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CAPITOLO 4

:

La fortuna del Grand Tour in Toscana

Se l’Italia è il giardino d’Europa, la Toscana è il giardino d’Italia C. Goldoni, Mémoires

Nel XVIII secolo la Toscana includeva nei propri confini geografici il Granducato di Toscana, la

Repubblica di Lucca, che Firenze non riuscì mai a sottomettere, il principato di Piombino e lo stato

dei Presidi, conteso tra Francia e Spagna. Come descritto da Tongiorgi “La regione raramente

rappresenta la meta finale del Grand Tour, ma è piuttosto una tappa, anche se importante, dove

soggiornare, magari lungamente, soprattutto nelle stagioni intermedie”

1

. Per tutta l'epoca del Grand

Tour la regione Toscana, almeno come tappa di passaggio, non conobbe momenti di impasse: i

viaggiatori si recavano direttamente nella capitale del Granducato e, se non lo facevano, muovevano

comunque attraverso la regione. Questo fenomeno si riscontrava in una doppia direzione (da nord a

sud e viceversa), come la posizione centrale del territorio consentiva, già distinguendolo per questo

da altre mete, raggiunte nel corso di un viaggio un'unica volta

2

.

In realtà, secondo la recente storiografia, la centralità della Toscana come tappa privilegiata per i

viaggiatori del Grand Tour si affermò soltanto nel corso dell'Ottocento, riscuotendo prima di allora

un apprezzamento avaro di entusiasmi e “dominato da tinte melanconiche”

3

. Spesso i giudizi dei

viaggiatori settecenteschi mostrarono tratti piuttosto deludenti, registrando elementi negativi come

la crisi demografica e svalutando la ricchezza storico-artistica dei luoghi: era infatti ricorrente sentir

parlare dell'arte e dell'architettura medievale delle città toscane come di un costume “barbaro”

4

.

Il raffinato Lord Burlington, nel 1714, in visita a Pisa, trascurò infatti la città di Firenze

5

e Goethe,

in un primo passaggio toscano, si soffermò nella capitale del Granducato solo per tre ore, smanioso

di arrivare il prima possibile a Roma

6

. George Berkeley, che nel primo ventennio del Settecento si

trattenne in Toscana per cinque mesi, concluse il suo tour nella regione affermando che, visitate

Pisa, Lucca, Pistoia, Firenze, “non ho visto nulla che potrebbe farmi desiderare di trascorrere la vita

fuori dell'Inghilterra”

7

. In conclusione, anche quando la penisola veniva percorsa palmo a palmo,

1 F.TONGIORGI, La Toscana dei viaggiatori, cit., p. 83.

2Anche da un punto di vista geografico, il passaggio attraverso la regione, delimitata ad ovest dal mare e ad est dagli Appennini, risultava pressoché obbligato. Cfr.F.TONGIORGI, La Toscana dei viaggiatori, cit., p. 84. 3 B. MASCILLI MIGLIORINI, L’Italia dell’Italia. Coscienza e mito della Toscana da Montesquieu a Berenson, Ponte alle Grazie, Firenze 1985.

4 A.BRILLI, Quando viaggiare era un'arte. cit., p. 71. Secondo lo studioso, per gli inglesi, le cittadine medievali erano ben meno interessanti rispetto a Genova, Venezia o Roma visto che ne possedevano un equivalente, ai loro occhi, nelle città di Oxford o Cambridge.

5 R.BOYLE (1694-1753), terzo conte di Burlington e quarto conte di Cork, fu un erudito inglese che passò alla storia come l'architetto-conte (in inglese, the architect-earl) o come the Apollo of the Arts, mettendosi in evidenza anche come collezionista e mecenate; si recò in Italia una prima volta nel 1714 e una seconda nel 1719. Nel 1730 Burlington fece stampare una edizione in lingua italiana delle opere di Andrea Palladio, che aveva conosciuto grazie ai suoi viaggi in Italia e realizzò varie opere architettoniche di pregevole rilevanza, anche se fortemente influenzate dal modello di Palladio e di Vincenzo Scamozzi, tra le quali si annovera come primo progetto quello relativo alla sua residenza londinese, la Burlington House.

6 Nella sua prima breve sosta fiorentina, Johann Wolfgang von Goethe visitò senza grande entusiasmo il Duomo e il Battistero; ritornò nella capitale del Granducato soltanto al suo ritorno da Roma, sostandovi alcuni giorni e rivalutando in parte la città.

7 G.BERKELEY (1685-1753), filosofo, studiò a Dublino presso il Trinity College, dove fu anche lettore (dal 1707 al 1724), insegnando di volta in volta greco, ebraico e teologia. Ministro della chiesa anglicana (1710), nel

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con la minuzia di Deseine che nei suoi diari riportava piccole tappe di percorso in cui, accanto a

Siena, Arezzo e Firenze, comparivano Pratolino e l'isola d'Elba

8

, la meta agognata del viaggio

italiano restò a lungo Roma, la capitale del cattolicesimo, in secondo ordine Venezia e la bella

Napoli: il resto d'Italia era considerato semplicemente una tappa di percorso.

In realtà, dalla letteratura odeporica pervenutaci, emergono ritratti appassionati e descrizioni

benevole sulle città toscane che richiamavano gli stranieri, convincendoli a sostare per anni nella

nostra regione: l'inglese Tobias Smollett

9

si stabilì definitivamente a Livorno dove morì nel 1771, il

tedesco Georg Christoph Martini

10

trascorse a Lucca quasi un ventennio, dal 1727 fino alla morte,

avvenuta nel 1745 e lo stesso avvenne per Philip Hackert

11

che morì a Firenze nel 1807, dopo

avervi soggiornato per otto anni. Con l’avanzare del XVIII secolo, leggendo le pagine dei

viaggiatori, si riscontra come l'impressione provocata da una città ricca d’arte e di storia come

Firenze suscitasse entusiasti consensi; dalla seconda metà del Settecento la capitale del Granducato

esplose come centro di interesse soprattutto per i viaggiatori inglesi: al successo della città contribuì

soprattutto il console inglese Horace Mann che, per oltre mezzo secolo, rappresentò in città la

corona britannica. Il territorio toscano conquistò quindi il suo incontestabile primato come meta

privilegiata dai touristes proprio nel secolo d’oro del Grand Tour, trionfando definitivamente sul resto

della penisola anche durante il secolo successivo: decisiva in questo senso fu l'ascesa al trono di

1734 fu nominato vescovo di Cloyne, in Irlanda. Berkely trascorse lunghi periodi della sua vita a Londra e a Oxford; frequenti furono i suoi viaggi in Europa e tra il 1716 e il 1720 soggiornò parecchi mesi in Italia lasciando anche quattro vivaci diari delle sue visite alle più importanti città. Al 1722 risale la presentazione in Parlamento di un suo progetto di evangelizzazione degli indigeni d'America (A proposal for the better supplying of

Churches, 1724) da realizzarsi fondando un collegio alle Bermude; il ricordo del suo viaggio in Italia è

conservato nel Journal of a tour in Italy (1717-18), vol. IV dei Works, Oxford 1871; lo studioso “segna” il passaggio a un nuovo tipo di viaggiatore, che parte alla scoperta dell'Italia senza farsi minimamente influenzare dai luoghi comuni e dagli stereotipi tradizionali. I viaggiatori del Grand Tour avevano sempre considerato Napoli come l'estrema propaggine di un'Italia divisa a metà. L'atteggiamento empirico di Berkeley, i suoi interessi antropologici ed etnografici, la sua curiosità per la botanica e la geologia, oltre a un ideale estetico in cui la natura e il mito si toccano, lo spinsero a scoprire l'altra metà d'Italia, di cui divenne cultore e interprete sensibilissimo.

8 J.F. DESEINE (?-1715), viaggiatore francese vissuto a Roma nel decennio 1688-97. Spinto da un forte interesse per l'Italia, Deseine intraprese il suo viaggio con l'intento di registrare ogni informazione sui luoghi visitati in maniera oggettiva e didascalica, escludendo dal testo ogni commento personale. Dalla sua esperienza nacque Nuoveau voyage d’Italie, contenant une description exacte de toutes les provinces, villes et lieux

considérables, & des Isles qui en dépendent, chez J. Thidy, Lyon 1699.

9 T. G. SMOLLETT (1721-1771), iniziò la sua carriera come chirurgo a Glasgow; nel 1740 esercitò la professione su una nave da guerra, la Chichester, con la quale salpò alla volta della Giamaica. Probabilmente, durante il suo viaggio nelle Indie Occidentali incontrò Ann Lascelles, figlia di un ricco proprietario terriero giamaicano e sua futura moglie. A partire dal 1744-45 Smollett fu a Londra da dove si dedicò essenzialmente alla letteratura. Viaggiò molto, anche a causa dei suoi problemi di salute, che lo spinsero a soggiornare spesso in Italia. Morì a Livorno, presso Villa Gamba; la sua salma riposa ancor oggi nel più antico Cimitero degli Inglesi cittadino, dove si trova anche la tomba della moglie.

10 G.C.MARTINI (1685-1745) di chiara origine italiana, nacque a Langensalza in Sassonia; sceso in Italia intorno al 1722 per un viaggio d’istruzione, com’era in uso in quei tempi, non rientrò mai più in patria. Soggiornò a Livorno per due anni, ove conobbe a fondo la città entrando negli usi ed i costumi labronici, descrivendo i monumenti, il porto e le sue navi, avvicinando i ricchi mercanti ebrei, alcuni dei quali alimentavano, come lui, la passione per le scienze naturali. Una volta deciso a visitare Lucca, vi si trasferì definitivamente, soggiornando prima alla locanda della Luna, poi nella casa della nobile Chiara Busdraghi. 11 P.HACKERT (1737-1807), pittore tedesco, compì fin da giovanissimo numerosi viaggi nel resto d'Europa e in l'Italia dove si stabilì a partire dal 1768. Inizialmente soggiornò a Roma, guadagnandosi rapidamente una grande fama come pittore di paesaggio ed avendo tra i suoi clienti Papa Pio VI e la zarina russa Caterina la Grande. Nel 1786 divenne pittore di corte del re Ferdinando IV di Napoli. Nel 1799, a seguito della fuga del re da Napoli e dell'invasione delle truppe repubblicane francesi, Hackert abbandonò a sua volta il Regno di Napoli per rifugiarsi in Toscana. Nell'ultima fase della sua vita lavorò esclusivamente per committenti privati, alternando però la pittura alla cura di un vasto podere che aveva acquistato nella campagna fiorentina.

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Pietro Leopoldo (Figura 62). Con lui, riconosciuto come grande innovatore in campo istituzionale

ed economico, la Toscana divenne, agli occhi di tutta l’Europa, il luogo di concreta verifica degli

assunti teorici cari all'Illuminismo.

4.1 La viabilità nel territorio toscano

La scarsa attenzione posta dagli ultimi Medici all’amministrazione del territorio aveva generalmente

reso inagibile la viabilità della Toscana, aggravata anche dal fenomeno del brigantaggio nelle zone

più remote dello stato come la Valdichiana e la Maremma. Tracciate senza pianificazione, prive di

regolamenti e di manutenzione, le strade toscane risultavano spesso in stato di semi abbandono.

Con l'avvento dei Lorena si avvertì l'esigenza, già sentito sotto la Reggenza, di potenziare e risarcire

la rete viaria non solo per usi militari, ma anche e principalmente per sviluppare il commercio dei

prodotti agricoli e delle derrate

12

.

“Questa fitta rete appariva generalmente arcaica e trascurata, sia per la struttura 'genetica' che per le

sue condizioni d'uso"

13

. Tuttavia, la condizione generale delle strade toscane, già dal periodo

mediceo e più decisamente in quello lorenese, era giudicata sufficientemente buona dai viaggiatori, e

in questo certo godeva del confronto favorevole con le pessime condizioni di viabilità delle strade

del vicino Stato della Chiesa. I viaggiatori che percorrevano quest'ultime lamentavano il

peggioramento delle condizioni stradali, oltre che restare colpiti dall'improvvisa nudità e sterilità del

terreno che contrastava con la florida campagna toscana. Infatti, grazie all’impegno della dinastia

lorenese, tra XVIII e XIX secolo venne riallestito un nuovo sistema di vie carrozzabili, al fine di

rendere più agevole il transito di uomini e merci nel territorio toscano. Tra le più importanti

realizzazioni di epoca lorenese sono da ricordare la prima carrozzabile Firenze-Bologna attraverso il

passo della Futa, la via transappenninica tra Firenze e Modena, mentre altre importanti strade

furono radicalmente migliorate nel percorso

14

.

12 Il primo regolamento organico per il servizio di posta dei corrieri e dei vetturini risale al 1746. Le strade furono allora classificate in base alla competenza amministrativa per la loro gestione: maestre o regie postali (di lunga comunicazione a cura del governo), comunitative (che collegavano le varie città o paesi, a cura dei comuni), vicinali (tra varie proprietà, a cura dei proprietari che le usavano). La loro tecnica costruttiva variava secondo le esigenze distinguendole in lastricate (solo per le vie delle grandi città), selciate (fatte con pezzi di macigno; erano le più conosciute), alla "rinfusa" con pietre a secco o con calcina per resistere all'erosione. In pianura invece erano semplicemente massicciate di terra battuta. Le strade maestre erano principalmente adibite al trasporto della posta e dei viaggiatori con le diligenze e come tali erano servite da luoghi di sosta per il cambio dei cavalli e il ristoro dei passeggeri con osterie e locande. Nel piano lorenese di recupero della rete stradale ovviamente i maggiori sforzi si orientarono verso le strade postali maestre. Cfr. L. ROMBAI,Strade e comunicazioni nella Toscana Lorenese, in Vie e mezzi di comunicazione nella Toscana dei Lorena, Catalogo della Mostra,

Fiesole 3-23 dicembre 1989, pp.16-17. 13 IBIDEM.

14 IVI, p. 18. La manutenzione della strade e le modifiche alla viabilità furono oggetto di importanti migliorie, diventando un capitolo portante della politica lorenese. Tra le principali strade maestre di età medicea poi divenute in età lorenese "Regie Maestre Postali" si ricordano:

-via Bolognese (oggi SS. 65): conduceva da Firenze, uscendo da Porta San Gallo (Firenze) a Bologna, attraverso il Passo della Futa; fu la via postale più antica tracciata nell'Appennino tosco-emiliano. Da mulattiera fu trasformata in carrozzabile con la costruzione del nuovo tratto osteria di Novoli-Pietramala e poi da Porta San Gallo oltre le Filigare fino al confine pontificio. I lavori durarono dal 1749 al 1752, mentre in territorio papale dal 1759 al 1764 a causa delle difficoltà nelle trattative tra i due governi per aprire una comunicazione più agevole e le frequenti proteste delle comunità di Scarperia e Firenzuola che si videro così

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tagliate fuori dalla direttrice commerciale. Nel tratto toscano furono aperte sei poste per il cambio dei cavalli: Fontebuona, Cafaggiolo, Montecarelli, Futa (sede di dogana), Covigliaio, Filigare.

- via Romana (oggi SS. 2, Cassia): andava da Firenze (Porta Romana) fino a Siena (Porta Camollia) per uscire di nuovo da Porta Romana e correre fino a Radicofani, Ponte Centino sul torrente Evella ed entrare in territorio papale. Nel 1757 il reggente Antoniotto Botta-Adorno decise di ristrutturarla senza modificarne il tracciato; i lavori continuarono dal 1759 fino al 1763, finché nel 1783-90, furono costruiti i ponti in muratura sui vari fiumi e torrenti che attraversava (Ombrone, Orcia). Nei confini toscani furono aperte 15 poste per il cambio: Galluzzo, San Casciano, Tavarnelle, Poggibonsi, Staggia, Castiglioncello di Monteriggioni, Siena, Monteroni d'Arbia, Buonconvento, Torrenieri, La Poderina, Ricorsi, Le Conie, Radicofani, Torricella; - via Aretina (oggi SS. 69 e 71): andava da Firenze (Porta La Croce, Pontassieve, Incisa, San Giovanni Valdarno, Figline Valdarno fino ad Arezzo, passava sotto Cortona (Camucia) ed entrava nei territori papali presso il lago Trasimeno. I primi lavori di ristrutturazione furono iniziati nel 1761 da Porta San Niccolò al borgo di Incisa, tagliando fuori l'antico tratto che partiva da Firenze uscendo da Porta San Nicolò per San Donato in Collina, Bagno a Ripoli, Incisa, per essere terminati sotto Pietro Leopoldo; sul suo tracciato furono dislocate le poste di Pontassieve, Incisa, Figline, San Giovanni, Montevarchi, Lèvane, Ponticino, Arezzo, Pulicciano, Castiglion Fiorentino, Camucìa, Terontola;

- via Pisana (oggi SS. 67): iniziava da Firenze (Porta San Frediano) per arrivare lungo il Valdarno inferiore alla Porta Fiorentina a Pisa. Da qui si diramava (Porta Santa Maria) per Pietrasanta a nord e sud (Porta a Mare)per Livorno(Porta a Pisa). Diversi restauri con varianti di tracciato si ebbero negli anni 1754-1757 e poi nel 1771 al confine con la provincia pisana (ponte alla Cecinella) e alla macchia di Tombolo a nord di Livorno (1777). Furono costruiti anche numerosi ponti sui torrenti che attraversava; aveva molte fermate di posta: Lastra a Signa, Montelupo, Cortenuova, Scala, San Romano, Castel del Bosco, Pontedera, Cascina, Riglione, Pisa, verso nord al confine lucchese con Torre del lago, verso sud San Piero a Grado e Livorno;

- via Lucchese: da Pisa (Porta a Lucca) andava ai Bagni di San Giuliano e passando "sotto monte" raggiungeva Rigoli, Ripafratta per entrare nello stato lucchese presso Cerasomma a 4 km dalla città con le poste di San Giuliano, Ripafratta. Si denominava via Lucchese anche la strada che da Firenze (Porta al Prato) conduceva al confine lucchese presso Pescia con le poste di Castello, Sesto fiorentino, Calenzano, Prato, Agliana, Pistoia (Porta Fiorentina) e con la variante Peretola, San Piero, Poggio a Caiano, Olmi, Pistoia;

- via Versiliese (oggi SS. 1 e 62): coincideva con la via pisana fino a Pietrasanta (exclave toscana) per andare poi, presso il Lago di Porta a Montignoso ed entrare nel Ducato di Massa. Superata Avenza entra in territorio genovese. Una diramazione da Sarzana portava in Lunigiana e Pontremoli, divenendo una mulattiera. Solo nel 1809 fu iniziata una carrozzabile per la Cisa che fu completata solo nel 1859;

- via Traversa (oggi SS. 429): si diramava dalla strada pisana presso la località "Osteria bianca" a Ponte a Elsa, vicino Empoli, risaliva la Valdelsa fino a Poggibonsi dove si ricongiungeva con la Romana. Fu tracciata in età medicea per il trasporto delle derrate, attraversando i vari borghi agricoli da Castelfiorentino a Certaldo fino a Poggibonsi;

- via del Littorale o dei Cavalleggeri (oggi SS. 1 e via della Principessa): partiva da Livorno (Porta ai Cappuccini) e seguiva la linea della costa fino a Torre Nuova dopo San Vincenzo, presso il confine con il Principato di Piombino. Aveva funzioni eminentemente militari, ad uso dei Cavalleggeri della costa. Era percorribile solo a cavallo, ma dal 1776 è inclusa nelle "Strade Regie o Maestre" con la costruzione di numerosi ponticelli per l'attraversamento dei torrenti. A Torre Nuova un imbarco portava a Portoferraio; - via Lauretana: restaurata e rettificata da Pietro Leopoldo;

- via Grossetana: andava da Siena (Porta San Marco) fino a Paganico, Batignano, e Grosseto. Detta anche "consolare grossetana" ed era in uso dal 1626. Anche tale strada fu restaurata nel 1765, con la sostituzione di ponti di legno con quelli di muratura;

- via dell'Abetone (oggi SS. 12 e 66): fu tracciata con scopi militari e strategici per volontà del governo austriaco che voleva unire i propri stati con i feudi imperiali di Mantova, Modena e la Toscana. Il tratto modenese fu aperto nel 1777 da Pistoia (Porta al Borgo), risalendo verso le Piastre, Campo Tizzoro, San Marcello Pistoiese, Piano Asinatico fino Boscolungo presso il valico dell'Abetone dove tuttora due piramidi in pietra segnano i confini degli stati modenese e toscano. Nel 1778 divenne carrozzabile con inaugurazione della strada nel 1781. L'opera fu considerata ciclopica per il tempo essendo per molti tratti scavata nella roccia e con la costruzione di due arditi ponti sulla Lima e sul Sestaione, quest'ultimo con un'altezza di 28 metri; - via Pistoiese: andava da Pistoia al valico di Serravalle e discendeva nella Val di Nievole fino a Borgo a Buggiano;

- via della Valdinievole: risarcita con nuovi tratti ed unioni con strade preesistenti, fu aperta nel 1783. Andava da Pistoia (Porta Lucchese) a Serravalle, Borgo a Buggiano, Bellavista, Poggio di San Colomba (Santa Maria a Monte)e Pescia fino al confine lucchese (dogana del Cardino);

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Dal punto di vista delle vie d’acqua, il fiume Arno si configurava come una vera e propria spina

dorsale per la regione, non solo perché la sua fertile valle costituiva una delle zone agricole a

maggiore intensività colturale, ma anche perché collegava, con l'aiuto del Canale dei Navicelli nel

suo tratto finale, le due città economicamente più importanti del Granducato: Firenze e Livorno.

In realtà, l'Arno non fu mai una via di collegamento e comunicazione privilegiata per i viaggiatori;

per i toscani stessi esso era considerato, come riportano le parole dell’ingegnere Ferdinando

Morozzi, autore di importanti carte del Granducato, un "possente nemico" che passava "nel mezzo

della bella capitale di Toscana, alla quale oltre all'ornamento esser dovrebbe di diletto, e non di

terrore, come purtroppo per nostra fatal disgrazia egli è"

15

. La variabilità delle condizioni

meteorologiche era tra le ragioni della scarsa preferenza per la scelta di questo tipo di viabilità. A

Peter Beckford venne suggerita ma, per timore delle piogge, preferì quella di terra: “L'Arno era in

piena e ci dissero che ci avrebbe trasportato alla stessa velocità del postale. Si segue la corrente, e in

una barca coperta. D'estate può non essere spiacevole; ma, nella stagione delle piogge, avrei

piuttosto preferito essere un uovo nel ventre di un'anatra. Andammo col postale”

16

.

Un celebre tragitto fluviale, da Firenze a Pisa, fu quello di Montfaucon, il monaco benedettino che

guardò all'Italia allo scopo di completare i suoi studi intorno alla figura di Giovanni Crisostomo.

Egli scriveva nel 1698:

“mercoledì 30 marzo, quando tutti i Cavalieri dell'Ordine di Santo Stefano vi si recavano per la processione, ci imbarcammo alla volta di Pisa; le rive del fiume sono belle in alcuni luoghi, in altri sono costituite da colline aride. Il fiume è largo in pianura, ma si restringe molto tra le montagne. Passata Firenze, scendendo per nove o dieci miglia, si trovano una grande quantità di case di campagna. Si passa poi sotto il ponte di Segna [Signa] poco dopo un borgo. Si vede anche una casa di campagna del Granduca chiamata Ambrosiana e il borgo di Empoli; più in basso, vicino ad un piccolo fiume che viene da Lucca e che attraverso un lago si getta in Arno, si trova il borgo di Bantino [Bientina] e ancora più a valle quello di Cascina. Giungemmo a Pisa alle due di notte”17.

- via della Romagna: iniziata nel 1783 come barrocciabile partiva da Firenze per arrivare a Pontassieve e, risalendo la valle, raggiungeva San Godenzo, quando nel 1788 i lavori di prosecuzione verso le valli romagnole fu interrotta. Il tratto da Ponticino a Castrocaro Terme e Terra del Sole fino al confine pontificio fu terminato nel 1836.

15 F.MOROZZI, Sullo stato antico e moderno del fiume Arno, 1766.

16 P.BECKFORD,(1740–1811),ricco nobile inglese, alla morte del padre avvenuta nel 1765, ereditò la sua tenuta in Steepleton Iwerne vicino a Blandford Forum nel Dorset, e partì per la sua prima visita in Italia. Sulla strada incontrò Voltaire e Rousseau a Ginevra. Nel 1766 visitò Roma, dove fu scortato da James Byres, acquistò diverse antichità, e commissionò un ritratto moderno (probabilmente il famoso ritratto di Beckford di Pompeo Batoni). Fu così impressionato dal talento del giovane pianista Muzio Clementi che ne convinse il padre a lasciarlo partire per la sua tenuta in Gran Bretagna per sette anni. fornì pagamenti trimestrali per sponsorizzare l'educazione musicale di Muzio fino a quando il bambino raggiunse l'età di 21 anni. Nel 1783, a causa del peggioramento dello stato di salute di sua moglie, Beckford tornò in Italia con la sua famiglia, ma sia la moglie che la giovane figlia morirono a Firenze; tornò in Gran Bretagna nel 1799 e nel 1805 pubblicò le sue

Familiar Letters from Italy to a Friend in England, in 2 volumi.

17 B. MOUNTFAUCON (1655-1741) monaco benedettino francese, fu uno studioso ed un erudito, curò l'edizione delle opere dei Padri della Chiesa ed è considerato il fondatore della paleografia greca; è inoltre considerato uno dei padri della moderna archeologia. Nel 1698 intraprese un viaggio in Italia, che egli percorse alla ricerca di manoscritti per la pubblicazione delle opere di San Giovanni Crisostomo. Visitò le biblioteche di Milano, Modena, Venezia, Ravenna, Bologna, Firenze, Montecassino e soprattutto Roma, da cui trasse The antiquities of Italy. Being the travels of the learned and reverend Bernard de Mountfacon, from Paris through

(6)

123

In generale i Lorena non mancarono di provvedere alla rivitalizzazione delle vie d’acqua,

restaurando e rendendo meglio navigabile il canale dei Navicelli

18

, quello di Ripafratta, il lago padule

di Bientina e quello di Fucecchio; “grazie alla liberalizzazione delle attività di sbarco e di imbarco

nei numerosi piccoli scali ubicati in queste zone, l’idrovia Livorno-Pisa-Arno-Valdinievole- Ponte a

Signa e (nella stagione invernale almeno) Firenze, tornò ad essere suscettibile alla navigazione delle

piccole barche”

19

. In Valdichiana fu scavato il canale Maestro della Chiana

20

, mentre nel padule di

Fucecchio venne realizzato l’emissario canale del Terzo: era percorso dai navicelli che dall'Arno lo

risalivano fino al padule ai porti delle Case e delle Morette. Da qui una mulattiera, poi ‘barrocciabile’

(1783) conduceva a soma le merci fino a Monsummano Terme e Pistoia. Anche l’Ombrone era

parzialmente navigabile con i navicelli dalla foce fino alla dogana di Torre della Trappola e da qui la

merce prendeva la via di terra fino a Grosseto.

Le modalità di ingresso in Toscana erano molteplici, a seconda della città da cui il viaggiatore

proveniva. Tra le diverse opportunità, alcune erano sicuramente più frequentate di altre: la più

battuta era la strada che raggiungeva direttamente Firenze dal nord Italia e da lì procedeva per la

visita delle città costiere, lasciando poi la regione attraverso Siena e la via Francigena oppure

attraverso l'asse Arezzo-Perugia. Altra via privilegiata di accesso alla regione era attraverso il mare,

con sbarco a Livorno o più raramente a Viareggio.

Nel Settecento, Firenze si imponeva chiaramente quale centro di gravità della vita economica e

sociale regionale, come ben risultava dalla disposizione delle principali arterie viarie che furono

create all'interno del Granducato. Così, "la viabilità maggiore della Toscana dipartiva quasi tutta da

Firenze: ponendo la città al centro di un ipotetico cerchio, sei grandi arterie stradali si diramano

come altrettanti raggi verso zone di interesse vitale per lo stato, quali Pisa, Siena, Arezzo, la

Romagna, il Mugello e per questo Bologna, la Valdinievole e Altopascio con il padule di Bientina

attraverso Pistoia"

21

.

La via più frequentata per l’accesso in Toscana era quella che proveniva da Bologna. Fin dalla

seconda metà del XVI secolo la strada da Firenze a Bologna passante per il Giogo fu considerata

postale e tale rimase fino all’apertura della nuova arteria della Futa. Prima dell’apertura di questa

nuova viabilità, il percorso tra le due città richiedeva almeno due giorni, veniva fatto a cavallo e, per

alcuni tratti, a dorso di mulo o a piedi. La nuova via “bolognese” venne completamente realizzata

nel 1752: il viaggio, che fino ad allora sarebbe durato due o tre giorni, poteva essere effettuato in un

solo giorno valicando le montagne per i passi della Raticosa e della Futa (Figura 63).

Celebre il racconto di Charles de Brosses

che descrisse il suo arrivo da Bologna a Firenze in una

sola giornata con cinquantacinque miglia di cammino; una giornata di posta delle più dure, tuttavia,

a causa delle difficoltà delle strade. Salire e scendere dagli Appennini non era infatti cosa facile e

sebbene quelli che si incontravano procedendo nello stato pontificio “sono dei bravi diavolacci di

18 Il canale dei Navicelli venne realizzato su un antico tracciato medievale tra il 1563 e il 1575 per congiungere il porto di Livorno con Pisa; qui, passata la dogana, con una serie di chiuse, il naviglio veniva immesso in Arno. A volte veniva usato anche dai viaggiatori per evitare il tratto della strada pisana del Tombolo, disastrato e paludoso. Partito da Livorno, il navicello impiegava quasi cinque ore per arrivare a Pisa.

19 L.ROMBAI, Strade e comunicazioni nella Toscana Lorenese, cit., p. 22.

20 Scavato per drenare la Valdichiana dalle vaste paludi che la ricoprivano, col tempo divenne un canale ad uso commerciale essendo navigabile per circa trenta miglia. Vi si affacciavano i porti di Torrita di Siena, di Cortona e scalo di Foiano (località Ponte presso Foiano), il porto di Brolio, quello di Cesa, quello di Puliciano, di Pieve al Toppo, di Ponte alla Nave, dove le merci erano sbarcate e spedite a soma via terra ad Arezzo e Firenze.

21 L.ROMBAI, Bonifiche, viabilità e politiche del territorio, in V. Baldacci (a cura di), Le riforme di Pietro Leopoldo e la

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124

Appennini”, quelli del versante toscano “sono più difficili da abbordare”, rustici e selvaggi

22

. Il

racconto di De Brosses si inserisce in una trafila di fonti lunghissima che, da Montaigne in poi,

trattò con monotona sistematicità il tema del contrasto tra il brullo Appennino e la ridente

campagna toscana

23

. Gran parte delle fonti pervenuteci tendono a ricordarci che, sebbene sicura,

quella via di accesso alla Toscana non fosse comoda nel senso moderno della parola, sebbene poi lo

fosse in paragone ad altre

24

. La nuova strada era stata voluta principalmente dai Granduchi toscani

che, appartenendo alla famiglia imperiale asburgica, desideravano un collegamento veloce ed

efficiente tra Firenze e Vienna. Si trattava di un percorso che presentava diverse risorse

paesaggistiche: dalla rigogliosa campagna bolognese, inerpicandosi sui fianchi appenninici, alle

distese dei campi si sostituivano quelle di boschi, querce e castagni. Le mete che maggiormente

colpivano i viaggiatori erano Fiorenzuola, ma soprattutto Pietramala, con le sue fiammelle bluastre

che scaturivano come per incanto dal terreno, suscitando le più disparate congetture, fino a che

Alessandro Volta non dimostrò, nel 1780, essere provocate dalla fuoriuscita naturale di gas

metano

25

; un’altra meta di grande attrazione era San Piero a Sieve, monastero dei frati trappisti

celebri per la rigidità della regola e, quelli toscani, per la fabbricazione dei sigilli. Dalle alture si

scorgeva la vallata in cui spiccava la città di Firenze, circondata dalle ville e da una ridente

campagna. Il panorama era così piacevole alla vista che molti viaggiatori, una volta giunti in città,

rivivevano il fascino della veduta salendo sul campanile di Giotto.

Ai viaggiatori che non giungevano a Firenze via Bologna si presentavano diverse scelte. Tra le più

frequenti vi erano i passaggi via mare: il porto favorito era ovviamente quello di Livorno. Gli

esempi si moltiplicano in tutte le età del Grand Tour, facendo registrare una predominanza della

partenza dalla Liguria, con a capo Genova

26

. La città labronica era vivace, avvezza ai forestieri,

accogliente con essi, tanto che molte sono le comunità straniere fiorenti e ben inserite nel tessuto

cittadino; essa offriva un porto ben attrezzato, accogliente, che garantiva una grande facilità di

22 C.DE BROSSES, Viaggio in Italia, cit., lettera XXIII, pp. 187-190.

23 Una considerazione importante va fatta sulla mentalità dei viaggiatori del Settecento: sensibile al paesaggio agrario per quanto di ordine e razionalità in esso l'uomo esprimeva, essa era restia a farsi affascinare dalla selvatichezza e dalla varietà indisciplinata del paesaggio montano. Mentre miglioravano le condizioni infrastrutturali, dunque, il mutamento di sensibilità determinava anche un nuovo affetto verso questi scenari fino ad allora considerati aspri, difficili, scabrosi.

24 Come già sopra accennato, vi sono, a spiegazione di questo fatto, ragioni anche politiche. I prevalenti interessi militari propri agli stati di antico regime, infatti, consigliavano di mantenere le strade di valico in condizioni di precarietà piuttosto che occuparsi degli interessi commerciali che furono di pungolo ad un loro successivo miglioramento, dalla fine del secolo in poi. Cfr. L.ROMBAI, Bonifiche, viabilità e politiche del territorio, cit., p. 24.

25 A.BONCOMPAGNI, Il Gran Tour nel Mugello. Itinerari e percezione del paesaggio nei viaggiatori inglesi dal XVII al

XIX secolo, Centro Editoriale Toscano 1998. Quello de i “fuochi di Pietramala sarà il fulcro di tutti gli interessi

scientifici dei viaggiatori del XVIII secolo, la pietra di paragone su cui si misureranno le tendenze illuministiche dell’epoca”. In una guida romana del Settecento troviamo questa descrizione del fenomeno: “In questo viaggio per mezzo a montagne asprissime non v’è di osservabile se non tra le Filicaje, e Covigliajo nella Villa di Pietramala un fuoco, che i Paesani chiamano fuoco di legno, fuoco si vivo, spezialmente, se il tempo è piovoso, e buia la notte, che illumina le vicine montagne, e quando il tempo è disposto a tuoni, la fiamma rafforza la sua vivacità. Esce questo fuoco dal pendio di una montagna, e alle volte si vede uscire in globi, saltellando intanto pel resto del terreno alcune fiammelle turchine, e leggiere. Il Targioni crede che quello sia un avanzo di Vulcano spento. V’ha ancora un miglio, e mezzo da Pietramala presso la casa, che dicesi Collinella, una fontana chiamata acqua buja, la quale è fredda, e sembra nondimeno bollire, e se si appressa un cerino acceso, ò altro lume, si accende subito come l’Acquavita”; cfr. F.TIROLI, La vera guida per

chi viaggia in Italia, Giunchi, Roma 1775, p. 168.

26 A Livorno si poteva eccezionalmente arrivare anche dal sud: fu il caso di Baxter (1825-1890) uomo d'affari scozzese e politico liberale che, nel 1849 (in un periodo in cui il sud era prepotentemente entrato nella mitologia del viaggio italiano) vi giunse da Civitavecchia; W.E. BAXTER, Impressions of central and southern Europe,

(8)

125

collegamenti grazie alla sua importanza come scalo commerciale. Un esempio tra i tanti è quello

dell'abate Gaultier (del quale il pronipote Rogeron racconta il viaggio), che arrivò in Toscana nel

1796 attraverso la via di mare provenendo da Genova-Lerici e toccando Livorno in feluca

27

.

Un’altra scelta, non meno usuale, prevedeva il passaggio attraverso una città considerata

tradizionalmente 'minore' come Viareggio, cittadina marinara appartenente alla Repubblica di

Lucca, che si raggiungeva via mare più rapidamente di quanto non si raggiungesse il porto

labronico. Bergeret (1773), che arrivò in Toscana provenendo da Genova, sbarcò proprio a

Viareggio, così come Duclos tre anni dopo, nel suo primo passaggio in Toscana

28

.

Un’altra via di accesso possibile, almeno fino all'età della Restaurazione, era quella che da Genova

conduceva a Lucca-Pisa via terra attraversando Chiavari e Sestri; da qui, una volta oltrepassato il

villaggio di Bracco, il paesaggio diventava sempre più severo, almeno fino a Borghetto, dove si

faceva più dolce fino a giungere nel golfo di La Spezia per trovare riposo nelle confortevoli stanze

dell' Hotel de Londres di Sarzana. Da questa ridente cittadina, con due tappe (Massa e poi Lucca o

Pisa), si giungeva a Firenze. Nonostante le condizioni proibitive della strada nella prima metà del

XVIII secolo

29

, vi furono alcuni viaggiatori che scelsero comunque questa via per raggiungere la

Toscana dopo il loro arrivo in Italia: fra di essi, nel 1728, Montesquieu, poi, quasi quarant'anni

dopo, Tobias Smollett

30

nel 1765 e Shinkel nel 1824.

Come per Bergeret nel 1774

31

, di ritorno da Roma, la capitale del Granducato poteva essere visitata

una sola volta oppure, più raramente, costituire la tappa di un rinnovato soggiorno già sperimentato

in andata. L'intenzione dei viaggiatori era, spesso, quella di sostarvi per riposare e riprendere il

cammino, ponendo l’attenzione su ciò che si era precedentemente tralasciato o approfondendone la

conoscenza. Borel, viaggiatore del 1823-24, pur passando per Firenze nel corso del suo tragitto di

andata, rimandò la visita della città ad un secondo momento, soddisfatto il suo desiderio di vedere

Roma

32

; la visitò l'anno successivo al suo arrivo in Italia, giungendovi attraverso la rotta

Siena-Poggibonsi. Duclos invece sbarcò in Toscana il 27 dicembre 1766, visitò Firenze solo nel tragitto di

27 G. ROGERON, Séjour de mon grand-oncle, Pierre Gaultier en Espagne, en Italie et dans le Tyrol (1791-1802), J. Siraudeau, Angers 1912. Tre giorni furono dedicati alla visita di Livorno, tre a quella di Pisa, raggiunta sempre per via d’acqua, molti di più a quella di Firenze, dove arrivò in vettura.

28 C.P.DUCLOS (1704–1772), scrittore e storico francese, condusse una vita mondana a Parigi e venne eletto all'Accademia di Francia, di cui ricoprì anche la carica di segretario perpetuo. Esordì con il romanzo La storia

della baronessa Luz (1741) e fu anche autore di saggi. Fu per sei anni sindaco della sua città natale, Dinan, e nel

1750 (grazie alla protezione di Madame de Pompadour e di Luigi XV) divenne storiografo di corte: furono pubblicate postume le sue Memorie segrete sul regno di Luigi XIV (1790) e il Voyage en Italie, (1791), resoconto di un suo viaggio del 1766. Il progetto di un viaggio in Italia si concretizzò per Charles Duclos Pinot a sessant'anni passati, spinto dal desiderio comune a tutte le persone di lettere di conoscere la patria delle antichità e delle arti e visitare i luoghi un tempo abitati dai "maestri dell'Universo". Duclos, accompagnato da un fedele servitore, partì da Parigi il 16 novembre 1766 alla volta di Lione. Dopo aver fatto tappa ad Avignone, Marsiglia e Tolone, Duclos giunse ad Antibes, dove il 15 dicembre si imbarcò su una feluca diretta verso Genova. Da Genova, sempre a bordo di una feluca, procedette verso Viareggio ("Via Reggio"), "joli village de la republique de Lucques" (p. 31).

29 D.STERPOS, Le strade di grande comunicazione della Toscana verso il 1790, Firenze 1977.

30 T.SMOLLETT, Travels through France and Italy, Londra 1766, lo ricorda così: “dopo essere entrati in Toscana attraversammo una bella e grande foresta di querce, che ci sarebbe piaciuta ancor di più se non avessimo temuto d'esser sorpresi dalla notte o dai malandrini. La penultima sosta della giornata fu Viareggio, specie di porto di mare sul Tirreno e che appartiene a Lucca. Le strade sono poco buone e gli alloggi orribili”. Per la traduzione di questo passaggio, cfr. F.TONGIORGI, La Toscana dei viaggiatori: una tappa nel Grand Tour, in La

Toscana descritta, cit., p. 87.

31 P.J.BERGERET DE GRANDCOURT ONEISME,J.H.FRAGONARD,Journal Inedit d’un Voyage En Italie,

1773-1774, cit.

(9)

126

ritorno da Roma, passando per Siena il 24 aprile del 1767 e trattenendovisi per tre giorni (25-28

aprile 1767) prima di ripartire per Bologna, non senza aver visto i fuochi di Pietramala

33

.

Coloro che da Firenze decidevano di puntare direttamente su Roma, avevano dinanzi tre percorsi

alternativi: il primo collegamento era via mare, dal porto di Livorno a Civitavecchia; gli altri due

percorsi, via terra, erano la via di Siena e quella di Arezzo; quest’ultimo divenne un percorso d’uso

comune dopo la metà del Settecento con la bonifica della Valdichiana voluta dal governo lorenese.

La via di Siena era invece uno dei tracciati più antichi nella tradizione del viaggio italiano, passando

attraverso la Francigena, l’antica via dei pellegrini. In cammino verso una la meta più ambita, il

viaggiatore percorreva la Toscana toccando nuovi centri che cominciarono lentamente ad entrare

nel sistema degli itinerari più amati, divenendo a loro volta luoghi topici che andarono ad

incrementare la fama della regione.

Il percorso via mare era sicuramente il più veloce, ma non sempre il più confortevole, esposto ai

capricci metereologici e a disagi di ogni genere compreso “il non improbabile rischio di

un’aggressione corsara. Di contro”- come scrive Tongiorgi- “esso offre l’incantevole spettacolo

delle isole dell’arcipelago toscano-descritte con efficacia da Labat, che ha optato per tale soluzione-

ma prive di fascino per chi si propone ben altre e più colte soste”

34

.

Nel 1785 Dupaty descriveva il passaggio dalla Toscana a Roma come un progressivo sbiadire della

bellezza della natura: “il terreno diviene ineguale, la coltivazione monotona, la terra sterile, gli

uomini rari, le donne brutte, le mandrie smagrite: tutta la natura, in effetti, degenerata”

35

. De

Brosses, che percorse l’itinerario nell’ottobre del 1739, riteneva che la cattiva strada tra Siena e

Roma fosse “più che sufficiente per ridurre da sola alla disperazione i viaggiatori, senza contare le

rotture di stanghe e di assi, i capitomboli e gli altri accessori del viaggio.”

36

.

Esisteva un'alternativa, ritenuta molto affascinante ma meno frequentata della prima, a causa del

suo snodarsi in zone paludose. Si trattava del percorso che, partendo da Arezzo e attraversando la

Val di Chiana, proseguiva verso Perugia e Foligno. Un motivo che non la faceva prediligere era il

fatto che la strada non partisse direttamente da Firenze, ma alcune miglia più lontano, da Incisa.

Coloro che optavano per questa soluzione lo facevano prevalentemente perché intenzionati a

raggiungere con una piccola deviazione Cortona, famosa per i suoi reperti archeologici e la locale

Accademia Etrusca. Dalla seconda metà del Settecento in poi, però, in seguito alle bonifiche, la

strada divenne meno minacciosa e cominciò a costituirsi come scelta veramente concorrenziale alla

via Francigena.

33 C.PDUCLOS, Voyage en Italie, cit., p. 43.

34 F.TONGIORGI, La Toscana dei viaggiatori, cit., p. 88. Jean Baptiste Labat (1663-1738), abate domenicano francese appartenente all’Ordine dei Frati Predicatori, oltre ad approfondire gli studi di filosofia, matematica ed ingegneria, dedicò buona parte della sua esistenza alla conoscenza dei popoli. Ordinato sacerdote a Parigi nel 1685, proseguì gli studi a Nancy. Nel 1693, con l’autorizzazione del responsabile dell’Ordine dei Domenicani, si recò come volontario nelle Antille dove vi soggiornò per 12 anni. Al rientro in patria ebbe delle divergenze con il re Luigi XIV il quale, per liberarsi dell’incomodo personaggio, lo mandò in esilio presso lo Stato Pontificio. Il frate domenicano decise, allora, di prendere dimora a Civitavecchia. Da questa città egli fissò una lunga serie di tappe che lo portarono a visitare molteplici località italiane, che hanno dato vita poi ad una delle sue più importanti opere, Voyage en Espagne et en Italie, pubblicato ad Amsterdam nel 1731.

35 C.M.M. DUPATY (1744-1788) fu avvocato generale dello stato e Président à mortier del Parlamento di Bordeaux, carica molto importante nella giustizia francese dell'Ancien Régime. Compì un viaggio in Italia per studiarne i sistemi giuridici vigenti e le procedure penali: partendo da Avignone, passò per Tolone e Nizza e visitò molte città italiane, tra cui Genova, Lucca, Firenze, Roma e Napoli. Dagli appunti di questo itinerario, trasse un'opera di viaggio, Lettres sur l'Italie, Parigi 1785. L'opera poté godere di un certo successo letterario in Francia, nella scia dell'interesse generale per l'arte e per il genere letterario del Grand Tour.

(10)

127

Che l'arrivo fosse dal porto di Livorno o Viareggio, dopo un tragitto via mare, oppure da Lucca,

dopo un percorso via terra, la città di Pisa si poneva come uno degli snodi centrali per raggiungere

la capitale del Granducato. Partendo da Livorno si giungeva a Pisa attraverso una strada comoda,

tutta in piano, piacevole e circondata di alberi lungo i suoi margini. Un’altra possibilità, fluviale

piuttosto che terrestre, era data dell’uso del Canale dei Navicelli ma questa non rappresentava una

scelta frequente tra i viaggiatori: ciò determinò uno scarso sviluppo delle sue infrastrutture. Del

Canale che univa Livorno a Pisa fece uso il padre Labat, quando nel 1706 visitò l'Italia e si servì

delle piccole imbarcazioni che collegavano le due città.

Per raggiungere Pisa da Lucca esistevano due strade, una più breve e disagiata, l'altra più lunga ma

generalmente prediletta. La prima, meno frequentata, attraversava i monti Pisani accorciando il

tragitto di due o tre miglia, ma presentandosi piuttosto disagevole, soprattutto in condizioni

meteorologiche non ideali. La seconda seguiva il corso del Serchio, costeggiando le propaggini

occidentali dei Monti Pisani, deviando per San Giuliano, borgo che divenne di gran moda grazie al

restauro e al rilancio dei bagni termali per mano della reggenza lorenese. Da lì la strada correva

piana fino a Pisa lungo il corso del Canale Macinante.

Da Pisa si arrivava a Firenze attraverso la 'via fiorentina' che passava per il borgo di Cascina,

toccava il colle su cui si erge San Miniato e, attraversando Empoli e Signa, giungeva in città: il

tracciato lungo l'Arno attraeva moltissimo i viaggiatori per il suo aspetto verdeggiante e florido.

4.2 Il viaggio di Toscana: gli itinerari, le città

Da quanto descritto finora, è evidente che la Toscana costituisse da sempre una tappa centrale del

viaggio in Italia: il suo territorio doveva essere percorso comunque, durante l'itinerario di andata o

in quello di ritorno del Grand Tour. Una volta in Toscana, Firenze era quasi sempre il luogo

privilegiato per la sosta più prolungata e da lì ci si spostava per l’escursione nella sua campagna

circostante o per la visita delle altre città della regione. Vi era una situazione reale di squilibrio fra il

"cuore" del Granducato -Firenze e il suo contado- ed il restante territorio regionale. Agli occhi dei

viaggiatori stranieri risultava evidente il processo di aggregazione compiuto di volta in volta dalla

capitale a danno dei territori circostanti: Pisa e soprattutto Siena venivano viste nelle loro vestigia di

antiche repubbliche decadute proprio in seguito alla perdita di libertà per mano dei fiorentini e per

quelle città sottomesse scattava un sentimento di solidarietà nei viaggiatori illuministi orgogliosi di

provenire da una società culturalmente avanzata, sorretta da una stabile monarchia costituzionale

capace di garantire il mantenimento della libertà e il massimo benessere materiale

37

.

In generale tra queste Repubbliche “decadute”, a partire almeno dalla seconda metà del XVIII

secolo, Siena rappresentava tappa fissa, con la differenza che, mentre a Firenze si dedicavano alcuni

mesi, a Siena ci si fermava al massimo per un paio di giorni. Le altre città del breve tour toscano

erano Pisa, Livorno e Lucca: nel viaggio da Firenze a Lucca, Pistoia veniva appena toccata e

raramente nominata, mentre spesso Arezzo non veniva addirittura presa in considerazione.

Come già sopra descritto, ricorrenti erano alcuni spostamenti da una città all'altra

(indipendentemente dalla direzione): il viaggio Firenze-Pisa, per la via Pisana, lungo il corso

dell'Arno; il tratto Pisa-Livorno, in genere l'unico del litorale toscano ad essere attraversato; il

viaggio Firenze-Siena, lungo la direttrice che conduceva a Roma. Meno definiti dalla consuetudine

risultano altri spostamenti, quali il tratto Firenze-Lucca, attraverso la conca Firenze-Pistoia e

(11)

128

superando la stretta del Monte Albano per arrivare nella piana lucchese; il collegamento Lucca-Pisa,

con eventuale sosta, dalla seconda metà del XVIII secolo, ai Bagni di Pisa; il collegamento tra Siena

e Livorno, percorrendo un tratto della via Francigena, che in Toscana collegava Siena a Lucca e

deviando a Ponte a Elsa per la via Livornese.

Da una lettura approfondita delle varie testimonianze si scopre che gli itinerari non erano fissi, dal

momento che le piccole città toscane non erano considerate tappe prefissate del viaggio italiano e

capitava spesso che alcune di loro venissero ‘sacrificate’; ogni viaggiatore sceglieva l'itinerario che

più si accordava con altre esigenze del proprio percorso. E’ perciò interessante rilevare che i ritratti

delle città toscane furono tanti almeno quanti lo furono gli occhi dei viaggiatori o, piuttosto, tanti

quante le loro penne, abili o meno a trasferire i ricordi, i fatti e le impressioni; ben presto si

fissarono in maniera ricorrente i luoghi preferiti di ogni città. Nel caso di Firenze la scelta era ardua:

molti erano i luoghi di interesse e ad essi si aggiungeva la lista interminabile delle opere d'arte

conservate nelle collezioni. In altri luoghi la scelta fu più limitata, come per esempio a Livorno e

Pisa.

L'arco cronologico molto ampio che interessa il Grand Tour, degli inizi del Seicento fino alla prima

metà dell'Ottocento, ci permette inoltre di assistere ad una evoluzione di interessi descrittivi che, di

tipo enciclopedico prima, si orientarono poi verso i temi romantici del pittoresco, del naturalistico e

del sublime.

Essendo i viaggiatori inglesi i più numerosi e assidui nel viaggio in Italia, potremo considerare a

titolo di esempio un loro 'itinerario ideale'.

L'itinerario che meglio rappresenta il percorso degli

inglesi in Toscana fu quello di Edward Gibbon, l’autore di The Decline and Fall of the Roman Empire,

che ci ha lasciato un bellissimo quadro paesistico dei territori attraversati. Egli, dopo essersi fermato

a Firenze per un paio di mesi, proseguì il viaggio verso Roma organizzandosi in un modo tale da

poter toccare tutte quelle che erano considerate le maggiori città toscane, in questa sequenza:

Firenze, Pistoia, Lucca, Pisa, Livorno, Siena.

“Martedi, 19 giugno 1764: Bologna-Firenze. Siamo partiti da Bologna alle tre del mattino per attraversare una terza volta l'Appennino. Non sono montagne alte, ma piuttosto colline larghe e molto estese che occupano molto terreno. Nulla è più triste del colpo d'occhio che offrono; vi si incontra appena, di tanto in tanto, qualche brutto villaggio, né vi si vedono quei pascoli ricoperti di greggi che rallegrano un poco lo spettacolo della maggior parte delle montagne. Giovedì, 23 agosto 1764: Firenze. Certamente da questa torre [il Campanile] si gode una bellissima visuale. Tutti i principali edifici di Firenze, le mura di cinta della città, la montagna di Fiesole, Prato, il corso dell'Arno e i paesi circonvicini si mostrano con la nitidezza di una grande carta geografica. Si vedono al di sopra della città i colli dell'Appennino e sotto una bellissima pianura. Pistoia è un poco nascosta in fondo a un valloncello.

Sabato, 22 settembre 1764: Firenze-Pistoia-Lucca. Da Firenze a Pistoia si attraversa per venti miglia una bella pianura. Oltre Pistoia, il paese si restringe di colpo e si entra fra gole e strette di montagne difficilissime. Presto, però, la scena si fa più ridente - si esce da queste gole per entrare in una valletta da cui le montagne si scostano di mano in mano che ci si inoltra, e si aprono alla fine per formare una bellissima conca nella quale si trova la città di Lucca. Questo è il fondo del vicolo cieco che tuttavia comunica con la Lombardia attraverso numerose e segrete gole dell'Appennino. Tutta questa terra è ricca in modo inconcepibile di vino, d'olio e di grano. I campi e le vigne sono tagliati a ogni passo dalle siepi, coperti e quasi nascosti dal gran numero d'alberi che vi sono piantati.

Lunedi, 24 settembre 1764: Lucca-Pisa. Usciamo di nuovo dalla bella conca di Lucca; si vedono sulla sinistra scomparire le montagne e si entra nel territorio di Pisa che è piatto, paludoso, malsano.

(12)

129

Martedi, 25 settembre 1764: Pisa-Livorno. Da Pisa a Livorno corrono sedici miglia. Si traversa una foresta molto ben popolata di selvaggina. Ma tutto il territorio ha un aspetto di palude e di brughiera.

Venerdi, 28 settembre 1764: Livorno-Siena. Il paese tra Livorno e Siena è in grandissima parte coperto di montagne e di brughiere. Non è tuttavia male abitato e vi ho scorto parecchie case di campagna.

Domenica, 30 settembre 1764: Siena-Radicofani. Sono andato sino a Radicofani, piccola città di frontiera degli Stati di Toscana. E' un paese veramente spaventoso. Non ho mai veduto montagne più nude e più sterili.

Lunedì, 1 ottobre 1764: Radicofani-Viterbo. Da Radicofani a Viterbo, il paese vale già un po' meglio. Siamo negli Stati del Papa. Ho veduto in lontananza il lago di Bolsena. Volsinii era veramente situata in fondo ai boschi che crescono sulle rive del lago.

Martedì, 2 ottobre 1764: Viterbo-Roma. La campagna di Roma! Bella pianura, dopo superata la montagna di Viterbo. In questo paese più la natura ha fatto per gli uomini, si direbbe, e più gli uomini trascurano i suoi doni. Siamo arrivati a Roma alle cinque della sera38.

La percezione degli scenari e delle immagini offerte dalle città toscane nei secoli del Grand Tour è

stata presa in considerazione e indagata approfonditamente da vari studiosi. In questo studio verrà

effettuata una panoramica a volo d’uccello sugli itinerari prediletti e le mete attrattive più amate

delle città toscane maggiormente visitate; verranno scardinati i cosiddetti ‘luoghi comuni’ di ogni

città, focalizzando l’attenzione del lettore sui mutamenti di gusto riscontrati nei touristes che si

avvicendarono alla volta del viaggio di Toscana. La percezione delle città visitate, della sua gente e

delle sue architetture favorirono la permanenza del soggiorno nelle stesse in luoghi addetti

all’accoglienza che diverranno oggetto dei capitoli successivi di tale studio.

4.3 La “più bella città del mondo”: Firenze e un primato a lungo sofferto

Fin dalla metà del Cinquecento Firenze fu sicuramente meta ambita dagli artisti stranieri per la

conoscenza diretta del Rinascimento che, sebbene contasse i suoi esemplari maturi alla corte papale,

era nato nella capitale del Granducato. Peraltro, l'organizzazione delle arti nel principato mediceo,

con la chiamata da parte di Cosimo I di maestri forestieri per ampliare l’offerta artistica di corte,

contribuì notevolmente a questo flusso. Già da allora quindi, nonostante il primato di Venezia e

Roma, Firenze cominciò ad attirare la curiosità dei forestieri per il livello delle sue collezioni allestite

nella galleria degli Uffizi, per quel vero museo di scultura all'aperto che era Piazza della Signoria e

per la fama degli splendidi ricevimenti di corte. Affinché l'eccellenza artistica della Toscana

maturasse nelle coscienze degli amatori d'arte che la visitavano, bisognava però che mutassero gli

interessi e che dell'Italia, oltre che il Rinascimento, si andasse a riscoprire anche il Medioevo e l'arte,

come è stata denominata, dei “primitivi”

39

. In effetti, il posto che spettava ai primitivi italiani nella

cultura corrente dei viaggiatori - con riferimento al secolo d'oro, quel XVIII secolo centrale nella

moda del Grand Tour - era veramente di infimo rango.

Chi si cimentava nel pellegrinaggio o nel viaggio di istruzione verso Firenze munito della guida edita

nel 1550 per i Romei, trovava sulla città soprattutto fantasiose notizie storiche oltre a qualche

citazione di luoghi sacri:

38 E.GIBBON, Viaggio in Italia, cit., pp. 24-25.

(13)

130

“Firenze città, si dice la bella, & è invero bella, & in bel sito, magnifica, & mercantile. Scorre per quella l’Arno fiume traversato da quattro bei ponti di pietra, l’uno de quali è tutto pieno di Botteghe sopra gli margini, questo fiume molto è onorato, & celebre appresso Fiorentini, la cagione perche dicono Annibal Carthaginese d’Hispagna venuto in Toscana, pugnante de l’Imperio del mondo con Romani, volendo andar da Fiesole a Rezzo, l’Arno s’innalzò in modo, che superchiate le ripe, gli tolse gran parte dell’esercito, & astrinse esso Annibale star sopra uno Elefante in meggio’l fiume, poi la notte gli rendea si pestilente aere, che d’un occhio privollo. Dicono i Fiorentini, che se uno altro fiume in Italia havesse fatto altro tanto, Annibale cieco saria rimasto, lasciando Italia queta. In questa città è una devotione de nostra Signora, che si chiama la Nonziata, adorna de stupendi miracoli, come appare per le tabelle, & imagini de Pontefici, Regi, Duchi & Capitani, in stature, & habiti dal naturale, che vivi paiono. Et a canto al gran Domo, è una chiesiola, over capella dedicata a S. Giovanni, la qual è in angolo di colorati marmi, con tre porte, che rispondono in triangolo, & sono de bronzo grossissime tutte historiate in minute figure, de rilievo, cose del vecchio testamento, e profetie, opera mirabile, furono portate di Hierusalem. In Firenze io vidi alquanti Leoni rinchiusi in certo loco in strada; si che chi vole le ponno vedere”40.

La prima descrizione di Firenze accompagnata da un flebile anelito di entusiasmo per la città,

seppur con tratti contrastati, fu quella di Michel Eyquiem de Montaigne. Nel diario del suo viaggio

in Italia (1580-1581) dedicò varie pagine a Firenze dove sostò due volte, all’andata e al ritorno della

tappa romana: la città gli apparve però più piccola di Ferrara e la giudicò bella come Bologna, ma

molto meno di Venezia; nel suo itinerario della città scoprì posti meravigliosi ma criticò la bruttezza

di porte, finestre o serrature definite “rozze”

41

. L’itinerario di Montaigne nel ‘paesaggio’ fiorentino

partì dalla visita alla villa medicea di Pratolino per poi inoltrarsi all’interno della città:

“Ci fermammo là [alla villa di Pratolino] due o tre ore, e poi riprendemmo la nostra strada sulla cresta dei colli, giungendo a Firenze, diciassette miglia. Meno estesa di Ferrara la città è in una piana circondata da infinite colline assai ben coltivate; l'attraversa il fiume Arno, che si passa per vari ponti. Non trovammo alcun fossato attorno alle mura » […] « Lo stesso giorno visitammo la scuderia del granduca, assai grande e a vòlta, ma contenente pochi cavalli di pregio: è vero che quel giorno egli era assente. Ci vedemmo anche un montone di stranissima forma [un muflone?], e un cammello, dei leoni, degli orsi, e un animale grande come un grossissimo mastino ma dall'aspetto di gatto, tutto striato di bianco e nero, che chiamano tigre. Visitammo la chiesa di San Lorenzo dove sono ancora appese le insegne che perdemmo sotto il maresciallo Strozzi, in Toscana. La chiesa contiene parecchie pitture su parete e bellissime, eccellenti statue, opera di Michelangelo. Vedemmo poi il duomo, che è una grandissima chiesa, col campanile tutto rivestito di marmo bianco e nero: è una delle più belle e più sontuose cose del mondo. […] Quello stesso giorno visitammo un palazzo del duca, dov'egli si diverte a lavorar di persona, a fabbricar con le sue mani false pietre orientali e a manipolare il cristallo; perché è un principe dedito alquanto all'alchimia e alle arti meccaniche, e soprattutto grande architetto. Il giorno seguente il signor di Montaigne salì per primo in cima al duomo; là c'è una sfera di bronzo dorato che dal basso par grande come una palla, mentre ad entrarci si scopre capace di quaranta uomini. Lassù vide che il marmo di cui è rivestita la chiesa, specialmente il nero (perché l'edificio è policromo e tutto lavorato) comincia a sfaldarsi e sgretolarsi sotto l'azione del gelo e del sole; ciò gli dette il sospetto che questo marmo non fosse molto naturale. Volle visitare le case degli Strozzi e dei Gondi, dove abitano ancora dei loro parenti. Visitammo pure il palazzo del duca, dove Cosimo suo padre ha fatto dipingere la presa di Siena e la battaglia da noi perduta: con tutto ciò sulle antiche muraglie i fiordalisi occupano in vari luoghi della città, e in specie nel palazzo suddetto, il posto d'onore. I signori d'Estissac e di Montaigne assistettero al pranzo del granduca (così infatti lo chiamano qui). La moglie [Bianca Capello] era al posto d'onore; poi il duca; poi la cognata della duchessa; infine il fratello della duchessa e marito di essa cognata. Questa duchessa è bella secondo i gusti italiani: viso gradevole e imperioso, grosso il busto, e poppe a volontà loro; tale insomma — questa l'impressione che gli fece — da spiegare ampiamente come avesse sedotto il principe, e da

40 B.FONTANA, Itinerario overo viaggio da Vinegia a Roma, Bindoni, Venezia,1550, p. 13. 41M.E. DE MONTAIGNE, Il viaggio in Italia, cit., p. 227.

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tenerselo legato per molto tempo. Il duca è un uomo corpulento e membruto, bruno, della mia statura, il viso ed il portamento pieni di cortesia: passa sempre a capo scoperto fra la numerosa folla dei cortigiani. Ha l'aspetto sano, d'un uomo di quarant'anni. All'altro lato della tavola erano i due fratelli del duca, il cardinale e un altro giovane di diciott'anni. Portano da bere al duca e alla moglie in un bacile contenente un bicchiere scoperto colmo di vino, e una bottiglia di vetro piena d'acqua: essi stessi prendono il bicchiere di vino e ne versano quanto credono nel bacile, e poi lo riempiono d'acqua, e rimettono il bicchiere nel bacile tenuto dal coppiere. Lui metteva parecchia acqua; lei, quasi niente. I Tedeschi hanno il vizio di usare bicchieri grandi oltre misura; qui, l'altro di averli straordinariamente piccoli.

Non so perché questa città sia chiamata bella per eccellenza; lo è certamente, ma senza alcun vantaggio su Bologna, poco su Ferrara, e meno senza paragone di Venezia. Bello è invero con-templare l'infinita moltitudine di case che riempiono i colli tutt'in giro, per due o tre leghe almeno, e questa piana dove essa s'adagia e che si estende, a occhio e croce, per due leghe in lunghezza: giacché par che si tocchino, tanto sono fittamente disseminate. Nel pomeriggio i quattro gentiluomini presero la posta con una guida, per andare a vedere una proprietà del duca chiamata Castello. L'edificio non ha alcun pregio; ma vi sono diverse distese a giardino disposte tutte sulle pendici d'un colle, di modo che i viali perpendicolari sono tutti in pendio — dolce tuttavia ed agevole — e quelli trasversali diritti e piani. Ci son poi varie cupole fittissimamente intrecciate e coperte, fatte d'ogni specie di alberi odoriferi — come cedri, cipressi, aranci, limoni, olivi —, con i rami così uniti e avviluppati che il sole — è facile accorgersene — non avrebbe modo d'entrare nemmeno nella più gran forza; e dei viali di cipressi e d'altri alberi così vicini l'uno all'altro, che non lasciano posto a più di due o tre persone affiancate. C'è fra l'altro una gran vasca con, al centro, un masso di roccia imitato a perfezione, e che pare tutto ghiacciato in superficie, mercé quello stesso materiale con cui il duca ha rivestito le sue grotte a Pratolino; sopra la roccia una statua raffigura un uomo assai vecchio e canuto, seduto con le braccia conserte, e dalla barba, dalla fronte e dai capelli del quale l'acqua scorre da ogni parte senza posa a goccia a goccia, a rappresentare il sudore e le lacrime; la fontana non ha altro sfogo che quello. In un altro punto ripetettero una piacevolissima esperienza che ho già ricordato. Passeggiavano per il giardino osservandone le cose notevoli, e il giardiniere li aveva a tale scopo lasciati soli; quando si trovarono in un certo luogo a contemplare delle figure di marmo, ecco sprizzar loro sotto i piedi e fra le gambe, per infiniti forellini, degli zampilli così minuti da esser quasi invisibili e da imitar stupendamente lo stillicidio d'una pioggerella: ne restarono tutti bagnati. Era il giardiniere che manovrava qualche molla sotterranea a duecento passi di là, con tal artificio che, da così lontano, faceva alzare ed abbassare i getti come gli piaceva, curvandoli e muovendoli a suo capriccio; e giochi simili esistono in molti altri punti. Videro pure la fontana maggiore, sgorgante da due grandissime figure di bronzo, di cui l'inferiore prende l'altra fra le braccia e la stringe con tutta la sua forza; costui, mezzo svenuto e con la testa rovesciata indietro, sembra vomitare a forza l'acqua dalla bocca, e lancia un getto così diritto che — a parte l'altezza delle figure, di almeno venti piedi — sale a trentasette braccia più in su. C'è anche un padiglioncino fra i rami d'un albero sempreverde, ma più folto assai d'ogni altro che fosse loro mai capitato di vedere: giacché è tutto formato dai rami vivi e fronzuti dell'albero, e così chiuso tutt'in giro dal fogliame che non si vede nulla di nulla, salvo se si praticano delle aperture facendo scostare i rami qua e là; e nel mezzo l'acqua sale per un condotto invisibile fino alla stanzina, venendo a sgorgare, dopo averlo attraversato, nel mezzo d'un tavolo di marmo. Anche qui fanno la musica d'acqua, ma non poterono ascoltarla perché era tardi per gente che doveva tornare in città. Videro pure sopra un portale lo stemma con le armi del duca, fatte a perfezione, con qualche ramo d'albero allevato e coltivato nella sua forza naturale, per mezzo di lacci quasi invisibili. La visita aveva luogo nella stagione meno propizia ai giardini, il che accrebbe la loro meraviglia. C'è anche una bella grotta con ogni sorta d'animali raffigurati al naturale, che gettano l'acqua di dette fontane quale dal becco, quale dall'ala, o dagli artigli, o dall'orecchia, o dal naso.

Dimenticavo che in una sala del palazzo di questo principe si vede, su un pilastro, raffigurato al bronzo al naturale, uno strano animale a quattro zampe col davanti tutto a scaglie, e sul dorso non so che specie di membro come delle corna. Dicono che fu trovato in una caverna sui monti del paese e portato giù vivo qualche anno fa. Visitammo pure il palazzo dov'è nata la regina madre.[…]

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