• Non ci sono risultati.

Cosa sono i commons? La sfida di Gent

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "Cosa sono i commons? La sfida di Gent"

Copied!
46
0
0

Testo completo

(1)

Cosa sono i commons? La sfida di Gent

La città di Gent, nelle fiandre del Nord, con circa 300000 abitanti ha finanziato lo studio di Michel Bauwens (ricercatore) e Yurek Onzia (coordinatore del progetto) con il supporto del sindaco Daniel Termont, e della coalizione di maggioranza del comune.

La ricerca parte da un’urgenza della municipalità: il sorgere e la diffusione di commons nella città.

Per questo è apparso necessario uno studio in grado di offrire alcune possibili spiegazioni rispetto alle ragioni di questo fenomeno, e, al contempo, per poter determinare quale tipo di politiche pubbliche possano supportare le iniziative fondate sul comune (commons), partendo da una consultazione della cittadinanza attiva di Gent.

Rosetta alla conquista dello spazio. Appunti per un diritto alla città con Michel Bauwens, Tito Faraci, Enzo Mingione, Eva Neklyaeva. Introduce Emanuele Braga, modera Bertram Niessen. Dalle 19.00 a Milano da Macao

Il progetto è stato supportato da Timelab, un makerspace artistico gestito da Evi Swinnen,e da Vasilis Niaros, ricercatore greco del P2P lab. Le grafiche sono state curate da Wim Reygaert mentre Annelore Raman ha gestito i rapporti con l’amministrazione.

La ricerca si è svolta durante la primavera del 2017 e si compone di:

Una mappatura degli oltre 500 progetti basati sui commons divisi per settore di attività (cibo, servizi, trasporti, etc.), attraverso un wiki, http://wiki.commons.gent

Più di 80 interviste individuali e conversazioni con i project leaders e i gestori dei commons Un questionario scritto che ha raccolto le risposte di oltre 70 partecipanti.

9 workshops nei quali i partecipanti erano stati invitati su base tematica ‘Il cibo come bene commune”, “l’energia come bene commune”, il trasporto come bene commune” etc.

Un workshop “Commons Finance Canvas” basato su una metodologia sviluppata da Stephen Hinton, che ha indagato le opportunità economiche, le difficoltà e i modelli utilizzati nei progetti sui beni comuni.

Cosa sono i Commons?

I commons, originariamente chiamati meent in fiammingo, sono beni comuni e servizi, sia materiali che immateriali, che non sono in origine né una proprietà delle autorità pubbliche come la città o lo stato, né proprietà private di individui o imprese.

(2)

Nello studio è stata utilizzata la definizione di Bram Stessel che scrive: “Un meent o mient è un termine che era stato un tempo utilizzato per descrivere un pascolo comunale, normalmente parte di un gemeynt (territorio boschivo ndt.) o di un marke (zona di mercato a ridosso del villaggio ndt.).

Queste forme erano particolarmente diffuse nelle zone dal suolo sabbioso. (Da annotare il

parallelismo con gemeente [la parola fiamminga per municipalità o borgo]). A seconda della regione e della fertilità del suolo, il meent è stato poi diviso ad un certo punto tra i beneficiari. Il

markewetten [legge dei commerci] del diciannovesimo secolo, ha sancito, dal punto di vista normativo, le divisioni su larga scala.

Il ricercatore David Bollier -a partire dal lavoro del premio Nobel americano Elinor Ostrom- ha basato la definizione di commons su tre elementi fondativi:

I commons sono una ‘proprietà comune’, creata, gestita o protetta da una certa comunità; nel contesto di una città, si tratta sempre di ‘beni dei cittadini’.

I commons non sono un fenomeno ‘naturale’, non semplicemente qualcosa che appartiene ed è accessibile a tutti, ma qualcosa che dipende dalle decisioni umane e dalle attività, attività che David Bollier e gli altri autori definiscono come ‘commoning’ (condivise/messe in comune).

Questa ‘proprietà comune’ è gestita in accordo con le norme e regole della comunità, in

relazione all’amministrazione e al mercato, ma soprattutto in autonomia. In questo contesto, le forme di gestione e proprietà sono fondamentalmente differenti da queste del mercato o dello stato.

I commons sono perciò circoscritti dai seguenti criteri: 1) sono un oggetto di collaborazione, 2) sono un’attività portata avanti dalle persone, 3) sono una forma di gestione e di proprietà. Questa

semplice definizione richiede un’ulteriore chiarificazione, poiché: ci sono moltissime forme ibride ma la principale questione è come questa forma di proprietà sia implementata nel suo contesto più ampio da un rafforzamento di una vera e propria ecologia commons.

Come primo esempio, si prendano le fattorie CSA, che possono essere spesso possedute da singoli contadini (rendendole una forma di proprietà privata, non comune) ma che sono chiaramente co- gestite con il parere della comunità dei consumatori (cooperative di consumatori di cibo/GAS, clienti

“prendi quello che vuoi”, etc.). Un secondo esempio è il programma di Temporary Use della città di Gent, in cui la città mette a disposizione terreni o spazi per progetti e iniziative dei cittadini, che sono soprattutto gestite dai partecipanti stessi. Nel modello “Community land Trust” che si può ritrovare anche a Gent – in cui il terreno è separato e sottratto dal mercato- il suolo è spesso posseduto dalla città, ma è sottoposto allo statuto del CLT.

Il metodo di analisi usato dal think tank Oikos in uno studio sull’evoluzione delle iniziative cittadine e collettive a Gent offre ottimi spunti. In questo metodo, le iniziative sono collocate in un triangolo che si compone di stato-cittadini-mercato. I beni collettivi dei cittadini nello studio di Oikos favoriscono il secondo elemento della definizione dei commons: i cittadini che si occupano di commons. Se almeno due elementi della nostra ragionevolmente ristretta definizione sono presenti, allora queste forme devono essere certamente trattate e descritte come orientate al comune. In questo lavoro si è scelto di utilizzare la stessa nomenclatura adottata da Filip de Rynck, che ha già pubblicato uno studio sulle relazioni tra queste iniziative e il governo.

I commons non sono un’utopia, non sono tuttavia perfetti. Si tratta solamente di altri tipi di pratiche umane, che presentano pro e contro. I commons possono essere più o meno aperti. I commons possono essere gestiti da strati più privilegiati della popolazione e possono creare tensioni sotto il punto di vista dall’inclusione; i commons possono essere gestiti da minoranze etniche e/o culturali, e chiuse agli outsiders; i commons possono essere problematici sotto moltissimi aspetti, come nel caso di un design commons che abiliti le persone a lavorare insieme per la costruzione di armi fai da te.

(3)

In questo studio, inoltre, viene utilizzato un vasto gruppo di criteri di valutazione per poter collocare i commons in una scala di valori etici, in particolare sulla base ella loro relazione con la sostenibilità ambientale, eguaglianza sociale e inclusione, che sono gli assunti centrali di questo lavoro. In

aggiunta alla definizione più ristretta e pura offerta da David Bollier, possiamo certamente collocare i commons in un contesto più ampio.

Secondo un vasto numero di antropologi, economisti e storici, ci sono almeno quattro metodi principali per la distribuzione di beni e servizi nella società: 1) il mercato, che opera sulla base del meccanismo del prezzo, 2) la redistribuzione statale sulla base della tassazione e degli investimenti pubblici, 3) il metodo della reciprocità ossia l’economia del baratto come praticata nella

civilizzazione tribale e 4) la messa in comune e il mutualismo.

I commons corrispondono al quarto metodo di gestione e di distribuzione di beni e servizi, attraverso la messa in comune, o per dirla in un altro modo, il “possedere insieme”.

Seguendo un criterio più politico, i commons possono essere visti come un approccio più collettivo alla società e all’economia.

In questo contesto, la letteratura usa il lemma “common” in inglese e “commun” in francese. In questa accezione, commons significa una visione fondamentalmente differente dell’umanità. Se si sposa questa prospettiva, la salvezza non è attesa dagli ‘individui razionali che sono posti in competizione gli uni con gli altri, ma molto più dalle persone che lavorano insieme, e che trovano soluzioni collettive tramite connessioni’, ossia quello che Tine de Moor chiama “homo cooperans”.

Dove i commons rappresentano forme di individualità, autonomia relazionale e collettiva e cooperazione, entrambe sono in relazione con il meccanismo statale e con quello del mercato.

I commons come sfida per il mercato e le amministrazioni

Come le più antiche forme di mutualismo, i nuovi commons affondano le proprie radici nella società civile, ma questo nuovo strato di iniziative cittadine si presenta in forma più esplicita come tale. Si rifiuta, infatti, una valutazione in chiave di proprietà semi-pubblica così come i meccanismi di

organizzazione orientati al mercato, ma anche una professionalizzazione della vecchia società civile.

I nuovi commons urbani sono maggiormente caratterizzati da una cultura dell’orizzontalità, libera contribuzione (e, per estensione, libera non-contribuzione) e un orientamento all’autonomia

individuale e collettiva. Il revival dei commons è innanzitutto una sfida per la visione dominante dei cittadini e della società nel modello corrente di società, e per la visione più esclusiva basata sulla divisione tra stato e mercato. I commons richiedono ai movimenti sociali e politici, così come al mercato e agli attori politici- di evolvere da un sistema binario di visione del mondo ad un sistema tripartito, in cui i problemi e le soluzioni sono viste come specifici tipi di connessione tra mercato, governo e commons. Così, al posto di una leadership e di una gestione che viene dal governo del mercato, al posto di una partnership pubblico-privato, possiamo anche guardare ad una partnership pubblico-sociale (ad esempio, pubblico-commons) e ad una partnership pubblico-sociale/privato.

I commons come sfida di governo

Per il governo, e per il mondo politico che orienta il governo in un Sistema democratico, i commons rappresentano anche una sfida addizionale dal momento che costituiscono una nuova richiesta rispetto all’esercizio di potere. Quando un gruppo di cittadini reclama o costituisce commons con o senza il permesso dell’amministrazione, questa è una richiesta che sfida le forme tradizionali di democrazia rappresentativa. Come nella classica società civile, – in principio come espressione del movimento dei lavoratori, e in seguito con riguardo alle più ampie questioni sociali, culturali e identitarie negli anni sessanta-, i commons hanno significato un invito ad un ulteriore sviluppo della

(4)

democrazia, e un’ibridazione fra forme rappresentative e forme più dirette di democrazia.

L’autogestione dei commons attraverso i collettivi cittadini è un’estensione delle forme democratiche a nuovi domini, che includono funzioni del mercato precedentemente gestite solo sul piano

privatistico.

Nelle Fiandre, il nuovo Oosterweel Agreement (detto ‘Oosterweel Light’) è la conseguenza di queste richieste di commons. I cittadini hanno rifiutato di vedere i progetti sugli spazi e le questioni sulla mobilità come qualcosa che potesse essere regolato esclusivamente dalla rappresentanza politica e dagli interessi privati delle società. In una città come Gent il revival dei commons rappresenta al contempo una sfida e un’opportunità per reinventare ed arricchire la politica, tenendo in

considerazione sfide specifiche come l’inclusione, la sostenibilità, le pari opportunità, etc.

Ci sono alcune questioni da tenere a mente: ci sono nuove forme istituzionali che possono integrare queste nuove richieste in un sistema politico, sociale ed economico riformato? Si può passare dalla democrazia rappresentativa con le tradizionali forme di partecipazione ad un più esteso

riconoscimento del diritto di promozione della società civile e delle sue rivendicazioni di beni comuni? Possiamo davvero evolvere in una città partner che supporti e guidi le iniziative dei commons?

Questa sfida specifica alle amministrazioni e al sistema democratico si configura tramite lo stabilire il modo migliore per lavorare insieme, includendo tra i fini nuovi canali istituzionali e forme di stato di diritto – così come il connettere la logica rappresentativa con la democrazia ‘di tutti’ (e gli

approfondimenti attraverso la partecipazione e la deliberazione) con la specifica logica partecipativa dei commons e delle iniziative dei cittadini. Dopo tutto, queste ultime non sono fondate sulla

‘rappresentanza’ ma puntano al contrario ad una nuova logica di partecipazione, mentre la gestione e la scelta decisionale (governance) si basa su caratteristiche contributive.

É una partecipazione ad un progetto comune, nel processo di co-produzione, che garantisce lo spazio di ‘voice’. Giusto a titolo di esempio, un parco di gestione comune, come il Driemasterpark a

Meulestede-Wondelgem non è solo supportato dall’amministrazione o da interessi privati, ma non é tantomeno appoggiato solamente da coloro che abitano nei dintorni del parco; il parco si regge su tutti coloro che contribuiscono materialmente al parco. Infine, come citato in precedenza, i commons rappresentano una sfida nel rispetto dell’inclusione sociale e la riduzione delle diseguaglianze tra I cittadini. Un nuovo ruolo dell’amministrazione potrebbe essere quello di meta-regolazione dei commons, nella misura in cui il potenziale di ogni cittadino o abitante possa essere stimolato.

É importante menzionare che nello studio ci riferiamo a ’cittadini’ in senso ampio, intesi come tutti I residenti. Il bisogno di adattare tattiche amministrative ai commons ha, inoltre, una forte valenza legale. Dopo la rivoluzione francese, i commons sono in larga parte scomparsi dai libri di diritto e dal pensiero giuridico. Le regolazioni si sono sviluppate nel contesto della generale domanda sociale di poteri di opposizione (dal movimento dei lavoratori fino al 1980, per esempio) e nelle ultime poche decadi si è trattato di un sostanziale contesto di deregulation. L’autogestione di attori che cercano la massimizzazione del profitto rimane fondamentalmente problematica, tuttavia, la grande sfida della regolazione è basata sulla sfiducia dell’individuo privato e della sua capacità come cittadino e in relazione alle società. Le pratiche dei commons, comprese quelle che si basano su economie generative, si fondano su un’attitudine completamente differente, vale a dire che la creazione dei beni condivisi e dei servizi avviene in un contesto di interesse generale. Così, c’è, a nostro avviso, spazio per una riflessione su come la regolazione possa relazionarsi nello specifico ad attività commons.

I commons come una sfida al mercato

(5)

I commons impongono una sfida per gli attori del mercato mossi da un sistema di profit privato.

Innanzitutto, le dinamiche dei commons creano un altro tipo di impresa che è generativa con rispetto dei commons e dei collettivi dei cittadini. Se la città di Gent crea un ‘temporary use’

offrendo, ad esempio, terre ed edifici a disposizione delle iniziative cittadine, e queste iniziative poi producono commons, questo può spesso portare ad un nuovo business. I commons, inoltre,

implicano aspetti di impiego in cui la creazione di lavoro può essere anche molto significativa. Si veda ad esempio il potenziale di 1 milione di pasti scolastici all’anno solamente nelle scuole della città di Gent.

La sfida è inventare e supportare le forme di mercato che rinforzano i commons più che indebolirli.

Questi ultimi non solo catturano il valore, ma sono in grado di reinvestirlo nei commons e nelle comunità che stanno attorno ad essi. Il progetto BAST che ha rinnovato le abitazioni operaie a Gent è un buon esempio di questo tipo di imprese.

I commons immateriali, che sono basati sulla condivisione delle conoscenze, rappresentano un caso speciale, diverso dalla normale forma di privatizzazione delle conoscenze attraverso la proprietà intellettuale. Un problema essenziale qui è il rapporto tra le regolazioni e la cooperazione

dell’amministrazione con le economie tradizionali private di profit, e i loro problemi sulle

‘esternalità’ da un lato, dall’altro i commons, spesso imprese socio-ecologiche (che sono più

orientate a integrare queste esternalità nei loro modelli economici). Entrambi i settori necessitano di uno spostamento attraverso una transizione socio-ecologica, e questo non può avvenire nello stesso modo. In termini di forme di mercato, i commons stimolano nuove forme generative di mercato che prestano più attenzione ad integrare valori come la sostenibilità, la condivisione delle conoscenze, la mutualizzazione delle infrastrutture e una distribuzione del valore economico più inclusiva.

Coopkracht e Febecoop hanno giù aperto un cammino e hanno organizzato seminari in cui le cooperative sono viste come una forma ideale di proprietà e gestione per il management dei commons. Questo è qualcosa che è già stato messo in pratica a Gent da EnerGent, la cooperativa delle energie rinnovabili.

Sul piano internazionale, si è sviluppato un movimento attorno alle piattaforme di cooperativismo, in cui queste sono utilizzate per facilitare mercati distribuiti e considerati come commons (e non

proprietà privata) e prendono la forma delle cooperative. Esempi internazionali includono Stocksy United, una piattaforma per fotografi con fotografie royalty-free e FairMondo un mercato gestito dagli utenti locali e alternativo ad Ebay. Nelle Fiandre, e certamente anche a Gent, possiamo osservare un movimento in questa direzione. Imprese sociali, investitori sull’impatto, investitori etici, valute di comunità e crowdfunding sono, inoltre, mezzi potenziali per supportare i commons.

I commons come sfida per la società civile

Infine i commons sono una chiara sfida per la società civile tradizionale. I commons portano nuove forme di coordinamento e di management, che sono molto più basate su partecipazione informale, azione volontaria e pratiche di gestione orizzontale, spesso critiche rispetto alle forme esclusive di professionalizzazione e di managerialismo, senza rifiutarle completamente. Tuttavia, a Gent, dove, in accordo con la ricerca, la maggioranza dei collettivi di cittadini non si considera come parte della società civile (tradizionale) si possono incontrare organizzazioni delle società civile, vecchie e nuove, che, di fatto, giocano un ruolo di facilitazione, di supporto, anche infrastrutturale. Si consideri, ad esempio il ruolo cruciale e la condivisione della Samenlevingsopbouw organisation in moltissime delle iniziative locali, e l’esempio di De Site, un progetto di utilizzo temporaneo con una natura sostenibile, nel quartiere a forte diversità culturale di Rabot. Se si riscontra chiaramente un bisogno di una amministrazione pubblica che sostenga di più e che faciliti i progetti, si può anche riscontrare la richiesta di una società civile che sia più inclusiva e che favorisca i cambiamenti. A Gent, questa

(6)

evoluzione e trasformazione è già in corso.

Traduzione di Valeria Verdolini, versione originale qui

Il rapporto con la macchina ha cambiato il lavoro?

L’anno scorso ho avuto la fortuna di poter svolgere alcuni mesi di osservazione partecipante nel quartiere di Rogoredo. Mentre indagavo la percezione della sicurezza degli abitanti della zona, mi sono imbattuta in qualcosa di più grande e inatteso: la memoria della fabbrica.

Trascorrevo i pomeriggi al bar Kappa, in via Monte Palombino, ascoltando i racconti quotidiani del passato di quelle vie, sorte e abitate attorno alla ex Montecatini e alla acciaieria Redaelli. Le due fabbriche avevano infatti attratto abitanti dall’hinterland e dal Sud che si erano lentamente trasferiti e avevano popolato il piccolo borgo a ridosso del parco agricolo Sud. I legami tra i giocatori di carte seduti al bar, che trascorrevano i loro pomeriggi da pensionamento sono stati rinsaldati dagli anni di lavoro e di lotte in fabbrica.

Paolo e Giorgio sono nati e cresciuti a Rogoredo. Lavoravano come operai all’acciaieria Redaelli,

(7)

Giorgio era anche delegato sindacale. “Le due fabbriche erano tutto. Eravamo una potenza, e

tenevano insieme il quartiere. Se volevi con tre telefonate portavamo in piazza centomila persone: la Falk, la Breda. Tutti qui lavoravano in fabbrica. Il quartiere è cresciuto attorno alla fabbrica. Ora però ci sono San Mirocle e Santa Giulia, che sono dormitori. Qui c’è la vera anima del quartiere. La fabbrica ci offriva tutto, anche le colonie per le vacanze: Cervia, Misano, il lago, la montagna. Le nostre richieste di diritti facevano paura, così la fabbrica è stata venduta e sui terreni hanno costruito Santa Giulia. Questo posto è uno dei pochi rimasti con un’anima, assieme al circolo della Rogoredo 84, dove vanno i più anziani”.

La fabbrica viene dismessa e demolita, e sui terreni si avvia il progetto urbanistico di Milano Santa Giulia, speculazione edilizia che sui veleni della fabbrica non bonificati ha inizialmente associato la sua (s)fortuna.

Storie simili hanno avuto le grandi fabbriche milanesi: la Breda trasformata nel museo di

archeologia industriale e spazio estivo per i concerti del Carroponte; la Pirelli diventata “fabbrica di sapere” e trasformata nell’Ateneo di Milano-Bicocca che nel progetto di Gregotti ricalca il perimetro della vecchia sede industriale.

Il quartiere-fabbrica, connesso alla città attraverso la ferrovia, era stato un esperimento di

solidarietà e comunità che permane nei ricordi degli ex operai. La ferreria voluta da Luigi Riva era stata aperta nel 1886. Dopo quattro anni, Riva cedette la ferreria alle ferrovie italiane gestite da Merati e gli operai si trovarono senza lavoro da un giorno all’altro. Gli operai si organizzarono, si opposero, e ottennero la reintegrazione e la corresponsione di 8 giornate di lavoro per i licenziati. La ferreria venne rilevata nel 1895 dalla Redaelli e da Giorgio Falk. Sopravvissuta ai bombardamenti durante la guerra, la fabbrica divenne laboratorio di solidarietà affiancata da cooperative sociali autogestite dagli operai. Alcune ricostruzioni fanno risalire a quegli spazi il primo Consiglio di Fabbrica d’Italia nel 1969.

L’8° appuntamento con il ciclo di incontri Rosetta è per stasera mercoledì 8 Novembre 2017 al Fablab OpenDot, in via Tertulliano 70 a Milano. In che modo l’evoluzione di

macchine e produzione hanno cambiato le relazioni sociali?

Per porci questa domanda ci ritroveremo in un fablab: uno spazio di ricerca e

sperimentazione aperto a tutti dove si utilizzano nuove tecnologie di prototipazione rapida e fabbricazione digitale.

Partecipano:

Enrico Bassi – docente di fabbricazione digitale e tecnologie produttive, OpenDot.

Giorgio Falco – scrittore, autore di “Ipotesi di una sconfitta”, Einaudi.

Andrea Fumagalli – professore di Economia Politica, Università di Pavia, Advisory Board Manifattura 4.0 Comune di Milano.

Cecilia Manzo – ricercatrice di Sociologia Economica, Università di Firenze, Advisory Board Manifattura 4.0 Comune di Milano.

Modera Andrea Daniele Signorelli – giornalista 21.00 – Dj set di Matteo Saltalamacchia

La crisi del 1974 dà avvio alla lenta agonia della fabbrica, che si conclude nel 1984 con la chiusura.

Nella lettera che gli operai scrivono al commissario straordinario Brugger si legge: “Per Lei ‘lettere di licenziamento’ sono tre parole che sono ‘una conseguenza inevitabile’. Per ciascuno di noi quelle

(8)

tre parole sono un attacco e un insulto alla nostra dignità, alla vita nostra e delle nostre famiglie. […]

Per Lei noi possiamo apparire come “conseguenze” in mezzo o in fondo a un bilancio le cui cifre si possono non difficilmente manovrare. Ma questa “morale” noi la rifiutiamo. Per noi la vita umana, la dignità dell’uomo, il diritto di tutti a vivere in modo uguale, viene prima delle cifre e dei bilanci.

Sappiamo che attualmente questa morale è perdente. Ma allora ci sembra che sia perdente anche la vita. A chi e che cosa serve la Sua professione? Le abbiamo scritto queste cose perché sappia che la nostra condizione di classe ci porta ad avere una morale in contraddizione con la Sua. Appunto per questo noi Le auguriamo di non dover mai provare nella Sua vita l’offesa, la sofferenza, l’incertezza che noi stiamo provando”.

Quella morale già perdente sulla serrata della vecchia ferreria, diventa “ipotesi di sconfitta” nelle parole e nei passaggi di vita di Giorgio Falco. L’autore misura il lavoro per sottrazione rispetto al senso del lavoro del padre, si confronta con il lento sgretolamento di quei passaggi, poiché, “come sempre, a ogni passaggio mediato dall’umano, qualcuno, sopraffatto dall’altro, perde qualcosa”.

Nelle pagine del libro si passa dall’intellettualizzazione del lavoro manuale alla taylorizzazione del lavoro intellettuale, processo destinato alla sconfitta, così come le traiettorie precedenti.

Come scrive Andrea Fumagalli, “nel capitalismo bio-cognitivo, tale rapporto non è più unico. La composizione tecnica cambia natura e non è più definibile né in senso teorico-astratto, né in senso

“politico”. L’ibridazione tra umano e macchina spariglia le carte. E scompagina le forme della rappresentazione politica del lavoro e, di conseguenza, le forme della rappresentanza del lavoro.

Diciamolo con franchezza: il lavoro (al singolare) non ha più possibilità di rappresentazione, dal momento che la soggettività (del lavoro) si decompone in mille rivoli.”

Se la soggettività si decompone, come si può resistere al sopruso e limitare la perdita?

Quella perdita di sopruso viene descritta da Cecilia Manzo come la distanza tra il costante surplus di capitale umano e il deficit di beni collettivi. In altre parole, solo attraverso la condivisione, per dirla con i dipendenti della Redaelli, la solidarietà o nel lessico contemporaneo, lo sharing si può ovviare quella sopraffazione, perché la mediazione non è più individuale, ma collettiva.

Il maker space/fablab nasce con quella velleità di condivisione delle macchine, per ridurre lo sfacelo della sconfitta, e collocare, nelle ipotesi, la produzione e il lavoro relazionale non più in

contraddizione, né tantomeno in esclusione, ma in costante arricchimento. Nasce dalle pratiche di costruzione collettiva di linguaggi e di saperi, che diventano poi prassi di lavoro e di comunità.

Un’utopia lavorativa, profondamente politica, che richiede tuttavia di essere problematizzata, cercando di raccogliere l’eredità di quella classe che si sentiva esclusa da una morale tesa al profitto.

Ad Opendot, negli spazi di un ex fabbrica, ora riadattati al sapere digitale e alla produzione

condivisa, tra le vie del quartiere di Molise-Calvairate, proveremo a capire quali ipotesi si possono formulare sul futuro della relazione tra le macchine e le persone. In che rapporto stanno il lavoro, il capitale e il sociale, l’oscillazione tra l’individuale e il collettivo a Milano oggi, a fronte di

trasformazioni tecnologiche che evocano una quarta rivoluzione industriale, tanto è radicale la portata del cambiamento in atto? L’incontro parte senza risposte, ma sicuramente con alcune domande.

In che modo il rapporto tra persone e macchine ha cambiato la dimensione del lavoro? E in che modo le nuove macchine possono o non possono funzionare da aggregatori, e i fablab agire come spazi di riconoscimento e non di produzione tout court? Se nella teoria classica la macchina era lo strumento principe dell’alienazione, nella nuova narrazione della Manifattura 4.0 e dei suoi

strumenti, la macchina è il falò intorno al quale si sviluppano le relazioni sociali tra gli utenti, spesso indicati col nome di “community”: la macchina è il cuore delle nuove manifatture.

(9)

Si possono mettere in crisi entrambe le narrazioni. La fabbrica è stata anche lo spazio e il

laboratorio della riflessione politica e culturale che ha portato alla trasformazione delle condizioni di lavoro, in chiara opposizione con la dimensione alienante. Per quanto riguarda invece la

rappresentazione narrativa della manifattura 4.0, quanto questa riflessione sulla “community” è pratica solidaristica di scambio e quanto invece è tesa, ancora una volta, allo sfruttamento?

Proveremo a rispondere a queste domande insieme a Enrico Bassi – docente di fabbricazione digitale e tecnologie produttive, OpenDot, Giorgio Falco – scrittore, autore di “Ipotesi di una sconfitta”, Einaudi, Andrea Fumagalli – professore di Economia Politica, Università di Pavia, Advisory Board Manifattura 4.0 Comune di Milano, Cecilia Manzo – ricercatrice di Sociologia Economica, Università di Firenze, Advisory Board, Manifattura 4.0 Comune di Milano. Modererà Andrea Daniele Signorelli – giornalista.

L’Italia è il mio guinzaglio

In un dialogo pubblicato su Doppiozero, Marco Belpoliti e Roberto Gilodi hanno intervistato Marco Revelli ragionando sui dati ricavati dal Rapporto Coop 2017. La discussione è partita da una delle locuzioni che più sentiamo ripetere negli ultimi anni: rischio povertà.

Domani sera, mercoledì 8 novembre alle 19.00 da Open dot, parliamo di fabbrica e

(10)

manifattura 4.0 con Giorgio Falco, Andrea Fumagalli, Enrico Bassi, Cecilia Manzo e Andrea Daniele Signorelli

L’espressione è utilizzata da Eurosat, l’Istituto europeo di statistica. È un indicatore, che, come dice Revelli “non misura in valori assoluti la dimensione della povertà, la misura come distanza da una media”. Ecco, questa distanza è un elastico continuamente sollecitato, un elastico che si tende e si contrae anche grazie alla narrazione di giornali e televisioni, che stimolano la percezione,

l’avvicinamento o l’allontanamento verso il rischio entro cui si specchia la povertà. Che poi, in teoria, si tratterebbe di povertà relativa, ovvero della difficoltà economica che rende impossibile accedere ad alcuni beni e servizi; ma quanto manca, per passare dalla povertà relativa alla povertà assoluta?

Il pensionato che rovista nelle cassette della verdura alla fine dei mercati, è un povero relativo, un povero assoluto o una via di mezzo tra le due condizioni? Rischio povertà. Le due parole,

abbandonate all’interno di quella catena che può essere la lingua, combattono tra loro e, nonostante l’abitudine con la quale si accompagnano, l’abitudine con la quale le percepiamo indissolubili, una delle due tende a sopraffare l’altra, portando così alla cosiddetta esclusione sociale. Rischio povertà è anche un’eventualità, e implica l’azzardo, una quota mal calcolata che ha come logica conseguenza la sconfitta, la sconfitta meritata in quanto non sono stato in grado di calcolare, di governare il rischio, e allora la povertà successiva, inevitabile, è normale che investa me stesso, singolo. Ma alla sconfitta occorre reagire tramite il medesimo strumento che l’ha originata: una nuova scommessa. Il protagonista della scommessa è sempre il singolo, la vincita e la sconfitta sono sempre individuali, non c’è la socializzazione di entrambe.

A conclusione dell’intervista, Revelli auspica “un nuovo patto scrittori e popolo. Esiste una letteratura che ritorni a raccontare il sociale tale che chi lo abita si possa riconoscere e possa assumere la propria controfigura dentro una narrazione accreditata?”. E ancora: “l’impoverimento del ceto medio chi l’ha raccontato? Il ceto medio come poteva essere raccontato da Mastronardi, la sua crisi esistenziale, chi la racconta oggi?”.

Ho scritto Ipotesi di una sconfitta, un romanzo autobiografico, anche per questi motivi. Il romanzo parla di soldi, di lavoro, di padri, di figli, di speculazione immobiliare, di luoghi, di spazi, di desideri legati a modelli di vita basati su una competizione nella quale non si riesce nemmeno a capire cosa ci sia in palio, tanta è la pochezza del premio, e di come questa competizione incida i corpi e le menti di coloro che la vivono. Il romanzo parte dalle quattro di mattina, all’inizio di dicembre nel 1956, e arriva fino a oggi.

Ecco, credo che l’esortazione di Revelli manchi della controparte più significativa: i lettori, o, per dirla con le sue parole, “il popolo”. Ho qualche pudore nell’utilizzare popolo; occorrerebbe, anche per me, un corso di rieducazione; popolo è una parola utilizzata e svilita dai molti populisti o dai media che la associano a qualsiasi pseudo collettività umana, come il popolo della notte o il popolo della partita IVA.

Chiamiamoli lettori. Quasi tutti i lettori – e anche, purtroppo, i cosiddetti lettori forti – sono per lo più disinteressati a romanzi con questi temi. La tendenza non è solo italiana, ma europea, mondiale.

Non voglio fare un discorso legato al valore letterario, non è questa la sede, ma i romanzi italiani di maggior successo di pubblico, nell’ultimo anno, parlano di ragazzine confinate al Sud in una specie di Ottocento contemporaneo, o di giovani uomini che vivono in montagna, al Nord, alla ricerca di se stessi. Soldi e lavoro sono il grande rimosso di questi anni, e credo che le classi dirigenti – politiche, imprenditoriali, a cominciare proprio da quelle editoriali – siano felici che il gusto dei lettori sia modellato su altri temi, e fanno di tutto per assecondare le voglie, indotte, dei lettori. Tematiche come soldi e lavoro sono identificate con inchieste giornalistiche, reportage televisivi di denuncia,

(11)

saggi. Negli anni Zero c’è stata una breve moda editoriale di narrativa sul lavoro, tanto da far

credere a qualcuno che l’argomento potesse interessare davvero: era solo una tendenza passeggera, come quelle che l’industria editoriale ogni tanto alimenta e cavalca, per spremere il massimo da un argomento.

Oggi basta ripetere la parola lavoro – o anche soldi – per azzerare l’interesse dei lettori e degli stessi lavoratori, che a volte, in effetti, sono anche lettori. Ma usciamo dall’angusto contesto editoriale e allarghiamo il discorso. Prendiamo i diritti delle donne in ambito lavorativo: fino a quando si discute di una discriminazione sessuale avvenuta in ambiente lavorativo – magari lo sfruttamento sessuale di una donna famosa, di un’attrice – l’attenzione è massima. Ed è un bene. Ma non appena

bisognerebbe parlare delle condizioni lavorative complessive delle donne, focalizzare l’attenzione sui turni, sui salari – ah, salario, un’altra parola da maneggiare con cura: ricordo che quando ero

impiegato in una multinazionale, le colleghe disapprovavano la parola salario, si vergognavano di essere salariate, preferivano usare stipendio – ecco che l’interesse cala fino a diventare inesistente, una cosa noiosa, da preistoria sindacale. È come se il lavoro fosse un contenitore enorme,

comprendente tutto, talmente vasto da contenere la vita, compresa la sfera delle relazioni sessuali, le uniche degne di interesse; ma il grande contenitore del lavoro, diviene un nucleo minuscolo, invisibile, e scompare, pur contenendo ogni cosa.

Ho sempre scritto di soldi, lavoro e luoghi fin dall’inizio degli anni Zero. Stavolta, con Ipotesi di una sconfitta, il mio intento, oltre che letterario, era di attraversare alcuni episodi selezionati, estratti dalla mia esistenza, per capire come sia stato possibile passare dal padre al figlio, dal Novecento a oggi, e quanto si sia perso in questo passaggio, e quanto si sia guadagnato, ammesso che si sia guadagnato qualcosa. Insomma, siamo passati dalla Milano del 1956 – mio padre ventenne – a oggi, con me quasi cinquantenne. Nel 1956 si produceva “la civiltà del nord, l’umano consumabile”, e mio padre, alla guida di un autobus ATM, tagliava tutto l’hinterland sud, a partire dalle quattro di

mattina, per portare centinaia di persone al lavoro. “Lungo il tragitto incontravano aziende che producevano forni, frigoriferi, lavandini, bidè, gabinetti, lampadine, gelati, merendine, panettoni e colombe”. Mio padre guidava un autobus lungo ventidue metri, prodotto dalla Breda nel 1949.

Nonostante le numerose fermate e nonostante questo autobus viaggiasse a una velocità attorno ai cinquanta chilometri orari pure nel tratto extraurbano, mio padre compiva il tragitto in circa trequarti d’ora, perfino nelle cosiddette ore di punta, ovvero alle sette e alle otto del mattino. La medesima tratta, dal 2011, non è più coperta dall’ATM, ed è interessante notare che la morte di mio padre, avvenuta proprio in quell’anno, sia concisa con la dismissione del pubblico a favore del privato. In questi anni, per completare la tratta, nelle ore di punta ma non solo, può occorrere anche un’ora e mezza: gli autobus sono più veloci rispetto a quelli guidati da mio padre nel 1956, ma il traffico è sempre più congestionato. Sono bastati pochi decenni per espellere dalla città migliaia di residenti ora disseminati nell’hinterland; sono bastati pochi decenni per creare la cittadella

inespugnabile, ed edificare, fuori, case, capannoni, centri commerciali, senza dotare quelle aree di servizi pubblici adeguati, anzi, tagliando quelli esistenti. E la stragrande maggioranza della politica – sia essa nazionale, regionale o locale – che tanto parla di innovazione e futuro, di radici e territorio, crede di incentivare lo sviluppo devastando quel poco che resta delle aree agricole intorno a Milano.

Da qui la spinta per la costruzione di due tangenziali, che attraverserebbero il Parco Agricolo Sud e parte del Parco del Ticino, devastando ettari di coltivazioni e la fitta serie di reticoli, di irrigazione che ha assicurato acqua nei secoli alle campagne. In una situazione ambientale al collasso come quella di Milano e provincia, e in generale di tutta la Lombardia, la gran parte dei politici nazionali, regionali e locali vuole costruire tangenziali, aumentando il traffico, nella fattispecie intorno a Milano. Soltanto pochi sindaci, alcune associazioni di agricoltori e cittadini interessati a una parte fondamentale della città metropolitana si stanno battendo contro queste due tangenziali. Tra l’altro le opere non unirebbero l’hinterland alla città, ma la circumnavigherebbero, creando così, lungo i tracciati, nuovi capannoni, nuovi centri commerciali, nuove case: cemento e asfalto costituiscono il

(12)

vero interesse imprenditoriale della politica. “Questa parte d’Europa è troppo bella per essere distrutta”, ha detto, l’11 ottobre 2017, Cecilia Wikstrom, presidente della Commissione per le petizioni del Parlamento europeo. L’Italia è stata più volte condannata per aver superato i limiti del Pm10, per aver violato la direttiva 2008/50 relativa alla qualità dell’aria.

Ah, quanti chilometri di metropolitana si potrebbero costruire con la spesa sostenuta per due tangenziali, e quanti treni si potrebbero acquistare! Ma viviamo una situazione contraddittoria. La maggior parte dei politici contemporanei italiani ragiona come i politici italiani del 1956, dell’epoca di mio padre ventenne. E tuttavia, noi discutiamo di manifattura 4.0. Ecco, io non so dire cosa sia davvero l’espressione manifattura 4.0, ovvero ciò che dovrebbe essere la quarta rivoluzione

industriale, dopo quelle del vapore, dell’elettricità, dell’informatica. Potrebbe essere una sintesi tra le precedenti tre. Potrebbe essere qualcosa che farà molto bene al mondo, ammesso di essere ancora in tempo per fare qualcosa di buono. Manifattura 4.0. Questa definizione migliorerà, oltre che il pianeta, pure le condizioni lavorative, allontanerà il rischio povertà, o è solo un contenitore apparentemente neutro, entro cui nascondere le solite dinamiche di diseguaglianza? Non lo so. Mi pare che, almeno adesso, le espressioni come manifattura 4.0 servano a distrarre, a occultare quelli che sono i progetti principali, nei quali è possibile spostare e investire grandi capitali, identificare il volto del potere politico, finanziario, e a volte, purtroppo, come accaduto in passato, anche

criminale: ciò che due tangenziali e l’enorme indotto a esse collegato assicurano. Strade,

movimentazione terra, gestione dei rifiuti speciali, edilizia, aumento dei malati di cancro e leucemia, gestione della sanità.

Mio padre è morto in un ospedale dell’hinterland, un ospedale in dismissione: è morto nell’ospedale in cui sono nato, al quinto piano di un edifico vuoto. Nonostante il disinteresse quasi generale, a cominciare proprio dal “popolo” invocato da Revelli, riparto da quel vuoto, scrivo di quel vuoto, scrivo dell’Italia, perché “l’Italia è il mio guinzaglio”, è il nostro guinzaglio.

Immagine di copertina: ph. Chris Barbalis – The Floating Piers, Sulzano, Art Opera Christo and Jeanne-Claud

Maker. Alla rivoluzione con la stampante 3D?

Nel 1769 Richard Arkwright inventò il primo filatoio meccanico (un risultato molto simile lo ottenne, più o meno contemporaneamente, anche James Hargreaves) dando così inizio a una lunga serie di meccanizzazioni del lavoro che portarono a quella che è riconosciuta come la prima rivoluzione industriale.

(13)

Rosetta va in paradiso. Dalla fabbrica alla manifattura 4.0

L’8° appuntamento con il ciclo di incontri Rosetta è mercoledì 8 Novembre 2017 al Fablab OpenDot, in via Tertulliano 70 a Milano. L’incontro seguirà la traccia delle trasformazioni

di Milano: dalla città-fabbrica alla nuova città 4.0.

19.00 – Rosetta va in paradiso con Enrico Bassi, Giorgio Falco, Andrea Fumagalli, Cecilia Manzo. Modera Andrea Daniele Signorelli. Alle 21.00 Dj set di Matteo Saltalamacchia

Partecipazione gratuita su prenotazione. L’evento Facebook è qui

Oggi, in maniera del tutto simile, una serie di innovazioni tecnologiche porta molti osservatori a parlare di “quarta rivoluzione industriale”. Si sostiene che l’economia sia stata investita da una trasformazione radicale, che vede l’emergere di attività economiche, imperniate su modelli neo artigianali, affiancate alla diffusione di nuove tecnologie nei processi produttivi, come il digital manufacturing e l’uso di software per la progettazione e condivisione in rete di disegni e prototipi.

Questo cambiamento è stato accolto da alcuni autorevoli osservatori della società contemporanea come una nuova rivoluzione industriale che sta cambiando rapidamente il modo di progettare, produrre e consumare. Uno dei pionieri di questa rivoluzione è il maker, il nuovo artigiano digitale che fa con mani, mente e computer; le stampanti 3D sono l’attrezzatura archetipica che consente la sua espressione; e i laboratori in cui opera sono i luoghi dove la rivoluzione germina e sperimenta il suo potenziale.

Maker e città. La rivoluzione si fa con la stampante 3D? (i Quaderni, Fondazione Feltrinelli, 2017) è il frutto di un lavoro collettivo in cui si è scelto di guardare ai laboratori maker come a un elemento cruciale di una più ampia trasformazione in atto, con un fuoco specifico. Sono osservati infatti nella relazione che essi intessono con la città ampiamente intesa: popolazioni, edifici, ambiente,

immaginari.

Il fenomeno del making è fortemente radicato nella società e nello spazio urbano tanto che spesso è indicato come un elemento chiave per la ri-urbanizzazione della produzione manifatturiera. I

laboratori dei maker – aperti, condivisi e accessibili – rappresenterebbero nuovi ambiti di relazione con la città. Anche la politica urbana identifica le pratiche ad essi associate come possibili nuovi driver di sviluppo locale.

I laboratori maker rappresentano uno degli aspetti della fabbricazione digitale più visibile, sono luoghi fisici, inseriti molto spesso in contesti urbani, e che potenzialmente hanno un potente impatto sulle città. In secondo luogo sono contesti in cui è possibile trovare una commistione tra innovazione tecnologica e valori (culturali, morali e politici) che conferiscono un senso all’innovazione stessa.

Ed è questo ultimo aspetto che, soprattutto, trova il suo humus nella città, perché nel contesto urbano si concentrano istituzioni, persone ed eventi, e si diffondono saperi e culture, più che altrove.

Così accade anche per quello che sta attorno alla fabbricazione digitale: non solo il fenomeno si proroga in maniera più veloce e coinvolgendo più persone, ma nella città, per la densità di eventi, contatti, istituzioni e luoghi dedicati, è più facile che si diffonda anche la filosofia che sta alla base di questo fenomeno.

La tecnologia innovativa della fabbricazione digitale si sviluppa nella città contemporaneamente

(14)

all’emergere dell’ideologia della produzione e del consumo collaborativo, che risulta capace, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione, di connettere persone su temi di interesse comune e di farle collaborare per condividere idee, servizi e beni materiali (anche solo permettendo a due sconosciuti di utilizzare la stessa automobile, invece di possederne una ciascuno).

In realtà la filosofia che sottende lo sviluppo della fabbricazione digitale, e che sembra essere il punto di partenza di molti dei luoghi in cui si realizza, parte da molto più lontano e attinge a un mix di cultura americana del “do it yourself” e cultura hacker di riappropriazione, redistribuzione e democratizzazione dei processi produttivi. La spinta alla condivisione, già presente in queste visioni, viene facilitata e resa esponenziale dalle tecnologie per la comunicazione.

Adattamento dell’introduzione al volume Maker e città. La

rivoluzione si fa con la stampante 3D? , a cura di Marianna d’Ovidio e Chiara Rabbiosi, i Quaderni,

Fondazione Feltrinelli, 2017.

Se questa è la visione che sottende allo svilupparsi di un movimento legato alla manifattura digitale, non significa però che tutti i protagonisti la condividano o che siano mossi esclusivamente da essa nelle loro azioni. Questo è un passaggio cruciale: se da un lato i maker si ispirano a visioni del mondo comunitarie e democratiche, essi operano sempre e comunque all’interno del mercato, in cui il profitto, il più delle volte, diventa il motore principale delle scelte strategiche.

La relazione con la politica, inoltre, rischia di stemperare la spinta rivoluzionaria o alternativa che ha mosso, ad esempio, alcune pratiche di hacking a cui i laboratori maker si ispirano. Infine, non bisogna dimenticare che, oggi, condivisione e visioni alternative all’economia capitalistica

rappresentano anche delle retoriche utilizzate per puri scopi promozionali, indipendentemente dalla reale adesione da parte dei maker.

Maker e città nasce dall’esigenza di porre dei quesiti: Il making riesce ad attivare dei percorsi di rigenerazione urbana? Nei laboratori maker si produce davvero conoscenza aperta e condivisa?

Questi spazi rappresentano delle risorse per il territorio? In che modo identificano un processo di ri-

(15)

urbanizzazione della produzione manifatturiera? Le risposte a queste e altre domande sono state formulate grazie a una serie di ricerche empiriche con due obiettivi.

Da un lato descrivere un fenomeno di cui, nella sua relazione con la città, si sa ancora molto poco.

Dall’altro, fornire un quadro analitico utile per provare a proporre una prima valutazione delle relazioni che la fabbricazione digitale intesse con la città. Accanto a Milano, una delle città al mondo con maggior densità di laboratori maker, nel volume trovano spazio anche riflessioni su altri contesti italiani e internazionali che sono raccolte intorno a tre assi principali. Il primo è quello della

relazione tra laboratori maker e la società urbana nel suo insieme (in cui trovano spazio i contributi di Chiara Rabbiosi, Letizia Chiappini e Guido Anselmi). Il secondo prende in esame l’economia (Cecilia Manzo, Marianna d’Ovidio).

Il terzo affronta le sfide della politica, attraverso un’esplorazione delle politiche urbane incentrate sui laboratori maker implementate a Milano e a Barcellona (Stefano di Vita e Marc Pradel). Infine il volume si chiude con un confronto presentato sotto forma di conversazione tra due esperte di città, rappresentanti di due discipline contigue che guardano la città: Corinna Morandi, urbanista, e Serena Vicari, sociologa urbana.

L’ambito delimitato da maker e città che questo libro esplora è in rapida evoluzione. Probabilmente la fase sperimentale dei laboratori maker è giunta oggi a maturazione e la ricerca prossima ventura dovrà cercare di entrare più esplicitamente nelle dinamiche relazionali che questi spazi sanno generare rispetto agli altri modelli di sviluppo.

Bisogna ancora indagare in profondità se, e fino a che punto, il making (oggi oggetto anche di specifiche politiche) sia davvero in grado di stimolare dei processi di innovazione economica, sociale e spaziale, riorganizzando quanto avviene lungo i due grandi assi di produzione e consumo, e di società e mercato. Solo così si potrà comprendere il vero portato di “rivoluzione” della fabbricazione digitale nella e per la città.

Maker è città. La rivoluzione si fa con la stampa 3D? è un Quaderno della Fondazione Feltrinelli a cura di Marianna d’Ovidio e Chiara Rabbiosi. Con contributi di Guido Anselmi, Letizia Chiappini, Stefano di Vita, Marianna d’Ovidio, Marc Pradel, Chiara Rabbiosi e un’intervista a Corinna Morandi e Serena Vicari. Qui per scaricare l’ebook

Stasera Rosetta: la cultura è ricchezza?

Lo scambio che ho avuto con la libreria Gogol & Company per scegliere il tema di Rosetta, in un

(16)

afoso pomeriggio d’estate, verteva sull’idea di “traduzione”. Quel giorno, infatti, ci eravamo

interrogati sulla capacità della cultura di operare come soggetto/dispositivo in grado di fare da ponte tra le parti sociali che compongono la città.

Nelle parole dei gestori, quelle mura, quei caffè, ma soprattutto quei volumi volevano offrire linguaggi possibili ai ragazzi del Giambellino, quartiere popolare che si nasconde dietro al Naviglio Grande. Ci eravamo lasciati con quel proposito, e una manciata di nomi possibili.

Quel pensiero, tuttavia, si è fatto strada nelle nostre riflessioni, e si è annodato indissolubilmente ad un tema che stava iniziando ad echeggiare sul finire dell’estate: il tamtam crescente nel dibattito pubblico e nelle nostre filter bubbles della critica/definizione/teorizzazione della cosiddetta classe

“aspirazionale”, o, con epiteti meno ottimistici, “classe disagiata”.

Cosa collega questi due temi all’apparenza così lontani? Perché, partendo dalla relazione tra la vendita di oggetti culturali (i libri) in uno spazio di fragilità sociale (il quartiere) abbiamo parlato di traduzione per poi approdare alla cultura come forma di ricchezza? Una libreria in un quartiere in trasformazione, come processo urbanistico, può essere il motore positivo di una possibile mobilità sociale o opera come mero agente gentrificatore? E in che modo possiamo ancora parlare di mobilità sociale intesa come capacità aspirazionale di cambiamento e di miglioramento delle condizioni sociali, economiche e culturali di partenza, a fronte di una paralisi ascendente ed una progressiva riduzione della c.d. “classe media”?

Quel fil rouge confuso si può agilmente dipanare richiamando l’opera di Pierre Bourdieu, che nel suo percorso di ricerca quarantennale ha allineato le questioni grazie ad indagini di “psicanalisi sociale”, privilegiando la sociologia pubblica rispetto a una mera ricerca dell’oggettività, con la felice

definizione della sociologia come uno “sport de combat”.

È grazie al conflitto ricercato dal professore parigino che si riesce a ricostruire come gli scambi simbolici rappresentino il principale terreno strategico per la costruzione gerarchizzata dello spazio sociale. In altre parole, secondo Bourdieu, quei concetti di classe, di stratificazione sociale, di mobilità sociale, sono principalmente il frutto di scambi simbolici che muovono, producono e riproducono processi di accumulazione: di capitali economici, sociali o culturali. Ciò che scelgo, la musica che ascolto, l’abito che indosso, genera comunicazioni che sono esse stesse scambi simbolici che, nella relazione con l’altro, con gli altri, permettono di definire il posizionamento, creando, di conseguenza, gerarchie nello spazio sociale.

Per distinguere il senso dello scambio simbolico e della stratificazione sociale Bourdieu parte da lontano, e riconosce i simboli del potere francese attraverso l’analisi della società cabila in Algeria. È dalla “giusta distanza” mediterranea che il sociologo ha potuto riconoscere quei processi che ha poi analizzato per quasi quattro decenni. Solo posizionando correttamente “il sé”, professore,

intellettuale pubblico, francese, che ha potuto poi colmare quella distanza e tradurre quei processi simbolici raccontati in saperi accessibili.

La natura dell’estetica, i gusti e i disgusti che guidano i costumi, il ruolo sociale degli artisti e degli autori sono solo alcuni dei temi trattati nelle sue opere. Come scrive, «ogni atto culturale, creazione o consumo, contiene l’affermazione implicita del diritto di esprimersi legittimamente e con ciò coinvolge la posizione del soggetto nel campo intellettuale e il tipo di legittimità che reclama».

Bourdieu amplia e sviluppa il tema ne “La distinzione” opera omnia in cui le classi sociali

rappresentano il fondamento (e la spiegazione) del sistema di classificazione e percezione del mondo sociale che permette la scelta di oggetti di piacere estetico. Il gusto si connette, quindi, ad alcuni fattori: la traiettoria individuale (soggetto) economica e sociale, e la percezione del mondo

(17)

(relazione) alla posizione economico-sociale di partenza (la classe), e si intreccia indissolubilmente ai corpi e alla loro fisicità.

Così, l’antitesi tra la cultura e il piacere fisico (o, se preferiamo, la natura) si radica nella

“contrapposizione fra la borghesia colta ed il popolo, sede fantasmatica della natura incolta, della barbarie dedita al semplice godimento. […] La posta in gioco del discorso estetico, e dell’imposizione della definizione di ciò che è autenticamente umano, che essa mira a realizzare, non è altro, in ultima analisi, se non il monopolio dell’umanità”(Paolucci, Gabriella. Introduzione a Bourdieu – Maestri del Novecento Laterza – posizioni nel Kindle 1993-1997. Editori Laterza).

E ancora: “Quando si cerca di determinare in che modo gli atteggiamenti colti e le competenze culturali espresse tramite la natura dei beni consumati e il modo di consumarli variano a seconda delle diverse categorie di attore sociale e a seconda degli ambiti a cui vengono applicati, da quelli più legittimi come la pittura o la musica, fino a quelli più liberi come l’abbigliamento, l’arredamento o la cucina e, all’interno degli ambiti legittimi, a seconda dei «mercati», «scolastico» o

«extrascolastico», sui quali vengono offerti, si appurano due fattori fondamentali: da un lato, il rapporto strettissimo che lega le pratiche culturali (o le relative opinioni) al capitale scolastico (misurato in base ai titoli di studio ottenuti) e, in via subordinata, all’origine sociale (stabilita mediante la professione del padre); dall’altro lato, il fatto che, a parità di capitale scolastico, nel sistema esplicativo delle pratiche o delle preferenze, il peso dell’origine sociale aumenta quando ci si allontana dagli ambiti più legittimi”.

Questa lettura deterministica delle traiettorie, chiamata ed analizzata come “habitus” ossia una serie di comportamenti ed esercizi di potere non è il prodotto ineluttabile di fattori positivi, ma si tratta di un ordine simbolico che è semplice riflesso del reale.

È con una gigantesca mole di dati che l’autore riesce a ricostruire gli habitus culturali delle classi (francesi) che esamina.

Se nel lavoro sui consumi lo strutturalismo è la lente principale delle sue riflessioni, è con il lavoro del 1993, “La misère du monde” che il sociologo (coordinando un team di ricercatori) riesce ad evidenziare la centralità del conflitto, profondamente politica e radicale. Le molte interviste

effettuate nella Parigi di Mitterrand raccontano de “la miseria” concepita non come povertà assoluta (condizione oggettiva) ma come miseria di posizione. Gli intervistati sono e stanno in uno spazio fisico e sociale precario, degradato, in cui sono senza possibilità di uscita e che tendono a

riprodurre; un insieme di relazioni sociali che influenza con assoluta preponderanza il modo in cui le persone pensano sé stesse e riflettono gli altri. Nelle analisi questo processo è il prodotto di una desertificazione sociale, data dal crescente e costante impoverimento materiale e relazionale. Il tema del dominio che sembra sottotraccia nelle sue riflessioni culturali ed estetiche si esplica e ritorna evidente.

Lo Stato, messo alla berlina dai processi neoliberisti, ha, di fatto, smantellato l’idea di servizio pubblico, che perde la sua funzione sociale e assistenziale e viene, secondo Bourdieu, gestito come un’impresa privata da parte di funzionari usciti dalle grandi scuole di Stato.

Questo processo trasforma quindi le pratiche solidali (e mutatis mutandis, quelle culturali) in una semplice allocazione di risorse che non fa altro che riprodurre gli schemi, i confini e gli spazi sociali già marginalizzati dal lavoro, dalla provenienza, dal sistema educativo, lasciando a pochi audaci di frontiera il compito di un confronto quotidiano con tali scelte.

In questi vent’anni, questa pratica di stagnazione non solo ha bloccato tutti nelle posizioni di partenza, ma ha anche nei fatti rivelato quella contraddizione che la politica (come pratica sociale)

(18)

aveva modificato (o camuffato): ossia che lo studio, il sapere, i libri, la cultura, la pratica nella polis avessero la capacità di far uscire dal guado le traiettorie soggettive (e collettive), e che quel modello a cui aspirare, costruito sui consumi, fosse l’unico modello possibile.

Secondo Raffaele Alberto Ventura, “La classe media affronta oggi una degradazione della sua situazione economica: precariato, disoccupazione, debito… Ma soprattutto fa i conti con la sua dipendenza da valori e aspirazioni socialmente indotti che la spingono a identificarsi con la figura del borghese”.

Questi argomenti vengono apertamente contestati da Valerio Mattioli, che scrive: “Sapete che c’è?

Io al limite direi che di retorica del Sessantotto ce n’è stata troppo poca, tiè. E lo dice uno che del Sessantotto non gliene è nemmeno mai fregato granché, figuratevi. Direi – perché è quello che mi dice la realtà che conosco, in cui sono cresciuto e a cui se volete sono scampato – che è stato il modo brutale in cui per decenni è stato represso e confinato a un angolo qualsiasi slancio utopico,

qualsiasi proiezione desiderante, ad aver preparato la strada a quello scenario da guerra civile imminente che per Ventura è l’unica prospettiva plausibile a quasi dieci anni dalla “più grande crisi nella storia del capitalismo”. Altro che “siamo stati troppo velleitari, torniamo a più miti propositi”.

Ragionamenti del genere se li possono permettere solo quegli happy few che dalla rinuncia alle

“velleità” non hanno niente da perdere perché già hanno tutto e quel tutto vogliono tenerselo stretto”.

A dispetto del sociologo francese, e anche in parte di alcuni relatori, io tendo a credere che, per un breve ma fortunato periodo questo processo abbia agito e funzionato: se pensiamo alle felici

esperienze del movimento femminista, di quello operaista e delle trasformazioni del mondo del lavoro, o la portata dirompente degli scambi simbolici e sociali successivi alla legge Basaglia, quegli spiragli sembrano ancora percorribili proprio perché il conflitto non è stato rimosso o negato, ma attraversato dai pensieri e dai corpi.

Quei saperi hanno operato nella definizione del sé (sia individuale, che collettivo) per poterne nei fatti, prendere distanza, per vedere il posizionamento nel mondo, che non significa solamente percepire il mondo impossibile, ma, al contempo, anche quello possibile.

Come ci dice Gloria Origgi, “L’autenticità non è altro che l’incontro, raro e perfetto, tra l’immagine che vorremmo dare di noi stessi e come siamo visti dagli altri. Diventiamo autentici grazie allo sguardo degli altri. Il nostro ego è doppio ed è nella sua doppiezza che ci motiva. Senza la coscienza dell’interdipendenza tra me e l’immagine di me negli occhi degli altri, tra la mia reputazione e la mia azione, non posso capire né chi sono né perché agisco”. Quella relazione sociale è politica, ed è pratica culturale.

La cultura può operare questi processi di trasformazione nella misura in cui da esercizio estetico diventa pratica etica, di fatto, politica. Solo quel processo di trasformazione può ricreare quella relazione con l’altro, centrale per definirsi, per costruire la reputazione, per emanciparsi. Così il mondo del bar di Casola Valserio, palestra di immaginari per Cristiano Cavina, quei “Bar degli Appennini, con la sua testa di cinghiale appesa sopra l’ingresso, il bancone consumato, la gente che anche se ti vuole bene non te lo dice perché non sa fare ma te lo dimostra mandandoti cordialmente a quel paese; un posto in cui si ha piacere di stare, anche solo per litigare un po’. Quelli sono turbine che generano un sacco di narrativa, di ogni tipo”. E di racconti abbiamo bisogno, perché permettono di vedere oltre le montagne, oltre la circonvallazione, e lo spazio (geografico/sociale) diventa un mondo del possibile e non uno spazio finito, in provincia di Faenza come al Giambellino.

Queste sono alcune delle questioni che vorremmo affrontare a partire da due poli, quello della cultura come mezzo di conoscenza, riscatto e trasformazione del mondo da una parte, e quello della

(19)

cultura come mezzo inceppato di conservazione del privilegio dall’altra, si articolerà la

conversazione. In un luogo che vive questo tema attraverso la concretezza del rapporto quotidiano coi lettori: sia quelli già forti che quelli che stanno nascendo.

Programma

19.00 – Rosetta è disagiata – conversazione presso libreria Gogol & Company Via Savona, 101 Milano

Partecipano:

Cristiano Cavina – scrittore, autore di Fratelli nella notte, Feltrinelli

Valerio Mattioli – curatore e autore, sua la critica al libro di Ventura pubblicata su cheFare

Gloria Origgi – filosofa, autrice di La reputazione. Chi dice cosa di chi, Università Bocconi Editore Raffaele Alberto Ventura – scrittore, autore di Teoria della classe disagiata, Minimum Fax

Modera Bertram Niessen – direttore scientifico di cheFare – 21.00 – Djset di Matteo Saltalamacchia

Rosetta. Un progetto culturale nomade è un ciclo di incontri che attraversa Milano toccando luoghi sempre diversi della città, all’ora dell’aperitivo, a partire dai primi mesi del 2017 per almeno due anni, ideato e promosso da Casa della Cultura e cheFare, realizzato con Fondazione Cariplo. Gli incontri sono nove all’anno, uno per ciascuna delle nove zone della città.

Rosetta vuole mettere in relazione i centri innovativi di produzione e distribuzione culturale della città di Milano, compresi quelli meno mappati e riconosciuti. Lo farà affrontando temi diversi tra loro, accomunati da un legame diretto con la vita quotidiana, con l’obiettivo di coinvolgere quei pubblici più giovani e più dinamici che stentano a riconoscersi nei mondi culturali tradizionali.

Il progetto è stato realizzato con Fondazione Cariplo, tra le realtà filantropiche più importanti del mondo con oltre 1000 progetti sostenuti ogni anno per 144 milioni di euro e grandi sfide per il futuro. Giovani, benessere e comunità le tre le parole chiave che ispirano oggi l’attività della fondazione. “Dalla coesione tra le persone parte la nostra piccola rivoluzione – Giuseppe Guzzetti, Presidente – perché ciascuno dia il proprio contributo per fondare il futuro della nostra società su quei principi di solidarietà e di innovazione sociale che sono alla base dell’operato di Fondazione Cariplo” #conFondazioneCariplo

www.rosettamilano.it per informazioni:

rosetta.milano@che-fare.com segreteria@casadellacultura.it tel. 02795567-3407828946

(20)

Farsi delle storie a Casola

Non esisteva una libreria nel paese dove sono nato, vissuto e dove continuo a vivere.

Non è mai esistita nemmeno prima e a dirla tutta, non esiste nemmeno ora.

Da qualche anno c’è una cartoleria che, oltre ai giocattoli e alla cancelleria, vende anche qualche libro, prima se ne potevano trovare qualcuno sul bancone di Ciata, il classico spaccio da paesino sperduto negli appennini che vende sigarette, detersivi, collanine, biscotti, spume al cedro, Stock 84 e altri generi di prima necessità, un po’ come gli empori del Far West, dove potevi anche prendere un sacco di fagioli e qualche scatola di munizioni per le Colt da 45 mm.

Giovedì 12 ottobre 2017 Gogol & Company, Milano. Rosetta è disagiata con Cristiano Cavina, Valerio Mattioli, Gloria Origgi, Raffaele Alberto Ventura. Modera Bertram Niessen

Però Ciata teneva solo opere locali, nel senso che quando qualcuno della zona scriveva un libro e si pagava la pubblicazione, poi lo portava da Ciata affinchè ne tenesse qualche copia sul bancone, tra il barattolo di farina di fecola e quello delle pastiglie alla menta.

È lì che tra una spuma e l’altra, ho letto il Diario di Condotta del mio medico curante, il Dott. Filippo la Porta e anche il bellissimo libro sulla Storia di Casola Valsenio ( vabbè, era lungo settanta pagine, non perchè Casola non sia antica, ma la nostra tribù di Galli Boi mischiati a Etruschi reietti è uscita dalla foresta solo a medioevo inoltrato, e quindi un sacco di secoli si potevano riassumere in due righe).

Se proprio uno aveva grande desiderio di leggere, c’era la biblioteca comunale, che però negli anni ottanta apriva a sorpresa, senza orari fissi, ma quando ne aveva voglia Anna la Svizzera, una pensionata che la teneva aperta come volontariato, oppure doveva andare a Faenza, dove c’era la libreria più vicina. Che erano 40 km, e quindi andava bene solo se avevi la macchina.

Per nostra fortuna, almeno per quella minoranza di bambini a cui piaceva leggere, c’era in fondo a un’aula delle Scuole Elementari un vecchio armadio ministeriale, imbarlato, pieno zeppo di vecchi libri ammuffiti che mandavano un piacevole odore di formaggio di fossa.

Io leggevo quelli. Almeno, ho potuto leggerli fino alla quinta.

Non è che però quando non leggevi i libri ti sentivi tagliato fuori dal mondo delle storie. Anzi.

Nei piccoli paesi di Romagna come il mio, esisteva ed esiste ancora una inossidabile tradizione orale.

C’era sempre qualcuno, da qualche parte, che raccontava qualcosa.

(21)

Ma non come succede nei film, seduti intorno a un fuoco o cose del genere.

E non erano nemmeno racconti in senso stretto.

Il più delle volte litigavano per qualche sciocchezza, e finivano per rinfacciarsi cose del passato, e davvero ne saltavano fuori di tutti i colori.

Come tutti i romagnoli il mio domicilio reale non è dove vivo, ma il bar che frequento. Casola ha pochi abitanti, 2880, ma ha undici bar. Il bar è come una religione, o la squadra di calcio del cuore;

non si cambia. E ogni bar ha la sua specializzazione. C’è quello dei cacciatori, quello dove si parla di sport, c’è quello dei pensionati, quello dove ci vanno le donne a fare colazione, c’è quello dei

comunisti (in ogni paese di romagna c’è sempre un bar dei comunisti) e via dicendo. Il Bar che frequentavo io era il Bar di Sopra (in realtà all’anagrafe si chiamerebbe Bar Nuovo, ma qua si usano i soprannomi per tutto, anche per i luoghi e le cose). E la specializzazione del Bar di Sopra era raccontare patacche.

È stato al bar che ho sentito le storie più incredibili della mia vita, quasi tutte nate da litigi durante le partite a carte. Ho visto amicizie lunghe sessant’anni finire perchè non ci si metteva d’accrodo su quanto pesava un’occhio umano, e si finiva con il rinfacciarsi il furto di galline durante il fronte o la provenienza della moglie, conosciuta in licenza mentre esercitava in un bordello di Trieste.

Il resto della narrativa, la fruivo comodamente a casa, senza dover spostarmi da un passo.

Ho il privilegio di essere nato di padre ignoto, figlio di ragazza madre, e di aver vissuto sempre con i miei nonni, in una rarissima famiglia romagnola ultracattolica. Mia nonna, per non farsi mancare niente, era pure fascista, avendo fatto la serva dai Conti Torlonia ed essendo sorella di un veterano della marcia su Roma (anche si Zio Tosco all’epoca aveva solo 14 anni e l’hanno lasciato a far la guardia con lo schioppo alla stazione dei treni di Faenza, perchè era troppo piccolo per portarlo giù con gli altri nella capitale).

Mia nonna si lamentava di mio nonno – miserabile contadino Saragattiano – con il gigantesco crocifisso che aveva appeso in cucina, elencandogli tutte le tribolazioni che le aveva fatto patire.

Era uno spettacolo.

Quando poi c’era anche mia mamma, i litigi e le recriminazioni assumevano portate epiche, e finiva sempre che si correvano dietro con il coltello in mano, cercando di ammazzarsi. Era come avere il cinema lì, nel nostro minuscolo appartamento delle Case Popolari.

Ecco, io credo che al loro meglio, una libreria, o una biblioteca, o comunque un posto in cui vivono le storie, debba avere quell’aria da Bar degli Appennini, con la sua testa di cinghiale appesa sopra l’ingresso, il bancone consumato, la gente che anche se ti vuole bene non te lo dice perchè non sa fare ma te lo dimostra mandandoti cordialmente a quel paese; un posto in cui si ha piacere di stare, anche solo per litigare un po’.

Quelli sono turbine che generano un sacco di narrativa, di ogni tipo.

Poi, il resto accade da sè, in un modo o nell’altro.

Tanto che a volte sono le storie che ti cercano, non il contrario.

(22)

Il soggetto moderno è un soggetto sociale

Nel film Birdman, che ha vinto l’Oscar del miglior film nel 2015, Riggan Thompson, attore

hollywoodiano celebre vent’anni prima per il suo ruolo di supereroe, tiene una citazione apocrifa di Susan Sontag sullo specchio del suo camerino di teatro, alle prese con l’adattamento e la regia in teatro del famoso libro di Raymond Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. “A thing is a thing and not what is said of that thing”: una cosa è una cosa e non ciò che diciamo di quella cosa.

Giovedì 12 ottobre 2017 – Gogol & Company, Milano. Rosetta è disagiata con Cristiano Cavina, Valerio Mattioli, Gloria Origgi, Raffaele Alberto Ventura. Modera Bertram Niessen

Rigar Thompson vuole rilanciarsi nel teatro, vuole ritrovare un’autenticità perduta nel successo del suo personaggio, Birdman, il suo doppio io che ancora lo perseguita suggerendogli di credere nell’ipertrofica immagine di sé che il successo da supereroe gli ha incollato addosso. Lo provoca, lo richiama come il canto delle sirene al suo altro io, quello costruito dallo sguardo degli altri. Riggan resiste, combatte e infine cede: non c’è un io vero e un io inautentico. Siamo quello che gli altri dicono che siamo.

E basta. Non c’è identità profonda, non esiste un fondo solo nostro di noi stessi, un io reale cui appigliarsi fuori dai mille specchi che ci confondono e rifrangono la nostra immagine. Non esistiamo al di fuori da ciò che si dice di noi. Caricatura dello spirito hegeliano, la sua coscienza – il suo Io – non è che il suo desiderio di essere riconosciuto, di essere pensato dagli altri.

E, in fondo, di cosa parla Carver quando parla di amore? Non parla proprio di questo? Quando, nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Ed, l’ex- fidanzato violento di Terri, scopre che lei non lo ama più e decide di uccidersi, non siamo davanti a un atto di amore? Perché senza l’amore di Terri, semplicemente Ed non esiste.

Il protagonista di Birdman è confuso: l’eco della sua immagine è ovunque, in una cacofonia di figure del riconoscimento che mischia il successo, la gloria, l’arte, la popolarità e infine l’amore. La

vertiginosa verità a cui lo porta la sua confusione è che la citazione apocrifa sul suo specchio è falsa e che il suo secondo io ha ragione: una cosa è ciò che si dice di quella cosa.

Ciò che si dice di noi, che si dice delle cose è tutto ciò che ci permette di conoscere e riconoscere il mondo perché essere è essere un valore in un ranking, in un sistema che permette di fare paragoni.

Essere è poter essere comparati.

La nostra immagine sociale, il modo in cui siamo visti, giudicati, comparati, ci è familiare ed

Riferimenti

Documenti correlati

nn Continua l’espansione di Archimede Spa, l’agenzia per il lavoro a carattere na- zionale specializzata nella somministrazione, ricerca e selezione, sviluppo e orga- nizzazione

La nostra prima tappa sono le gole di Sabaloka, a sud di Bagarawia a circa 50 km a nord di Khartoum dove si trova la sesta e ultima cataratta del Nilo.. Le cataratte del Nilo sono

Si ottiene un monomio solo quando i monomi addendi hanno le stesse let- tere e ogni lettera ha lo stesso esponente, ossia quando i monomi hanno la stessa parte letterale..

Lettura e analisi dei seguenti episodi: la descrizione della peste a Milano (capitolo XXXI), la notte agitata di Don Rodrigo (capitolo XXXIII), la scena della madre di

L’esempio più eclatante è dato dalla analisi raffinata che è stata fatta dei vari meccanismi d’asta, ma si può citare la comprensione del ruolo di aspetti come

Tornando all’attuale ciclo settimanale, si nota che è stato testato il livello minimo del ciclo e pertanto sono più probabili 1-2 gg di trend ancora al ribasso.. Poi dovrebbe

Presso la nuovissima scuola dell’infanzia sono stati creati nuovi ser- vizi igienici nella settima sezione men- tre alle scuole medie le toilette sono state realizzate a

ore 15.30 RELAZIONE DEL PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE ITALIANA DELL’INDUSTRIA ALIMENTARE Filippo Ferrua Magliani. ore 16.00 INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA CONFEDERAZIONE