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I bambini pensano con le storie

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Academic year: 2022

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con le storie

a cura di

Paola Calliari e Mara Degasperi

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Prima pubblicazione gennaio 2007

Stampa: Centro Duplicazioni della Provincia Autonoma di Trento

I bambini pensano con le storie a cura di Paola Calliari e Mara Degasperi

p. 228; cm 24

ISBN 978-88-7702-172-4

In copertina

Il mandala come metafora della narrazione, P. Calliari, 2006.

Hanno lavorato

Coordinatrice del Gruppo di Studio Paola Calliari, collaboratrice IPRASE Collaboratore scientifi co

Marco Dallari, Facoltà di Scienze Cognitive, Università di Trento

I componenti del Gruppo di Studio IPRASE sulla Lettura e sulla Scrittura:

Maria Elisa Biasi, Scuola elementare di Seregnano, Trento Patrizia Bortolotti, Scuola elementare “Pigarelli” di Gardolo, Trento Nicoletta Daldoss, Scuola elementare di Seregnano, Trento Mara Degasperi, collaboratrice IPRASE

Gabriella Quaggio, Scuola elementare ”Pigarelli” di Gardolo, Trento Lucia Pascoli, Scuola elementare ”Pigarelli” di Gardolo, Trento

I bambini di alcune classi delle Scuole elementari di Gardolo “Pigarelli” e di Seregnano.

Alcuni testi dei bambini sono stati raccolti nei laboratori didattici per insegnanti organizzati dal Gruppo di Studio.

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INDICE

Presentazione E. Passante 5

L’insegnante racconta il sapere M. Dallari 7

Premessa al lavoro P. Calliari 19

La narrazione come conoscenza P. Calliari 23

I bambini hanno fame di storie M. Degasperi 43

La narrazione, un percorso di metodo M. Degasperi 59

PERCORSI CON I PIÙ PICCOLI…

Le parole portano lontano P. Bortolotti, G. Quaggio 71 Nella testa di chi ascolta P. Bortolotti, G. Quaggio 75 Scrittura creativa P. Bortolotti, M. Degasperi 81

PERCORSI CON I PIÙ GRANDI…

Fiaba o racconto fantastico? N. Daldoss 95

Strategie di scrittura M. Degasperi 111

Narrazione e autobiografi a L. Pascoli 151

È SEMPRE NARRAZIONE

È sempre narrazione M. Degasperi 181

Storie tridimensionali P. Bortolotti, G. Quaggio 183

Storie di libri P. Bortolotti, G. Quaggio 185

Storie di teatro P. Bortolotti, G. Quaggio 189

Storie di fi lm M. Degasperi, L. Pascoli 193

Storie di metafore P. Calliari, N. Daldoss 209

Narrazione e laboratorio di lettura P. Bortolotti, G. Quaggio 219

Bibliografi a 225

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Presentazione

Tutti condividono, e possono verifi care ogni giorno, che la parola è il mezzo prin- cipale per comunicare, per interagire, comprendere e farsi comprendere, esprimere le proprie idee e i sentimenti. In quanto tale, il linguaggio diventa il principale e il più autentico strumento per apprendere, ed è determinante nel porre le condizioni per sostenere il processo di costruzione dell’identità poiché, in questa cultura, consente ad ogni soggetto in crescita di confrontarsi con gli altri, di misurarsi con la capacità di stare e agire, di riconoscersi e farsi riconoscere, di esserci.

In questa cultura, e forse in misura più universale di quanto non sempre ricor- diamo, i bambini si avvicinano al linguaggio usando le loro rappresentazioni, com’è naturale che sia per chi conosce scoprendo il mondo che lo circonda mediando di continuo le proprie immagini con il contesto circostante.

È quindi legittimo, vorrei dire palese, considerare che la narrazione diventa la prima pratica dell’apprendimento del linguaggio e spesso essa rimane, anche in età adulta quella più genuina, arricchita nel contempo di carisma culturale e psicologico, più d’ogni altro registro espressivo.

La didattica della lingua nella scuola primaria tocca e utilizza questa motivazione in modo strategico, ma ancor più restituisce centralità al bambino nella dinamica insegnamento-apprendimento, assicurando le condizioni del soggetto ad imparare, com’è nei suoi diritti sanciti.

L’attenzione alla narrazione nella scuola, in questa luce, appare quindi molto di più che una opzione metodologica, essa è piuttosto un presupposto culturale e valoriale che discende dal principio che la conoscenza e i saperi sono una costruzione sociale.

Il presente volume è il risultato di un lavoro coerente di un gruppo di insegnanti, che si presenta in continuità con altri percorsi di ricerca didattica che l’IPRASE ha in- teso pubblicare in precedenza. Questa volta lo studio dell’apprendimento della lingua focalizza il tema della narrazione e individua un itinerario articolato, largamente frui- bile dai docenti in una molteplicità di situazioni. Come in altre pubblicazioni curate dal gruppo coordinato da Paola Calliari, l’apprezzamento è motivato dalla puntualità e dall’accuratezza del lavoro didattico, che si rifl ette nella sua documentazione.

Anche dalla lettura dei diversi percorsi proposti, affi ora l’attitudine degli insegnan- ti che li hanno sperimentati personalmente nelle loro classi a privilegiare il setting laboratoriale che, più di altri, favorisce quell’apprendimento attivo che nasce dalla

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scoperta e che tutela un equilibrato rapporto tra il processo nel quale matura o si con- solida la competenza e il prodotto che ne intende testimoniare il risultato, intelligibile ai bambini prima ancora che all’attenzione dei docenti.

Ernesto Passante direttore dell’IPRASE del Trentino

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L’insegnante racconta il sapere

Marco Dallari

La narrazione è sempre stata usata per rappresentare e trasmettere conoscenza.

L’atto del narrare lega e collega narratore e narratori non solo nel tempo e nel luogo del racconto ma anche oltre, perché il contenuto della narrazione e la fi gura del nar- ratore restano indissolubilmente legati, sovrapposti, a tratti indistinguibili, così che la temperatura emotiva suscitata dalla narrazione (coinvolgimento, commozione, at- trazione, noia, fastidio, repulsione…) si trasferisce sul contenuto del discorso narra- tivo. Se il gradiente emozionale è positivo non solo il contenuto della comunicazione

“passa” da emittente a riceventi e viene “compreso”, ma quell’evento crea un legame che comporterà desiderio di ripetizione dell’esperienza, possibilità di rievocarla e de- siderio di imitarla. In contesto educativo e formativo, a scuola, ma anche in casa, nella relazione con i genitori, fi n dalla prima infanzia, la modalità narrativa della tra- smissione della conoscenza riguarda i modi di interagire, di pensare e di comunicare, fi n dall’infanzia e la competenza narrativa, una volta assimilata, cresce mentre cresce il soggetto, può affi narsi e rinforzarsi grazie ai processi educativi che, programmatica- mente o casualmente, determinano l’evoluzione intellettuale. Ma saper narrare non è facile né “naturale”: il mondo è pieno di gente che non sa raccontare una barzelletta, non è capace di raccontare il fi lm che ha visto e quando comincia a parlare del suo ultimo viaggio getta nello sconforto amici ed astanti. Figurarsi raccontare il sapere.

Perché se è vero che l’istanza narrativa riguarda fi n dall’inizio la vita umana, lo psicopedagogista americano Jerome Bruner ci fa ben notare come le competenze legate al racconto, pur se motivate da un’esigenza originaria, hanno bisogno di co- struzione culturale, adattamento e apprendimento, per potersi rivelare e per poter essere utilizzate in maniera effi cace. Ci ricorda infatti come il luogo della formazio- ne e dell’esistenza di ciascuno di noi sia un “contesto complesso”, dove per comples- so non si intende soltanto ciò che ha la caratteristica del vario, del molteplice, del quantitativamente sviluppato, ma ciò la cui interpretazione non può mai essere ridot- ta a un solo universo paradigmatico, a un solo sistema di regole.

Il congegno narrativo riferito alle pratiche della trasmissione e della costruzione del sapere può essere analizzato in una duplice prospettiva:

Di ciò che consideriamo e vogliamo trasmettere come sapere non va propo- sta la spiegazione ma piuttosto la comprensione e la consapevolezza di come ogni proposizione conoscitiva, anche quando ha caratteristiche diacroniche (è cioè “vera” indipendentemente dal tempo e dal luogo della sua aff erma-

a.

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zione), diviene sincronica (cioè relativa al tempo, ma anche al contesto della sua presentazione) all’interno del setting didattico. Ed anche la più oggettiva delle enunciazioni cognitive, a scuola, viene accolta ed elaborata in maniera personale da ciascun alunno solo se il contesto favorevole e la qualità della relazione educativa “aiutano” quella conoscenza ad aff ermarsi come tale e a farsi accettare. Anche per ciò che riguarda la formazione scientifi ca, non solo nella sua dimensione empirica ma anche astratta, non entra in gioco, nella relazione didattica, solamente la formula, la regola, il paradigma, ma la pos- sibilità-necessità che il corpus della materia sia sostenuto da esemplifi cazioni, possa possedere e produrre un’aneddotica, sia legato a storie di persone (i matematici, gli scienziati), e sia in grado di produrre fi gure, metafore, ele- menti paradigmatici del conoscere come processo, e non solo come specifi ca conoscenza, utilizzabili ben oltre i confi ni della disciplina.1 Jerome Bruner ri- badisce come anche il pensiero scientifi co debba soggiacere, per avere ascol- to e senso, al rito e alle regole della narrazione, poiché: «(…) consiste nel produrre ipotesi sulla natura, nel verifi carle, correggerle, e rimettere ordine nelle idee. Nel corso della produzione di ipotesi verifi cabili giochiamo con le idee, cerchiamo di trovare belle formulazioni da applicare alle contrarietà più intrattabili in modo da poterle trasformare in problemi solubili, inventiamo trucchi per aggirare le situazioni intricate».2 Occorre allora impadronirsi, se- condo Bruner, «(…) dei processi del fare scienza e non limitarsi ai resoconti della scienza fi nita; imparare ad essere uno scienziato infatti non è la stessa cosa che studiare le scienze, è imparare una cultura, con tutto il contorno

“non razionale” del fare signifi cato che l’accompagna».3

Se questo vale per i saperi cosiddetti “diacronici”, vale, a maggior ragione, per quegli ambiti e quelle materie caratterizzate per defi nizione dai requisiti della sincronia: arti, letteratura, lingue, ed è davvero malinconico accorgersi come in didattica prevalga il meccanismo oggettivante della “spiegazione” e il tentativo di ridurre tutto al protocollo della regola e della riduzione tasso- nomica, perdendo le pratiche del commento, dell’interpretazione, della con- tinua rifondazione del senso, sostituite dalla meno impegnativa enunciazione del “cos’è, come si chiama e a cosa serve…”. Questa tendenza a ridurre e ma- scherare l’intrinseca ambiguità sincronica ed estetico-narrativa dei testi delle

b.

1 Cfr. L. Preta, Figure e metafore della scienza, Laterza, Bari, 1974; cfr. anche: G. Corradi Fiumara, Il processo metaforico, Il Mulino, Bologna, 1998.

2 J. Bruner, La cultura dell’educazione (1996), trad. it. Feltrinelli, Milano, 1997, p. 140.

3 J. Bruner, op. cit., p. 147.

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conoscenze a meccanismi del tipo “vero-falso”, è purtroppo diff uso e inco- raggiato da molti testi scolastici. È ovvio che la grammatica sia fatta di regole che vanno imparate, ma ad essa si arriva, in un progetto didattico narrativa- mente fondato, quando è già svelato e condiviso il senso dell’apprendimento linguistico, la sua capacità di trasmettere saperi ed emozioni, il fatto che vale la pena di diventare esperti nel suo uso perché ciò rinforza la personalità e l’identità, perché saper parlare, scrivere, raccontare aumenta la possibilità di attrarre attenzione e consenso. Studiare la grammatica, allora, diviene sensa- to come può esserlo andare in palestra per “diventare più belli”, non è solo e tanto obbligo ma diviene una pratica di cura di sé.

La consapevolezza del fondamento narrativo dell’azione didattica comporta, per chi fa il docente, la corrispondente consapevolezza di dover possedere caratteristiche da buon narratore. Il che non signifi ca solamente (anche se è comunque molto impor- tante) saper comunicare con il corpo e la voce in maniera effi cace e accattivante, oltre che comprensibile. Signifi ca anche rendersi conto di come qualunque progetto didat- tico debba necessariamente essere descritto e scandito secondo i canoni di una vera e propria sceneggiatura, con ritmi, tempi, ingredienti linguistici, visivi, multimediali.

Se queste condizioni sono ottemperate il setting educativo diviene così un teatro didattico “living”, capace di ridefi nirsi e improvvisarsi all’interno delle dinamiche in- tersoggettive che lo caratterizzano, ma già predisposto con tutti i suoi ingredienti e i suoi strumenti a confi gurarsi come un grande laboratorio della narrazione e della ri-narrazione del sapere.

È inoltre importante sottolineare un ultimo aspetto riguardante l’importanza del narrare didattico: il coinvolgimento in una pratica narrativa permette di condividere il senso di essa ancora prima di aff rontare il problema di signifi cati possibili del testo in oggetto. La narrazione presuppone e consente di condividere il requisito di regole antropologicamente fondate e collaudate grazie alle quali il testo viene innanzitutto riconosciuto come tale per il fatto di essere narrato, e gli viene dunque assegnata a priori l’attenzione e la fi ducia riguardo alla sua possibilità di essere comunque, in qualche modo, signifi cativo. È ciò che succede quando qualcuno capace di presentar- si come interessante e comunicativamente seduttivo comincia a raccontare qualcosa.

Inizialmente non sappiamo se ci sta raccontando una storia vera, un paradosso, una barzelletta: lo ascoltiamo, convinti comunque che ne valga la pena, rimandando al dopo il compito di capire il signifi cato del discorso. È l’offi ciante ad avallare, almeno all’inizio, la dignità e il valore del rito, non il rito in sé. Anche se è chiaro che se poi il rito-racconto dovesse rivelarsi noioso e inconsistente anche il carisma dell’offi ciante- narratore verrebbe a decadere. Ma quando il raccontare diviene rito condiviso grazie

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alla capacità e al carisma necessari al narratore, ciò instaura una iniziale fi ducia nel senso dell’evento in sé, che consentirà poi di andare assieme, nel prosieguo della pra- tica didattica, alla ricerca di dimensioni ulteriori di senso e di conoscenza.

E se lo “spirito del teatro” condiziona e caratterizza ogni setting educativo auten- tico e pedagogicamente signifi cativo, l’esperienza teatrale, sia intesa come abitudine fruitiva che come pratica di laboratorio attivo, si confi gura dunque come essenziale, non soltanto come insieme di eventi utili e importanti in sé, ma come esperienza paradigmatica capace di informare e infl uenzare la relazione educativa in quanto tale.

Perché se al bravo insegnante è richiesto di essere attore e aff abulatore del sapere che intende porgere, agli alunni deve essere richiesta (insegnandola e promovendone la competenza) la capacità di ri-narrare il sapere, evidenziando in questo modo le ca- pacità di interpretare ed elaborare personalmente, di adattare le nuove conoscenze al proprio stile cognitivo e alle proprie convinzioni epistemologiche (ciascuno, anche un bambino, possiede qualche forma di epistemologia ingenua),4 di passare dal sem- plice piano della cognizione a quello della metacognizione.

Con il termine metacognizione si intende l’insieme dei processi cognitivi e di costru- zione della conoscenza che hanno come oggetto non un sapere specifi co bensì le attività cognitive stesse. La meta cognizione ha dunque come oggetto le facoltà e gli strumenti intellettuali del conoscere: memoria, apprendimento, ragionamento, capacità di scambio, condivisione, commento… E genera possibilità di imparare da soli, di auto-assegnarsi

“compiti” di carattere cognitivo e di portarli a termine. La competenza metacognitiva è, per unanime convinzione degli studiosi del settore, evolutiva e viene incrementata dal- l’istruzione: vale a dire che le facoltà metacognitive crescono, nei soggetti, relativamente allo sviluppo psicofi sico individuale e all’incremento delle conoscenze.5

4 Il termine epistemologia ingenua, utilizzato soprattutto in psicologia cognitiva, descrive il fenomeno relativo alla costruzione e all’elaborazione di strumenti di conoscenza e di rappresentazione posseduti e utilizzati senza esserne coscienti; l’attribuzione di “ingenuità” non riguarda dunque l’effi cacia, il rigore o l’attendibilità di un determinato schema di riferimento del conoscere e del rappresentare, ma il fatto che esso sia per lo più inconsapevole. Questa inconsapevolezza, peraltro, genera spesso nel soggetto la con- vinzione che il proprio sistema di conoscenze sia assoluto e “naturale” e produca inconfutabile “verità”;

cfr. L. Mason, Verità e certezze, natura e sviluppo delle epistemologie ingenue, Carocci, Roma, 2001.

5 P. Bertolini, Dizionario di Pedagogia e scienze dell’educazione, Zanichelli, Bologna, 1996; Voce: Me- tacognizione. O. Albanese, P. A. Doudin, D. Martin (a cura di), Metacognizione ed educazione, Franco Angeli, Milano, 1995. C. Pontecorvo, A. M. Ajello, C. Zucchermaglio, Discutendo s’impara. Interazione sociale e conoscenza a scuola, NIS, Roma, 1991. C. Cornolli, Metacognizione e apprendimento, Il Mulino, Bologna, 1985.

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E c’è, ovviamente, anche un congegno metacognitivo connesso alla dimensione della narratività, termine con cui si intende l’insieme di pratiche e di clima che favori- scono e valorizzano quel pensiero narrativo che, per Andrea Smorti è, sostanzialmen- te, una metodologia inferenziale. «Quando procede in modo narrativo, l’individuo articola sequenze temporali di concatenazione e di congiunzione sensibili al conte- sto. Si muove dunque in senso orizzontale, collegando gli elementi in rapporto ad un’azione, all’intenzionalità, agli scopi, agli strumenti e alle motivazioni secondo una rete che enfatizza la coerenza di una storia. Egli è interessato a ricostruire i rapporti fra parte e tutto e cerca di cogliere il quadro globale della personalità del soggetto. I suoi criteri di verità riguardano la validazione interna e sono giustifi cati in termini di coerenza e di persuasività».6

Narratività è dunque, per eccellenza, la forma del modello relazionale capace di dare vita a un clima autenticamente educativo, perché non scinde mai la categoria dell’apprendimento da quelle dell’interpretazione, dell’elaborazione e della compren- sione. L’atteggiamento narrativo risulta essere così legato alla convinzione di come ogni forma di sapere e di rappresentazione (compresa la conoscenza di sé) sia cono- scibile e riconoscibile solamente in forma testuale, e che lo scambio e la rappresen- tazione di esso avvenga comunque nella dimensione intersoggettiva e negoziatoria del racconto e del commento, annullando ogni pretesa di esistenza extracontestuale e sovrastorica di idee, conoscenze e valori.

Ed ecco che, nel nome dell’incontro fra conoscenza e narrazione, si confi gura così un paradigma metodologico composto dall’insieme di clima narrativo e pratiche ermeneutiche pedagogicamente mirati a potenziare e valorizzare le qualità delle relazio- ni educative, all’interno del quale non si dà importanza tanto alla dimensione cognitiva ma piuttosto a quella metacognitiva, basata sulla comprensione e l’elaborazione dei testi e dei contenuti della trasmissione culturale, attenta a far sì che l’imparare sia soprattutto occasione e pretesto per imparare ad imparare e imparare a mettere in forma personale ciò che si impara. Ecco che le competenze metacognitive, si confi gurano e si rivelano come «...il modo di pensare che viene determinato dalla familiarità con un determinato ambito cognitivo».7 In questo caso la categoria della metacognizione si riferisce in par- ticolare a ciò che chiamiamo metacognizione narrativa.

La metacognizione narrativa è un congegno che connette. A diff erenza di quan- to avviene per altri tipi di apparati metacognitivi, più circoscritti a un particolare

6 A. Smorti, Il pensiero narrativo; costruzione e sviluppo di storie nella conoscenza sociale, Giunti, Firenze, 1994, p. 114.

7 M. Dallari, La dimensione estetica della paideia; fenomenologia, arte, narratività, Erickson, Trento, 2005, p. 169.

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ambito epistemico e in qualche modo specialistici, essa mette i soggetti che ne sono strutturalmente dotati in grado di immagazzinare ed elaborare dati simbolici e cul- turali anche disparati, appartenenti a zone di vissuto e a universi epistemici di per sé non collegati fra loro, per farli diventare ingredienti dell’identità personale (coscienza autobiografi ca) e congegni della rappresentazione e del giudizio (visione del mondo).

Tutto ciò elaborando l’universo centripeto delle informazioni, delle percezioni, delle esperienze, delle conoscenze e dei vissuti in un apparato testuale complesso e ramifi - cato, le parti del quale sono tuttavia in grado di acquistare senso rispetto all’insieme grazie alle forme narrative in cui si organizzano e ordinano.

Le rifl essioni che stiamo condividendo non riguardano, d’altra parte, solo l’in- fanzia, la giovinezza, l’educazione scolastica, ma costituiscono oggi uno dei nodi problematici e spesso contraddittori della vita accademica e dell’ambito stesso del- la tanto discussa ricerca scientifi ca. La ricerca, si dice in ambito accademico (e non solo), è “scientifi ca”, e questa parola fatale, col suo portato di strumenti, metodologie, norme, procedure e validazioni, sembra poter allontanare da sé e dal ricercatore la dimensione soggettiva e sempre relativa dell’identità. Ma non è così, poiché la curio- sità, le scelte, la dimensione sempre contestuale e situata del ricercare, fa si non solo che procedimenti e risultati risultino infl uenzati da ciò che ciascuno di noi è, ma che qualunque sia l’oggetto nominabile e “freddo” della ricerca, ciò che il ricercatore sta cercando e costruendo e sempre (anche) la sua identità di ricercatore. Qualunque ricerca condotta e progettata con caratteristiche di autenticità é in realtà ricerca, co- struzione, perfezionamento dell’identità personale e quando la soggettività del ricer- catore accademico è arricchita e valorizzata dall’esito della ricerca, ciò diviene anche risorsa professionale e istituzionale, poiché l’indissolubile legame fra l’identità di un docente-ricercatore e l’originalità del patrimonio di conoscenze che gli sono proprie contribuisce non poco a rendere solida e credibile l’istituzione alla quale questo sog- getto appartiene.

Per Edgar Morin il modello di conoscenza contemporaneo occidentale opera an- cora per disgiunzione, iperspecializzazione, semplifi cazione e a conferma dei suoi dubbi possiamo osservare come il nostro costume didattico sia prigioniero di questi vizi antichi anche quando esplora nuove strade e strategie per l’insegnamento. Ma

“La riforma dell’insegnamento deve condurre alla riforma del pensiero e la riforma di pensiero deve condurre a quella dell’insegnamento”8 dice Morin.

Bianca Spadolini, nella sua introduzione a Educare per l’era planetaria - il pensiero complesso come metodo di apprendimento scrive: “Il metodo, o l’a-metodo, di Morin

8 E. Morin, E. R. Ciurana, R. Domingo Motta, Educare per l’era planetaria, Armando Editore, Roma, 2004, p. 13.

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vuole avere una valenza educativa. Questa va rintracciata nella capacità che ha l’osser- vatore di trovare una propria, autonoma strada. Non troppo lontano dai cognitivisti, Morin pensa che la strategia conoscitiva debba essere coltivata dalla capacità di saper aff rontare il nuovo, o meglio l’alea. Il metodo, infatti, si alimenta retroagendo, ristrut- turando il conosciuto con il “da conoscere”. È evidente, per quello che abbiamo detto sul pensiero di Morin, che la complessità non può essere aff rontata partendo da una concezione dell’apprendimento come trasmissione di conoscenza o come raccolta cumulativa di dati. La conoscenza è sempre conoscenza di conoscenza, conoscenza di secondo ordine, e in quanto tale si fonda sulla capacità dell’osservatore di osservare osservazioni, di ritornare là dove già si è con occhi diversi, con l’intenzione di colle- gare “lo studio dei sistemi osservati alle dinamiche rifl essive.”9

E d’altra parte, se davvero vogliamo tradurre in pratica educativa la necessità, ben individuata da Edgar Morin (e non solo da lui), di lasciare alle nostra spalle il model- lo disgiuntivo cartesiano, non possiamo che cercare di ri-connettere i saperi e i pro- tagonisti della conoscenza attraverso quel paradigma narrativo che, forse meglio di qualunque altro congegno cognitivo, simbolico e relazionale, comprende e permette di comprendere quella dimensione della complessità senza la quale il mondo con- temporaneo e le identità dei soggetti che vivono in esso rimangono inevitabilmente estranei e inconoscibili.

“Ora, nel momento in cui il pianeta ha sempre più bisogno di spiriti adatti a com- prendere i suoi problemi fondamentali e globali, adatti a comprendere la loro com- plessità, i sistemi di insegnamento, in qualsiasi paese, continuano a frazionare e a separare conoscenze che dovrebbero essere collegate, a formare spiriti unidimensio- nali e riduttori, che privilegiano soltanto una dimensione dei problemi occultandone altre. La nostra formazione scolastica, universitaria, professionale, fa di noi politici ciechi e ci impedisce di assumere la nostra condizione, ormai necessaria, di cittadini della Terra. Di qui, la necessità vitale di “educare per l’era planetaria”, cosa che richiede la riforma del modo di conoscenza, la riforma del pensiero, la riforma dell’insegna- mento, essendo queste tre riforme interdipendenti.”10

Occorre dunque prendere coscienza del fatto che viviamo navigando in un mare di storie, e solo abituandoci alla loro presenza e imparando le regole della loro messa in scena e della loro interpretazione impariamo a rappresentare e scambiarci le rap- presentazioni di questo mondo e di noi all’interno di esso. La trama delle narrazioni

9 E. Morin, E. R. Ciurana, R. Domingo Motta, Educare per l’era planetaria, Armando Editore, Roma, 2004, p. 19.

10 E. Morin, E. R. Ciurana, R. Domingo Motta, Educare per l’era planetaria, Armando Editore, Roma, 2004, p. 10. Il corsivo è mio.

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diviene così forma del sapere: il mondo, gli eventi, i fenomeni naturali generano sa- pere e cultura quando diventano organizzabili, rappresentabili, pensabili come trama (trame) di racconti e di “rappresentazioni” all’interno di quel teatro della vita di cui la scuola, per chi si aff accia sull’esistenza, riveste un ruolo aff ettivo, estetico, etico e cognitivo davvero importante. Occorre dunque rendersi conto che essere ed impa- rare ad essere attori del sapere non è solo artifi cio retorico o strategia didattica, ma il modo più autentico e completo di organizzare le conoscenze e la conoscenza di sé.

Ma c’è un ultimo aspetto del rapporto educazione-narrazione-teatro che vale la pena di esaminare: esso riguarda la domanda relativa a quale sia il compito principa- le dell’educatore, domanda alla quale mi sento, una volta tanto, di dare una risposta convincente e priva di indecisioni: compito dell’educatore (e del processo educativo di cui egli è coautore e regista) riguarda la strutturazione dell’identità personale degli educandi. Concetto, quello di identità personale, per defi nire il quale ricorro, come di consueto, alla defi nizione dello psichiatra Giovanni Jervis, secondo il quale «La risposta più semplice è: riconoscersi ed essere riconoscibili».11

Naturalmente riconoscersi ed essere riconoscibili non sono concetti del tutto di- stinguibili perché necessariamente complementari. Mi riconosco se vengo ricono- sciuto e, viceversa, sono in grado di farmi riconoscere solo a patto di essere suffi - cientemente certo della mia riconoscibilità. È ovvio che questa certezza mi deriva da relazioni/riconoscimenti precedenti.

L’identità è nel tempo, nella storia, nelle storie e nell’incrocio di storie; è coscien- za autobiografi ca che per costruirsi ha bisogno di narrazioni sperimentate, ricevute, condivise.

Possiamo infatti conoscerci e farci conoscere solamente narrandoci e sentendoci narrare: i bambini ricevono dai genitori e dai famigliari spezzoni di storie di vita riferite alla primissima infanzia e al periodo prenatale, quella parte dell’esistenza che ancora non diviene in maniera autonoma memoria organizzata, ed assorbono ed ela- borano la memoria autobiografi ca dell’infanzia mescolando, e non di rado confon- dendo, esperienza personale e racconti ricevuti. Gli adolescenti, mentre scoprono il cambiamento del loro corpo, l’amicizia e l’attrazione sessuale, si scambiano storie di vita e pagine di diario e usano non di rado il sistema simbolico e paradigmatico dello zodiaco per descriversi e scoprire caratteri, inclinazioni, desideri: il problema dell’identità è sempre legato alle modalità di narrazione che permettono di descriver- ci ordinatamente e selettivamente in forma di racconto. La coscienza identitaria, e la possibilità di costruire i testi della propria riconoscibilità, dipende dunque dai saperi che si strutturano in ciascuno di noi come parti integranti del nostro essere e del

11 G. Jervis, La conquista dell’identità. Essere se stessi e essere diversi, Feltrinelli, Milano 1997, p. 11.

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nostro pensare, dalle conoscenze che ci forniscono modelli e strategie organizzative (apparati “metacognitivi”) della coscienza di noi stessi e del mondo.

Così a ciascuno, ed in particolare ai soggetti in formazione, appaiono dotati di senso tutti quei saperi e quegli apparati di conoscenza che vengono colti come capaci di essere utilizzati per la costruzione della conoscenza di sé e della conoscenza del mondo, mentre vengono vissuti come insensati i contenuti dell’off erta formativa che non divengono forme, fi gure e strumenti del “pensarsi” e del pensare (rappresentare) il “mondo personale”.

L’imperativo socratico: conosci te stesso, diviene così conosci il modo di rappresen- tare (narrare) te stesso, ma l’oggetto della conoscenza non è solamente l’interiorità, la psykè, ma anche la possibile modalità, antropologicamente fondata, della testimo- nianza off erta al riconoscimento dell’altro, del racconto inteso come oralità e pre- senza, della scrittura condivisa e commentata, della comunicazione e della messa in scena di sé.

Il fondamento culturale della narrazione è di grande rilevanza nel processo di strutturazione identitaria, ma va sottolineato come questa pratica abbia bisogno di esercizio e di apprendimento: non possiamo infatti cadere nell’errore consistente nel ritenere naturale una capacità, quella del narrare (e del narrarsi), che viene trasmessa ed appresa attraverso il processo educativo e le occasioni in cui ai soggetti in forma- zione viene off erta l’opportunità di sperimentare modalità di adesione soggettiva ai modelli culturali del gruppo d’appartenenza. La narrazione richiede alfabetizzazione, abitudine e soprattutto iniziazione. Solamente il narratario iniziato come tale può diventare a sua volta narratore.12

Collegare l’idea dell’identità a quella della narrazione e della messa in scena delle narrazioni ci consente di scoprire come questo concetto sia mobile e irriducibile al tempo stesso: l’identità di ciascuno cammina, si cambia, si perfeziona basandosi pur sul paradigma statico dell’identico ed avendo bisogno di elementi invarianti per non perdersi. Ambivalenza, questa, sul cui irrinunciabile valore devono necessariamente basarsi, più o meno consapevolmente, tutte le relazioni che ciascuno può considerare signifi cative o alle quali si possa attribuire il valore dell’autenticità. Laddove, natu- ralmente, il concetto di autenticità ha a che vedere con la coerenza fra le identità e le modalità delle relazioni. D’altra parte le caratteristiche di mobilità e di intrinseca

“ambiguità” del congegno identitario non è, per taluni, facile da assimilare, ed ab- bondano, nella nostra cultura e nella nostra storia anche recente, i maldestri tenta- tivi di oggettivazione identitaria nella sociometria, nella psichiatria, spesso persino nelle pratiche educative, quando in ognuno di questi contesti si riduce il problema

12 C.f.r. M. Dallari, I topoi nel formaggio, Il Segnalibro, Torino, 1997.

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dell’identità alla classifi cazione e alla dimensione insiemistica e ogni volta che test, schede, profi li, giudizi, hanno tentato e tentano di bloccare e rendere stabile ciò che risulta non solo irriducibilmente mobile e sfuggente, ma euristicamente rinnovabile e rifondabile. Tutto ciò avviene con inquietante frequenza quando si cade nell’equivoco secondo il quale l’identità personale è identifi cabile con il soggetto. Ma l’identità non è il soggetto e neppure è nel soggetto. L’identità è davanti, dietro, intorno a noi; è nella relazione, nello scambio. Non solo, infatti, il giudizio complessivo, e l’insieme dei giudizi relativi a diff erenti funzioni e categorie della conoscenza, quando lo formulia- mo su noi stessi, è palesemente infl uenzato e mediato dal giudizio delle persone che frequentiamo, ma i modelli e i parametri di riferimento (bellezza-bruttezza, intelli- genza-stupidità, abilità-incapacità, successo-insuccesso ecc.) in base ai quali i giudizi sono formulati derivano largamente dal contesto culturale, ed è infi ne il contesto ambientale, in relazione alle diff erenti prestazioni che richiede ai soggetti per vivere ed essere riconoscibili e accettati in esso, a creare parametri di giudizio e di stima che saranno ben diversi in un luogo in cui, per esempio, per sopravvivere occorre saper cacciare, pescare e difendersi da aggressioni umane e animali rispetto a quelli relativi ad un luogo in cui i cibi, gli abiti e le suppellettili si acquistano nei negozi e nei super- mercati e la possibilità di essere aggrediti può essere considerata stravagante.

Possiamo guardarci, ma non possiamo vederci che parzialmente: la “verità” e la totalità di noi stessi (e anche degli altri, naturalmente) ci è negata; possiamo però guardare, ascoltare, scoprire i modi di manifestarsi dell’identità e, attraverso questa, cercare di capire/costruire qualcosa di noi stessi. Identità è dunque, soprattutto, testo e messa in scena del testo che viene off erto all’altro per ricevere spunti interpretativi, risposte in base alle quali l’io e il sè ricevono informazioni e materiali culturali e aff et- tivi capaci di alimentare il processo permanente di autopoiesi che li caratterizzano.

Ciascuno elabora e presenta all’altro da sé i testi del proprio esserci e del proprio essere con l’altro, per l’altro; l’autenticità della rappresentazione non dipende dal fatto che il testo corrisponda alla verità di ciò che saremmo per davvero, ma dalla verifi ca di ciò che possiamo ricevere, quando ci accorgiamo di essere suffi cientemente a no- stro agio, in quella relazione/rappresentazione. E la scena teatrale è probabilmente il laboratorio privilegiato per sperimentare e rinforzare l’autenticità del rapporto che lega indissolubilmente il processo di costruzione dell’identità con quello della costru- zione della conoscenza.

Abbiamo già condiviso la convinzione di come la competenza narrativa dell’in- segnante non sia solo il suo saper stare in scena. Non solo ma anche. Ed è, questo, un anche importantissimo almeno per due ragioni, la prima relativa alla ricaduta formativa di tale abilità sui soggetti in formazione, la seconda riguardante il profi lo identitario dell’insegnante.

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Cominciamo dagli alunni. È molto frequente, oggi, notare fra i giovanissimi una perdita della capacità quantitativa e qualitativa dell’attenzione, soprattutto quando questa deve essere rivolta a un’unica sorgente percettiva. La cultura contemporanea è dominata dalla comunicazione multimediale, in cui stimoli sonori e visivi si mesco- lano e si sostengono reciprocamente. Non a caso molti giovani sono capaci di leggere e perfi no di studiare tenendo la radio o la televisione accese, e in assenza di queste sorgenti di suoni e immagini, a loro stesso dire, si sentono più a disagio (una specie di horror vacui) che in loro presenza. Ma la dimensione comunicativa contemporanea è soprattutto breve, concentrata: con una metafora sportiva potremo defi nirla “da scattisti”. Ma poiché abbiamo, ancorché brevemente, dissertato sulle ricadute meta- cognitive degli stimoli simbolici e culturali, non è peregrino dedurre come questo tipo di comunicazioni, alle quali aggiungerei l’abitudine di usare i telefonini e SMS, provochi anche una concentrazione e una rarefazione delle modalità di pensiero, di rappresentazione, di elaborazione intellettuale, più rapido, magari, ma meno com- plesso e duraturo, unite alla sempre maggiore esigenza che siano gli stimoli esterni a doversi “guadagnare” l’attenzione, per le loro caratteristiche attrattive, più che essere i soggetti capaci di dedicarsi e concentrarsi su qualcosa di più inerte di una pubblicità, della scena di un fi lm d’azione o di un videoclip. Il teatro, da questo punto di vista, è un materiale didattico davvero straordinario per allungare i tempi d’attenzione e ren- dere “fondista” il suo utente. Per quanto uno spettacolo teatrale sia vario, con regia e scenografi e vivaci e accattivanti, c’è sempre un corpo o corpi in carne ed ossa in scena, e non i fantasmi del piccolo e grande schermo, e non c’è montaggio, per cui il ritmo della comunicazione è quello del discorso e della plasticità degli corpi. La capacità narrativa di un insegnante può potenziare qualità e tempi dell’attenzione. Ciò dipen- de in grandissima parte delle sue capacità teatrali, dalle caratteristiche di regia e di esecuzione della propria messa in scena delle conoscenze. Quando gestivo e anima- vo, con amici e colleghi dell’Accademia di Belle Arti, laboratori didattici alla galleria d’arte moderna di Bologna succedeva, a volte, che la scolaresca arrivata, quando la si invitava a sedersi davanti a un’opera esposta, appena si avvedeva che qualcuno di noi animatori stava per cominciare un discorso cadeva in una specie di stato catatonico automatico, derivante evidentemente dalla convinzione che ciò che stava per essere detto sarebbe stato noioso e insensato. E poiché queste scolaresche erano accompa- gnate dal loro insegnante, la pur breve e sommaria conoscenza della maestra o del maestro confermavano inevitabilmente il nostro sospetto. Quando invece bambine e bambini si apprestavano a partecipare alla nuova esperienza mostrando curiosità, interesse e convinzione che presumibilmente stava per succedere qualcosa di interes- sante, l’insegnante si rivelava simpatico, verbalizzato, carismatico, capace di comuni- care e di attirare l’attenzione su di sé già dal suo aspetto e dal suo atteggiamento.

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Il secondo versante riguarda il problema dell’identità dell’insegnante. Credo, come ho già avuto modo d’aff ermare, che la principale e più visibile caratteristica di chi insegna dovrebbe consistere nell’essere un bravo ed effi cace narratore di conoscen- za. Ma narrare, come tutti sappiamo, è saper usare la voce in modo giusto, parlare non con la gola ma con il diaframma, dosare e controllare la respirazione, saper in- tonare una voce e assegnare alle parole i giusti toni enfatici, utilizzare (bene) tutto il corpo per comunicare e non solo il mezzobusto di chi sta seduto dietro la cattedra, eccetera eccetera. Per saper fare tutto ciò occorre innanzitutto farselo insegnare (la frequentazione di un laboratorio teatrale non guasta) e poi occorre rimanere in alle- namento, proprio come fanno gli attori e i cantanti. Oltretutto tutto questo, per chi insegna, rende meno faticosa la carriera e incrementa la salute delle corde vocali.

Ma narrare il sapere non è recitarlo; è anche essere in grado di fare riferimenti competenti ed effi caci all’universo delle conoscenze calate nell’esistenza quotidiana, fare esempi, commentare e animare il commento delle narrazioni e delle pratiche interpretative che le riguardano. Perché per narrare e commentare qualcosa occorre sapere molto più di ciò che dice, bisogna avere una riserva di conoscenza che va mol- to al di là di ciò che si porge e si off re agli interlocutori.

La dimensione metacognitiva che si genera nel setting educativo narrativamente caratterizzato risulta essere, oltre alla consapevolezza relativa ai congegni epistemici relativi alle specifi che conoscenze, la capacità di esercitare e utilizzare un pensiero simbolico, metaforico, “laterale”, e parallelo a quello dello specifi co ambito cognitivo e didattico. Occorre allora la capacità e l’abitudine, da parte dell’educatore-insegnante, di frequentare l’universo simbolico dei saperi e delle narrazioni, di essere competenti nella lettura ad alta voce e di avere come abitudine personale e privata la lettura saggi- stica e narrativa. La capacità, l’abitudine, il piacere del leggere, la condivisione di quel

“piacere del testo” di cui scrive Roland Barthes come caratteristica dell’insegnante di qualsivoglia ordine e grado di scuola o di istituzione formativa, dovrebbero essere, forse prima di molti altri requisiti oggi considerati “professionalizzanti”, condizione identitaria dell’appartenenza alla comunità di chi si occupa di educare e trasmettere il sapere.

Ed è molto triste, oltre che contraddittorio, sentir dire da molti insegnanti o aspi- ranti tali che “non se la sentono di parlare in pubblico”. Oddio, mi chiedo in questi casi, ma non è esattamente questo il loro mestiere?

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Premessa al lavoro

Il lavoro sulla narrazione presentato nel libro è un’altra tappa del percorso di studio e di ricerca nell’area linguistico-espressiva che caratterizza da ormai più di un decen- nio l’attività del nostro gruppo che ha avuto fi n dall’inizio il sostegno dell’IPRASE.

Questo testo è frutto dei contributi delle insegnanti, componenti del gruppo, che hanno scritto le diverse parti portando la loro esperienza e il loro stile personale ma, come è nello spirito del nostro lavoro, è soprattutto frutto di collaborazione e di con- fronto. Importante per la realizzazione del lavoro è stata la partecipazione del prof.

Marco Dallari che ha messo a disposizione del gruppo la sua competenza e ha condi- viso la nostra passione per il tema a lui tanto caro della narrazione.

Ogni singola parte elaborata individualmente o in coppia dalle insegnanti è stata oggetto di discussione e di rielaborazione da parte del gruppo che ha come sfondo comune da un lato il bagaglio teorico di riferimento e dall’altro un’impostazione con- divisa del modo di intendere e di fare educazione linguistica con i bambini.

Nel corso degli anni abbiamo focalizzato la nostra attenzione su diversi ambiti: le prime fasi dell’apprendimento della lingua scritta, l’approccio interattivo all’apprendi- mento della lettura e della scrittura, i processi alla base della comprensione della let- tura, la lettura come piacere, i processi di costruzione del testo scritto, la grammatica come scoperta ed ora la narrazione.

Sono stati elaborati percorsi didattici attenti da un lato ai reali bisogni formativi dei bambini e dall’altro agli apporti della ricerca in ambito della psico-linguistica e della didattica della lingua.

Le proposte più signifi cative, sperimentate nella concreta attività didattica, sono state presentate periodicamente con l’organizzazione di seminari e mostre rivolte agli insegnanti; alcuni sono documentati in pubblicazioni IPRASE.1

L’impostazione di fondo che ci guida fi n dall’inizio e che caratterizza l’attività del gruppo è la consapevolezza della centralità dell’alunno e del suo ruolo attivo, di con- seguenza l’attenzione è fortemente rivolta ai processi attraverso i quali egli si costrui-

1 Pubblicazioni: P. Calliari (a cura di), Percorso di attività per un approccio alla lingua scritta nel bambino dalla scuola materna alla scuola elementare, Dispensa IPRASE, 1995; P. Calliari, M. Degasperi (a cura di), I bambini e la lingua scritta, Dispensa IPRASE, 1997; Omaggio alla lettura, Dispensa IPRASE, 1998;

Nonni e nipoti, percorsi bibliografi ci per bambini e ragazzi, Dispensa 2001; P. Calliari, M. Degasperi (a cura di), I bambini insegnano la grammatica, IPRASE, Collana Studi e ricerche, 2004.

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sce le proprie competenze linguistiche, competenze che sono strumenti di crescita personale e sociale.

Per questo la motivazione fondamentale del gruppo è cercare di comprendere sempre più a fondo i processi alla base degli apprendimenti e trovare modalità didat- tiche coerenti con gli assunti teorici e concretamente rivolte a far cogliere il senso, la funzione, gli scopi della lingua sia orale che scritta.

La scelta delle proposte didattiche è sostenuta dall’idea che è essenziale porre il bambino-apprendista della lingua in situazioni “di laboratorio” in cui la conoscenza sia frutto di scoperta e di condivisione e l’uso della lingua sia funzionale alla com- prensione, alla soluzione di problemi, all’ arricchimento delle capacità comunicative e relazionali, alla conoscenza di sé e degli altri.

È la convinzione che ci ha condotti anche a organizzare laboratori rivolti agli in- segnanti con la consapevolezza che si può proporre una metodologia laboratoriale agli alunni se la modalità di lavoro si è sperimentata in prima persona. Il gruppo ha sempre creduto che la proposta in forma di laboratorio rappresenti la modalità di aggiornamento più signifi cativa per la crescita professionale dell’insegnante perché pone in continua interazione il momento teorico e il momento esperienziale.

Come ricorda Clotilde Pontecorvo2 solo nella condivisione autentica delle cono- scenze c’è crescita culturale e umana: pensiamo che una metodologia che preveda l’organizzazione delle attività in forma di laboratorio faciliti questa condivisione e renda possibile una co-costruzione della conoscenza; questo vale sia per i bambini che per gli adulti.

Costruire insieme la conoscenza contestualizza la relazione d’apprendimento, evidenzia la peculiarità degli apporti individuali e valorizza la diversità che diventa una risorsa per tutto il gruppo-classe.

Per il Costruttivismo la conoscenza è un prodotto costruito socialmente, stori- camente, temporalmente, culturalmente: la costruzione dei signifi cati va condivisa e negoziata all’interno di una comunità di interpreti.

Partendo dalla concezione costruttivista deriva necessariamente la scelta di un metodo di lavoro improntata al dialogo, all’ascolto reciproco, al confronto, alla di- scussione e all’interscambio delle esperienze, delle idee e delle emozioni.

L’organizzazione del gruppo-classe si struttura in modo il più possibile funzio- nale a queste modalità comunicative e relazionali e pone particolare attenzione alla partecipazione di ogni soggetto e al suo contributo attivo nella comunità che diviene autenticamente comunità di apprendimento e di crescita.

2 C. Pontecorvo (a cura di), La condivisione della conoscenza, La Nuova Italia, Firenze, 1993.

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L’insegnante vive un ruolo a più dimensioni: sperimenta con i bambini gli spazi e i modi della conoscenza e della relazione e assume il compito delicato di facilitatore della comunicazione all’interno del gruppo, di guida che accetta le espressioni di tutti e aiuta a ridefi nirle in termini sempre più articolati, comprensibili, aperti ad altre esplorazioni.

Questa impostazione metodologica è stata un comune denominatore in tutti i nostri percorsi e la riteniamo alla base anche delle proposte qui presentate.

Il nostro lavoro sulla narrazione aff ronta alcuni aspetti della dimensione narrativa della realtà, intesa come una delle chiavi interpretative del mondo e della vita, che aiuta a comprendere e ad esprimere anche ciò che sta dietro le azioni, cioè le intenzio- ni, le emozioni, le fantasie… La narrativa cerca le ragioni non le cause, aiuta a capire come va il mondo, a comprendere con il cuore oltre che con la mente.

È proprio questa sua specifi cità che secondo noi la rende così centrale in un pro- getto di formazione attento a tutte le dimensioni della persona.

Paola Calliari

coordinatrice del Gruppo di Studio

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La narrazione come conoscenza

Paola Calliari

La narrazione è stata oggetto di analisi e di studio da più punti di vista: storico- antropologico, linguistico, socio-culturale, psicoanalitico. In anni recenti c’è stato un interesse specifi co per il pensiero narrativo dal punto di vista psicologico e pedagogi- co. Mi riferisco in particolare alle ultime opere di Bruner, ma anche ad autori italiani, ad esempio ai pedagogisti Dallari e Demetrio, ai contributi della fi losofa Cavarero e in ambito psicologico ai lavori di Smorti e di Sbandi.

Probabilmente nel quadro dei mutamenti che hanno caratterizzato le scienze del- l’uomo si è introdotta una sorta di emergenza dei modelli narrativi in particolare nel- le scienze della formazione per integrare e compensare un approccio troppo astratto e asettico di certe teorie dell’apprendimento tutte centrate sugli aspetti cognitivi. È emerso in modo più forte il bisogno di mettere in evidenza lo stretto intreccio tra cognitività e aff ettività: queste due dimensioni sono sempre strettamente interrelate in qualsiasi fase dell’apprendimento e della crescita personale.

Nella storia evolutiva dell’uomo, il narrare ha risposto e continua a rispondere ad una necessità profonda, addirittura primordiale.

I codici verbali, le lingue hanno come loro caratteristica la narrativa, cioè la capacità di raccontare storie. “La narrativa è ovunque un genere d’arte verbale superiore, presente costantemente a partire dalle culture orali primarie fi no a quelle ad alta alfabetizzazione e alle elettroniche. In un certo senso, la narrativa domina tutti gli altri generi, poiché è alla base di tante altre forme artistiche, anche le più astratte. La conoscenza umana emer- ge dalla temporalità: dietro alle astrazioni della scienza giace la storia delle osservazioni sulla base delle quali le astrazioni sono state formulate. In un laboratorio scientifi co, gli studiosi devono ‘trascrivere’ gli esperimenti, cioè raccontare cosa hanno fatto e quali sono stati i risultati: da quel che narrano si possono formulare alcune generalizzazioni e conclusioni astratte. Dietro ai proverbi, agli aforismi, alle speculazioni fi losofi che e ai riti religiosi giace la memoria dell’esperienza umana disposta nel tempo e soggetta a una trattazione narrativa. La poesia lirica implica una serie di eventi in cui si colloca o con cui ha a che vedere l’io poetico. Tutto ciò signifi ca che la conoscenza e il discorso derivano dall’esperienza umana, e che il modo elementare di elaborare verbalmente l’esperienza è darne conto seguendo più o meno la storia del suo nascere ed esistere, immersa dunque nel fl usso del tempo. Il racconto è un modo di trattare questo fl usso.”1

1 W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 197-198.

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I linguaggi verbali permettono di collocare gli eventi su diversi fondali di tempo:

si raccontano eventi passati, presenti e si possono con la narrazione prefi gurare even- ti futuri, non ancora avvenuti, si possono creare mondi possibili, il linguaggio della narrazione materializza l’inesistente, il solo probabile e fa muovere i personaggi che così prendono vita.

La narrazione è stata defi nita imitazione di azione: quando si imita un’azione con un’altra azione si realizza il dramma, invece nella narrazione “attraverso l’attività di transcodifi cazione, l’azione non produce più azione, ma una cosa diversa: una fi nzione;

non l’azione, ma una sua rappresentazione, la sua immagine attraverso il discorso.”2 Il linguaggio narrativo è diverso da quello usato nelle conversazioni quotidiane, chi racconta deve essere in grado di far capire a chi ascolta chi sono i personaggi della storia, quali gli oggetti importanti, quando e dove avvengono gli eventi narrati: deve cioè, mediante le parole, costruire un contesto diverso da quello circostante, del tutto immaginario specifi candone le caratteristiche.

“Un racconto non è mai espressione del genere narrativo allo stato puro… in esso parti più propriamente narrative si alternano a parti che vengono defi nite descrittive.

Quale dunque la diff erenza tra descrizione e narrazione? L’una, la narrazione è rap- presentazione di azione; l’altra, la descrizione è rappresentazione di oggetti, di per- sonaggi, di paesaggi. La frequenza con cui questi due diversi tipi di rappresentazione si mescolano nei testi narrativi è data dal fatto che, in genere, la descrizione è ancilla narrationis: nel senso, cioè, che raff orza il racconto e sostiene l’intrigo.”3

È facile trovare testi puramente descrittivi (senza azione), è più diffi cile invece trovare testi puramente narrativi senza descrizione.

Spesso la descrizione dell’aspetto fi sico delle persone, il rilievo dato ai capi di abbi- gliamento, la sottolineatura di particolari comportamentali e così via hanno il ruolo importante di delineare i caratteri psicologici dei personaggi e tutta la narrazione ne viene raff orzata e arricchita. A conferma di questo andiamo con la memoria al ruolo fondamentale della descrizione nei grandi autori della letteratura classica: Manzoni, Verga, Dostoevskij, Tolstoj, Dickens, Mann, Flaubert, Balzac… solo per ricordarne qualcuno.

Raccontare è un’arte che crea una sorta di confi ne tra testo e contesto ed è proprio tale distinzione che consente la fi nzione, l’invenzione di mondi immaginari.

Il testo narrativo si rende indipendente dal contesto, ha una sua ‘autonomia’ e il linguaggio narrativo, anche nella sua forma orale, possiede alcune caratteristiche tipiche della scrittura: autonomia, decontestualizzazione, statuto fi ttizio.

2 C. Xodo, Conti e racconti, EIT Editrice italiana, TE, 1990, p. 51.

3 Ibidem, p. 52.

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Bruner4 ritiene che l’atto narrativo, riguardando le intenzioni e le azioni uma- ne presupponga una modalità di pensiero peculiare che mira alla verosimiglianza in quanto si riferisce a probabili rapporti particolari tra eventi. Si basa su valori comuni che sul piano pratico sono dati per acquisiti in una comunità e in una cultura.

La narrazione rimanda alla nozione di verosimile, come ricorda Bruner e come aveva aff ermato il grande fi losofo greco Aristotele.5 Che cos’è il verosimile?

La nozione di verosimile, o probabile che sia, richiama una fondamentale distin- zione aristotelica tra teoria e pratica da cui deriva la distinzione tra sapere teoretico e sapere pratico.

Il primo è volto ad un tipo di conoscenza che predilige i rapporti stabili, oggettivi e veri- fi cabili della realtà. Ne è un esempio il pensiero scientifi co e argomentativo fatto di connes- sioni logiche necessarie, dove incoerenze e infrazioni dei principi fondamentali della logica non sono ammesse e dove si mira al raggiungimento di dati certi, oggettivi e universali.

Il sapere pratico si riferisce al tipo di conoscenze presupposte quando si intra- prende un’azione: è richiesta una confi denza con il particolare, con il caso singolo, con la situazione in cui si deve agire. Emerge il carattere di instabilità, variabilità, mutevolezza che caratterizza l’azione. In questo ambito ciò che permette di indivi- duare qualche punto fermo è quella che viene defi nita saggezza, il sapere pratico ba- sato appunto sul verosimile, sul probabile.

La ragione pratica è la ragione del buon senso o senso comune, fondata su principi, valori, credenze comuni al mondo in cui viviamo; non universale, ma stabilita sulla base del probabile e di ciò che accade per lo più: non assolutamente vera, ma verosimile.

In quanto imitazione di azione il racconto è sottoposto alle stesse ragioni dell’azio- ne, quelle del probabile o del verosimile.

Se il signifi cato del racconto è racchiuso nell’universalità delle intenzioni uma- ne, la rappresentazione di tale signifi cato è ottenuta attraverso una forma specifi ca di linguaggio, appunto narrativo, che rende emblematico il particolare. Un esempio è presente nelle fi abe, narrazioni di eventi che rappresentano problemi, emozioni e sentimenti universali.

NARRAZIONE E COSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ

È stato sottolineato che il raccontare nasce da un’esigenza espressiva primordiale dell’uomo, essendo egli dotato in modo specie specifi co del mezzo linguistico.

4 J. Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano, 1997.

5 Aristotele, Poetica, Rizzoli, Milano, 1987.

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È possibile vedere una rispondenza tra questa predisposizione naturale legata al possesso del codice linguistico e la necessità che il bambino ha di farsi narrare le sto- rie e a sua volta di narrarle?

Forse si può intravedere una sorta di sovrapposizione tra ontogenesi e fi logenesi della narrazione: il bisogno di storie caratterizza il bambino così come ha caratteriz- zato l’uomo nella sua storia evolutiva. Una possibile spiegazione si potrebbe cogliere nel fatto che la narrazione risponde a quel bisogno di sicurezza che caratterizza sia il bambino che l’adulto. Il bambino si rassicura nel sentirsi raccontare sempre la stessa storia che ama ritrovare intatta e pare che gli uomini nei periodi più tragici della loro vita avvertano il bisogno di sentirsi raccontare e di raccontare storie, forse per condi- videre, per sentirsi meno soli. La letteratura e la narrazione hanno avuto e continuano ad avere una funzione ‘consolatoria’ nei momenti di paura, di soff erenza e di dolore:

basti pensare al ruolo del racconto nei campi di sterminio e più recentemente al fatto che in America, dopo il disastro delle Torri Gemelle si sia registrato un aumento nella fruizione di spettacoli teatrali e di eventi culturali in genere a testimonianza di un

‘bisogno di storie’ da condividere.

La narrazione può avere questa funzione proprio perché è un’elaborazione delle vicende esistenziali, una metafora della realtà: nell’uomo c’è un’attitudine narrativa, una predisposizione a organizzare l’esperienza in forma narrativa.

“Per Bruner, il bambino nasce con un’attitudine prelinguistica a rappresentarsi la realtà, ma è attraverso la relazione sociale che questa predisposizione si attualizza. La predisposizione linguistica è complessa, essa non è solo possibilità di rappresentazio- ne, ma anche attitudine ad organizzare in trame narrative le esperienze e le comuni- cazioni. La struttura narrativa è anche insita nella prassi della interazione sociale, pri- ma di trovare espressione linguistica nella forma narrativa che è indicata da Bruner come strumento per la costruzione del Sé o costruzione della vita.”6

Non a caso proprio nell’ambito di un modello di conoscenza interattivo- costruttivista è emerso un particolare interesse per forme di comunicazione come il racconto, le storie o le narrazioni che sottolineano una visione ‘contestualista’ dove si considera l’interazione come costruzione. “Se il primato viene dato al contesto, sistema e ambiente sono due subsistemi di esso che perciò non possono essere con- cepiti come separati. Ciò signifi ca che non esiste un soggetto conoscente assoluto, né tantomeno un oggetto indipendente da esso, sia pure in interazione: ogni processo interattivo non avviene tra due polarità in sé separate, perché si verifi ca sempre all’in- terno di un contesto. Ciò porta ad una conclusione rilevante. L’interazione è costru-

6 Maria Sbandi (a cura di), La narrazione come ricerca del signifi cato, Liguori ed., Napoli, 2003, pp. 23-24.

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zione, una costruzione che avviene nella storia stessa delle costruzioni e nella quale i valori di realtà del soggetto e dell’oggetto sono messi tra parentesi…”7

Maria Zambrano scrive “tutto è correlato, nella vita: il vedere è il correlato dell’es- ser visto, il parlare dell’ascoltare, il chiedere del dare.”8

La stessa identità personale non è identifi cabile con il soggetto “…l’identità non è il soggetto e neppure è nel soggetto. L’identità è davanti, dietro, intorno a noi; è nella relazione, nello scambio.”9

“La categoria di identità personale postula sempre come necessario l’altro.”10 Noi impariamo a conoscerci attraverso lo sguardo dell’altro, attraverso il racconto che di noi fa l’altro. Nelle diverse storie che incontriamo troviamo dei frammenti che vanno a costruire la nostra storia personale, cerchiamo delle risposte all’impe- rativo socratico Conosci te stesso! Ogni percorso educativo autentico è infatti un cammino di consapevolezza di sé e di conoscenza del mondo nel loro inestricabile intreccio.

Un modo particolare di fare narrazione è quello che si svolge nell’ambito della terapia psicoanalitica e anche nella narrazione biografi ca e autobiografi ca.

In questi casi la storia viene rivelata dal narratore e dall’ascoltatore insieme, man mano che la narrazione procede. Qui più che in ogni altra situazione una storia emer- ge e diventa tale quando viene narrata a qualcun altro e talvolta la verità viene stabi- lita da quello che viene detto, più che da quello che è realmente accaduto.

Nella costruzione biografi ca e autobiografi ca un ruolo decisivo ha la memoria che

“è un meccanismo meraviglioso, un mezzo per riportarci indietro nel tempo. Possia- mo tornare indietro di un momento, o di gran parte della vita. Senonchè come tutti noi sappiamo, non è perfetta, e certamente non è sempre autentica. È una ricostruzio- ne dei fatti e delle esperienze in base al modo in cui sono stati immagazzinati, non al modo in cui sono realmente accaduti… Le memorie sono recuperate più facilmente se lo stato emotivo al momento della formazione mnestica corrisponde allo stato emotivo al momento della rievocazione.”11

Nell’autonarrazione, nell’autobiografi a emerge la necessità dell’altro; il sé narrante non può fare a meno dell’altro per raccontare la propria storia “La memoria auto- biografi ca racconta sempre una storia che è monca dell’inizio. È necessario ricorrere al racconto degli altri perché la storia cominci da dove è cominciata, ed è proprio il

7 Andrea Smorti, Il pensiero narrativo, pp. 41-42.

8 Maria Zambrano, I beati, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 116.

9 Marco Dallari, I testi dell’esserci, il Segnalibro ed., Torino, 1997, p. 15.

10 Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 31.

11 Joseph LeDoux, Il sé sinaptico, Raff aello Cortina Ed., Milano, 2002, p. 135.

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racconto irrinunciabile di questo primo capitolo che il sé narrabile va crucialmente a cercare con tutta l’ostinazione del suo desiderio.”12

Il fascino di conoscere la propria storia personale e il desiderio di raccontarsi è un’esigenza forte nei bambini che devono essere aiutati a trovare risposte a questo fondamentale e legittimo bisogno di crescita. Quando a loro vengono dati adeguati stimoli e strumenti per avviare la diffi cile arte della narrazione della propria storia (si veda il capitolo ‘Narrazione e autobiografi a. Riannodare i fi li’, a pagina 151) lo fanno con entusiasmo e sperimentano concretamente come la loro storia sia stretta- mente intrecciata con le storie degli altri. Per crescere nel rispetto di sé e degli altri è fondamentale diventare consapevoli che solo nella relazione, nel confronto e nella condivisione con chi ci sta accanto c’è la possibilità di arricchire la conoscenza di sé, del mondo e della propria storia.

NARRAZIONE ED EDUCAZIONE

I racconti, le storie, le narrazioni, facendo riferimento al piano dell’azione attra- verso l’intreccio e le vicende dei personaggi, ripresentano l’esperienza e l’azione ed evocano valori in modo implicito secondo una dimensione pratica di vita.

Interrogarsi sul ruolo della narrazione sia orale che scritta nella società di oggi signifi ca allora riportare l’attenzione sul piano dell’azione che è anche il piano del- l’educazione: ciò mette in evidenza che il racconto continua a svolgere un’importante funzione di orientamento. “Walter Benjamin (1955), aff erma che il narratore prende ciò che narra dall’esperienza - dalla propria o da quella che gli è stata riferita - e la trasforma, attraverso la propria mediazione, in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia. Si fa riferimento, quindi, all’accoglienza di un messaggio, al metterlo in racconto e riconsegnarlo all’ascoltatore. Un buon narratore, prosegue l’autore, deve avere memoria, uno spazio interno per trattenere le esperienze e trasmetterle; ed an- cora il narratore ha radici nel popolo ed il narrare aff onda nell’esperienza collettiva, da cui trae la propria saggezza e la forza per aff rontare i limiti della vita individuale. Per Benjamin il primo e vero narratore è e rimane quello di fi abe, la cui funzione l’autore individua nell’alleggerire le diffi coltà veicolate dal mito, nell’indicare come aff rontare con astuzia ed impertinenza le paure perché esse siano aggirabili, perché la natura non deve per forza esserci ostile. Per questo l’autore include il narratore tra i maestri o i saggi e, il suo talento è la sua vita; la sua dignità il saperla narrare fi no in fondo.”13

12 Adriana Cavarero, op. cit, p. 56.

13 Maria Sbandi, op. cit., p. 1.

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Pertanto il racconto ha delle potenzialità formative importanti in quanto conserva e trasmette un sapere di tipo pratico in grado di infl uire sull’azione umana e perciò rappresenta una modalità signifi cativa di insegnamento-apprendimento. Apprendi- mento inteso qui come ristrutturazione della personalità, come eff etto di un’attività di comprensione che coinvolge il soggetto in maniera totale e che quindi promuove una più profonda conoscenza di se stessi.

Il tipo di conoscenza a cui ci richiamiamo con il racconto va oltre l’aspetto analiti- co-descrittivo interno al testo: la narrazione evoca un rapporto con il testo molto più coinvolgente in quanto colui che ascolta o legge è chiamato in causa nella totalità del- le sue attitudini e abilità soggettive, di ordine cognitivo, ma anche aff ettivo e pratico.

Alessandro Portelli, docente all’Università La Sapienza di Roma ha fatto al riguardo un bellissimo esempio: “Esistono due modi di ragionare; il modo di Atene e il modo di Gerusalemme: il modo di Atene è farti un ragionamento; il modo di Gerusalemme è raccontarti una storia; ad Atene abbiamo il grande pensiero fi losofi co, basti pensare a Platone e ad Aristotele, a Gerusalemme abbiamo il grande racconto che è la Bibbia.”14

Il procedimento logico-scientifi co ha come obiettivo quello di chiarire, di togliere le ambiguità. Il racconto ha come sua natura l’ambiguità, la polisemia: la narrazione è un’arte delicata “che rivela il signifi cato senza fare l’errore di defi nirlo.”15

Questa è la ‘magia’ della narrazione dove l’ambiguità è apertura al possibile, è ri- spetto della complessità che caratterizza la vita umana. Forse è ciò che pensava Italo Calvino quando scrisse “L’eccessiva ambizione di propositi può essere rimproverata in molti campi di attività, non in letteratura… poiché ci sono cose che solo la lettera- tura può dare con i suoi mezzi specifi ci.”16

Nel mondo delle relazioni interpersonali, ma anche intrapersonali, cioè nella rela- zione con se stessi, si incontrano conoscenze, rappresentazioni delle cose, sentimenti, emozioni, pensieri, ricordi, in un intreccio che può trovare espressione proprio nella narrazione “che rivela il fi nito nella sua fragile unicità e ne canta la gloria.”17

Il racconto, nella forma del testo scritto, ma anche in proposte signifi cative e valide attinte da alcuni media, si soff erma su eventi particolari e diventa una via di trasmis- sione di una sapienza generale che non può essere limitata agli enunciati dimostrativi della scienza. Una sapienza generale veicolata proprio dal racconto che fa riferimento al conoscere, ma anche al saper sentire, al saper ascoltare, al saper scegliere, al saper fare, in una parola al saper vivere.

14 Alessandro Portelli, Atene e Gerusalemme, Educazione cooperativa N. 4/94.

15 Hannah Arendt, in A. Cavarero, op. cit, p. 10.

16 Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo Millennio, Mondadori, Milano, 1993, p. 3.

17 Adriana Cavarero, op. cit. p. 10.

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