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Storia dell idea di razzismo

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Academic year: 2022

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“STORIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA”

Corso di Laurea in Filosofia – Laurea Triennale A.A. 2018-2019 – docente titolare: prof. Fabio Ciracì Crediti 12; Semestre I - Lezione frontale: 60 ore.

Luogo: Sperimentale Tabacchi 2 SP2 Aula 5, lunedì e mercoledì; Aula 8, martedì Orario: lunedì martedì mercoledì ore 9-11

Corso Monografico:

Gli intellettuali italiani di fronte al razzismo. A 80 anni dalle leggi razziali del 1938

Storia dell’idea di razzismo

Volksgeist in Johann Gottfried Herder e

concetto di popolo in

Johann Gottlieb Fichte,

Discorsi alla nazione tedesca

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Il concetto di popolo secondo il Romanticismo.

Herder e il Volksgeist, Lo spirito del popolo

Nella sua Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità (1774) Herder intendeva costruire una storia filosofica universale, in continuazione con le tesi già espresse nelle Idee per una filosofia della storia dell’umanità (1784-1791). Il libello del 1774 introduce una nuova e fondamentale nozione di popolo in aperta opposizione al pensiero illuminista, per il quale esso è tale in quanto costituito dall’insieme dei citoyen, quindi da un punto di vista della costruzione dello Stato sulla base di un contratto proveniente dal basso. Radicalizzando la teoria di Montesquieu (1689-1755) espressa in De l'esprit des lois (Lo spirito delle leggi, 1748), secondo la quale esiste uno “spirito delle nazioni” che scaturisce da vari fattori (clima, credenze, costumi, storia), Herder sostiene che tutti i popoli, pur avendo una natura comune, sono differenti, ognuno è cioè espressione divina di una unità organica, con una propria individualità e unicità, rappresentata dalla lingua: «il genio di un popolo non si esprime mai meglio che nella fisionomia del suo parlare».

Herder porta così a compimento ed enfatizza il (falso) mito di una lingua tedesca concepita come lingua primitiva e pura, ovvero evolutasi su se stessa senza l’intervento di altri ceppi linguistici, in particolare il latino. Una posizione sostenuta, fra gli altri, da Kant, Fichte e Hegel, anche da Leibniz (che pure scrive le sue opere per lo più in francese e in latino), il quale attribuì al tedesco la massima vicinanza alla lingua primitiva o naturale, in cui meglio si sarebbe espressa la connessione delle parole con la natura delle cose1.

In particolare, Herder si sofferma sull’idea di Volksgeist «spirito del popolo» per indicare l’unità che identifica gli uomini al proprio gruppo di appartenenza. Caratteristica specifica di popolo è la sua storicità. Se gli Illuministi, a cui Herder si rivolge in senso polemico, crede nel progresso dell’uomo (con la eccezione di Rousseau), Herder concepisce la storia come un organismo vivente, scaturito dalla Provvidenza divina e scandito da età. Tuttavia, tale percorso non è determinato da un eguale processo verso il miglioramento pacifico, ma è segnato dalla lotta fra i popoli, seguendo un percorso analogo alle età dell’uomo, dall’infanzia e alla morte, passando per la fanciullezza, la giovinezza e la maturità. Secondo questa teoria si dispiegano così le diverse epoche

1 Si veda G.W. Leibniz, Nouveaux essais sur l'entendement, in Die philosophischen Schriften, a cura di C.J.

Gerhardt, G. Olms, Hildesheim - New York 1978, vol. IV, p. 260: «Si l'Hebraique ou l'Arabesque y approche le plus, elle doit estre bien alterée, et il semble que le Teuton a plus gardé du nature!, et (pour parler le langage de Jaques Boehm) de I'Adamitique».

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storiche. Dalle civiltà orientali, per esempio, corrispondenti all’infanzia si giunge alla fanciullezza con Egizi e Fenici, per arrivare ai Greci e alla giovinezza fino alla maturità dei Romani e alla morte con la caduta dell’Impero a causa delle invasioni barbariche.

Secondo Herder il valore e la funzione di ogni epoca non va vista solo nel contesto complessivo dello sviluppo dello spirito umano (come processo attraverso il quale il genere umano si realizza). Essa va anche considerata nel suo significato specifico e irriducibile. In questo senso l’opera dello storico non può prescindere da uno sforzo di immedesimazione nello spirito di un’epoca (Zeitgeist). Se le età della storia vanno considerate nella loro specificità, sarà dunque possibile apprezzare i caratteri positivi di epoche, come quella medioevale, ritenuta oscurantista dall’Illuminismo.

Fondamentale è l’idea della differenza e specificità dei popoli legata alla lingua:

quest’ultima è espressione di un popolo, secondo un principio universale. Da qui, il cosmopolitismo herderiano in opposizione a qualsiasi forma di razzismo, secondo la prospettiva di un nazionalismo che è culto non gerarchico della specificità dei popoli.

Sul tema, di Herder si veda il celebre Saggio sull’origine del linguaggio (1772).

Come ricordano G. Biondi e O. Rickards ne L'errore della razza. Avventure e sventure di un mito pericoloso (2011, Carocci, p. 31) «Negli anni compresi tra il 1784 e il 1791 Johann Gottfried Herder si è schierato contro l’uso delle classificazioni razziali in antropologia:

Infine vorrei anche che non si ampliassero oltre il giusto le distinzioni che, per un lodevole zelo e per l'ampliamento degli orizzonti della scienza, si sono fatte tra gli uomini. Così, per es., alcuni hanno osato chiamare razza quattro o cinque suddivisioni, fatte originariamente a seconda della contrada o perfino del colore della pelle; io non vedo nessuna ragione di una tale denominazione. Il termine razza, infatti, fa pensare a una diversità di origine, che qui o non ha luogo affatto, oppure in ognuna di queste contrade comprende sotto ognuno di questi colori le razze più diverse. Poiché ogni popolo è un popolo: ha la sua formazione nazionale, come il suo linguaggio. Certo il clima ha diffuso su ogni popolo ora un'impronta vera e propria, ora soltanto un velo leggero, che però non distrugge l’originaria figura della stirpe. Questa si estende sino alle famiglie e i suoi passaggi sono tanto mutevoli, quanto impercettibili. In breve, sulla terra non ci sono né quattro o cinque razze, né varietà esclusive. I colori si perdono l’uno nell’altro: le conformazioni obbediscono al carattere genetico; e in complesso tutto diventa soltanto sfumatura di un solo e identico grande dipinto, che si estende attraverso tutti gli spazi e i tempi della terra. Questo rientra perciò non tanto nella storia sistematica della natura, quanto piuttosto nella storia fisico-geografica dell'umanità (Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, Union Deutsche Verlagsgesellschaft, Stuttgart, 1784-91, trad. it. Idee per la filosofia della storia a dell'umanità, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 112).

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FICHTE E DI DISCORSI ALLA NAZIONE TEDESCA.

Contesto: dopo la disfatta prussiana contro i francesi a Jena

[Dalla Introduzione di Gaetano Rametta a J. G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, Laterza, 2003]

«Fichte tenne i Discorsi alla nazione tedesca nell’anfiteatro dell’Accademia delle scienze di Berlino, ogni domenica a partire dal 13 dicembre 1807, e così sino al 20 marzo 1808.

[…] Le truppe di occupazione francesi sfilavano sotto le finestre della sala in cui le conferenze si svolgevano, e i suoni delle fanfare militari si sovrapponevano alle parole dell’oratore; non soltanto in sala erano presenti informatori francesi, ma persino il censore prussiano assisteva personalmente alle riunioni. […]

Ma che cosa aveva portato la situazione a questo punto? È lo stesso Fichte, nel Primo discorso, a presentarci la sua diagnosi. Riallacciandosi esplicitamente alle lezioni sui Tratti fondamentali dell’epoca presente che aveva tenuto a Berlino alcuni anni prima (1804/05), egli sottolinea che i Discorsi vanno intesi come la continuazione di quelle.

Come noto, nei Tratti fondamentali Fichte aveva contrassegnato l’epoca presente come quella della “compiuta peccaminosità”, intendendo con ciò indicare la prevalenza di un atteggiamento intellettualistico volto al perseguimento dell’utilità e del vantaggio immediati nella vita terrena. Tale atteggiamento era il frutto della critica illuministica alle religioni positive e della conseguente assolutizzazione della conoscenza scientifica, nel senso matematico-quantitativo delle moderne scienze della natura. Si era diffuso dalla Francia alla Germania, ma l’“egoismo” immanentistico di cui esso era promotore si era innestato qui su una situazione politica già di per sé frammentata e ricca di spinte centrifughe. All’interno di questo quadro, si colloca l’atteggiamento dei diversi Stati tedeschi, e più in generale dei ceti territoriali e dei singoli cittadini, di fronte alle guerre rivoluzionarie prima, e a quelle di Napoleone poi.

[…]

Se non ci sbagliamo, Fichte non presenta mai, nelle Reden, una definizione esplicita di ciò che bisogna intendere per “nazione”, mentre troviamo ben due definizioni relative al concetto di “popolo”. La prima compare nel Quarto discorso, in un contesto ipotetico e del tutto privo di forzature retoriche:

Se chiamiamo un popolo gli uomini che subiscono i medesimi influssi esterni sull’organo vocale, e che sviluppano il loro linguaggio in comunicazione continua, allora dobbiamo dire che la lingua di questo popolo è necessariamente così come è, e non è propriamente questo popolo che esprime la sua conoscenza, bensì è la sua conoscenza stessa che si esprime a partire da esso (R, p. 62; IV, pp. 51 sg.).

È abbastanza sorprendente, crediamo, notare il carattere “passivo” che spicca in questa definizione del “popolo”. Da un lato, abbiamo la dimensione della passività in rapporto

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agli influssi ambientali che si esercitano sugli organi della fonazione, della produzione sonora del linguaggio. Dall’altro, abbiamo l’inversione rispetto alla determinazione corrente dei rapporti tra soggetto e predicato della conoscenza: attraverso il linguaggio, non è tanto il popolo a fungere da soggetto produttivo in rapporto al proprio patrimonio di concetti e di idee, bensì al contrario sono queste conoscenze a essere veicolate per il tramite del popolo che parla un determinato linguaggio, sono queste idee che si esprimono attraverso di esso, e che dunque lo plasmano, lo formano o, per usare un termine altrove impiegato da Fichte: lo “fanno”. Viceversa, non dovrebbe neppure essere sottolineata, ormai, la totale assenza, in questa definizione, di ogni dimensione “etnica” o razziale. Non solo, ma come viene precisato all’inizio di questo stesso Quarto discorso, tutti i popoli dell’Europa moderna sono frutto di mescolanze tra ceppi di provenienza diversa, e ciò non vale solo per i “Germani” che hanno abbandonato le sedi della loro residenza originaria, ma anche per i “tedeschi”, cioè per quei Germani che sono rimasti sul […] proprio in rapporto alla dimensione, questa sì decisiva, della comunicazione e del linguaggio. Quest’ultimo si sviluppa nella

“comunicazione continua” tra uomini, in base alla quale si stratifica una rete di consuetudini e di costumi comuni; viceversa, in un rapporto scambievole di determinazione reciproca, la lingua permea di sé quella che oggi chiameremmo la

“mentalità” condivisa da parte di una comunità di parlanti, che in questo processo di reciproca determinazione tra cultura e linguaggio vengono plasmati e si plasmano in un’identità dinamica e aperta.

La seconda definizione di “popolo” si trova nell’Ottavo discorso, che come abbiamo visto fu tra i più osteggiati da parte della censura. Qui Fichte chiarisce che la riappropriazione del soprasensibile da parte della ragione non deve essere scambiata per un atteggiamento di sottovalutazione e di abbandono delle vicende che coinvolgono l’uomo su questa terra. “Al contrario – egli scrive – nell’ordine normale delle cose, la vita terrena deve essere essa stessa veramente vita, di cui si possa gioire e godere con gratitudine”, a tal punto che lo stesso “senso religioso” non deve essere inteso come rivolto esclusivamente alla dimensione metasensibile del “mondo degli spiriti” e dell’esistenza ultraterrena, ma deve innanzitutto permeare proprio la vita che si svolge

“quaggiù[…]”

Tuttavia, quest’aspirazione alla creazione di qualcosa di eterno all’interno del tempo, ha bisogno di una sorta di “pegno”, di una promessa oggettivamente presente di eternità: e questa promessa di eternità, nel senso della durata di un’opera attraverso l’avvicendarsi delle diverse generazioni, è appunto ciò che costituisce il concetto di “popolo” nella sua accezione più alta:

nel significato superiore della parola, inteso dal punto di vista della concezione di un mondo spirituale in generale, un popolo è il tutto degli uomini che sopravvivono insieme in società, e che si generano con continuità da se stessi in senso naturale e spirituale (R, p.

128; VIII, p. 113).

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A partire da tale “significato superiore”, è possibile leggere e interpretare meglio la definizione contenuta nel Quarto discorso. Il linguaggio è la prima dimensione attraverso cui si fonda e si consolida l’identità di una comunità. Tale comunità è costituita innanzitutto come comunità di parlanti, ed è perciò contraddistinta da una dimensione di pluralità, in cui i diversi soggetti sviluppano un primo strato d’identità condivisa attraverso l’uso di una lingua comune. Quest’ultima si sviluppa nella “continuità” di uno scambio comunicativo, che per mantenere le potenzialità creative della lingua deve procedere, secondo Fichte, ininterrottamente da una generazione all’altra.

L’interruzione di questa continuità nello sviluppo linguistico costituisce la fondamentale differenza tra i tedeschi e gli altri popoli “esteri”, che si sono dovuti appropriare di una lingua “estranea” (il latino) e hanno con ciò spezzato per sempre il flusso continuo dei rapporti tra immediatezza vivente dell’esperienza e risorse creative di produzione simbolica incorporate nel linguaggio. Tale rottura nei rapporti tra la vita

“originaria” e il linguaggio implica, secondo Fichte, che le lingue romanze siano lingue

“vive” solo in apparenza, ma in realtà siano “morte alla radice”.

Ora, ciò si riflette sul “popolo” nella sua accezione più alta, cioè come “garanzia” e promessa di eternità intraterrena per le opere del singolo che ne fa parte. In un popolo dalla lingua “viva”, la connessione tra dimensione “sensibile” e dimensione

“soprasensibile” o astratta del linguaggio può dispiegarsi dinamicamente attraverso un ampliamento progressivo della sfera di designazione dei singoli termini, in cui, dal significato “letterale” riferito a un fenomeno sensibile concreto, si sviluppa per allargamento e incremento una designazione di tipo metaforico e “simbolico”, con la quale dapprima il singolo pensatore amplia il patrimonio dei significati incorporati in singoli termini e ambiti della lingua, e quindi il poeta estende all’universo complessivo del linguaggio l’ampliamento originariamente introdotto dalla filosofia. Così, in un popolo “originario” [Urvolk], il patrimonio dei concetti e delle conoscenze “astratte” si sviluppa non solo in diretto contatto con l’immediatezza originaria e le esperienze concretamente vissute dal “popolo”, ma anche attraverso un circuito di reciproco arricchimento tra pensiero e poesia».

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Sesto discorso. Presentazione nella storia dei tratti fondamentali dei tedeschi.

Il progresso che ora nell’eternità si trova all’ordine del giorno è l’educazione perfetta della nazione in senso umano. Senza di questo, la filosofia ora raggiunta non troverà mai ampia comprensibilità, meno che mai una universale applicabilità nella vita; così come, all’inverso, senza filosofia l’arte dell’educazione non giungerà mai a completa chiarezza in se stessa. L’una è intrecciata all’altra, e senza l’altra è incompleta e inutile.

Già solo per il fatto che i tedeschi, finora, hanno portato a compimento ogni passo della cultura, e [355] nel mondo moderno sono stati riservati propriamente a questo, a essi spetta di fare lo stesso anche con l’educazione; ma quando sarà stato messo ordine in quest’ultima, sarà facile farlo anche col resto delle attività umane.

In età moderna, dunque, il rapporto tra la nazione tedesca e lo sviluppo del genere umano è stato effettivamente questo. Resta da chiarire maggiormente l’osservazione, già fatta un paio di volte, sul corso naturale con cui questa nazione vi ha preso parte, che cioè in Germania ogni cultura è partita dal popolo. […]

Settimo discorso. Comprensione ancora più profonda del carattere originario e tedesco di un popolo

[359] Nei discorsi precedenti, abbiamo indicato e dimostrato nella storia i tratti fondamentali dei tedeschi in quanto popolo originario, e in quanto essi hanno il diritto di chiamarsi “il popolo” semplicemente, al contrario delle altre popolazioni che si sono separate da loro. […]

[…] la vera filosofia, giunta in se stessa a termine, e veramente penetrata oltre il fenomeno al nocciolo di questo, procede dall’unica e pura vita divina – in quanto vita immediatamente, che resta tale in tutta l’eternità, rimanendo in essa sempre una, non invece in quanto vita di questa o quella cosa; ed essa vede come solamente nel fenomeno la vita si chiude e di nuovo si apre all’infinito, e diventa in generale un essere e un qualcosa solo secondo questa legge. L’essere sorge dinnanzi ad essa, mentre quella se lo fa dare in precedenza. E così, soltanto questa filosofia è autenticamente tedesca, cioè originaria; e viceversa, se qualcuno fosse un vero tedesco, allora non potrebbe filosofare altrimenti che così.

[…] lo spirito mortifero dell’estero si diffonde senza nostra piena coscienza sul resto delle nostre concezioni scientifiche, delle quali dovrebbero bastare gli esempi che abbiamo addotto; e questo accade perché proprio adesso noi elaboriamo a modo nostro le sollecitazioni prima ricevute dall’estero, e attraversiamo questa situazione intermedia. […]

Come nelle nostre concezioni scientifiche, così questo spirito dei paesi esteri s’infiltra

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anche nella nostra [369] vita comune, e nelle sue regole; ma perché questo sia chiaro, e ciò che precede diventi ancora più chiaro, è necessario dapprima compenetrare con sguardo profondo l’essenza della vita originaria, cioè della libertà.

La libertà, presa nel senso dell’oscillare indeciso tra più possibili equivalenti, non è vita, bensì soltanto soglia e accesso alla vita reale. Alla fine, da questo oscillare bisogna pur pervenire una buona volta alla decisione e all’agire, e la vita comincia soltanto adesso.

[…]

Chi crede in un essere fisso, morto e persistente, crede in esso solo perché è morto in se stesso; e una volta morto, non appena faccia chiarezza in se stesso, non può credere altrimenti che così. Egli stesso e tutta la sua specie diventano per lui, dall’inizio alla fine, un che di secondario ed una conseguenza necessaria da un [373] primo elemento, che dev’essere presupposto. Questo presupposto è il suo pensiero effettivo e non meramente pensato, il suo senso vero, il punto in cui il suo pensiero è immediatamente vita; e così, è la fonte di tutto il resto dei suoi pensieri e giudizi sulla sua specie – nel suo passato, la storia; nel suo futuro, le aspettative su di essa; e nel suo presente, la vita effettiva in lui stesso e negli altri.

Noi abbiamo chiamato questa fede nella morte, in opposizione a un popolo che vive in modo originario, esterofilia. Con ciò, una volta che si sia infiltrata tra i tedeschi, questa esterofilia si mostrerà anche nella loro vita effettiva, come tranquillo abbandono alla necessità ormai immutabile del loro essere, come rinuncia a ogni miglioramento di noi stessi o degli altri mediante la libertà, come inclinazione a utilizzare se stessi e tutti così come sono, e a ricavare dal loro essere il maggior vantaggio possibile; in breve, come professione di fede che si riflette di continuo in tutte le attività della vita […]

nell’universale ed equivalente peccaminosità di tutti.

[…] E così, finalmente, emerge nella sua completa chiarezza ciò che nella nostra descrizione precedente abbiamo inteso per “tedeschi”. Il fondamento vero e proprio della distinzione sta qui: se si crede in qualcosa di assolutamente primo e originale nell’uomo stesso, nella libertà, nella migliorabilità infinita, nell’eterno progredire della nostra specie; oppure, se non si crede a nulla di tutto ciò, anzi erroneamente si ritiene d’intendere e di capire che è vero il contrario di tutto questo. Tutti coloro i quali o vivono in prima persona creativamente e producendo il nuovo, oppure, qualora ciò non sia loro toccato, perlomeno lasciano cadere decisamente ciò che non vale nulla, e vivono prestando attenzione “attenzione all’eventualità che il flusso della vita originaria li afferri, oppure, qualora non siano progrediti neppure fin qui, hanno perlomeno il presentimento della libertà, e non la odiano né sono terrorizzati da essa, bensì la amano:

tutti costoro sono uomini in senso originario; essi, considerati come un popolo, sono un popolo originario, il popolo in senso assoluto, tedeschi. Tutti coloro che si rassegnano a

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essere un che di secondario e di derivato, e si riconoscono e si comprendono manifestamente così, lo sono di fatto, e mediante questa fede lo diventano sempre più;

essi sono un’appendice della vita, che si è destata per proprio impulso di fronte o accanto a loro, l’eco risonante dalla roccia di una voce già estinta; essi, considerati come popolo, sono fuori dal popolo originario, e per esso estranei, e stranieri. Nella nazione che a tutt’oggi si chiama il popolo in senso assoluto, cioè la nazione tedesca, in epoca moderna è venuto alla luce, perlomeno finora, qualcosa di originale, e si è rivelata una forza creatrice del nuovo. Ora, finalmente, una [375] filosofia divenuta chiara a se stessa tiene di fronte a questa nazione lo specchio, in cui essa può conoscere con la chiarezza del concetto ciò che finora essa è stata per natura senza coscienza manifesta, e ciò verso cui essa è destinata dalla natura. […]

E così, in questa occasione, appoggiandoci a ciò che abbiamo detto prima sulla libertà, venga finalmente fuori a voce alta, e chi ha orecchie per intendere, intenda quali sono le vere intenzioni di quella filosofia che a buon diritto si chiama tedesca; e qual è il punto in cui essa si oppone con rigore serio e inesorabile a ogni filosofia straniera che creda nella morte. Non lo diciamo perché ciò che è morto possa capirla, il che è impossibile, bensì perché per esso diventi più difficile distorcere le sue parole, e fingere che anch’esso voglia e in fondo intenda la stessa cosa. Questa filosofia tedesca s’innalza effettivamente, con l’atto del suo pensiero, all’immutabile “più di tutta l’infinità”, e trova solamente in questo l’essere veridico; non se ne vanta semplicemente in base all’oscuro presentimento che dovrebbe essere così, senza essere in grado di realizzarlo.

Essa scorge tempo, eternità e infinità nel loro sorgere dall’apparire e diventare visibile di quell’Uno che in sé [376] è assolutamente invisibile, e che viene colto, e colto correttamente, soltanto in questa sua invisibilità. Secondo questa filosofia, già l’infinità è niente in sé, e non le spetta assolutamente un essere veridico: essa è solo il mezzo in cui ciò che unicamente esiste, e che è soltanto nella sua invisibilità, diventa visibile; e da cui, nell’ambito della figurabilità, gli viene costruita un’immagine, uno schema e ombra di se stesso. Ora, tutto ciò che può ancora diventare visibile all’interno di questa infinità del mondo delle immagini, è completamente un niente del niente, un’ombra dell’ombra, ed è soltanto il mezzo in cui diventa visibile quel primo niente dell’infinità e del tempo, e in cui al pensiero si apre lo slancio verso l’essere infigurabile e invisibile.

[…]

Ora, quella filosofia dell’essere, che crede nella morte, resta prigioniera in queste ombre delle ombre di ombre. Essa diventa senz’altro filosofia della natura, la più morta di tutte le filosofie, e teme ed è devota alla sua propria creatura.

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Ottavo discorso. Che cos’è un popolo nel più alto significato della parola, e che cos’è amor di patria?

Gli ultimi quattro discorsi hanno risposto alla domanda: “che cosa sono i tedeschi, in opposizione agli altri popoli di provenienza germanica?” La dimostrazione che, mediante tutto ciò, deve essere condotta per tutta la nostra ricerca, viene completata se alla nostra ricerca aggiungiamo la domanda: che cos’è un popolo? Quest’ultima domanda equivale a un’altra domanda, spesso sollevata e alla quale si è risposto in modi molto diversi, e risponde anche a questa: che cos’è amor di patria? Oppure, esprimendoci ancora più esattamente: che cos’è l’amore del singolo per la sua nazione?

Se l’andamento della nostra ricerca fino a qui è stato giusto, allora dovrebbe essere chiaro che soltanto il [378] tedesco (l’essere umano autentico, non quello che si è spento in un complesso arbitrario di regole) ha e può contare veramente su un popolo; e che soltanto egli è capace di un amore per la sua nazione genuino e ragionevole.

La seguente considerazione, che in un primo tempo sembra esterna alla nostra ricerca, ci apre la strada per la soluzione del compito che abbiamo di fronte.

[…] Ora, nel significato superiore della parola, inteso dal punto di vista della concezione di un mondo spirituale in generale, un popolo è il tutto degli uomini che sopravvivono insieme in società, e che si generano con continuità da se stessi in senso naturale e spirituale, il quale tutto, nel complesso, si trova sotto una certa legge particolare dello sviluppo del divino [che promana] da esso. La condivisione di questa legge è ciò che nel mondo eterno, e perciò anche in quello temporale, unisce questa moltitudine in un tutto naturale e da se stesso compenetrato.

Questa stessa legge, riguardo al suo contenuto, può sì essere colta nell’insieme, come noi abbiamo fatto con i tedeschi in quanto popolo originario; essa può perfino [382]

essere compresa più precisamente, in alcune sue ulteriori determinazioni, riflettendo sulle manifestazioni di un popolo siffatto; ma non potrà mai essere compenetrata interamente col concetto da chiunque resti continuamente sotto il suo influsso inconsapevole; benché, in generale, si possa intendere chiaramente che una legge del genere esiste. Questa legge è un di più della figurabilità, che nel fenomeno si fonde immediatamente con il di più dell’originarietà infigurabile; e così dunque entrambi, appunto nel fenomeno, non possono più venire separati. Quella legge, in quanto legge dello sviluppo di ciò che è originario e divino, determina assolutamente e completamente ciò che è stato chiamato il carattere nazionale di un popolo. Da queste ultime considerazioni è chiaro che uomini i quali, secondo la nostra descrizione dell’esterofilia, non credono affatto in qualcosa di originario e in un suo progressivo sviluppo, bensì soltanto in un circolo eterno della vita apparente e, mediante la loro fede, diventano come credono di essere, non sono affatto un popolo nel senso superiore;

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e poiché di fatto, in senso proprio, neppure esistono, non sono in grado nemmeno di avere un carattere nazionale.

La fede dell’uomo nobile nell’eterna durata della sua efficacia anche su questa terra si basa dunque sulla speranza nell’eterna durata del popolo da cui egli stesso si è sviluppato, e della sua peculiarità in accordo con quella legge nascosta; senza mescolanza e corruzione da parte di qualunque cosa sia estranea e non pertinente al tutto di questa legislazione. Questa peculiarità è l’eterno al quale egli affida l’eternità di se stesso e del suo progressivo operare, l’eterno ordine delle cose, in cui egli ripone il suo eterno; egli deve volere la sua durata, poiché soltanto essa è per lui il mezzo di liberazione, mediante cui il breve lasso di tempo della sua vita quaggiù può prolungarsi in una vita duratura quaggiù. La sua fede e il suo sforzo di piantare qualcosa che non passi; il suo concetto, in cui egli coglie la sua vita personale come vita eterna, sono il vincolo che congiunge a lui nel modo più intimo dapprima la sua nazione, e per mezzo di essa l’intero genere umano, e [383] che introducono nel suo cuore allargato i bisogni di tutti gli uomini, sino alla fine dei giorni. Questo è il suo amore per il suo popolo:

dapprima rispettoso, fiducioso, contento di esso, orgoglioso della sua discendenza da esso. In esso è apparso un che di divino, e l’originario lo ha degnato di farne la sua scorza e il suo mezzo immediato di confluenza nel mondo; perciò anche in seguito, da esso, scaturirà qualcosa di divino. Poi attivo, efficace, sacrificantesi per esso. La vita, come nuda vita, come continuazione dell’esserci mutevole, per lui comunque non ha mai avuto valore, egli l’ha voluta soltanto come sorgente di ciò che dura; ma questa durata gli viene promessa solo dal fatto che la sua nazione continui a esistere in modo indipendente; per salvare questa, egli deve essere disposto anche a morire, perché essa viva, ed egli viva, in essa, l’unica vita che abbia mai desiderato.

[…]

Popolo e patria in questo significato, come supporto e pegno dell’eternità terrena, e come ciò che quaggiù può essere eterno, si trovano molto al di là dello Stato nel senso comune della parola – oltre l’ordine sociale, per come esso viene colto nella mera chiarezza del concetto, e viene istituito e conservato sotto la direzione di quest’ultimo. Il concetto esige diritto certo, pace interna, e che ciascuno trovi col suo impegno il suo sostentamento e la conservazione della sua esistenza sensibile, finché Dio gliela voglia garantire. Tutto questo è soltanto mezzo, condizione e sostegno di ciò che propriamente esige l’amor di patria, dello sbocciare dell’eterno e divino nel mondo, in modo sempre più puro, perfetto e adeguato nell’infinito procedere. Proprio perciò questo amor di patria deve governare lo Stato stesso, come autorità assolutamente suprema, ultima e indipendente: anzitutto, limitandolo nella scelta dei mezzi per il suo scopo più immediato, la pace interna. A tale scopo, la libertà naturale del singolo deve essere senz’altro limitata in vario modo, e se [385] con gli uomini non si avesse nessun altro

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riguardo né scopo, allora si farebbe bene a limitarli nel modo più stretto possibile, a sottoporre tutte le loro attività a una regola uniforme, e a mantenerli sotto una continua sorveglianza.

Ps. Si ricordi che il termine herderiano e poi fichtiano Volksgeist è utilizzato anche da Hegel nei suoi Lineamenti di filosofia del diritto (1821), sex. III “Lo Stato”, nel § 257 e viene tradotto come spirito del popolo o spirito nazionale, inteso come la peculiare

espressione dello spirito di un determinato popolo.

«È un individuo di natura universale, ma determinato: cioè in generale un popolo»2.

2 Volksgemeinschaft (comunità di popolo) è un termine che trae origine proprio da questo concetto e che verrà ampiamente utilizzato in senso razzistico dai nazisti.

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