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LA RESPONSABILITA’ DELLA ASL PER L’ILLECITO SANITARIO DEL MEDICO

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LA RESPONSABILITA’ DELLA ASL PER L’ILLECITO SANITARIO DEL MEDICO CONVENZIONATO DI MEDICINA-GENERALE

Il principio affermato dalla sentenza n. 6243 del 2015 della terza sezione civile della Cassazione può così essere espresso: la ASL è responsabile, ai sensi dell’art. 1228 cod. civ., per l’illecito commesso in danno dell’utente del SSN (che sia iscritto in apposito elenco: tutti i cittadini, ma non solo, come si evince dall’art. 19 della legge n.

833 del 1978) dal medico di base (o, più correttamente, medico di medicina generale:

art. 25 della citata legge n. 833), con essa convenzionato (art. 48 della stessa legge n.

833), nel rendere, proprio nell’ambito di tale rapporto di convenzionamento, la prestazione curativa di medicina generale, siccome ricompresa tra i livelli essenziali di assistenza (LEA) garantiti dallo SSN.

Ovviamente, dati per presupposti il danno subito dal paziente a causa della prestazione sanitaria e il suo eziologico correlarsi alla condotta colposa del medico, mi soffermerò unicamente sul profilo che attiene alla responsabilità della ASL come appena delineato.

Per giungere a ricostruire e fondare giuridicamente tale la responsabilità, vorrei capovolgere lo schema argomentativo della sentenza, per saggiarne ancora una volta la consistenza degli esiti, quasi in una prova di resistenza o una “prova del 9”, sebbene l’equazione matematica non si presti ad essere accostata in modo così netto al sillogismo giuridico.

In ogni caso, per far ciò occorre partire direttamente dal piano costituzionale e ribadire quanto la Corte costituzionale ha affermato in più di un’occasione e cioè che il rapporto dell’utente con il S.S.N., nell’ambito del quale trova effettività il diritto alla salute (art. 32 Cost.) in quanto diritto costituzionale “a prestazioni positive”, basato su norme costituzionali di carattere programmatico (C. cost., sent. n. 218 del 1994), viene a connotarsi dei tratti del diritto soggettivo pieno ed incondizionato, ma nei limiti e secondo le modalità prescelte dal legislatore nell’attuazione della relativa tutela, ben potendo detti limiti e modalità essere conformati dai condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nella distribuzione delle risorse finanziarie disponibili (tra le altre, C.

cost., sentenze n. 309 del 1999, n. 432 del 2005 e n. 251 del 2008).

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Questo è, per l’appunto, il senso del declinarsi della disciplina, anzitutto, di rango primario che ha provveduto all’istituzione e alla regolamentazione del S.S.N. (la già ricordata legge n. 833 del 1978) ed al suo evolversi (in particolare, il decreto legislativo n. 502 del 1992 e il d.lgs. n. 269 del 1999), mantenendo comunque fermo nel tempo il principio orientativo del diritto di tutti gli iscritti allo stesso S.S.N. a fruire delle prestazioni sanitarie come servizio pubblico, sebbene i limiti ed i contenuti di tale diritto siano stati diversamente modulati a seconda, per l’appunto, della pressione, più o meno cogente, in ragione del momento storico contingente, che viene ad esercitare sull’estensione delle prestazioni sociali la consistenza delle risorse finanziarie disponibili, posto che il finanziamento del S.S.N. è devoluto, essenzialmente, alla fiscalità generale (artt. 51 e 63 della legge n. 833 del 1978; per il concorso dei cittadini al finanziamento tramite contributo con natura di imposta, v. art. 16 della legge n. 438 del 1981, art. 31 della legge n. 41 del 1986, art. 14 della legge n. 413 del 1991, art. 1 della legge n. 421 del 1992: già cd. “tassa sulla salute”).

Di qui, la scelta più recente e matura di individuare livelli essenziali di assistenza sanitaria da garantire a tutti i cittadini (art. 3 del d.lgs. n. 269 del 1999); livelli che, evidentemente, sono fissati sia in ragione delle necessità sanitarie della collettività, sia in funzione di quanto si ritiene possibile erogare in base alle risorse finanziarie disponibili, con il limite, in quest’ultimo caso, della salvaguardia del nucleo essenziale del diritto alla salute, incomprimibile ai sensi dell’art. 32 Cost.

In questa stessa prospettiva si comprende anche come la fissazione dei LEA – al pari della determinazione dei livelli essenziali di altre prestazioni concernenti i diritti sociali – spetti allo Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. m, Cost., in quanto da garantirsi uniformemente su tutto il territorio nazionale.

Il sistema dei LEA è però già in nuce nella legge n. 833 del 1978, là dove essa si riferisce ai livelli delle prestazioni sanitarie che devono essere “comunque” garantite a tutti i cittadini (art. 3), là dove quell’avverbio “comunque” risulta chiaramente evocativo della difesa del nucleo essenziale e irridibile del diritto alla salute poc’anzi ricordato.

Tra le prestazioni da garantire “comunque” rientra, senza dubbi di sorta (art. 25 della legge n. 833 del 1978), l’”assistenza medico-generica”, che in base alla declinazione data dai “livelli uniformi di assistenza” (e poi dai LEA) si articola,

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essenzialmente, nella visita medica generica, nella prescrizione di farmaci e di prestazioni specialistiche.

Il rendere all’iscritto al S.S.N., in quanto tale, siffatta prestazione curativa di assistenza medico-generica è, per legge, compito della ASL (artt. 14, comma terzo, lett.

h e 19 della legge n. 833 del 1978) e tale compito, sempre secondo la legge (art. 25 della legge n. 833 citata), può essere svolto e reso effettivo con una duplicità di moduli organizzatori: fornire la prestazione sanitaria con medici alle dipendenze della stessa ASL oppure tramite i medici convenzionati con il S.S.N., ossia medici che non sono dipendenti pubblici, bensì liberi professionisti (o lavoratori autonomi parasubordinati, come meglio sarebbe dire sin d’ora).

La scelta del modulo organizzatorio è, invero, rimessa alla stessa Asl, in quanto la legge non impone, di per sé, una linea preferenziale.

Nella realtà, è indubbio che la scelta è caduta, quasi esclusivamente, sul modello del medico di base convenzionato con il S.S.N. Ma, mi preme ribadire, che si tratta di una scelta organizzatoria, che, segnatamente, prescinde, in sé, dal profilo della libertà di scelta del medico da parte del paziente, su cui invece molto si insiste (unitamente all’aspetto del carattere libero professionale della prestazione del medico) in quelle pronunce che hanno escluso la responsabilità della ASL nel caso che ci occupa.

In realtà, la scelta del medico è aspetto che riguarda essenzialmente il paziente e che, dunque, investe anche i medici dipendenti della ASL, ove ad essi si affidi l’assistenza medico-generica. E’ evidente che la platea dei medici di base si estende con il convenzionamento, ma il principio della scelta rimane sempre lo stesso. Peraltro, si tratta di scelta condizionata, nel senso che – ed è questo un passaggio particolarmente rilevante - può essere fatta solo nei confronti di quei medici che hanno avuto accesso al convenzionamento, per il quale è istituita una procedura di scelta in base a graduatorie, in un certo ambito territoriale (art. 8, lett. g, del d.lgs. n. 502 del 1992); dunque, la scelta avviene sulla base di una lista fornita al paziente dalla ASL, lista così contingentata (art. 25, comma quarto, della legge n. 833 del 1978).

E’, dunque, la ASL che deve fornire garantire la prestazione curativa di medicina generale e il “creditore” di tale prestazione (così possiamo chiamare il soggetto iscritto al SSN che ha diritto a tale prestazione) si rivolge alla ASL per ottenerla; ossia,

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l’assegnazione di un medico tra quelli che la stessa SSN ha selezionato, attraverso il quale medico la prestazione anzidetta troverà concreta attuazione.

In tal senso, si è quindi affermato che la ASL è debitrice della prestazione sanitaria in questione e lo è direttamente in base alla legge e non già tramite un contratto con il paziente. E’, infatti, la legge che delinea compiutamente il diritto e l’accesso alla prestazione, senza intermediazione consensualistica, giacché anche la stessa iscrizione al SSN risponde a criteri oggettivi di legge e non già ad una scelta dell’interessato.

Né la scelta del medico di base determina il sorgere di un rapporto di natura contrattuale tra paziente e medico stesso, posto che, come detto, la scelta avviene nei confronti della ASL e non già nei confronti del medico stesso, il quale è tenuto a rendere la prestazione in forza del rapporto di convenzionamento con la medesima ASL e non già in forza di un, inesistente, contratto con il paziente.

Del resto, tutte le vicende che riguardano la scelta del medico, la sua revoca, il rifiuto del paziente da parte del medico stesso (ipotesi anch’essa che può verificarsi) sono vicende che investono direttamente la ASL (art. 8, comma 1, lett. a e b, del d.lgs. n.

502 del 1992; art. 27 del d.P.R. n. 484 del 1996) e non già il rapporto medico-paziente, il quale esiste solo sul piano curativo, come svolgimento di quella prestazione che il medico convenzionato si è impegnato, ne confronti della ASL, a rendere.

Dunque, per concludere sul punto, il rapporto ex lege di credito/debito (in ragione del diritto dell’iscritto al SSN di ricevere la prestazione di assistenza medico- generica e dell’obbligo della ASL, in quanto articolazione di detto Servizio, di erogarla) è tra ASL e iscritto al SSN e non già tra paziente e medico di base.

La riconduzione alla legge della fonte di siffatto rapporto obbligatorio consente, ai sensi dell’art. 1173 cod. civ. (là dove la disposizione si riferisce “ad ogni altro atto o fatto idoneo” a generare l’obbligazione), di inserirlo nell’alveo della disciplina generale delle obbligazioni stesse; dunque, di soggiacere, per quanto interesse, all’art. 1218 cod.

civ. per ciò che concerne l’inadempimento della prestazione e, per l’appunto, all’art.

1228 cod. civ. per il profilo che più interesse in questa sede.

Si tratta, quoad effectum, di responsabilità di natura contrattuale, come anche in altre occasioni la giurisprudenza ha avuto di affermare in riferimento alla fase patologica delle obbligazioni nascenti direttamente dalla legge.

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Ciò, tuttavia, sebbene costituisca un passaggio essenziale per l’affermazione della responsabilità della ASL, non ne esaurisce l’esame, posto che occorre anche affermare il rapporto di ausiliarietà tra il medico di base e la stessa ASL, affinché si possa giungere alla applicazione dell’art. 1228 cod. civ.

A tal fine, ciò che essenzialmente rileva è che il debitore si avvalga dell’opera del terzo ausiliario nell’attuazione della sua obbligazione, ponendo tale opera a disposizione del creditore, sicché la stessa risulti così inserita nel procedimento esecutivo del rapporto obbligatorio.

Posto che, in tal senso, il cardine della norma è il principio del rischio di impresa, per cui il debitore risponde dei danni cagionati da colui del quale si sia avvalso nell’adempimento della prestazione, diventa, quindi, irrilevante la natura giuridica del rapporto che lega l’ausiliario al debitore (tra le altre, v. Cass., 26 maggio 2011, n. 11590 e Cass., 6 giugno 2014, n. 12833).

In definitiva, la disposizione di cui all’art. 1228 cod. civ. è insensibile ad una determinata caratterizzazione dell’organizzazione di impresa del debitore, giacché la norma assume una funzione neutra nel selezionare il tipo di rapporto che lega l’ausiliario al debitore della prestazione, l’importante è che partecipi di detta organizzazione.

E, tuttavia, proprio la natura del rapporto che lega il medico di base alla ASL – quello di convenzionamento – già nella sua stessa configurazione paradigmatica, ossia quella di rapporto di lavoro parasubordinato, si presta ad essere particolarmente congeniale al meccanismo dell’art. 1228 cod. civ., se è vero, come è vero secondo la giurisprudenza assolutamente costante, che il rapporto di parasubordinazione – cui (sempre alla luce del diritto vivente) è riconducibile il rapporto di convenzionamento (così, tra le tante, Cass., 13 aprile 2011, n. 8457) – è caratterizzato, oltre che dalla prestazione personale e continuativa (aspetti che si rinvengono chiaramente nella prestazione del medico di base), anche dalla cd. coordinazione, “intesa come connessione funzionale derivante da un protratto inserimento nell’organizzazione aziendale o, più in generale, nelle finalità perseguite dal committente e caratterizzata dall’ingerenza di quest’ultimo nell’attività del prestatore” (cfr. Cass., 19 aprile 2002, n.

5698).

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Dunque, come detto, non è privo di significato che proprio il rapporto di convenzionamento tra ASL e medico di base sia stato tradizionalmente inquadrato nel rapporto di parasubordinazione.

E sotto tale ultimo profilo mi pare sufficiente ricordare come in termini sempre più stringenti si sia evoluto il rapporto di cd. ingerenza della ASL sul medico di base, tanto da consentire a quest’ultima di poterne addirittura sindacare taluni aspetti propri della prestazione, come la conformità delle prescrizioni a standard predefiniti, nonché la predisposizione dei mezzi atti allo scopo, ossia l’idoneità dei locali e della attrezzature utilizzate (là dove lo studio medico è definito ormai come presidio della stessa ASL), oltre a concretizzarsi nel controllo sul rispetto degli orari di ambulatorio e su determinati comportamenti del medico convenzionato assumenti profili disciplinari.

E mi sembra particolarmente indicativo mettere in risalto che tra i comportamenti sanzionabili è annoverato quello di ricevere compensi da parte dei pazienti per le prestazioni curative di medicina generale, rientranti nei LEA, giacché la remunerazione del medico di base è, per tali prestazioni, unicamente quella che viene pagata dalla ASL (cfr. art. 8, lett. d, del d.lgs. n. 502 del 1992 e artt. 6 e 13 del d.P.R. n.

484 del 1996).

Invero, il compendio di tutto ciò si rinviene proprio in quella definizione normativa – recata dal citato d.P.R. del 1996 – che icasticamente definisce la figura del medico di medicina generale come “parte integrante ed essenziale dell’organizzazione sanitaria complessiva”, operando “a livello distrettuale per l’erogazione delle prestazioni demandategli dal Piano sanitario nazionale”.

Il che non viene certo a confliggere con il profilo dell’autonomia dei contenuti dell’attività sanitaria del medico di base, giacché si tratta di autonomia dei contenuti tecnici-professionali, come in tutti i casi in cui essa viene prestata, sia in regime di subordinazione, che libero professionale, in quanto espressione di opera intellettuale a carattere scientifico, oggetto di protezione legale (art. 2229 cod. civ.).

In definitiva, il profilo della autonomia dei contenuti della prestazione - su cui insistono le sentenze penali della Cassazione che hanno, in casi analoghi a quello deciso dalla terza civile, negato la responsabilità della ASL – non può scindere il rapporto genetico che il medico di base ha unicamente con la ASL. Un tale aspetto non assume rilievo dirimente, giacché si tratta di autonomia tecnica e non concernente l’an della

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prestazione stessa, che il medico non può rifiutare al paziente ed eroga non già in base a contratto con costui, bensì in forza del rapporto genetico che ha solo e soltanto con la ASL, ossia il rapporto di convenzionamento.

Con ciò ho concluso, sperando che la “prova del 9” abbia dato in qualche modo i suoi frutti; in caso contrario poco importa, perché, come è certamente chiaro a tutti, non si tratta di un gioco, seppur sofisticato, di logica giuridica, ma dell’impegno concreto dell’operatore del diritto nel fornire, a tutti i livelli (ciascuno nel proprio ambito e nell’esercizio delle proprie precipue funzioni; la Cassazione, in particolar modo, di quella della nomofilachia) risposte concrete a domande, del pari concrete e pressanti, di tutela, la cui serietà è particolarmente accentuata dal fatto che in discussione vi sono diritti fondamentali della persona, come lo è, certamente, anche quello alla salute.

Enzo Vincenti

(Consigliere della terza sezione civile della Corte di cassazione)

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