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PREMESSA «Difficile immaginare incontro umano complesso e plurimo più carico di implicazioni psicologiche del processo giudiziario»

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PREMESSA

«Difficile immaginare incontro umano complesso e plurimo più carico di implicazioni psicologiche del processo giudiziario»1.

Il tema dell’imputabilità e dell’infermità di mente sono i due argomenti principali che ho voluto sviluppare, i quali ci conducono all’introduzione della perizia psichiatrica, nucleo del presente elaborato. All’imputabilità e al suo intimo rapporto con l’infermità è dedicato il primo capitolo. Il tema è stato affrontato, in primo luogo, in una prospettiva storica: andando ad analizzare quale interpretazione sia stata formulata nel corso del tempo al soggetto “folle reo”, per poi partire dal dettato codicistico del Codice Zanardelli con i suoi artt. 45 e 46 fino ad arrivare al Codice Rocco e all’articolo 85 c.p. Il nostro codice infatti, richiede che il soggetto, affinché sia imputabile, abbia, al momento della commissione del fatto, la capacità di intendere e di volere. Definire cosa si intenda per imputabilità, oggi come oggi, è impresa che risulta particolarmente ostica poiché questa è una delle categorie più controverse del nostro sistema giuridico. Consapevolmente possiamo affermare che, prima di tutto, essa è la capacità di colpevolezza, vale a dire è il presupposto per la rimproverabilità al soggetto di un determinato comportamento da lui posto in essere e presupponendo che imputabilità e colpevolezza sono diverse, ma collegate, ho ripercorso in maniera doverosa la vita di tale ultimo concetto dalla concezione psicologica a quella normativa. In primis, giova rammentare che, secondo la c.d. concezione normativa della colpevolezza, oggi dominante nella dogmatica penalistica, l’imputabilità assurge a presupposto della colpevolezza, non essendo invero possibile rinvenire un nesso in senso psicologico tra fatto e autore del reato se quest’ultimo, nel momento in cui ha agito, non aveva la capacità di comprendere il disvalore della propria condotta (capacità di intendere), ovvero non poteva determinarsi in modo autonomo non possedendo la capacità di volere. In secundis il concetto di imputabilità è concetto giuridico, non

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scientifico; tuttavia il suo accertamento richiede, come si vedrà, necessariamente l’impiego di metodi tecnico scientifici. Per il nostro codice penale non è poi imputabile chi al momento del fatto, versava in una delle seguenti condizioni psico-fisiche: infermità mentale (art. 88 c.p.), cronica intossicazione prodotta da alcool o sostanze stupefacenti (art. 95 c.p.), sordomutismo (art. 96 c.p.), minore degli anni quattordici (art. 97 c.p.). Significativa e controversa è la questione interpretativa concernente il significato da attribuire al tema dell’infermità mentale quale condizione di esclusione o di riduzione dell’imputabilità. La questione rilevante è, in seguito, la determinazione dello stato di mente dell’autore di reato al momento in cui ha commesso il fatto e il riflesso di tale patologia sulla capacità. Nel corso degli anni si è assistito ad una vera e propria evoluzione giurisprudenziale dell’accezione di infermità mentale riversata sul connubio tra psichiatria e diritto, che si è incrinato con la crisi del paradigma medico della malattia mentale. Tuttavia, il concetto di infermità del codice ha bisogno di essere implementato con apporti dalla psichiatria. In particolare, ciò che ha contribuito a mettere in crisi la categoria dell’imputabilità, risiede nella difficoltà di rinviare ad un concetto unitario ed esaustivo di vizio di mente valevole ad escludere (se vizio totale) o scemare grandemente (se vizio parziale) l’imputabilità del reo. La giurisprudenza, disorientata dalla complessità dell’accertamento ha risentito delle forti oscillazioni della scienza psichiatrica sulla nozione di infermità al punto che, nel 2005, si è reso necessario l’intervento della Corte di Cassazione per dirimere il contrasto ermeneutico che caratterizzava da tempo il concetto di malattia mentale. Il riferimento è alla nota Sentenza Raso n. 9163 del 25 gennaio 2005 (depositata in data 8 marzo 2005), con la quale i giudici hanno chiarito che nell’accezione di vizio di mente penalmente rilevante, debbano farsi rientrare anche i gravi disturbi della personalità, purché tra essi e la condotta delittuosa possa individuarsi uno specifico nesso eziologico. Con la citata pronuncia, le SS.UU. hanno adottato una “visione integrata” di malattia mentale, ossia visione che, superando la contrapposizione tra i vari paradigmi sviluppatisi nel corso degli anni passati (medico organicistico, psicologico, sociologico, si supera così la visione eziologica mono causale

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della malattia mentale, pervenendo ad una concezione “multifattoriale integrata”2), ammette l’influenza nel disturbo mentale di tutte le variabili

biologiche, psicologiche, sociali, relazionali, che entrano in gioco nel determinismo della malattia. Più precisamente, le anomalie che influiscono sulla capacità di intendere e volere sono solo le malattie mentali in senso stretto, cioè le insufficienze cerebrali originarie o derivanti da conseguenze di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche. Esulano dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si sostanziano in anomalie del carattere non rilevanti ai fini dell’applicabilità degli art. 88 e 89 c.p. Sulla scia della sentenza Raso ho introdotto il DSM, poiché esso si allinea, menzionando i disturbi della personalità, alla classificazione dei moderni manuali diagnostici diffusi e condivisi dalla comunità di scienziati. E di tale manuale, dopo una breve descrizione, ne ho individuato gli aspetti critici che affiorano chiari nella pratica attuativa. Seguendo il DSM ho indicato alcuni dei più comuni disturbi mentali di significativo rilievo clinico e meritevoli di interesse psichiatrico, che producono disagio o sofferenza o disabilità nel funzionamento sociale portando ad una significativa limitazione della libertà dell’individuo. Conclusa questa parte, ho introdotto il concetto di pericolosità sociale del soggetto infermo di mente, stabilita nel nostro codice penale all’art. 203, inquadrando il suo sviluppo storico e arrivando poi a stabilire che all’imputabile si irroga la pena, al non imputabile socialmente pericoloso si applica la misura di sicurezza e all’imputabile pericoloso si applicano entrambe, questa è la logica del doppio binario che è insita nel nostro sistema penale. Quando si parla di pericolosità sociale non può non emergere l’ostacolo cui ci si trova di fronte e che ho dovuto ben evidenziare, ovvero la difficoltà nonché l’impossibilità di predire la recidiva basandosi su caratteristiche della personalità del delinquente e da questa convinzione si è condotti ad affermare che nel trattamento psichiatrico vi è la tendenza a rifiutare e quasi ad abbandonare il concetto

2PONTI G., Il dibattito sull’imputabilità, in Questioni sulla imputabilità, a cura di Ceretti

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di pericolosità, poiché esso non ha mai assunto alcun carattere di scientificità. Questo comporta che il perito, al quale viene sottoposto un tale interrogativo da parte del giudice (cioè se il soggetto sia socialmente pericoloso), non sia in grado sufficientemente di rispondere. Ho analizzato anche le criticità di un tale accertamento, più nello specifico, nella terza parte del secondo capitolo. Riprendendo in considerazione che a colui il quale sia socialmente pericoloso gli viene applicata una misura di sicurezza, ai sensi dell’art. 202 c.p. ho riportato, in linee generali, i presupposti per la loro applicazione ma, soprattutto, sostenendo l’idea che sarebbe meglio muoversi anche verso un sistema di personalizzazione dell’intervento nei confronti del singolo autore e auspicando nuove iniziative riformatrici, ho descritto quella che è stata la prima misura di sicurezza, ovvero il manicomio giudiziario, la sua evoluzione con gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e il loro dettagliato superamento a partire dalla l. 9/2012 di cui si ricorda l’art. 3-ter fino ad arrivare faticosamente al Decreto Legge n. 52 del 31 marzo 2014, il quale rinvia ulteriormente il termine ultimo per il definitivo superamento degli OPG da parte delle singole Regioni, fissato stavolta per il 31 marzo 2015, avvenuto con l’attuale sistema delle REMS. Circumnavigato il tema dell’imputabilità e descritto quelli che sono i temi principali ad essa connessi, a questa ritorno sul finire del primo capitolo, partendo dalla considerazione che il sapere psichiatrico in nessun caso consente di dare per certo qual è l’orizzonte cognitivo e lo spazio di libertà di una persona, è meglio, forse, ritenere per convenzione che ogni persona è responsabile, lasciando poi al giudice il compito di scegliere e graduare la pena. È impossibile fissare una misura esatta della responsabilità nel senso di capacità del soggetto ad agire diversamente da come ha in realtà agito. Proprio perché la psichiatria non è più in grado di dare risposte certe, si è ipotizzata la strada dell’abolizione dell’imputabilità. Tale esperienza ha difatti “monopolizzato” il dibattito scientifico e culturale, costringendo giuristi e clinici ad accapigliarsi per rinvenire una nozione di imputabilità che sia in grado di soddisfare le esigenze di tutti coloro che operano in campo giudiziario, tuttavia, allo stato attuale, una nozione siffatta non è stata ancora individuata. Da più parti si auspica il superamento di tale dilemma e tante sono state le

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proposte che la dottrina ha avanzato, purtroppo senza ottenere successo, per risolvere questa problematica. Basti pensare ai progetti mai attuati di riforma del codice penale, che si sono succeduti nel corso degli ultimi anni, a partire dal Progetto Grosso del 1998. Analoga sorte, avevano avuto in passato, anche i progetti Riz, Pagliaro, Nordio. Esula dagli obiettivi di questa tesi ricercare un concetto di imputabilità che sia in grado di superare le forti perplessità interpretative ed operative che caratterizzano le vigenti norme codicistiche, ciò nondimeno ho voluto fotografare la

situazione anche facendo opportuni richiami al panorama comparatistico. Il secondo capitolo ha ad oggetto il cuore dell’elaborato ovvero la perizia

psichiatrica sull’autore di reato. La perizia psichiatrica è l’indagine sulla sussistenza di tratti patologici che possono aver influito sulla commissione del fatto. L’indagine verte sulla imputabilità, cioè la perizia è tesa a valutare la capacità di intendere e volere del soggetto accusato del reato. Per esigenze espositive ho preferito dividere il capitolo in tre parti cercando nella prima parte di inquadrare l’argomento nel suo aspetto più generico. Lo scopo primario è quello di individuare che nel moderno processo penale la progressiva evoluzione scientifica e tecnologica ha introdotto metodologie d’indagine che hanno mutato radicalmente l’accertamento giudiziale, imponendo un’elevata specializzazione e provocando un notevole incremento del ricorso al sapere tecnico-scientifico degli “esperti”. L’esperto tecnico-scientifico può essere chiamato ad intervenire dal pubblico ministero o dal difensore, quale consulente tecnico, oppure dal giudice, quale perito. Nello svolgimento della propria attività, quando necessiti di un’indagine implicante particolari conoscenze, il giudice può usufruire dell’ausilio di soggetti qualificati, dotati di conoscenze specialistiche nei settori della scienza, della tecnica o dell’arte, in tal modo realizzando un’integrazione-sostituzione della sua attività. L’attuale codice di procedura penale disciplina l’istituto della perizia nel suo Libro III (Prove), Titolo II (Mezzi di prova), Capo VI (Perizia), quale mezzo di prova per l’accertamento delle condizioni di mente del soggetto periziando che permette di indagare sui motivi che hanno spinto quel soggetto a delinquere, sulla percezione del significato dei suoi atti e sui suoi eventuali rapporti con la vittima per comprendere

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non solo se l’autore del reato fosse, al momento del fatto, astrattamente capace di intendere e di volere, ma anche se l’esistenza di una determinata tipologia di infermità psichica abbia rivestito un ruolo propulsivo nella commissione dello specifico crimine contestato. Abolito ogni dubbio della sua natura di mezzo di prova “neutro”, ho ritenuto opportuno partire dalla considerazione che il codice del 1988 ha ampliato notevolmente l’ambito di applicabilità della perizia. Infatti, il c.p.p. del 1930, all’art. 314, primo comma, recitava: “quando sia necessaria un’indagine che richieda particolari cognizioni di determinate scienze o arti, il giudice può disporre la perizia”. Con questa formula, si lasciava al giudice una mera facoltà di disporla. Successivamente, la l. 18 giugno 1955, n. 517, mediante l’uso dell’indicativo presente “dispone”, sostituì tale facoltà con l’obbligo di disporre il mezzo istruttorio de quo, in presenza di determinati presupposti. L’ampliamento dell’ambito di applicazione della prova peritale si giustifica, da un lato, in virtù della graduale apertura dell’ordinamento verso il sussidio delle scienze nel processo; dall’altro, alla luce di alcuni aspetti innovativi del codice di rito del 1988, tendenzialmente ispirato ad un modello accusatorio nel quale, la perizia, come ogni mezzo di prova, è rimessa all’iniziativa delle parti, poiché anche le nozioni tecnico-scientifiche funzionali al processo devono poter formare oggetto di contraddittorio. Il perito psichiatra diviene arbitro del processo di attribuzione della responsabilità oltreché dell’individuazione della sanità e dell’insanità. Si fa traduttore scientifico per il magistrato, agevolando per questi la comprensione di una scienza che non conosce, di cui non ha competenza tecnica, permettendo così l’introduzione di elementi scientifici all’interno del processo, senza i quali molte volte sarebbe pressoché impossibile giungere ad una decisione corretta e giusta. Data la difficoltà della materia sarebbe alquanto facile cadere in errate commistioni dei ruoli di questi due soggetti; sarà necessario pertanto, mantenere sempre ben distinte le due figure del magistrato e del perito, essendo solo il primo ad aver diritto nell’esprimersi in ultima istanza circa la superfluità o meno della perizia prestata dal secondo e circa l’assoluzione o la condanna dell’imputato. Lo psichiatra dovrà limitarsi a fornire gli elementi necessari per poter giudicare, per poter passare dal

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momento del “classificare” a quello del “comprendere”, nel tentativo di codificare la personalità complessiva e complessa dell’imputato per capire oltre “che cos’ha” anche “chi è”. Presentato l’istituto della perizia, porta d’ingresso del mondo scientifico nel processo penale, ho spostato l’attenzione sul perito e sullo svolgimento della sua attività, scandagliata in diverse fasi e diretta dai quesiti posti dal giudice, domande ben precise a cui devono essere date risposte altrettanto precise, non mancando di sottolineare che queste specifiche domande risalgono agli anni Trenta e si riferiscono pertanto a conoscenze psichiatriche ben lontane dagli sviluppi a cui siamo arrivati negli ultimi decenni, perciò ho posto in dubbio la loro attualità, così come lo hanno fatto gli psichiatri, che auspicano la loro riformulazione domandando espressamente il compimento di una valutazione globale della personalità del soggetto. L’inquadramento nosografico è il primo momento importante della metodologia usata per rispondere ai quesiti del magistrato, punto di partenza nella valutazione dello stato di mente di un soggetto in riferimento ad un fatto giuridicamente rilevante, ogni nosografia è finalizzata alla diagnosi. Dopo questo momento, cosiddetto del “classificare”, il perito passa al momento del “comprendere”, tracciando il profilo personologico dell’imputato in cui la malattia si inserisce, egli diventava investigatore sui motivi che avevano spinto a delinquere, dovendo altresì ricostruire, in chiave retrospettiva, la dinamica del disegno criminoso, studiarne i raccordi tra autore e vittima ed identificarne i gradi di colpevolezza. Deve cercare di capire come l’individuo tende a funzionare da un punto di vista cognitivo, affettivo e comportamentale nell’ambiente in cui è inserito e ricostruire attendibilmente il grado di incidenza del disturbo mentale sull’iter generativo del reato, potendo assumere l’ipotesi che, anche in assenza dell’infermità, il reato sarebbe stato ugualmente commesso. Questi due momenti si integrano nella ricostruzione criminodinamica e criminogenetica del delitto. Ho sottolineato poi l’importanza che va ad assumere il colloquio tra perito e periziando, il momento più intimo e delicato dell’attività, che ho ripreso con considerazioni personali anche nel terzo capitolo. Solo a completamento di tutta questa analisi integrata, espressione del metodo analitico e bio-psico-sociale nonché all’esito di un

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obbiettivo esame psichiatrico, si potranno applicare test psicologici (o reattivi mentali) come ad esempio il test di Rorschach, il Minnesota (M.M.P.I.), il TAT, il W.A.I.S, tecniche di neuroimaging, procedure e metodi creati per individuare e descrivere il comportamento umano, è questo un tentativo per rendere più semplice, scientifico ed oggettivo constatare la presenza di un vizio di mente in capo al soggetto. Una volta che l’esperto abbia svolto la sua indagine diagnostica del disturbo mentale di cui si ritiene affetto il periziando, con l’ausilio dei manuali diagnostici oppure delle più moderne tecniche neuro-scientifiche, spetta al giudice, in quanto responsabile del secondo livello del giudizio sull’imputabilità, decidere sulla responsabilità penale del soggetto. Tale decisione è però tutt’altro che semplice, visto che, quando si parla di disturbi mentali e specialmente di disturbi della personalità, il giudice si trova di fronte ad un panorama di grande incertezza e per quanto gli psichiatri forensi ostentino sicurezza riguardo ai risultati raggiunti, in verità essi operano senza il rigore metodologico e scientifico che esige il contesto del processo penale. Il problema fondamentale, dunque, può essere riscontrato nell’assenza di sicuri criteri di valutazione del contributo degli esperti. Questo mi ha portato a menzionare diverse sentenze3 e tra tutte la sentenza

Daubert del 1993 della Corte Suprema Americana, non essendo prevista comunque nel sistema una regola espressa che indichi quando una prova è scientificamente attendibile, è risultato necessario uno sguardo oltreoceano, da cui ne è derivato un contributo fondamentale sull’individuazione dei criteri di validità scientifica in tema di perizia psichiatrica. La fine della seconda parte del capitolo è dedicata al giudice che, in quanto “peritus peritorum”, non è strettamente vincolato alle conclusioni a cui è pervenuto l’esperto: nel caso in cui ritenga di aderirvi, non ha l’obbligo di fornire, in motivazione, autonoma dimostrazione dell’esattezza scientifica delle tesi sostenute; viceversa, quando intenda discostarsi da queste, dovrà enunciare le ragioni del suo dissenso, con criteri che rispondano a principi scientifici oltreché logici. Queste vesti gli attribuiscono la piena disponibilità di decidere alla luce del proprio personale convincimento anche controversie ad alto (od altissimo) tasso

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di tecnicità e ciò appare sempre più problematico e destinato ad essere qualificato come fictio iurs, nonchè a subire importanti modifiche, che preferiscono vedere la trasformazione del ruolo del giudice, in colui che diviene il “custode del metodo” (gatekeeper), cioè di garante dell’attendibilità delle prove scientifiche e di supervisore dell’accertamento processuale, non un controllo nel merito, che risulterebbe davvero problematico per un soggetto non tecnico, ma una semplice verifica della correttezza del metodo, che può essere condotta alla luce di canoni valutativi generali e comprensibili anche al giurista. Ne ho evidenziato poi le problematiche rispetto all’assunzione di questa veste. La terza ed ultima parte del capitolo è rivolta a dare uno sguardo critico all’istituto della perizia, evidenziando quelle che a colpo d’occhio sono le debolezze più emergenti. Segue poi, per completezza argomentativa, il tema della perizia psicologica/criminologica di cui si occupa il secondo comma dell’art 220 c.p. Emerge l’espressione di un divieto (non tout-court) di condurre una perizia psicologica al fine di effettuare una serie di valutazioni (abitualità o professionalità del reo, tendenza a delinquere, carattere, personalità, qualità psichiche dell’imputato), definendosi per tale la perizia sul carattere e sulla personalità dell’imputato, nonché sulle qualità psichiche indipendenti da cause patologiche. La valutazione sulla personalità del soggetto dovrà essere compiuta dal giudice stesso senza la possibilità di ricorrere ad esperti, se non in caso di presunzione di una patologia mentale, per cui si potrà disporre perizia psichiatrica. Nell’ultimo paragrafo, dal titolo “la psichiatria: una verità senza certezze e il suo rapporto con il diritto” e sfruttando ancora un atteggiamento critico nei riguardi dell’istituto della perizia, ho posto in luce come effettivamente sia in discussione la capacità della psichiatria di fornire risposte attendibili e scientificamente orientate, è in discussione la possibilità di misurare gli spazi di libertà del soggetto e la sua capacità di scelta individuale, è dunque in discussione l’intera psichiatria forense e la sua capacità di fornire pareri tecnici. In poche parole, occorre prendere atto della generale inaccessibilità dei processi mentali, che sfuggirebbero a qualunque ricerca scientifica seria. Possiamo vedere anche la problematica in un’ottica diversa, nel senso che mentre lo psichiatra forense è alla ricerca della sua

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verità probabilistica, il diritto gli chiede certezze ed è qui che la crisi può annidarsi, proprio nelle richieste che il diritto gli pone. E qui, in conclusione, riprendo le parole di Fornari4 per il quale non ha poi senso

alcuno proseguire verso l’impensabile obiettivo di una obiettività asettica e imparziale tanto più la conoscenza scientifica è sempre in continua evoluzione ed evidenze oggettive nelle prove scientifiche non esistono, la mancanza o la grave compromissione della libertà di intendere e volere è ancora in attesa di una dimostrazione scientifica affidabile. Tuttavia, la maggiore sensibilità dei giudici nella comprensione delle azioni delittuose comporta un aumento delle richieste di perizia psichiatrica tale che essa resta, comunque uno strumento lecito e ben voluto. Da ultimo, nel terzo capitolo, per rendere lo studio più attuale, realistico e concreto, ma soprattutto, per conferire un contributo più intimo al lavoro svolto, ho avuto il piacere di svolgere un’intervista al Dott. Gian Piero Lombardi, medico psichiatra presso la ASL Toscana sud-est, coordinatore della attività psichiatriche territoriali di Follonica, il quale mi ha presentato uno dei casi a cui ha partecipato come perito e che ho riportato nella tesi trovando conferma, nella pratica, a tutta la teoria riscontrata nei libri di testo. A chiusura del lavoro ho riportato alcuni stralci di conversazioni sotto forma di “intervista” con lo psichiatra.

4FORNARI U., La perizia psichiatrica tra psicoanalisi e neuroscienze, Università degli

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