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Astreinte e condanna pecuniaria della PA tra Codice di procedura civile e Codice del processo amministrativo - Judicium

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TAR Campania, Sez. IV, 15 aprile 2011, n. 2161- Pres. Nappi; Est. Passarelli Di Napoli- Bonelli c/Comune di Barano D'Ischia

Giudizio di ottemperanza- Attuazione di provvedimento definitivo del GO- Pagamento delle spese di precetto- Inammissibilità-

Attraverso il giudizio di ottemperanza è possibile chiedere il pagamento delle sole spese successive al provvedimento ottemperando e che in esso trovino titolo; non sono invece dovute le spese di precetto, trattandosi di istituto tipico della sola esecuzione civile.

Giudizio di ottemperanza- Richiesta cumulativa di nomina di commissario ad acta e di pagamento di astreinte- Ammissibilità –

E’ ammissibile, nel giudizio di ottemperanza, la richiesta cumulativa di nomina del commissario ad acta e di pagamento dell’astreinte di cui all’art. 114, c. 4, lett. e) del Codice del processo amministrativo. Pur trattandosi di tecniche diverse, la loro convivenza è possibile in virtù della permanenza in capo alla PA del potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta.

Giudizio di ottemperanza- Astreinte a presidio dell’adempimento di condanna pecuniaria della PA- Manifesta iniquità- Sussistenza-

L’istanza di condanna della PA al pagamento di somme a titolo di astreinte per ogni violazione/ritardo nell’adempimento non può essere accolta in ipotesi di condanna pecuniaria, poiché le somme dovute a tale titolo andrebbero ad aggiungersi agli interessi legali medio tempore maturati, con effetti di indebito arricchimento del creditore, che inverano quella manifesta iniquità che l’art. 114, c. 4, lett. e) del Codice del processo amministrativo ha inteso evitare.

(Omissis) DIRITTO

Il ricorso è parzialmente fondato, e va accolto nei limiti di seguito indicati.

Osserva la Sezione che nel caso di specie ricorrono tutti i presupposti necessari, ai sensi degli articoli 90 e 91 R.D. 642/1907, e ai sensi degli artt. 112 e 114 codice del processo amministrativo, entrato in vigore nelle more della discussione del ricorso, per l’accoglimento del ricorso, in quanto il decreto ingiuntivo in epigrafe indicato, con condanna dell’Amministrazione resistente al pagamento in favore del ricorrente,quale procuratore antistatario, delle spese di lite, non risulta essere stato opposto; parte ricorrente ha provveduto a notificare all’Amministrazione formale atto di diffida e messa in mora, assegnando trenta giorni per l’adempimento, ma l’Amministrazione è rimasta inerte.

L’inerzia del Comune è illegittima in quanto violativa dell’obbligo, previsto dagli artt. 4 L. n. 2248/1865 e 37 L. n. 1034/71, dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato.

Ed invero lo stesso non si è costituito in giudizio e non ha pertanto provato, come sarebbe stato suo onere, l’avvenuto adempimento (cfr. in tema di prova dell’adempimento per tutte Cass. S.U. sent. n.

12533/01).

Deve pertanto in particolare, essere accolta la domanda con cui parte ricorrente chiede l’esecuzione del giudicato formatosi sul decreto in epigrafe indicato con condanna del Comune al pagamento della relativa somma, oltre agli interessi legali richiesti in questa sede, a far data dalla pubblicazione del decreto.

Peraltro non può essere azionato con il rimedio dell’ottemperanza il pagamento di tutte le somme ulteriori indicate nell’atto di precetto e nell’atto di diffida e messa in mora e richieste in questa sede, relative a spese e diritti successivi all’emissione del decreto di cui si chiede l’ottemperanza.

Infatti nel giudizio di ottemperanza le ulteriori somme richieste in relazione a spese diritti ed onorari successivi alla formazione del giudicato sono dovute solo in relazione alla pubblicazione della sentenza, all'esame ed alla notifica della medesima, alle spese relative ad atti accessori, quali le spese di registrazione, di esame, di copia e di notificazione, nonché le spese e i diritti di procuratore relativi all'atto di diffida, in quanto hanno titolo nello stesso provvedimento giudiziale; non sono dovute, invece, le spese di precetto, che riguardano il procedimento di esecuzione forzata disciplinato dagli artt.

474 ss., c.p.c., poiché l'uso di strumenti di esecuzione diversi dall'ottemperanza al giudicato di cui ai citati artt. 37, l. 6 dicembre 1971 n. 1034 e 27, r.d. 26 giugno 1924 n. 1054 è imputabile soltanto alla libera scelta del creditore. T.A.R. Calabria Catanzaro, sez. I, 11 maggio 2010 , n. 699; T.A.R. Lazio

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Latina, sez. I, 22 dicembre 2009 , n. 1348; Tar Campania – Napoli n. 9145/05 ; T.A.R. Campania – Napoli n. 12998/03; C.d.S. sez. IV n. 2490/01; C.d.S. sez. IV n. 175/87).

Le ulteriori spese relative all’atto di precetto non possono, pertanto, essere riconosciute al ricorrente.

Conseguentemente, deve essere dichiarato l’obbligo del Comune di Barano d’Ischia di dare esecuzione al suindicato decreto, nei limiti delle somme portate dal medesimo, oltre agli interessi legali fino al soddisfo, nonché alle spese relative alla pubblicazione del decreto, all'esame ed alla notifica del medesimo, alle spese relative ad atti accessori, quali le spese di registrazione, di esame, di copia e di notificazione, nonché le spese e i diritti di procuratore relativi all'atto di diffida.

L’Amministrazione darà esecuzione alla predetta sentenza entro giorni sessanta dalla notificazione ad istanza di parte o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza.

In caso di inutile decorso del termine di cui sopra, si nomina sin d’ora Commissario ad acta il Presidente della Sezione Regionale Controllo atti della Corte dei Conti della Campania, con facoltà di delega ad un funzionario dell’Ufficio, che entro sessanta giorni dalla scadenza del termine precedente darà corso al pagamento, compiendo tutti gli atti necessari, comprese le eventuali modifiche di bilancio, a carico e spese dell’Amministrazione inadempiente.(Omissis)

Tuttavia, la parte ricorrente ha chiesto, oltre alla nomina del commissario ad acta, anche la fissazione della “somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato”, statuizione che costituisce titolo esecutivo, ai sensi dell’art.

114 co. 4 lett. e) del c.p.a..

La suddetta norma ha comportato una rilevante innovazione, con la quale è stata introdotta anche nel processo amministrativo l’istituto della cd. astreinte, di solito assai efficace in presenza di obblighi di facere infungibili; nel processo civile il predetto istituto è regolato dall’art. 614 bis c.p.c., introdotto dall’art. 49 co. 1 l. 69/09.

Nel caso di specie, la parte ricorrente ha chiesto tanto la nomina del commissario ad acta che l’applicazione dell’astreinte; si tratta di mezzi di tutela diversi perché l’astreinte è un mezzo di coercizione indiretta (la dottrina ha parlato, al riguardo, di modello “compulsorio”), mentre la nomina del commissario ad acta - che provvede in luogo dell’Amministrazione - comporta una misura attuativa del giudicato ispirata ad una logica del tutto differente (non esercitare pressioni sulla p.a. perché provveda, ma nominare un diverso soggetto, tenuto a provvedere al posto della p.a.: la dottrina ha parlato, al riguardo, di modello di “esecuzione surrogatoria”).

È da ritenersi che l’opzione per l’uno o per l’altro modello rientri nella disponibilità della parte; deve inoltre ritenersi ammissibile la richiesta, al giudice amministrativo, tanto della nomina del commissario ad acta quanto dell’applicazione dell’ astreinte, atteso che – secondo l’orientamento preferibile e prevalente – l’Amministrazione non perde il potere di provvedere dopo la nomina del commissario ad acta, sicché la coazione indiretta costituita dall’ astreinte continuerebbe ad aver un senso. Le due forme di tutela, in altri termini, appaiono cumulabili perché non incompatibili tra loro.

Tuttavia, la domanda relativa all’applicazione dell’astreinte deve essere, nel caso di specie, respinta.

L’astreinte, infatti, può essere disposta ove “ciò non sia manifestamente iniquo, ovvero sussistano altre ragioni ostative”: si tratta di espressioni piuttosto generiche, dalle quali si evince tuttavia che il legislatore ha inteso auspicare un uso prudente di tale istituto (anche perché nel processo amministrativo comporta, di regola, un esborso di pubblico denaro).

Orbene, deve dubitarsi dell’ammissibilità dell’astreinte qualora l’esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro. Infatti, l’astreinte costituisce un mezzo di coazione indiretta sul debitore, necessario in particolare quando si è in presenza di obblighi di facere infungibili: pertanto, non sembra equo condannare l’Amministrazione al pagamento di ulteriori somme di denaro, quando l’obbligo di cui si chiede l’adempimento costituisce, esso stesso, nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria. Occorre considerare che, in tal caso, per il ritardo nell’adempimento sono già previsti dalla legge gli interessi legali: ai quali, pertanto, la somma dovuta a titolo di astreinte andrebbe ad aggiungersi, con effetti iniqui di indebito arricchimento per il creditore. Anche la giurisprudenza civile formatasi sull’art. 614 bis c.p.c., che ha introdotto nel processo civile una disposizione analoga, è orientata nel

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senso dell’ammissibilità di tale istituto a fronte dell’inadempimento di obblighi di fare infungibile o di non fare (il Tribunale di Cagliari, ord. del 19.09.2009, ha ritenuto che l’art. 614 bis si riferisca per l’appunto attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare).

Benché la norma non lo preveda espressamente, è da ritenere infatti che la somma di denaro debba andare a favore del creditore; e – benché la dottrina sia incerta sulla natura giuridica dell’astreinte – è preferibile qualificare la stessa come criterio di liquidazione del danno (e non come pena privata o sanzione civile indiretta), proprio al fine di evitare ingiustificati arricchimenti del creditore della prestazione principale. Ancora una volta, occorre richiamare la giurisprudenza civile, secondo cui “la misura prevista dall'art. 614-bis c.p.c. è volta ad assicurare l'attuazione sollecita del provvedimento e, come per la condanna, è quindi funzionale, innanzi tutto, a favorire la conformazione a diritto della condotta della parte inadempiente e, conseguentemente, ad evitare la produzione del danno o, quanto meno, a ridurre l'entità del possibile pregiudizio” (Tribunale di Cagliari, ord. del 19.09.2009).

Le spese del presente giudizio, secondo la regola della soccombenza, sono poste a carico dell’inadempiente Comune e vanno liquidate nell’importo indicato in dispositivo, cui deve aggiungersi il rimborso, in favore della parte che le ha anticipate, delle spese relative al contributo unificato, se ed in quanto effettivamente assolto.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando, disattesa e respinta ogni diversa istanza, domanda, deduzione ed eccezione, così provvede:

accoglie il ricorso in epigrafe, nei limiti di cui in motivazione, dichiarando l’obbligo del Comune di Barano d’Ischia di dare esecuzione, nel termine e nei limiti di cui in motivazione, alla sentenza in epigrafe indicata.

Per il caso di ulteriore inottemperanza, nomina Commissario ad acta il Presidente della Sezione Regionale Controllo atti della Corte dei Conti della Campania (con facoltà di delega ad un funzionario dell’Ufficio), che provvederà nei sensi e nei termini di cui in motivazione;

Respinge la domanda di fissazione di una somma di denaro dovuta dall’Amministrazione resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato;

Condanna il Comune di Barano d’Ischia al pagamento in favore di parte ricorrente delle spese del presente giudizio.(Omissis)

Clarice Delle Donne

Astreinte e condanna pecuniaria della PA tra Codice di procedura civile e Codice del processo amministrativo

1.- La pronuncia

La pronuncia resa dal Tar Campania in sede di ottemperanza prende posizione su rilevanti profili dell’esecuzione delle pronunce che vedono la PA soccombente, il primo non nuovo, il secondo assolutamente inedito, alla luce del nuovo Codice del processo amministrativo che entrambi abbraccia.

Il provvedimento rispetto al quale è lamentata l’inottemperanza è un decreto ingiuntivo (non opposto e dunque divenuto definitivo) emesso dal Tribunale ordinario nei confronti di un comune dell’interland campano. Il cittadino, persistendo l’inadempimento pur dopo la notifica dell’atto di diffida e messa in mora, adisce il Tar chiedendo che ordini al Comune il pagamento della somma portata dal decreto,

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comprensiva degli interessi legali dalla notifica del decreto, e delle ulteriori somme dovute per spese, diritti ed onorari, ivi compresi quelli dell’intimato precetto; che dichiari nulli gli atti adottati in violazione o elusione del giudicato e contestualmente nomini un commissario ad acta; che fissi altresì la somma di denaro dovuta dal Comune per ogni violazione o inosservanza successiva o per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato.

Il tribunale ritiene il ricorso parzialmente fondato e lo accoglie per quanto di ragione.

Anzitutto, premesso che il decreto ingiuntivo non opposto è uno di quei provvedimenti del giudice ordinario per i quali è previsto, ai sensi degli artt. 112 e 114 del Codice del processo amministrativo, il rimedio dell’ottemperanza, il giudice chiarisce quali sono le voci di spesa successive all’emissione del decreto e che possono essere richieste nel giudizio di ottemperanza. Si tratta delle sole spese relative alla pubblicazione della sentenza, all’esame ed alla notifica della stessa, alle spese accessorie quali registrazione, esame, copia e notificazione, ai diritti ed onorari di procuratore relativi all’atto di diffida, in quanto aventi la loro fonte nel provvedimento giudiziale di cui è chiesta l’esecuzione proprio nelle forme dell’ottemperanza. Le spese di precetto restano estranee a quest’ambito, la redazione e notificazione del precetto essendo atti necessari non del giudizio di ottemperanza, ma del processo esecutivo disciplinato dal Libro III del cpc. Di talchè se il creditore sceglie di avvalersi della giurisdizione amministrativa anche per l’esecuzione del provvedimento, ma compie atti estranei alla sua struttura processuale, il relativo costo non potrà essere addossato alla controparte pubblica inadempiente.

Ciò premesso, il giudice dichiara l’obbligo della PA di dare esecuzione al provvedimento di condanna nei limiti delle somme ivi indicate, oltre che di quelle appena individuate, entro il termine di sessanta giorni della notifica o comunicazione in via amministrativa della sentenza di ottemperanza e, per il caso di inutile decorso del termine, nomina il commissario ad acta nella persona del Presidente della Sezione regionale controllo atti della Corte dei Conti della Campania, affinché nell’ulteriore termine di sessanta giorni dalla scadenza del termine fissato alla PA compia gli atti necessari a dar corso al pagamento al beneficiario.

In riferimento all’ulteriore istanza di parte avente ad oggetto la fissazione della somma di denaro dovuta per ogni violazione/inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato, ai sensi dell’art. 114, c. 4, lett. e) del Codice del processo amministrativo, essa è in generale ritenuta ammissibile in via cumulativa con l’istanza di nomina del Commissario ad acta. Ciò in quanto il Codice

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del processo amministrativo ha inteso, recependo l’istituto dell’esecuzione indiretta di matrice francese, realizzare una convivenza tra i due modelli esecutivi, quello diretto e quello complusorio, in funzione di una migliore tutela del cittadino. Ne consegue perciò che a quest’ultimo è rimessa la scelta di uno solo di essi piuttosto che dell’altro, ma anche di entrambi, giustificabile perché la PA non perde il potere di provvedere neppure dopo la nomina del commissario ad acta e dunque una tutela di tipo compulsorio mantiene intatta la sua ratio.

Ciò chiarito quanto all’ammissibilità, in astratto, delle istanze cumulate di esecuzione diretta sub specie di ottemperanza ed esecuzione indiretta, il giudice campano passa ad esaminare nel dettaglio l’art. 114, c. 4, lett. e), in particolare laddove prevede quale limite all’emissione dell’astreinte la manifesta iniquità o la ricorrenza di altre ragioni ostative, e ne ravvisa la ratio legis in un uso particolarmente prudente da parte del giudice, anche in considerazione della provenienza pubblica del denaro.

Proprio tale ratio di prudenza ispira la scelta di respingere l’istanza.

Questi i passaggi fondamentali su cui il diniego di regge: ratio più profonda dell’astreinte è quella di assistere condanne a prestazioni di natura infungibile e dunque non realizzabili con le tecniche di esecuzione diretta, come è dimostrato dall’immediato precedente dell’art. 114, c. 4, lett. e) cpa, quell’art.

614 bis del cpc che sia nel testo che nelle prime applicazioni giurisprudenziali pone la condanna a presidio dell’adempimento delle sole obbligazioni infungibili o di non fare.

Nel caso di obbligazioni pecuniarie, tale ratio sfuma, essendovi già la monetizzazione degli interessi legali dal dovuto all’effettivo soddisfo a presidio dell’interesse del creditore ad ottenere un sollecito adempimento.

L’astreinte, che va qualificata come criterio di liquidazione del danno, cioè come strumento teso ad evitare o limitare l’inverarsi dello stesso, andrebbe dunque a sommarsi a tali interessi realizzando proprio quell’indebito arricchimento del creditore che la legge ha inteso scongiurare prevedendo il limite della manifesta iniquità, tanto più in presenza di ragioni di specialità costituite dalla provenienza pubblica del denaro dovuto dalla PA.

La domanda di condanna all’astreinte è dunque respinta.

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2.- Ottemperanza ed esecuzione civilistica: due tecniche strumentali all’esecuzione forzata nei confronti della PA

Il primo tema affrontato dalla sentenza è quello delle voci di spesa di cui è possibile chiedere il pagamento in sede di ottemperanza, ed in particolare se tra di esse rientrino anche quelle relative al precetto. La soluzione negativa prescelta dal giudice campano si basa su una esatta ricostruzione dei rapporti tra giudizio di ottemperanza ed esecuzione forzata del Libro III del cpc, tema non nuovo sul quale la giurisprudenza amministrativa e civile era consolidata in direzioni oggi sostanzialmente recepite dal Codice del processo amministrativo, che vi dedica gli artt. 112 e 115.

La lettura in combinato disposto delle due disposizioni codifica la regola pretoria della cd. “doppia tutela”, cioè dell’utilizzabilità di entrambe le tecniche esecutive, ottemperanza ed espropriazione forzata del Libro III del cpc, per l’esecuzione di una pronuncia di condanna pecuniaria a carico della PA, sia in alternativa che insieme,1con un unico limite: l’impossibilità di conseguire due volte il dovuto e la necessità che le spese della procedura infruttuosa restino a carico del creditore procedente.

In particolare, l’art. 112, c. 2 lett. c) cpa prescrive che le sentenze passate in giudicato ed i provvedimenti equiparati del giudice ordinario sono suscettibili di ottemperanza, ampliando l’ambito della doppia tutela oltre i confini della condanna pecuniaria. Per contro, l’art. 115 c. 2 prevede che i provvedimenti emessi dal giudice amministrativo e recanti condanne pecuniarie a carico della PA sono titolo anche per l’esecuzione nelle forme del Libro III del cpc, oltre che per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.

La circostanza che al creditore sia rimessa la scelta di seguire entrambe le vie piuttosto che una sola di esse in ipotesi di condanna pecuniaria della PA, impone tuttavia un’attenta actio finium regundorum tra le due, chiarendo in primis che comunque ciascuna procedura segue esclusivamente le sue regole senza contaminazioni reciproche.

In questa direzione si muove l’art. 115, c. 3, per il quale ai fini del giudizio di ottemperanza non è necessaria l’apposizione della formula esecutiva.

Probabilmente superflua alla luce di queste considerazioni, la precisazione normativa va intesa come indicazione di metodo a tutto tondo: quella della necessità di delimitare esattamente i confini tra le due tecniche esecutive, che condividono la medesima funzione, ma sono e restano inconciliabili sul piano

1 C. Stato, sez. IV, 1 ottobre 2004, n. 6362; C. Stato, sez. IV, 31 maggio 2003, n. 7840; C. Stato, sez. V, 12 novembre 2001, n.

5788; C. Stato sez. IV, 9 marzo 2000, n. 1233. La Cassazione ritiene che in simili ipotesi il giudizio di ottemperanza si ponga quale rimedio complementare che si aggiunge al processo di esecuzione forzata del Libro III del cpc, spettando al creditore la relativa scelta (Cass. S.U. 31 marzo 2006, n. 7578).

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della tecnica processuale2. Sicchè, quando il Codice del processo amministrativo stabilisce (art. 112, c. 2, lett. c), ad esempio, che i provvedimenti del giudice ordinario sono suscettibili di ottemperanza purchè passati in giudicato, l’apposizione della formula esecutiva è superflua se si segue questa via, essendo da un lato ininfluente ai fini del perfezionarsi del giudicato formale richiesto dalla norma; e dall’altro imprescindibile solo in quanto formalità esterna imposta nell’esecuzione per espropriazione del cpc. Per contro, nel primo caso, e non nel secondo, la parte vittoriosa avrà facoltà di intimare diffida e onere di notificare il ricorso alla PA ed alle parti del giudizio dichiarativo (art. 114, c. 1 cpa) mentre in entrambi i casi la sentenza andrà notificata all’obbligato.

Ciò vale anche per il precetto, prescrizione formale riservata alla sola esecuzione del Libro III del cpc, e le cui spese dunque, compresi diritti ed onorari, non possono essere recuperate attraverso il giudizio di ottemperanza.

Correttamente, perciò, il giudice campano conclude nel senso che solo le spese che trovano titolo diretto nel provvedimento ottemperando, vale a dire quelle di pubblicazione, esame e notifica della sentenza, quelle di registrazione e le spese e i diritti di procuratore relativi all’atto di diffida, possono essere oggetto di richiesta di rimborso nel giudizio di ottemperanza.

Le spese di precetto ed i relativi diritti di procuratore possono essere recuperati solo all’interno dell’espropriazione forzata, restando viceversa definitivamente a carico del creditore procedente che, nonostante abbia optato per la sola ottemperanza, ha scelto di compiere un atto ad essa totalmente estraneo, ed in buona sostanza inutile.

3.- L’art. 114, c. 4, lett. e) cpa ed il giudicato ordinario: un rapporto problematico

Il contesto della “doppia tutela” recepito dal Codice del processo amministrativo fa da sfondo al secondo tema affrontato dalla sentenza, ed al contrario del primo assolutamente inedito: quello dei presupposti e limiti di concedibilità dell’astreinte introdotta per la prima volta nel giudizio (amministrativo anche)3 di ottemperanza dall’art. 114, c. 4, lett. e) del Codice del processo amministrativo, sulla scia della soluzione già adottata dall’art. 614 bis del cpc4.

2 V. anche C. Stato sez. IV, 21 novembre 2001, n. 5923, che ha chiarito come l’atto di precetto sia da considerarsi irrilevante ai fini dell’ottemperanza, i cui presupposti non coincidono con quelli dell’esecuzione forzata civilistica. Più di recente, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 11 maggio 2010, n. 699; TAR Lazio, Latina, Sez. I, 22 dicembre 2009, n. 1348, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.

3Si ritiene tuttavia (Lipari, L’effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, in www.federalismi.it; Viola, Le astreintes nel nuovo processo amministrativo, in Urb e appalti, 2011, 153 ss.) che la scelta testuale a favore della sedes dell’ottemperanza non precluda che la domanda di condanna all’astreinte venga formulata al giudice della cognizione, nel contesto del più generale ampliamento dell’ambito dei confini del giudizio dichiarativo operato dall’art. 34, c. 1, lett. a) del Codice del processo amministrativo. Ciò in attuazione di quella precisa direttiva di effettività e concentrazione della tutela imposta dalla Delega di cui all’art. 44 della L. n. 69/2009, e tradottasi nell’art. 7 del Codice stesso.

4Sia pure con rilevanti differenze. Oltre a quelle, davvero fondanti, che saranno prese in considerazione nel testo, occorre rilevare come l’art. 614 bis cpc abbia la sua sedes nel Libro III, Titolo IV dedicato all’esecuzione forzata ed in particolare a quella degli obblighi di fare e di non fare, e di esso si è fin da subito rilevata la ratio di supplenza alla impossibilità di utilizzare l’esecuzione diretta ex artt. 612 ss in caso di inottemperanza spontanea, essendo le prestazioni imposte di natura infungibile. La Relazione al d.d.l. n. 1441, poi trasfuso nella L. n. 69/2009 (art. 54) precisa infatti il fine di “coercizione indiretta per l’adempimento degli obblighi di fare infungibili e per gli obblighi di non fare”. E’ peraltro da rilevare come tale

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La disposizione prevede, com’è noto, che il giudice dell’ottemperanza che accoglie il ricorso, “salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato”.

Tra i principali problemi che la prescrizione di nuovo conio pone, e che il giudice campano è chiamato ad affrontare, spiccano, nell’ordine, quello del quomodo della coesistenza con l’esecuzione diretta, nel cui alveo nasce e si sviluppa, soprattutto sotto il profilo del coordinamento con la nomina e l’effettivo esercizio delle funzioni del Commissario ad acta; e quello del ruolo della manifesta iniquità, e delle altre ragioni ostative, rispetto all’automatismo posto dall’art. 114, c. 4, lett. e) tra istanza di parte e fissazione della misura da parte del giudice (nella struttura della disposizione infatti il giudice fissa senz’altro la somma di denaro se vi è richiesta dalla parte, “salvo che ciò sia manifestamente iniquo, o non sussistono altre ragioni ostative”).

Pregiudiziale rispetto a questi profili è tuttavia quello della possibilità stessa di invocare, in sede di ottemperanza di un giudicato ordinario, la misura prevista dall’art. 114, c. 4, lett. e) cpa. La risposta positiva al quesito, in astratto agevolmente motivabile con il rilievo che l’astreinte è, nella logica dell’art.

34, lett. e) cpa) (di cui l’art. 114, c. 4, lett. e) costituisce applicazione) solo una delle misure di cui il giudice dell’ottemperanza dispone per assicurare l’attuazione del giudicato (e delle pronunce non sospese), appare infatti in concreto impraticabile proprio in ragione dello sbarramento posto dall’art.

614 bis cpc. Malgrado la disposizione costituisca per significativi aspetti, in primis quello della natura e funzione della misura, l’archetipo dell’art. 114, c. 4, lett. e) cpa, se ne discosta, ex ceteris, per la scelta di fondo di attribuire la decisione sulla misura al giudice della tutela dichiarativa e cioè, nel nostro caso, alla giurisdizione ordinaria. Nell’ambito della quale, però, opera la limitazione dell’astreinte a presidio delle sole condanne ad un facere-non facere, risultando perciò difficile giustificare che ciò che la legge preclude al giudice fornito di giurisdizione sulla controversia sia reso possibile ad altro comparto giurisdizionale. La prescrizione in parte qua della disciplina dell’ottemperanza sembra allora inapplicabile in virtù delle superiori ragioni ordinamentali che impediscono al giudice amministrativo (dell’ottemperanza) ingerenze nelle sfere riservate ad altri comparti giurisdizionali dotati di pari dignità costituzionale.5

conclusione non appaia del tutto pacifica nella lettura che ne dà la dottrina processualcivilistica, una parte della quale apre l’astreinte anche alle prestazioni fungibili: v., ad esempio, Zucconi Galli Fonseca, Le novità della riforma in materia di esecuzione forzata, in www.judicium.it. ).

5 Proprio questo limite ordinamentale aveva storicamente condotto il Consiglio di Stato a negare, ad esempio: a)

l’appellabilità delle sentenze rese dal Tar in sede di ottemperanza alle sentenze delle Commissioni tributarie e della Corte dei Conti proprio sull’assunto che fosse inibita ogni attività interpretativa del dictum sia in primo grado sia da parte dello stesso

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Il giudice campano non si pone tuttavia questo problema, e si comporta come se alla fattispecie fosse senz’altro applicabile l’art. 114, c. 4, lett. e) cpa. Il nodo pregiudiziale irrisolto fa tuttavia silenziosamente sentire il suo peso e proprio, come si vedrà, nell’impostazione adottata in ordine all’istanza di misura coercitiva, respinta in base a ragioni di cui l’art. 114 stesso in parte qua, al contrario dell’art. 614 bis cpc, non reca traccia.

Ma procediamo con ordine.

3.1. – L’astreinte di cui all’art. 114, c. 4, lett. e) cpa nel contesto del giudizio di ottemperanza

Il percorso motivazionale della sentenza si diparte dalla differenza tra l’istanza di nomina del commissario ad acta, tipica del giudizio di ottemperanza perché strumentale alla surrogazione della PA riottosa; e l’istanza di condanna al pagamento della somma di cui all’art. 114, c. 4 lett. e), funzionale invece ad una forma indiretta di esecuzione, intesa quale strumento di pressione sulla PA acchè provveda volontariamente a dare attuazione al giudicato. La scelta del Codice del processo amministrativo nel senso della convivenza tra le due tecniche importa, per il Tar, che la scelta tra l’una e l’altra, in alternativa o in cumulo, spetti alla parte.

Posto dunque che, come nel caso di specie, quest’ultima avanzi sia la domanda di nomina del Commissario ad acta sia quella di condanna all’astreinte; e posta altresì la necessità di coordinamento logico tra le due misure, l’una presupponendo l’attuale inottemperanza e la surroga dell’ausiliare; l’altra invece mirando a favorire l’ottemperanza volontaria; il Tar ritiene di dover affrontare in via pregiudiziale il nodo, da sempre problematico e lasciato irrisolto anche dal Codice del processo amministrativo, della permanenza o meno del potere di ottemperare in capo alla PA pur dopo la nomina del commissario. La risposta al quesito nel primo senso consente, nella logica della sentenza, di motivare una condanna all’astreinte pur in presenza di contestuale nomina dell’ausiliare, perché la pressione sulla PA può ancora utilmente produrre un adempimento volontario.

Consiglio di Stato (C. Stato 6 maggio 1998, 663, in Foro Amm., 1998, 1465); b) la possibilità di chiedere in sede di

ottemperanza amministrativa di una sentenza della Corte dei Conti in materia pensionistica, una pronuncia condannatoria alla rivalutazione ed interessi, trattandosi di integrazione della tutela dichiarativa riservata in quanto tale alla giurisdizione contabile (C. Stato, A.P., 17 gennaio 1997, n. 1, in Riv. Amm., 1997, 243). V. amplius, sul punto, Saitta, Il processo contabile, in Il processo davanti al giudice amministrativo, a cura di Sassani e Villata, Torino, 2010, 428 ss. L’invalicabilità del limite ordinamentale tra plessi giurisdizionali diversi è rinvenibile anche nella giurisprudenza della Cassazione, la quale ha rilevato come il potere di integrazione del giudicato possa riconoscersi al giudice amministrativo solo in sede di ottemperanza alle sue stesse decisioni (Cass. S.U. 30 giugno 1999, n. 376). Più di recente, per la riaffermazione del principio nella giurisprudenza amministrativa, v. C. Stato, sez. IV, 4 marzo 2003, n. 1190; ID., sez. V, 24 agosto 2006, n. 4984.

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La conclusione della possibile convivenza tra esecuzione diretta ed indiretta in siffatte ipotesi mi pare tuttavia trovare titolo direttamente nell’art. 114, c. 4, lett. e) cpa, che prefigura come fisiologica l’ipotesi che l’istanza sia formulata nel giudizio di ottemperanza. Quest’ultimo è infatti deputato in primis alla verifica dello stato dell’(in)adempimento da parte della PA, alla quale è comunque fissato un termine ulteriore per prestare ossequio al decisum, solo alla scadenza del quale inizia ad operare il commissario ad acta (pure) contestualmente nominato. E’ allora fisiologico che la PA conservi, almeno per il momento, il potere di provvedere-adempiere. Corroborare l’ordine di ottemperare con una condanna all’astreinte è allora soluzione resa possibile proprio dalla dinamica stessa di questa fase processuale dell’ottemperanza6.

Il TAR non affronta invece il ben più spinoso profilo della possibile configurabilità di una convivenza di poteri tra PA ed ausiliare dopo che quest’ultimo ha effettivamente iniziato ad operare ( sul presupposto dell’assenza di ottemperanza della prima). E’ questo il vero problema emerso nella giurisprudenza formatasi prima del Codice del processo amministrativo7, e che impone di precisare ulteriormente che, se si sciogliesse il quesito nel senso della permanenza di entrambi i poteri, l’astreinte continuerebbe a maturare, a carico della PA, fino all’effettiva e finale ottemperanza, mentre in caso contrario l’astreinte dovrebbe maturare solo fino al momento del passaggio delle funzioni in via esclusiva all’ausiliare. La possibilità di ottemperanza della PA dovrebbe infatti considerarsi esaurita, a favore della sola modalità surrogatoria, l’esecuzione indiretta recedendo definitivamente al cospetto di quella diretta.

6 La conclusione trova del resto conferma nella possibilità, oggi testualmente prevista dall’art. 34, c. 1, lett. e) del cpa, che la nomina del commissario ad acta sia presente già nella sentenza dichiarativa, nel contesto più ampio delle “misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, “(…) con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza”. Dato rilevante non è cioè la nomina dell’ausiliare, ma l’effettivo esercizio delle funzioni. V. amplius, sul punto, Storto, Commento sub art. 34, in Caringella-Protto, Codice del nuovo processo amministrativo, Roma, 2010, 403 ss.

7 E che a sua volta dipende dal nodo del carattere perentorio o meno del termine assegnato all’amministrazione per

l’adempimento. La soluzione positiva aveva trovato fautori in un filone della giurisprudenza amministrativa (C. Stato, sez. VI, 19 gennaio 1995, n. 4; TAR Sicilia-Catania, sez. IV, 8 maggio 2006, n. 673; TAR Veneto, sez. I, 4 novembre 2005, n. 3847.), sia pure con la precisazione che gli atti eventualmente compiuti dalla PA dopo la scadenza non sarebbero da considerare nulli, bensì da valutare caso per caso in riferimento al contenuto precettivo della decisione ottemperanda. Altra

giurisprudenza si era al contrario orientata verso la soluzione della non perentorietà del termine, optando per la sopravvivenza del potere di provvedere anche dopo l’effettivo inizio delle attività dell’ausiliare, ferma in ogni caso la valutabilità degli eventuali atti comunque compiuti da parte del solo giudice dell’ottemperanza (C. Stato, sez. IV, 10 aprile 2006, n. 1947; C. Stato, sez. V, 3 febbraio 1999, n. 109). Altra giurisprudenza ancora aveva operato un distinguo tra la nomina ed il concreto insediamento del commissario, il secondo e non la prima spogliando definitivamente la PA del potere-dovere di provvedere in attuazione del decisum: TAR Puglia-Bari, sez. I, 16 marzo 2006, n. 69; TAR Sicilia-Palermo, sez. I, 8 aprile 2008, n. 454. E’ quest’ultima la linea seguita, a quanto pare, anche dalla sentenza in commento.

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3.2.- Segue: astreinte e condanna pecuniaria tra art. 114, c. 4, lett. e) cpa e art. 614 bis cpc

Ciò posto in ordine ad an e quomodo della coesistenza tra esecuzione diretta ed indiretta nel contesto dell’art. 114, c. 4, lett. e) cpa, il giudice nega, e qui veniamo al secondo e più spinoso dei profili affrontati, l’ammissibilità dell’astreinte nel caso specifico.

Sostiene il TAR che “l’astreinte costituisce un mezzo di coazione indiretta sul debitore, necessario in particolare quando si è in presenza di obblighi di facere infungibili” mentre nel caso di condanna pecuniaria “per il ritardo nell’adempimento sono già previsti dalla legge gli interessi legali: ai quali, pertanto, la somma dovuta a titolo di astreinte andrebbe ad aggiungersi,con effetti iniqui di indebito arricchimento per il creditore”.

Ed invero, prosegue il TAR, l’ astreinte deve considerarsi come “criterio di liquidazione del danno (e non come pena privata o sanzione civile indiretta) proprio al fine di evitare ingiustificati arricchimenti del creditore della prestazione principale”, come risulta dalle prime applicazioni, nella giurisprudenza civile, dell’art. 614 bis cpc.

Ma questa lettura, vero fulcro della motivazione, da un lato contrasta con la premessa, esplicitamente adottata, che la condanna pecuniaria è tecnica di esecuzione indiretta funzionale ad ottenere una ottemperanza volontaria della PA al decisum; e dall’altro non tiene conto del contesto in cui opera l’art.

114, c. 4, lett. e) cpa, confondendolo con quello in cui opera l’art. 614 bis cpc.

Il TAR erra cioè due volte: quando non si pone il problema dell’esistenza del potere di disporre la misura in presenza di un giudicato ordinario; e poi quando finisce con l’applicare alla fattispecie il contenuto precettivo e la filosofia dell’art. 614 bis piuttosto che quelli dell’art. 114, c. 4, lett. e) che nella sua stessa logica dovrebbero invece regolare la fattispecie.

Se anche perciò si desse per scontata l’esistenza del potere del giudice amministrativo di disporre l’astreinte nel caso di specie, il merito della decisione non sarebbe condivisibile per le ragioni che seguono, e che, in quanto attinenti all’interpretazione dell’art. 114, c. 4, lett. e), risultano pienamente applicabili alle condanne pecuniarie emesse proprio da questo giudice o da quegli altri giudici speciali cui oggi si applica il giudizio di ottemperanza ai sensi dell’art. 112, c. 2, lett. d) cpa.

Il TAR parte infatti dall’idea che la scelta del Codice del processo amministrativo punti alla convivenza dell’esecuzione indiretta di nuovo conio con quella diretta storicamente invalsa. Dal che trae la coerente (nonchè condivisibile, come si è visto) deduzione della possibilità della parte di scegliere entrambe le forme o una sola di esse.

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Ma proprio questa scelta di fondo dovrebbe presupporre, in chi la compie, il naturale contesto strutturale di un processo di esecuzione forzata di tipo surrogatorio, segnatamente il giudizio di ottemperanza, nell’alveo del quale si innesta, per il tramite dell’istanza di parte, una esecuzione indiretta.

Tale dato strutturale è a sua volta figlio di un contesto culturale in cui la (finora) inedita convivenza di tecniche esecutive appare pensata in funzione di potenziamento della tutela del cittadino nei confronti di una PA storicamente poco propensa ad una tempestiva ed esatta ottemperanza al decisum.

Nell’esperienza civilistica il dibattito ha invece percorso la via, tutta italiana8, della ricerca di un rimedio al vuoto di tutela esecutiva per pronunce che, recando condanne a prestazioni infungibili, non si prestavano ad essere eseguite coattivamente con le tecniche surrogatorie del Libro III del cpc.

Di questa opzione di fondo è traccia nelle scelte tecniche alfine prevalse nella disciplina positiva dell’art.

614 bis cpc, e segnatamente, per quanto qui di interesse, nella configurazione della misura quale corredo esclusivo di pronunce a struttura condannatoria ed aventi ad oggetto prestazioni di facere-non facere, con esclusione delle condanne pecuniarie. La stessa collocazione della misura nella sede dichiarativa, e di cui si è già detto, denota la precisa consapevolezza dell’assenza di un processo esecutivo in cui proporre l’istanza, perché tecnicamente inidoneo rispetto alle prestazioni da eseguire.

Se dunque dell’art. 614 bis cpc è possibile parlare9 in termini di archetipo dell’art. 114, c. 4, lett. e) del cpa, non è certo sotto questo specifico profilo. La disposizione processuale amministrativa, al contrario di quella civilistica, si muove infatti nella (diversissima) logica di un processo esecutivo (l’ottemperanza) ove per definizione tutte le prestazioni imposte alla PA dal decisum divengono allo stesso modo surrogabili, e proprio attraverso la figura del commissario ad acta, nessuna differenza potendo perciò istituirsi, da questo punto di vista, tra condanne pecuniarie e condanne ad altre prestazioni e, a monte, tra le stesse pronunce di condanna e quelle, ad esempio, di annullamento. Ogni decisum in quanto tale obbliga infatti, sempre e comunque, la PA soccombente all’ottemperanza. Ed è per questo che l’art. 114, c. 4, lett. e) cpa, a differenza dell’art. 614 bis cpc, non pone alcuna limitazione non solo quanto alla struttura(condannatoria o meno) della pronuncia, ma anche quanto al tipo di prestazione (pecuniaria piuttosto che di facere-non facere-dare) imposta alla PA.

8 In effetti, che l’astreinte debba assistere solo prestazioni di natura infungibile, cioè insurrogabile attraverso l’esecuzione forzata diretta, è soluzione non solo non obbligata sul piano logico, ma sconfessata dall’esperienza d’oltralpe, e, nel nostro ordinamento, proprio dall’art. 114, c. 4, lett. e) cpa. V., su questi profili comparatistici, per tutti, Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione forzata, Torino, 2010, 23 ss, e le indicazioni bibliografiche ivi riportate.

9 V. Viola, Op. loco ult. cit; Tarullo, Il giudizio di ottemperanza alla luce del Codice del processo amministrativo, in Giustizia amministrativa, a cura di Scoca, Torino, 2011.

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Discorrere del carattere fungibile o meno della prestazione quale discrimen per la concedibilità dell’astreinte, come fa il giudice campano; prendere cioè a modello, da tale punto di vista, l’art. 614 bis ed il dibattito che ne agita le prime applicazioni10; significa allora allontanarsi dal contesto di riferimento ed applicare al processo di ottemperanza categorie tipiche dei processi civili di esecuzione che, per essere fondati sul titolo esecutivo, sono fruibili solo per i provvedimenti di condanna, e, per essere di carattere surrogatorio, sono inidonei all’esecuzione di prestazioni infungibili per l’operare del principio di intangibilità della sfera privata, e nei quali soltanto perciò assume un senso la considerazione dell’astreinte in termini di supplenza di un vuoto di tutela11.

Da altro ma connesso punto di vista, l’allontanamento del TAR dal contesto di riferimento dell’art. 114, c. 4, lett. e), si apprezza in riferimento all’asserto che, per le condanne pecuniarie, a presidio dell’interesse del creditore alla tempestività del pagamento vi sarebbe già il congegno della maturazione degli interessi legali, a fronte dei quali dunque l’astreinte recede, pena l’inverarsi di una manifesta iniquità.

Occorre infatti rilevare, in contrario, che la PA, non diversamente da qualunque altra parte, ha l’obbligo di eseguire i provvedimenti del giudice amministrativo, secondo la prescrizione oggi expressis verbis accolta nell’art. 112, c. 1, ma anche quelli degli altri giudici indicati dal c. 2 dello stesso articolo, cui il Codice del processo amministrativo affida oggi la moderna configurazione dell’inesecuzione quale vero e proprio illecito12.

Obbligo di adempimento al quale, è appena il caso di notarlo, corrisponde un diritto soggettivo del beneficiario del provvedimento, come mostra l’eliminazione, da parte del Codice del processo amministrativo, di ogni forma di esecuzione in via amministrativa olim prevista dall’art. 88 del R.D. n.

642/1907, in linea con la direttiva dell’effettività della tutela cui esso si ispira. Ed è proprio in ossequio a tale effettività, sub specie di presidio del diritto all’adempimento, che lo stesso art. 112, c. 3, prevede,

10 Non è fuori luogo far menzione del fatto che anche nel contesto della giurisdizione civile il dibattito sulla reale portata dell’art. 614 bis è vivo ed esibisce tensioni verso un allargamento anche oltre il tenore testuale della disposizione. V., ad esempio, in dottrina, oltre al già citato contributo di Zucconi Galli Fonseca, Le novità della riforma, cit., il contributo di Consolo, Una buona “novella” al c.p.c.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va ben al di là della sola dimensione processuale, in Corr. Giur., 2009, 741 ss., il quale propone una applicabilità dell’art. 614 bis anche all’inadempimento

dell’obbligo di stipulare il contratto definitivo, cui pone rimedio la sentenza dell’art. 2932 c.c. e che dunque è considerato ex lege fungibile. Stesse tensioni mostrano le prime applicazioni giurisprudenziali: il Trib. Terni, 6 agosto 2009, ord., in Giur. It., 2010, 637 ss, con Nota di Mazzamuto, L’esordio della comminatoria di cuiall’art.614 bis nella giurisprudenza di merito, 639 ss., in una ipotesi di denunzia di danno temuto derivante da un manufatto pericolante e foriero di altri danni a quello confinante, tipico caso di surrogabilità della prestazione, concede l’astreinte sull’assunto che i tempi necessari all’abbattimento del manufatto attraverso l’esecuzione forzata diretta potrebbe comportare tempi tali da aggravare il danno già patito.

11 Su questi profili si sofferma la monografia di Sassani, Dal controllo del potere all’attuazione del rapporto,Milano, 1997, alla quale occorre rinviare per maggiori ragguagli di merito ed indicazioni bibliografiche.

12 Secondo una lettura già consolidatasi nella giurisprudenza del Consiglio di Stato: v., ad esempio, C. Stato, sez. VI, 15 novembre 2005, n. 6371; C. Stato, sez. IV, 5 agosto 2005, n. 4165; C. Stato, sez. VI, 18 giugno 2002, n. 3338.

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recependo soluzioni già invalse in via interpretativa, che nel giudizio di ottemperanza possa proporsi, tra le altre, la domanda di risarcimento dei danni derivanti dall’inesecuzione, violazione o elusione del giudicato.

E proprio quest’ultima prescrizione, figlia di un ultradecennale travaglio giurisprudenziale, che da un lato priva di pregio la configurazione dell’astreinte in termini di criterio di liquidazione del danno da inadempimento, il Codice del processo amministrativo prevedendo un rimedio ad hoc che si affianca espressamente all’astreinte; e dall’altro a rendere evidente che la violazione o il ritardo nell’ottemperanza al decisum sono concepiti quali fatti costitutivi di un diverso danno ingiusto, autonomamente risarcibile e non confondibile con la maturazione degli interessi legali.

La scelta del Codice a favore della convivenza tra l’astreinte e il risarcimento del danno impone dunque all’interprete la necessità di distinguere le due figure in ragione delle diverse aree funzionali di pertinenza: la prima chiamata ad operare in via preventiva, cioè per scongiurare il danno da inottemperanza; la seconda votata invece ad operare ex post quale ristoro di quel danno.13

Queste considerazioni servono altresì ad escludere che un utilizzo prudente dello strumento dell’astreinte, pure auspicabile soprattutto in considerazione degli interessi generali coinvolti, possa riposare, come mi pare accada nella sentenza in commento, sulla semplice e direi automatica considerazione della provenienza pubblica del denaro della PA.

L’argomento infatti da un lato prova troppo, valendo per ogni forma di esborso, ad esempio relativo al compenso dell’ausiliare o alle somme dovute a titolo risarcitorio, di talchè anche queste ultime dovrebbero in thesi automaticamente ritenersi precluse per le condanne pecuniarie; e dall’altro può agevolmente rovesciarsi sostenendo che proprio l’astreinte, con la sua potenza deterrente dell’inottemperanza, potrebbe favorire l’efficienza della giustizia amministrativa e disinnescare non solo l’attivazione dell’ausiliare ed i relativi costi, ma anche future richieste risarcitorie14.

La motivazione su cui poggia l’abiura dell’astreinte appare dunque inaccettabile nel metodo, cioè nella misura in cui associa al decisum di condanna pecuniaria in quanto tale la manifesta iniquità, istituendo un

13 Si tratta, del resto, di un percorso, tortuoso e complesso, che hanno imboccato anche la dottrina civilistica e quella processualistica, recentemente chiamata in causa anche dall’introduzione dell’art. 614 bis cpc. Spesso di legge infatti che l’astreinte sarebbe una sorta di pena privata (soluzione ermeneutica che oggi sembra contare su un nuovo dato normativo, l’art. 11 del D. lgs. n. 28/2010, che ha previsto come possibile contenuto dell’accordo conciliativo il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza degli obblighi previsti, o per il loro inadempimento, e che la dottrina ha proposto di collocare nell’area della clausola penale (Pagni, Mediazione e processo nelle controversie civili e commerciali: risoluzione negoziale delle liti e tutela giudiziale dei diritti, in Le Società, 2010, 619 ss). V., per una panoramica sul tema, Mazzamuto, L’esordio della comminatoria di cui all’art. 614 bis cpc nella giurisprudenza di merito, in Giur It., 2010, 638 ss.

14 Un accenno a questi delicati profili è oggi in Tarullo, Il giudizio di ottemperanza, cit.

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automatismo tra il primo e la seconda sconosciuto alla lettera dell’art. 114, c. 4, lett. e) cpa non meno che allo spirito del corpus normativo che oggi regola l’esecuzione forzata a carico della PA.

Essa finisce infatti con lo snaturare la manifesta iniquità stessa asservendola piuttosto alla logica della inammissibilità, cioè basandola sul semplice riscontro formale della natura di condanna pecuniaria del decisum, e creando un limite generale di cui nell’art. 114, c. 4, lett. e) cpa non vi è traccia.

L’impressione è che anche qui ritorni la suggestione della soluzione negativa invalsa nell’art. 614 bis cpc.

E tuttavia la manifesta iniquità, anche in questa disposizione15, è pacificamente considerata come afferente al merito della situazione soggettiva decisa ed alla qualità delle parti, la sua sussistenza richiedendo perciò valutazioni rimesse all’esame delle peculiarità del caso; ciò che, a sua volta, nella giurisdizione civile è rimesso al giudice della tutela dichiarativa ed in sede di ottemperanza è possibile per la ricorrenza proprio di una ipotesi di giurisdizione di merito.

Sicchè l’esclusione dell’astreinte può ben predicarsi in ipotesi di condanna pecuniaria cui è applicabile l’art. 114, c. 4, lett. e) cpa, sempre che la si fondi, però, su ragioni attinte proprio dalle peculiarità del caso deciso. Si possono citare, ad esempio, l’entità della somma portata dal provvedimento di condanna, le qualità del beneficiario (in particolare sotto il profilo “sensibile” della possibilità che l’

inottemperanza comporti un rischio di insolvenza, non certo scongiurato dal maturare degli interessi), le ragioni addotte dalla PA a motivo del ritardo/violazione, quali ad esempio le particolari condizioni di dissesto o difficoltà del momento sotto il profilo economico. Ed è proprio da questo punto di vista che si apprezza la valutazione dell’iniquità della misura o delle altre ragioni ostative alla sua emissione, e che dunque la provenienza pubblica del denaro può far sentire il suo peso specifico. In presenza di obiettive difficoltà economico-finanziarie della PA, la misura non assolverebbe infatti alla sua funzione deterrente e dunque diverrebbe non solo inutile, ma aggraverebbe l’impossibilità di copertura della spesa senza arrecare alcun vantaggio neppure al beneficiario.

4.- Conclusioni : l’identità funzionale dell’astreinte a confronto con le diverse filosofie che ne ispirano la disciplina negli artt. 614 bis cpc e 114, c. 4, lett. e) cpa.

15 In effetti proprio quello della manifesta iniquità è terreno che può considerarsi comune alle due disposizioni, anche se quella amministrativa, al contrario di quella civile, nulla dispone in ordine ai criteri di quantificazione delle somme. I primi commentatori hanno così proposto l’utilizzo dei medesimi criteri indicati dall’art. 614 bis cpc, cioè il valore della controversia, la natura della prestazione, il danno quantificato o prevedibile ed ogni altra circostanza utile. V., ad esempio, Viola, Le astreintes, cit., 161, e la dottrina ivi citata, per il quale la manifesta iniquità serve a riequilibrare le posizioni del cittadino e della PA , cioè ad evitare sproporzioni tra il bene della vita in gioco e la gravità dell’inadempimento dell’amministrazione.

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Il provvedimento in epigrafe bene rappresenta alcune tra le più delicate questioni poste dall’attuale quadro normativo dell’esecuzione forzata delle pronunce rese nei confronti della PA.

La prima di esse risiede nella necessità di coordinare la scelta del Codice del processo amministrativo di consentire l’enforcement delle pronunce del giudice ordinario anche attraverso il giudizio di ottemperanza (art. 112, c. 2, lett. c), nel quale è proponibile l’istanza di condanna all’astreinte (art. 114, c. 4, lett. e); e la scelta dell’art. 614 bis cpc di rimettere esclusivamente al giudice della tutela dichiarativa l’emissione della misura stessa quando la controversia appartiene alla giurisdizione ordinaria. Problema aggravato dalla circostanza che la disposizione processuale civile e quella processuale amministrativa esibiscono ambiti di applicabilità e presupposti diversi, la prima e non la seconda precludendo la misura sia in ipotesi di condanne pecuniarie che di condanne relative ai rapporti di lavoro di cui all’art. 409 cpc.

La conclusione della non interferenza tra le due prescrizioni dovrebbe allora passare per la considerazione che l’ottemperanza applicata a decisioni di altri comparti giurisdizionali sconta il limite ordinamentale, bene individuato e scandagliato in via pretoria, del passaggio da una giurisdizione all’altra, inibendo ogni integrazione del dictum da eseguire perché concretante una ingerenza nelle sfere riservate ad altri comparti.

L’altra non secondaria questione è che l’art. 614 bis cpc e l’art. 114, c. 4, lett. e) cpa, pur codificando entrambi una esecuzione indiretta sub specie di condanna pecuniaria, sono ispirati a filosofie diverse perchè figli di contesti profondamente diversi. Per le ragioni già esposte, nel solo processo davanti al giudice civile si pongono quei problemi di fungibilità/infungibilità delle prestazioni, e di distinguo tra struttura condannatoria o meno del provvedimento, che giustificano le limitazioni, testuali o ermeneutiche, poste dall’art. 614 bis all’emissione della misura. Nell’interpretazione dell’art. 114, c. 4, lett.

e) occorrerebbe dunque evitare la traslazione di categorie, e conseguenti limitazioni, ad esso aliene e che, fuori dal loro contesto, finiscono per negare la stessa logica che è alla base dell’astreinte del Codice del processo amministrativo.

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