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COPYRIGHT, tutti i diritti riservati all autore I colori della danza di Maria Angela Della Morte Conte

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“COPYRIGHT, tutti i diritti riservati all’autore”

I colori della danza di Maria Angela Della Morte Conte

Parigi, 3 dicembre 1894

«Caro diario, devo lasciare l’hotel des femmes, devo andarmene da questo maledetto posto. Non posso più vivere qui, a due passi da Montmartre, dai café-chantant e dai cabaret. Qui impazza l‘illegalità, non è certo un luogo adatto a una giovane donna cresciuta in convento come me!»

Poggio la penna sullo scrittoio e mi guardo intorno, sconsolata. Questa camera è un vero squallore:

un letto, un tavolino accostato al muro, una sedia e in un angolo un catino con l’acqua ancora ghiacciata. Vivo, anzi, sopravvivo in questa topaia da più di due mesi.

Avvicino alla bocca le mani intirizzite e alito sulla punta delle dita. Il fiato caldo dà un po’ di sollievo alle mie povere estremità, ma gli spifferi gelati che si insinuano dalle fessure della finestra mi fanno rabbrividire. L’alloggio all’hotel des femmes è quanto di meglio posso permettermi.

Temporaneamente, s’intende. Ma devo procurarmi dei soldi, al più presto. Devo decidermi, devo trovarmi un lavoro: in una sartoria, in una fabbrica, in una maison de tolérance… opzione rivoltante, ma tant’è, devo valutare tutte le opportunità.

Ho scoperto che proprio in questo albergo vivono molte filles soumises, ragazze perdute che barattano le loro grazie per quattro soldi. Ho avuto modo di osservarle, lavorano in strada, nei presi di Rue Laffitte. Agli uomini costano meno di un boccale di birra.

Alloggiano qui anche parecchie grisettes, ragazze di basso ceto: operaie, donne di servizio, sartine.

La loro è una vita dura, a vent’anni ne dimostrano quaranta. Vivono sole, sono emancipate, indipendenti, usano il sesso per arrotondare. Quello che è certo è che non sarò mai una di loro. Ma sono gentili, mi hanno offerto aiuto. Sospiro, mentre riprendo in mano la penna.

«Diario caro, a te lo posso dire: la verità è che non ho più nemmeno un centesimo. Anche se sono stata molto oculata, anche se ho centellinato i pochi denari che mi aveva regalato la Madre Superiora, non posso più permettermi nemmeno questo tugurio».

Mi accascio sul letto, sconsolata, e i ricordi mi assalgono.

Era il primo giorno di ottobre. Il vento soffiava forte e si insinuava fra i rami della grande quercia posta a ridosso dell’ingresso strappandole le foglie, che volteggiavano nell’aria e poi si posavano a terra in un caleidoscopio di colori. Pennellate di giallo, di rosso e di arancione ravvivavano quel luogo grigio e tetro che per diciotto anni era stata la mia prigione.

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2 Avevo varcato il portone dell’orfanotrofio e mi ero allontanata con passo spedito, un fagotto sotto il braccio, una manciata di monete cucite con cura nell’orlo della gonna e una treccia scura che ondeggiava al ritmo dei miei passi. Mi ero lasciata alle spalle anni di punizioni severe e qualche rara carezza e mi ero incamminata verso l’ignoto. Non mi ero girata nemmeno una volta.

La città mi aveva affascinata. Parigi è un incanto! Grandi viali e carrozze, dame eleganti e cavalieri e, in bella mostra nelle vetrine, abiti sontuosi e cappelli. “Li avrò anch’io” pensavo col naso schiacciato sui vetri, “avrò anch’io bei vestiti, e gioielli…” Avevo diciotto anni e tanti sogni.

“Li devo scrivere” avevo deciso, “solo così i miei desideri si potranno avverare”.

Era stato proprio in quel momento che avevo iniziato a scrivere il diario.

Parigi, 15 dicembre 1894

«Diario caro, oggi è un giorno importante. Oggi ho conosciuto Marguerite, e la mia vita ha avuto una svolta: grazie a lei ho trovato un lavoro».

Erano trascorsi poco più di due mesi dal mio arrivo in città. Mi trovavo in rue Faubourg Saint Honoré, nell’ottavo arrondissement, a due passi dalla mia vetrina preferita, quella dell’atelier di Madame Jeanne, una modista che veste le parigine più alla moda. Andavo spesso lì, attratta da nuvole di tulle e falpalà, da cappellini vezzosi e da abiti ricchi di trine e merletti. Osservavo l’andirivieni di dame eleganti e ciarliere, ascoltavo l’eco delle loro chiacchere e delle loro risate.

Un improvviso scroscio di pioggia mi aveva costretta a cercare riparo sotto un cornicione. E l’avevo vista arrivare. Correva, avvolta in una cappa grigia che la copriva da capo a piedi, lasciando intravedere solo la punta delle scarpe, a dire il vero un po’ malconce.

Aveva cercato rifugio accanto a me.

«Mi chiamo Marguerite, e tu?» Con un movimento delle spalle, si era scrollata dal pastrano le gocce d’acqua. «Sono in ritardo, Madame è molto severa!» Poi aveva aggiunto, quasi parlando a sé stessa:

«Io lavoro qui, sai… so ricamare molto bene». Le avevo sorriso. «Io sono Mathilde» a quel tempo non avevo ancora cambiato nome. «Anch’io so ricamare molto bene, in collegio le suore erano molto esigenti, non tolleravano nemmeno la più piccola imperfezione».

Era la verità. Non potrò mai dimenticare la paura, ricordo ancora il tremore che mi assaliva quando le vedevo scrutare i miei ricami con occhi truci, severi, alla ricerca di imperfezioni, con la bacchetta pronta all’uso. Ma questo a Marguerite non l’avevo confidato. L’avevo seguita nell’atelier.

Parigi, 29 dicembre 1894

«Hai finito? Sbrigati» nell’atelier c’era grande fermento e Madame era molto più agitata del solito

«la cliente sarà qui fra poco. Mancano due giorni a Capodanno!»

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3 Proprio in quel momento avevo sentito un nitrito, poi uno stridio metallico. Avevo allungato il collo, curiosa. Da una carrozza, ricca di fregi dorati, che si era arrestata davanti all’entrata, erano scese due dame. Madame Jeanne si era precipitata verso di loro. I fruscii dei loro abiti di seta e un effluvio di violetta avevano accompagnato il loro ingresso nell’atelier.

«Lei è Marie» mi aveva sussurrato Marguerite, indicandomi con un cenno del capo la più vicina a noi. «Suo marito è il primo ministro francese. Per lei abbiamo confezionato ben cinque abiti». Poi si era girata verso l’ingresso, e aveva aggiunto: «Quella invece è Loie Fuller. Stasera danzerà alle Folies Bergère». Con voce ancora più bassa, aveva precisato: «È una cortigiana. Marie si fida solo di lei per la scelta degli abiti».

Probabilmente Marguerite aveva notato la mia faccia stupita, perché si era affrettata a spiegarmi:

«Mathilde, sono loro, le cortigiane, a dettare la moda. Anche le donne dell’alta società imitano i loro abiti e le loro acconciature. E non sempre riescono a raggiungere il loro livello». Tenendo il capo chino sul ricamo avevo finto indifferenza, ma avevo ascoltato Marguerite con molta attenzione, non mi ero persa nemmeno una parola. «Perfino la più ricca matrona può contare su un solo marito, mentre le demi-mondaines, le cortigiane, hanno tanti… beh, non proprio mariti…

ammiratori! E finanziatori!» Marguerite sembrava ben informata.

«Marguerite, questa sera mi accompagni in rue Richer, alle Folies Bergère?» L’idea mi era balenata all’improvviso. «Vorrei vedere Loie Fuller danzare».

Febbrilmente, avevo estratto dalla sacca il mio diario.

«Diario mio carissimo, devo dare una svolta alla mia vita. Sono già stanca di strabuzzare gli occhi su questi veli impalpabili, di decorare abiti che né io né Marguerite non potremo mai indossare…»

Ricordo bene quella sera. Era una fredda sera di fine dicembre. Salutata Madame Jeanne, io e Marguerite eravamo uscite insieme dall’atelier. In città erano già iniziati i preparativi per i festeggiamenti del Capodanno. Le luminarie interrompevano a tratti il buio, facendo luccicare le strade, ricoperte da un sottile strato di ghiaccio. Camminavamo piano, per non scivolare.

Già a due isolati di distanza dal teatro una musica allegra, frizzante, arrivava ai nostri orecchi. Il cartellone delle Folies Bergère presentava spettacoli di varietà, operette, canzoni popolari e balletti molto apprezzati. Anche quella sera c’era il tutto esaurito. Ci eravamo intrufolate nel foyer poi, con circospezione, ci eravamo avvicinate al palco, immobili, nascoste da un pesante tendone di velluto.

La sala era gremita, e tutti gli occhi erano fissi su di lei: Loie Fuller sembrava una fata. Io avevo la gola secca per l’emozione. Fissavo incantata quei veli impalpabili ed eterei, quei teli cangianti illuminati ad arte da luci colorate, che lei faceva sbocciare con maestria e trasformava in corolle.

Quelle lame di luce, quei drappi che serrava e schiudeva in una danza infinita.

No, quella notte non avevo scritto sul diario i miei desideri, i miei sogni. No!

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4 Quella notte li avevo urlati, nel buio: «S a r ò c o m e l e i!»

Parigi, giugno 1898

Sono lontani i tempi dell’hotel des femmes. Ora vivo in una bella casa sulla Rive Droite, a due passi dall’Opéra Garnier e dal quartiere a luci rosse di Pigalle, nella Parigi più pittoresca e famosa, quella degli scrittori e degli artisti, circondata da una collezione infinita di specchi, poltrone e quadri appoggiati ovunque. Per non parlare dei mammiferi e degli uccelli impagliati, di una scrivania Luigi XVI, o di un incredibile candeliere. E di uno struzzo impagliato alto quasi due metri e di un pupazzo di Mickey Mouse. Adoro accumulare gioielli e ninnoli.

«Marguerite, presto, aiutami a indossare questo abito. È sempre più stretto, accidenti…»

«Eccomi, Mathilde» A volte Marguerite si sbaglia, e mi chiama col mio vecchio nome.

Mi fa proprio arrabbiare! «Ora sono Marthe, te lo sei già dimenticato?»

Da quattro anni Marguerite è la mia ombra, la mia amica, la mia confidente. Il suo aiuto è veramente prezioso, soprattutto ora che la mia vita è così densa di impegni.

E di corteggiatori. In queste stanze piene zeppe di mobili, sovraccariche e leziose, ricevo i miei facoltosi amanti: Paul, Gaston, Pierre, Georges… e Giovanni.

«Caro diario, è giusto che tu lo sappia: la piccola Mathilde non esiste più. Ho realizzato i miei sogni: ora mi chiamo Marthe de Florian, e sono una soubrette delle Folies Bergère. E, senza falsa modestia, sono la donna più corteggiata di Parigi!»

Ripongo con cura i miei diari, quattro risme di fogli legati da nastri verdi e rosa, nel cassetto del comò. Fra poco Giovanni sarà di nuovo qui, non voglio che li veda, riconoscerebbe senz’altro la mia calligrafia. Curioso com’è, vorrebbe senz’altro leggerli. Forse un giorno glielo permetterò.

Giovanni Boldini, proprio lui, il ritrattista più ambito dalle dame dell’alta società. Con dettagli luminosi e grandi pennellate ferma sulle tele immagini di donne bellissime, testimoni di un mondo fatto di sete, di piume e di perle. Giovanni si era intestardito col mio ritratto.

Mi aveva costretta a posare, immobile nel suo atelier, per ore…Che noia!

E, come se non bastasse, mi aveva imposto di indossare quell’orribile abito rosa. Non so nemmeno io perché l’ho comprato. Quel giorno la modista mi aveva portato tre abiti. Dovevo sceglierne uno, ma sicuramente questo era il meno adatto a me. Troppo lezioso. Non so cosa mi è preso. È stato quando la modella ha sussurrato: «No, questo non va bene per lei!» che ho deciso. «Lo prendo» ho esclamato, forse a voce un po’ troppo alta. Per poi pentirmene subito dopo. Ho incrociato lo sguardo stupito della modista, che conosce bene i miei gusti, ma non ho avuto il coraggio di dirle che avevo cambiato idea. Giovanni ha preteso che oggi lo indossassi di nuovo.

E ora sono qui, prigioniera di questa nuvola di tulle rosa, che ma mi va già stretta in vita.

Si… mi stringe. Ma non ho ancora deciso se rivelargli il nostro segreto.

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«Mathilde…» Lei si precipita all’ingresso, spalanca la porta.

Giovanni entra, regge a fatica un quadro, enorme. Mi guarda, sorride. «È tuo!»

Mi avvicino. Sono emozionata, incredula.

È il ritratto di una donna bellissima, avvolta in un vaporoso abito da sera rosa.

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