n. 4320 del 26/03/2002, in Bancadati Fisconline. 57

Alcuni autori, come Batistoni Ferrara, Tosi e Miccinesi, fanno discendere da tale constatazione, l’impossibilità di accedere ad una conciliazione che investa anche il tema dell’ammissibilità del ricorso: infatti se l’Ufficio solleva l’eccezione di inammissibilità del ricorso, ed esso è dichiarato ammissibile e allora è possibile esperire la conciliazione; oppure è giudicato non ammissibile, e la conciliazione non è praticabile in quanto il processo non è ritualmente instaurato. Inoltre, il suddetto profilo, è oggetto del controllo del giudice tributario sotto il profilo della “sussistenza dei presupposti e condizioni di ammissibilità per la conciliazione” (come da 5°comma dell’art. 48).

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