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ARBOR ACTIONUM. L’ARTICOLAZIONE DELLA TUTELA NEL CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO. - Judicium

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B

RUNO

S

ASSANI

A

RBOR ACTIONUM

.

L’

ARTICOLAZIONE DELLA TUTELA NEL CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

.

SOMMARIO:1. Le forme delle tutele come sistema di azioni. – 1.1 Il problema dell’azione di accertamento. – 1.2. La conversione delle azioni. – 2. L’azione di annullamento. – 2.1 L’azione di annullamento dell’aggiudicazione nella materia dei contratti pubblici. – 3. L’azione c.d. di condanna. – 3.1 Il danno da inosservanza del termine di conclusione del procedimento. – 4.

L’azione avverso il silenzio dell’amministrazione. – 4.1. L’azione avverso il silenzio come azione di condanna. – 4.2. Il terzo danneggiato dal silenzio relativo alla segnalazione certificata di inizio attività. – 5. L’azione di nullità. – 5.1. Termine per agire e imprescrittibilità sostanziale. – 5.2. La nullità da inottemperanza. – 5.3. I rapporti con l’istituto dei motivi aggiunti e con il rito del silenzio. – 5.4. Senso e portata dell’accoglimento: l’ottemperanza.

1.–Il nuovo codice del processo amministrativo disciplina esplicitamente in termini di azione le forme di tutela di fronte al giudice amministrativo. Lo fa individuando le azioni esperibili, regolando i procedimenti che scaturiscono dal loro esercizio, e lasciando intravedere i rimedi che la parte può conseguire. Ne emerge un sistema di istanze e di rimedi tipizzati che, sull’evidente modello della VwGO tedesca, sostituisce l’apparato elementare che – malgrado l’ingresso della condanna ai danni e della procedura del silenzio e il meccanismo di chiusura del giudizio di ottemperanza – continuava a ruotare intorno all’annullamento. L’impianto tradizionale regolava i tempi dell’accesso alla giurisdizione di legittimità attraverso la tipizzazione dell’oggetto delle domande (annullamento in primis, silenzio, ottemperanza, condanne pecuniarie), e ben poco si curava di elencare i rimedi, dando per scontato che l’esito dell’annullamento (almeno nella giurisdizione generale di legittimità) fosse sufficiente. Il sistema presentava così una implicita regolamentazione dell’accesso alla tutela, una disciplina del processo tendenzialmente unitaria (fino alla consolidazione delle forme speciali culminata nella legge n. 205/2000), un contenuto minimo e costante della tutela

accordata. Il progressivo venir meno dell’assioma della sufficienza del modello aveva nel tempo portato a costruire, a mo’ di appendice dell’annullamento, il c.d. effetto conformativo che aveva favorito e sorretto la fioritura del giudizio di ottemperanza. Con

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ciò, quel contenuto minimo aveva dimostrato l’attitudine a dilatarsi ex post, soprattutto attraverso la grande elaborazione giurisprudenziale dell’ottemperanza, divenuto col tempo il puntello della giustizia amministrativa.

Oggi all’interprete si presenta un mondo di figure tipizzate (azioni) intese ad inquadrare un oggettivo incremento di tutela. Ma un moderno sistema di tutela giurisdizionale ha bisogno dell’apparato concettuale delle actiones? Apparentemente no, se si considera il declino della relativa teorica nella processualistica contemporanea (declino che ha la sua espressione finale più pura e radicale nell’art. 2 delle US Federal Rules of Civil Procedure che sotto la rubrica “One Form of Action” sancisce che: “There shall be one form of action to be known as civil action”). La risposta non è però così scontata se si considera che l’istanza di tutela si esercita nei confronti dell’esercizio di poteri espressivi di funzioni legislativamente protette e che questo impone una stretta regolamentazione del carattere e dei modi delle relative contestazioni.

Di qui l’insufficienza delle sole clausole generali, quale indubbiamente è l’art. 24 della costituzione italiana. Inteso nella sua pienezza, l’art. 24 cost. ha infatti segnato la definitiva inversione del rapporto tra diritto ed azione: qualunque situazione degna di protezione comporta, per ciò solo, la possibilità di agire in giudizio a sua difesa, e ciò indipendentemente dalla presenza o meno nella legge di una specifica forma di tutela (cioè di un’azione tipica, nominata) 1 . Questo è però il risultato naturale dell’inquadramento delle situazioni protette nella categoria del diritto soggettivo, il cui concetto, una volta divenuto moneta corrente della cultura giuridica, riduce inevitabilmente il concetto di azione alla quinta ruota del carro.2 Ma, laddove oggetto di

1 La cosa è stata pudicamente intesa come il trionfo del concetto di azione innominata, ma questa azione innominata (atipica) è veramente la quinta ruota del carro: se l’affermazione del diritto è condizione sufficiente per domandare tutela, l’entità “azione” non ha più spazio perché serve solo a complicare il quadro semantico senza aggiungere nulla che non sia già contenuto nei concetti di diritto e di domanda. L’utilità del concetto di azione si apprezza solo se si parla di azione nominata, tipica: solo questa figura presenta caratteristiche proprie, irriconducibili ad altri e più semplici concetti.

2 Contribuisce a ciò la tendenziale unificazione delle procedure, frutto delle codificazioni dell’era moderna. La tecnica di tutela “per azioni” è stata, storicamente, usata non solo per far corrispondere il rimedio alla lesione, ma anche per individuare e disciplinare le forme necessarie per attingere al rimedio: l’unificazione delle forme di tutela (l’idea stessa di procedimento uniforme, e la sua realizzazione paradigmatica nel c.d. procedimento ordinario di cognizione) mette in crisi l’intero apparato delle azioni, cioè un sistema in cui sono le singole figure a portare con sé il proprio procedimento.

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giudizio è il conflitto con poteri espressivi di attività/funzioni garantite3 – dove recede la figura del diritto soggettivo – le forme della tutela debbono coordinarsi con tali garanzie:

nella controversia che investe l’esercizio di funzioni pubbliche, l’espressione tutela giurisdizionale indica la possibilità di contrapporre le proprie ragioni all’esercizio del potere espressivo della funzione, ed indica quindi la necessaria corrispondenza delle forme della tutela ai modi di esercizio di questo. Il processo demandato al giudice amministrativo è il giudizio sui limiti del potere4 e il processo oggi emergente dal codice (ancor più che il processo amministrativo tradizionale) è dominato dalla preoccupazione di determinare precisamente il cosa, il quando e il come della domanda di interferire con l’esercizio del potere.5

L’impostazione della tutela nella prospettiva dell’azione appare pertanto una tecnica organizzativa adeguata: il concetto di azione rinvia ad un paradigma che collegando la domanda al rimedio, indica anche la via da seguire (i caratteri salienti delle modalità) per attingere quest’ultimo, sicché il diritto sostanziale si proietta sulla procedura e la conforma.

3 Nel senso che non è il diritto a conformare il potere con le sue regole, ma sono le regole del potere che conformano l’interesse, sicché il portatore di quest’ultimo può aspirare non alla conformazione ma solo al controllo del potere.

4 Si deve a Corte cost. 6 luglio 2004 n. 204 (completata da Corte cost. 11 maggio 2006, n. 191 e infine Corte cost. 27 aprile 2007, n. 140, tutte aventi per estensore Vaccarella) la chiusura definitiva di quasi sessanta anni di dibattito sulla legittimazione e sui limiti costituzionali della giurisdizione amministrativa. Oggi questo gruppo di sentenze appare il più saldo piedistallo della giurisdizione amministrativa quale giurisdizione “naturale” del giudice del potere nella “completa parità e originarietà dei due ordini di giurisdizione” (n. 204/2004). Si tratta di sentenze che, nello stesso tempo, segnano il limite assoluto della giurisdizione amministrativa poiché scartano perentoriamente dal suo ambito le controversie nelle quali sia “assente ogni profilo riconducibile alla pubblica amministrazione-autorità” (n. 204/2004) e quindi escludono la legittimità costituzionale della prospettiva di una giurisdizione civile affidata al giudice amministrativo, cioè di una giurisdizione nella quale i diritti in gioco siano il correlato di obblighi e soggezioni che l’amministrazione assume (o subisce) jure civili. Lo spazio del giudice amministrativo corrisponde a quello delle controversie nelle quali “la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo ovvero, attesa la facoltà, riconosciutale dalla legge, di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo, se si vale di tale facoltà (la quale, tuttavia, presuppone l’esistenza del potere autoritativo: art. 11 della legge n. 241 del 1990)” (n. 204/2004).

5 Meno impellente è invece apparso il tema del chi (legittimazione), dal momento che le azioni ricavabili dal codice non si curano di individuare il soggetto titolare dell’azione, fidando evidentemente nella tradizione. Sembra fare eccezione l’art. 31 c. 1 che, a proposito dell’azione avverso il silenzio e, consente di chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere a “chi vi ha interesse” (la norma consente di evitare interpretazioni restrittive per cui la legittimazione spetterebbe solo alla parte formale del procedimento); v. infra § 4.2.

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Si intende che si sta parlando di azione nel senso meglio reso dall’espressione anglosassone form of action (tipo di tutela il cui esercizio è subordinato a forme predeterminate, forme che condizionano l’accesso, la procedura, i poteri del giudice e i rimedi). E poiché il termine azione è polisenso, vale la pena di notare che qui non si discute dell’antitesi tra azione astratta e azione concreta, frutto della lunga (e, oggigiorno, decisamente esaurita) diatriba postchiovendiana, quanto piuttosto della contrapposizione tra due sistemi: quello del diritto di domandare tutela attraverso schemi offerti ad hoc dall’ordinamento (azioni nominate, tipiche) e quello del diritto di domandare tutela senza mediazione di schemi preordinati. Quest’ultimo è il sistema che emerge dall’incrocio delle moderne codificazioni processuali, espressione dell’ideale di un rito uniforme, con il postulato dello Stato di diritto della tutelabilità incondizionata dei diritti riconosciuti: la tutela del privato non è più condizionata dal filtro preventivo della ricognizione di un’apposita azione. La tutela assume la forma unitaria, generale ed onnicomprensiva fissata dal codice e diventa elemento costitutivo dell’interesse riconosciuto: se il rito è uno e generale per la trattazione della generalità delle domande di tutela, la singola cause (of action) non ha più bisogno di una sua specifica form (of action) per essere fatta valere.6

Fuori però del diritto dei privati (ricompreso tra questi il soggetto pubblico agente jure privatorum) le cose però si complicano, perché una non trascurabile garanzia della funzione pubblica è proprio la predeterminazione e la riconoscibilità delle forme della tutela. La tutela giurisdizionale deve infatti convivere (oltre che con la vocazione al

6 Questo inequivocabile fenomeno ha generato una singolare forma di cecità selettiva nei confronti delle residue previsioni legislative di forme di tutela espresse in termini di azione. Costretta ormai dall’art. 24 cost. a pensare ubi jus, ibi actio, la processualistica ha progressivamente perso, da un lato, la capacità di riconoscere che talora il legislatore si esprime non in termini di diritto ma in termini di azione, finendo addirittura per non riconoscere lo status di diritto a situazioni presentate dalla legge attraverso il solo schema di tutela (è l’equivoco per cui negli anni novanta parte della processualcivilistica tentò di espungere il diritto – e quindi l’accertamento – dalle azioni possessorie:

v. SASSANI, La tutela giurisdizionale del possesso dopo la modifica dell’art. 703 c.p.c., Riv. dir. proc.

1998, 534 ss.); dall’altro l’esistenza di pure azioni, cioè di forme della tutela aggiuntive (e, in definitiva, octroyées) che non ha senso trattare come se ad esse corrispondessero autonome figure di diritti: è l’equivoco in cui cade chi, per es., interpreta l’azione risarcitoria di classe dell’art. 140-bis cod. cons. quale fonte di un nuovo, specifico diritto del consumatore (che è un po’ come trarre dall’azione per convalidare lo sfratto degli artt. 654 ss. c.p.c. un diritto del locatore o del concedente autonomo rispetto al diritto risultante dalla disciplina sostanziale del rapporto), o si bea di fantasmi quali i diritti di soggetti superindividuali.

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controllo tipica di tutti i processi su atti imperativi) 7 soprattutto con la procedimentalizzazione dell’attività/funzione e con l’inserimento della posizione del privato nel procedimento. E del resto anche il sistema tedesco della VwGO – che pure pone a base dell’agire davanti ai giudici amministrativi la lesione di un diritto soggettivo – ha cura di distribuire la tutela in vari tipi di azioni. Certo l’apparato (bonario e formalistico ad un tempo) della “giustizia amministrativa” non aveva bisogno della teorica delle azioni8 (se non per quel tanto di ossequioso ed innocuo adeguamento a talune pomposità della processualcivilistica), ma il mondo evocato dall’espressione giustizia amministrativa oggi sembra (almeno nelle intenzioni) irrimediabilmente fuori gioco perché sostituito dalla declinazione solenne dei principi comuni di sistemi giurisdizionali che appaiono posti su un piano di parità.9 A torto quindi il processualista contemporaneo giudicherebbe anacronistica l’impostazione del codice. Anacronistico sarebbe stato il codice se avesse ridotto gli esiti di tutela rispetto alle effettive esigenze del soggetto conformato dal potere ed a questo contrapposto, ma un’indagine non prevenuta sulle forme della tutela rassicura sulla presenza e sulla attingibilità dell’arco di rimedi necessari e sufficienti. Questo anche alla luce della rivoluzionaria novità dell’art.

34 c. 1 che permette al giudice di collocare nel dispositivo della sentenza di accoglimento quei contenuti dichiarativi, e quelle direttive pratiche di comportamento, che il giudice dell’esecuzione finora doveva faticosamente estrarre in via interpretativa dalla motivazione (v. infra § 2). Se di questa prerogativa verrà fatto il debito uso, si sarà fatto

7 Che non a caso nei diritti di lingua e cultura anglosassoni (ma non solo: si pensi alla Danimarca, alla Svezia e in generale ai paesi del Nord Europa) prende il nome – indice di vera specialità rispetto all’idea generale di giurisdizione – di judicial review, formula che indica una giurisdizione ristretta al controllo di legittimità di atti formali (“courts assess whether administrative acts are compatible with the law”). Per un’ampia analisi dei problemi della judicial review nei paesi dell’Europa del Nord, v. il numero monografico di Nordic Journal of Human Rights, 2/2009 dove molteplici saggi esaminano anche l’impatto della legislazione comunitaria e della giurisprudenza della Corte di giustizia. V. in particolare Follesdal A. e Wind M., Introduction Nordic Reluctance towards Judicial Review under Siege, ivi, 131ss. (“In the Nordic countries, judicial review has generated a wide debate not only among specialists but equally among the wider public”).

8 Abbamonte e Laschena, Giustizia amministrativa, in Trattato Santaniello, Padova 1997, 139 ss.

9 Il punto fermo che il giudice amministrativo (pur essendo classificato come un giudice speciale) è il giudice naturale delle controversie che riguardano l’esercizio del potere pubblico (indipendentemente dalla forma in concreto assunta da tale esercizio), si deve alla sentenza n. 204/2004 della Corte costituzionale.

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un passo avanti verso una maggiore certezza ed obiettività, insieme ad una più precisa garanzia di riparazione o soddisfazione dell’interesse riconosciuto.

1.1 – Nel codice del processo amministrativo non vi è dunque spazio, almeno in linea di principio, per l’agire libero che caratterizza la tutela giurisdizionale davanti al giudice civile.10 Riceve così risposta negativa l’interrogativo se il sistema accetti l’azione di accertamento, quale figura generale di tutela giurisdizionale. Qui bisogna intendersi: non è in gioco il concetto di accertamento quale manifestazione di tutela e quale possibile contenuto della sentenza del giudice amministrativo (che anzi la tutela dichiarativa è un elemento centrale del giudizio amministrativo, lo si voglia vedere oppure no),11 ma piuttosto la tecnica dell’azione dichiarativa che si esprime nella forma della pura domanda di accertamento di un rapporto sulla sola base dell’interesse ad agire del soggetto, cioè indipendentemente dall’impugnazione dell’atto in annullamento ovvero in nullità, ovvero dall’esercizio dell’azione avverso il silenzio.

In altre parole il sistema impone forme di riconoscimento individuate in funzione dell’esercizio – o del mancato esercizio nel caso concreto – del potere. Ne sono peraltro conferma le norme dell’art. 34, c. 2 (“In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”)12 e c. 3 (“Salvo quanto previsto dal comma 3 e dall’articolo 30, comma 3, il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento di cui all’articolo 29”).

Resta peraltro dubbio se vi sia spazio per un’azione generale di accertamento nella giurisdizione esclusiva con riguardo ai diritti soggettivi ad essa attribuiti. Qui non solo il

10 Sassani, Note sul concetto di interesse ad agire, Rimini 1983, 77 ss.

11 Senza il concetto di accertamento si fa fatica a concepire la cosa giudicata sostanziale: in generale Sassani, Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto, Padova 1989, passim; centrano molto efficacemente il problema i saggi di Abbamonte, Il ritiro dell’atto impugnato nel corso del processo e la determinazione dell’oggetto del giudizio avanti al Consiglio di Stato, in Studi Papaldo, 295 ss. e La Rosa, ...

12 Norma in verità di non perspicua intellegibilità. A prenderla alla lettera non vi sarebbe spazio neppure per l’azione avverso il silenzio, ma è evidente che le cose non stanno così e la norma sembra piuttosto rinviare alla necessità di coordinare l’esercizio della giurisdizione con lo svolgimento del procedimento, cioè di impedire che vengano portate in giudizio e decise situazioni ancora non decidibili, cioè non mature per la decisione. In tal senso l’azione avverso il silenzio (infra § 4) combatte l’abuso dell’amministrazione che, attraverso la mancata definizione del procedimento, sottrae al giudizio il suo operato.

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problema teorico è di incerta soluzione, ma si può anche dubitare che la sua eventuale soluzione positiva avrebbe un peso decisivo sulla giurisprudenza, generalmente restia ad aprire ad un tipo di azione considerata extravagans nel contesto. A favore dell’ammissibilità depongono il principio di effettività, posto quasi in esergo dall’art. 1 e riepilogativo della costituzione e del “diritto europeo” (evidentemente degli artt. 6 e 13 CEDU)13 e l’interpretazione che di tale principio dà l’art. 7 c. 7, laddove ne vede la realizzazione nella “concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi”. In altre parole, se la tutela di un dato diritto è conferito alla giurisdizione amministrativa, e se l’accertamento autonomo è obiettivamente una forma di tutela, l’esclusione dell’azione puramente dichiarativa assume i tratti dell’amputazione di una forma di tutela non altrimenti conseguibile.

D’altro canto la soluzione positiva impone di distinguere un regime processuale del diritto soggettivo dal regime processuale dell’interesse legittimo, e nel codice non si trova traccia di tale distinzione. Decenni di elaborazioni dottrinali volte a dare alla giurisdizione esclusiva una sua valenza contenutistica differente dalla giurisdizione di legittimità,14 non sembrano essere stati percepiti dal codificatore, che non ha mostrato molta sensibilità a riguardo. Nessun particolare modello di esercizio della giurisdizione esclusiva si ricava dalla legge15 e tutto lascia temere che la giurisprudenza manterrà la sua tradizionale diffidenza per il rimedio dell’accertamento puro, sganciato cioè da uno dei rassicuranti veicoli che regolano l’accesso al giudizio.16

Le difficoltà incontrate dall’azione generale di accertamento non intaccano comunque l’evidenza del rafforzamento del ruolo dell’accertamento nel sistema. All’accertamento (inteso come esito di accertamento) il codice ha dato uno status anche formale: è quanto

13 Ferri D., Il rango delle norme CEDU: tra teorica delle fonti e retorica dei diritti, in All’incrocio tra Costituzione e CEDU, Il rango delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di Strasburgo, Torino 2008, passim.

14 V. i riferimenti a Nigro e a Benvenuti, in Sassani, La giurisdizione esclusiva, Trattato Cassese, V, 4671.

15 Salva l’ applicabilità del Capo I del Titolo I del Libro IV del codice di procedura civile (procedimento monitorio per decreto ingiuntivo e relativa opposizione) per le controversie ad oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale (art. 118).

16 Del diritto di agire del terzo che si dolga del mancato esercizio del potere di controllo connesso alla c.d. SCIA (segnalazione certificata di inizio attività), prevista dall’art. 19 l. n. 241/1990, si dirà infra al § 4.2.

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si vedrà al paragrafo § 2, dove trattando del contenuto della sentenza, quale stabilito dall’art. 34 c. 1, risulterà che è lo stesso dispositivo della sentenza ad arricchirsi della presenza della norma agendi fissata all’attività amministrativa, cioè ad esplicitare il contenuto di accertamento della decisione.

1.3 – Se il sistema predispone i binari della tutela, esso si preoccupa però di evitare la trappola del formalismo, sempre incombente dove la tutela viene esercitata per actiones.17 La necessaria elasticità sembra recuperata dall’art. 32 (Pluralità delle domande e conversione delle azioni), il quale sancisce la teoria della c.d. sostanziazione (“Il giudice qualifica l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali”: c. 2), e ne fa coerentemente discendere il potere del giudice, sussistendone i presupposti, di disporre la conversione delle azioni (c. 2). Inoltre l’articolo consente sempre “nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse proposte in via principale o incidentale” (c. 1), disciplinando il tema della eventuale diversità dei riti (c. 1)18.

2. – L’art. 29 stabilisce che l’azione di annullamento “per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere” (formula tradizionale ripresa dall’art. 21-octies c. 1 l.

n. 241/1990)19 si propone “nel termine di decadenza di sessanta giorni”.20 Nihil novi, evidentemente, anche in coordinamento con il disposto dell’art. 34 c. 1 per cui, “in caso

17 Di fronte alla libertà di contenuto propria della domanda semplicemente connessa al diritto – cioè senza la mediazione di un’azione preconfezionata – la distribuzione della tutela in azioni pone il problema dell’errore nella scelta del rimedio (electa una via...): si tratta di un rischio che non appare accettabile ad una cultura giuridica profondamente condizionata dall’art. 24 cost.

18 “Se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario, salvo quanto previsto dai Capi I e II del Titolo V del Libro IV”. Il c.d. “correttivo” (d. lgsl. n. 195/2011) ha eliminato il riferimento ai Capi I e II, sicché il testo oggi si limita a far riferimento al solo Titolo I del libro IV (il riferimento originario era erroneo, essendo inesistenti i Capi indicati).

19 Il cui secondo comma sbarra, come è noto, la strada dell’annullamento per le violazioni di legge procedimentali o di forma commesse nell’adozione di provvedimenti, a natura vincolata, per i quali l’amministrazione “dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. La formulazione della norma rende chiaro che quest’ultima non è un’ipotesi di inammissibilità dell’azione, ma un ipotesi di infondatezza nel merito.

20 L’art. 41 c. 2 specifica le regole da osservare per determinare il decorso di tale termine (senza sostanzialmente innovare rispetto all’art. 21 della legge TAR) “Qualora sia proposta azione di annullamento il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell’atto stesso entro il termine previsto dalla legge, decorrente dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge”.

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di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda: a) annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato”.21 Nulla è ancora immutato quanto all’oggetto tradizionale dell’azione: dell’atto o del provvedimento “eventualmente impugnato” da indicare in ricorso parla l’art. 40 comma 1 lett. b), a proposito del contenuto del ricorso.

La legge aggiunge però qualcosa all’assetto tradizionale con la prescrizione di cui alla lettera e) dell’art. 34 per cui il giudice “dispone le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza”. Questa disposizione va letta, a mio avviso,22 come riferentesi anche alla sentenza di accoglimento dell’azione di annullamento e, come tale, marcante il passaggio dall’azione di annullamento “pura” ad un’azione di annullamento-condanna-attuazione che segna l’ingresso nel sistema di un meccanismo di tutela specifica complesso, unitario e tendenzialmente autosufficiente. In verità l’art. 34 detta una disciplina generale delle sentenze di accoglimento, onde si potrebbe astrattamente ritenere che essa non riguarda le sentenze di annullamento che resterebbero quel che sono sempre state. Sotto tutti gli aspetti preferibile appare però la lettura che qui si propone.

Intendiamoci, di purezza dell’azione di annullamento era lecito parlare nel senso che la legge si limitava a rappresentare il solo meccanismo demolitorio, laddove il sistema era stato da un pezzo ricostruito come compresenza, nella sentenza di accoglimento, di elementi in grado di condizionare il comportamento a venire dell’amministrazione.23 Il giudice dell’annullamento dettava (in maniera più o meno stretta, a seconda delle circostanze) le regole di svolgimento della futura attività amministrativa, ma tutto si svolgeva secondo l’accettato sottinteso del “contenuto implicito” della sentenza, che non

21 La norma sembra voler sancisce la ricostruzione tradizionale secondo cui oggetto precipuo dell’impugnativa per annullamento può essere solo il provvedimento in senso proprio, con esclusione dell’atto privo di natura provvedimentale (cioè dall’efficacia non limitata propria degli atti a funzione strumentale o accessoria). Poca o nessuna rilevanza ha invece il tema della natura costitutiva dell’azione (e della sentenza) di annullamento: cfr. infra il § sull’azione di nullità e, più in generale, sugli equivoci della c.d. tutela costitutiva Sassani, Dal controllo del potere all’attuazione del rapporto, Ottemperanza amministrativa e tutela civile esecutiva, Milano 1997, cap. II.

22 Ma in tal senso già M. Lipari, L’effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, relazione al 56° Convegno di Studi Amministrativi, Varenna, 23-25 settembre 2010, ora in Federalismi, 18/2010, § 19; M. Ramajoli, Le tipologie delle sentenze del giudice amministrativo, in R. Caranta (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Bologna, 2010, 577.

23 Pudicamente detto “effetto conformativo”, in realtà “accertamento”.

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sfociava mai né nella diretta programmazione di tale sviluppo, né (tantomeno) nella predeterminazione dei meccanismi sostitutivi per il caso di inerzia o ribellione del potere pubblico. La sentenza di annullamento non sconfinava dal territorio della cognizione, mentre alla realizzazione della tutela da essa giustificata presiedeva il giudizio di ottemperanza, giudizio chiamato, ex post, da un lato al formalizzare il contenuto implicito, dall’altro a verificare la conformità del comportamento dell’amministrazione a regole ricavabili dalla motivazione dell’annullamento.

L’art. 34 c. 1 lett. e) investe invece lo stesso giudice della cognizione del compito di:

a) individuare e rendere esplicito il contenuto precettivo ulteriore della propria pronuncia conseguente all’annullamento (lex specialis dell’amministrazione);

b) individuare e sancire le misure idonee ad assicurarne l’attuazione;

c) assegnare un termine per l’ottemperanza alla lex specialis fissata attraverso le misure sancite;

d) nominare l’organo dell’attuazione, nella figura del commissario ad acta.

Ne risulta la possibile superfluità del ricorso ad un autonomo e successivo giudizio di ottemperanza, dal momento che la sentenza di accoglimento non solo potrà contenere normalmente gli elementi prescrittivi alla cui emersione è deputato il giudizio di ottemperanza, e le concrete misure attuative, ma potrà programmare anche il procedimento di sostituzione dell’amministrazione inottemperante. In tali casi lo spazio per il giudizio autonomo di ottemperanza si ridurrà quindi al controllo ex post dell’operato del commissario ad acta, nonché all’esercizio della eventuale domanda di risarcimento “dei danni derivanti dalla mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato” (art. 112 c. 3).

Nella sostanza, l’art. 34 c. 1 lett. e) munisce il giudice dell’annullamento del potere di pronunciare una sentenza di condanna integrata dall’allestimento del meccanismo sostitutivo per la mancata esecuzione. Questa tecnica di tutela era stata sperimentata nella procedura del silenzio: oggi essa si riproduce nel processo di annullamento, cioè in quel che era e resta il modello tipico della giustizia amministrativa. Per il processualista il giudizio amministrativo – con tutte le sue incertezze e imperfezioni – conferma la sua funzione di laboratorio di soluzioni. Al modello di processo di esecuzione a cognizione integrata (ottemperanza), oggi si affianca il modello di processo di cognizione a esecuzione integrata.

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Il tema del rapporto tra annullamento dell’atto e condanna al risarcimento dei danni patiti a causa dell’atto stesso verrà trattato nel § seguente.

2.1 – Un posto a sé merita quella sottospecie dell’azione di annullamento che è l’annullamento dell’aggiudicazione in materia di contratti pubblici (artt. 121 e 122 c.p.a.).

Il paradigma di questa azione è idoneo a garantire il completamento della tutela spingendola usque ad finem ma lasciando al giudice delicate scelte remediali consequenziali all’annullamento. Caso esemplare di form of action, l’azione mira ad evitare al massimo grado la frantumazione e moltiplicazione delle tutele che consegue alla dinamica “sentenza di accoglimento - rinvio all’attività amministrativa - giudizio di ottemperanza”. Qui l’azione di annullamento è idonea ad aprire la strada diretta per la tutela finale, tutela finale che, altrimenti, abbisognerebbe di un suo autonomo e successivo percorso, restando normalmente al di fuori di quella offerta dalla ordinaria sentenza di annullamento, ancorché rafforzata nella sua capacità precettiva dalla disposizione dell’art. 34 lett. e).

Il sospetto dello scivolamento in un’ipotesi di giurisdizione di merito, è legittimo. Chi ha negato questa conclusione ha scritto che va “esclusa la valenza sostitutiva che avrebbe richiesto (il mantenimento del)la sua qualificazione espressa in termini di giurisdizione di merito (ex art. 34, comma 1, lett. d. c.p.a.”24, trattandosi piuttosto di una

“specificazione dell’effetto conformativo di un più articolato contenuto decisorio della sentenza di annullamento”.25

Ma non sembra il caso di farsi guidare dalle parole, poiché la soluzione dipende evidentemente da scelte definitorie e tassonomiche a monte. A me sembra che, parlando genericamente di azioni “specificative della portata degli effetti ripristinatori e conformativi che sono propri dell’annullamento”, si finisce per aggirare verbalmente il problema, dovendosi pur sempre ammettere che la tutela qui accordata vale certo a specificare la portata degli effetti ripristinatori e conformativi, ma si risolve comunque in una tutela finale sovrapponibile a quella fornita dalla giurisdizione in sede di ottemperanza, ed in particolare da quella specifica modalità dell’ottemperanza che è

24 “In caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda: ... d) nei casi di giurisdizione di merito, adotta un nuovo atto, ovvero modifica o riforma quello impugnato”)”

25 Comporti G.D., Il codice del processo amministrativo e la tutela risarcitoria: la lezione di un’occasione mancata, in www.judicium.it § 4.

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l’attività del commissario ad acta. Se questo è vero, è giocoforza riconoscere che si ha a che fare con una tutela anch’essa inquadrabile nelle “materie di giurisdizione estesa al merito”, per usare l’espressione dell’art. 134, la lettera a) del cui primo comma ricomprende nell’esercizio della giurisdizione con cognizione estesa al merito

“l’attuazione delle pronunce giurisdizionali esecutive o del giudicato nell’ambito del giudizio di cui al Titolo I del Libro IV”. E’ vero che il giudice che annulla l’aggiudicazione non può esercitare integralmente e daccapo il potere, nel senso di riprendere il procedimento ab imis, (casi in cui “il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovare la gara e la domanda di subentrare sia stata proposta”: art.

122 c. 1),26 ma questa circostanza – che dipende peraltro dalle caratteristiche intrinseche della tutela accordata (l’azione tutela una pretesa di subentro, come tale incompatibile con una nuova gara) – non è sufficiente ad escludere alla radice i caratteri della giurisdizione di merito, cioè della “cognizione estesa al merito” di cui parla l’art. 134.

Questo vale sul piano dei poteri istruttori (rectius: sul piano dell’ambito della cognizione), dal momento che l’art. 122 subordina la declaratoria di inefficacia del contratto alla valutazione “degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto” (e qui andiamo all’accezione originaria di giurisdizione di merito quale giurisdizione aperta alla piena cognizione dei fatti).

Ma vale egualmente sul piano dei poteri decisori dal momento che al giudice del merito sono affidati, ad un tempo, i poteri demolitori ulteriori rispetto all’annullamento dell’aggiudicazione e i poteri relativi alla fase ricostruttiva.

Date queste premesse, finisce per sfumare la massima tradizionale secondo cui la giurisdizione di merito è “aggiuntiva” rispetto a quella di legittimità, dovendo il giudizio di legittimità precedere quello di merito. Il conseguimento dell’aggiudicazione, oggetto della domanda, è subordinato “alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 121, comma 1, e 122” (art. 124 c. 1), e proprio l’inefficacia del contratto è dichiarata a seguito di un complesso giudizio, irriducibile ad un giudizio di pura

26 Travi A., La tipologia delle azioni nel nuovo processo amministrativo, Relazione Varenna 2010, in ... che ben chiarisce come la tutela descritta negli articoli 121 e 124 presuppone che il vizio sanzionato non comporti l’obbligo della rinnovazione totale (e talvolta anche parziale) della gara.

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legittimità (basti solo considerare il comma 2 dell’art. 121 che affida al giudice l’articolata indagine sulle “esigenze imperative connesse ad interesse generale” che impongono la conservazione degli effetti del contratto, nonostante le violazioni che ne impongono la declaratoria di inefficacia).

3. – Con l’espressione “azione di condanna” l’art. 30 non indica – come un lettore ingenuo potrebbe attendersi – la figura della azione generale di condanna, idonea a imporre all’amministrazione obblighi a pena di sostituzione in via esecutiva. Una tale azione è, nella sostanza, presente al sistema ma risulta dalla combinazione dell’art. 29 con l’art. 34 lett. e) (v. § precedente), e dal meccanismo processuale del silenzio avverso l’amministrazione, mentre l’art. 30 si limita a trattare dell’azione per il “risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria” (art. 30 c. 2).

Non si ripeterà qui l’annosa (e incompiuta) storia della risarcibilità del danno ingiusto connesso all’esercizio dell’attività amministrativa, sia perché la saggistica sull’argomento è quanto mai rigogliosa,27 sia perché il torneo di tennis tra Sezioni Unite della Corte di cassazione e Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è ancora in corso. Si svolgeranno solo le considerazioni necessarie per comprendere (nei limiti del possibile) il senso e la portata della nuova forma di azione. La formulazione dell’art. 30 è contorta, ma l’interprete ne viene a capo con un po’ di pazienza.

Il comma 2 dell’art. 30 ammette che si possa domandare la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria. In linea di principio, la condanna al risarcimento dei danni può essere comminata in ragione dell’annullamento dell’atto lesivo (o della mancata emissione dell’atto dovuto sancita dall’accoglimento dell’azione avverso il silenzio), ovvero indipendentemente, in ragione di un giudizio di illiceità fondato sulla valutazione incidentale dell’illegittimità del comportamento dell’amministrazione.

La condanna può essere domandata:

27 V. Verde G., Introduzione, in Verde G. (a cura di) La giurisdizione, Dizionario del riparto, Bologna 2010, 1 ss.; Chieppa, in Quaranta, Lopilato, Il processo amministrativo, Commentario al D.lgs. 104/2010, Milano 2011, 288 ss.

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a) assieme alla domanda di annullamento dell’atto, alla domanda di nullità dell’atto, o all’azione avverso il silenzio dell’amministrazione (“contestualmente ad altra azione”:

art. 30 c. 1),

b) nel corso del giudizio inteso all’annullamento dell’atto (art. 30 c. 5), o alla declaratoria di nullità, ovvero alla decisione sul silenzio, compreso il giudizio d’appello (art. art. 30, comma quinto),28

c) dopo l’annullamento, e fino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza d’annullamento (art. 30 c. 5),

d) nel corso del giudizio d’ottemperanza (art. 112, c. 3),

e) in via autonoma, e cioè indipendentemente dall’esercizio di ogni altra azione volta ad annullare atti o avente comunque ad oggetto l’illegittimità di comportamenti.

In quest’ultimo caso la domanda andrà proposta “entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo” (art. 30 c. 3).

La norma stabilisce la distinzione tra danno derivante direttamente dal provvedimento e danno derivante da fatti o da atti esercizio di funzione amministrativa ma privi di carattere provvedimentale.29 Resta da chiedersi quali siano questi fatti dannosi. Fatti salvi i puri fatti materiali non qualificabili come momenti della funzione amministrativa (fatti che rientrano nella clausola generale dell’art. 2043 cod. civ. e danno luogo a domande appartenenti alla giurisdizione ordinaria), bisogna pensare agli atti interni al procedimento, ovvero alla loro mancanza o rifiuto.

Per quel che riguarda gli atti endoprocedimentali positivamente compiuti, bisogna distinguere il danno calato in un contesto di assenza di provvedimento, dal danno connesso a procedimenti conclusi da provvedimento, e inoltre separare il caso del provvedimento (interamente) favorevole, dal caso del provvedimento (parzialmente o totalmente) sfavorevole.

28 Luiso, Le impugnazioni, in Villata e Sassani, Il processo davanti al giudice amministrativo.

Commento sistematico al codice del processo amministrativo, Torino 2012 (in corso di stampa), § 6.

29 Naturalmente l’espressione “dal giorno in cui il fatto si è verificato” non può essere presa alla lettera, potendo il danno risarcibile essere percepito solo in un momento successivo al verificarsi del fatto; in tal senso va patrocinata la soluzione (corrente nella giurisprudenza civile) per cui il dies a quo del termine per agire va fissato al momento in cui le conseguenze dannose denunciate si manifestano come tali.

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In quest’ultima ipotesi, l’eventuale azione autonoma corre il rischio che la decadenza si leghi ad eventi dei quali non è agevole stabilire a priori (cioè prima del provvedimento) la portata pregiudizievole. Con la conseguenza che, agendo senza impugnare il provvedimento, si rischierebbe di vedersi contrapposta una decadenza già in precedenza maturata: sul piano causale infatti, il provvedimento potrebbe infatti presentarsi come atto esecutivo di una delibera precedente nella quale si identifica l’evento dannoso (per es.: il provvedimento che rifiuta al richiedente di riaprire i termini di un concorso potrebbe presentarsi come la conseguenza obbligata di una precedente delibera in tal senso). L’impugnativa del provvedimento finale rimuove invece il problema alla radice, poiché la disciplina della proponibilità dell’azione elimina gli incombenti problemi di decadenza, sicché sarà tranquillamente possibile assumere che il danno derivi da un precedente atto endoprocedimentale, magari con una domanda subordinata all’eventuale rigetto dell’annullamento.

Il caso del provvedimento (interamente) favorevole può convivere con l’ipotesi del danno da ritardo, ove sia il provvedimento ad essere intempestivo: l’azione autonoma si giustifica per la non impugnabilità dell’atto favorevole tardivo. Ma qui è difficile pensare che il termine possa decorrere prima del provvedimento la cui tardività ha concretizzato il danno nella sua specificità di danno da ritardo: pur ammettendo la possibilità di individuare in eventi interni al procedimento la fonte primaria del danno, questi eventi appaiono assorbiti dal provvedimento che rende attuali le potenzialità dannose dei vari passaggi procedimentali. Mi pare pertanto ingiustificato che il termine di decadenza dell’azione possa farsi decorrere da momenti precedenti al provvedimento, ancorché in essi si voglia vedere la fonte del danno.

Quanto al danno maturato in assenza del provvedimento, la relativa azione appare regolata nella sostanza dal comma 4 dell’art. 30. Se ne parlerà al § 3.1.

Da quel che si è esposto è già evidente che il sistema favorisce al massimo grado la sequenza annullamento/risarcimento: non proponendo domanda di annullamento, non solo il termine di decadenza per l’azione risarcitoria rischia di trovarsi già decorso, ma incontra anche la limitazione posta dal secondo periodo del terzo comma per cui, nel determinare il risarcimento, il giudice – lungi dal limitarsi a valutare “tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti” – deve “comunque” escludere “il

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risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.

Dal punto di vista processuale il privato danneggiato per il quale siano scaduti i sessanta giorni per agire in annullamento, ha a disposizione altri sessanta giorni per esperire autonoma domanda di risarcimento, ma il suo percorso è programmaticamente in salita.

Per la legge, non aver esperito gli strumenti di tutela previsti significa nella sostanza non aver soddisfatto l’onere di domandare l’annullamento dell’atto, cosa che viene valutata come mancato uso dell’ordinaria diligenza idonea ad evitare o ridurre il danno.

Viceversa, la proposizione tempestiva dell’azione di annullamento (nullità, silenzio) lascia le più ampie possibilità di gestione dell’azione risarcitoria, non solo perché le permette di essere cumulata, ovvero di essere proposta in seguito (in appello),30 ma anche perché solo in tal modo il risarcimento viene sottratto alla presunzione legale di negligenza che grava sull’azione autonomamente proposta.

Se è innegabile che il sistema favorisce al massimo grado la sequenza annullamento/risarcimento, è però anche vero che, ammettendo in linea di principio la risarcibilità del danno indipendentemente dall’annullamento dell’atto (autonomia processuale dell’azione), si viene ad allentare la pregiudizialità dell’annullamento rispetto al diritto al risarcimento anche in caso di cumulo tra domanda di annullamento e domanda di risarcimento. Secondaria sul piano pratico, la nuova disciplina possiede però un forte impatto sistematico rendendo chiaro che il giudizio sull’ingiustizia del danno non segue necessariamente la sorte della domanda principale. La domanda di annullamento può essere rigettata per i motivi più vari, e per poter escludere il risarcimento secondo il meccanismo della pregiudizialità (condizione negativa sufficiente) occorre che a motivo portante del rigetto stia uno specifico e positivo giudizio di legittimità del provvedimento, ovvero dell’atto endoprocedimentale a cui si riconduce il danno. Altri motivi posti a base del rigetto non possono automaticamente pre-giudicare lo specifico giudizio di responsabilità finalizzato alla condanna. Pregiudiziale non è

30 Luiso, Le impugnazioni, cit. § 6: “La domanda di risarcimento può essere proposta per la prima volta anche nel giudizio di appello”. Originariamente la domanda poteva essere proposta anche nel giudizio di ottemperanza: l’originario comma 4 dell’art. 112 stabiliva la proponibilità della domanda risarcitoria “di cui all’art. 30 comma 5”. IL c.d. correttivo (d. lgs. n. 195/2011 ha abrogato il comma.

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quindi l’annullamento dell’atto, bensì la sua illegittimità, ancorché essa non sia in grado di sfociare nella rimozione dell’atto stesso.

Dei danni dipendenti dall’illegittimo esercizio del potere amministrativo conosce sempre e solo il giudice amministrativo. Il codice sugella quindi la definitiva cancellazione della scelta del giudice ordinario operata dalla storica sentenza n. 500/1999 delle S.U., scelta che l’art. 7 della legge n. 205/2000 aveva contraddetto ma senza la perentorietà e l’assolutezza dell’attuale formulazione del comma 6 dell’attuale art. 30 (“Di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo”). Questo comma si risolve in una vera e propria norma di chiusura che pone le basi per delegittimare ogni iniziativa futura delle Sezioni Unite volta a eventualmente riservare alla giurisdizione ordinaria un ruolo supplementare rispetto a (vere o presunte) carenze della tutela risarcitoria offerta dal giudice amministrativo. Il timore è plausibile, essendosi non di rado la Corte di cassazione servita dell’art. 24 cost., invocato a garanzia del principio della completezza della tutela, per colmare i limiti del sistema risarcitorio della giustizia amministrativa.

La possibilità della reintegrazione in forma specifica era prevista dal comma 3 dell’art. 7 legge TAR e rispetto ad essa il comma 2 dell’art. 30 aggiunge il riferimento esplicito all’art. 2058 del codice civile (“Sussistendo i presupposti previsti dall’articolo 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica”). Questa possibilità è comune alle ipotesi di giurisdizione esclusiva ed a quelle di giurisdizione di legittimità: le cose stavano certo così anche in precedenza, ma il testo della norma (separato dal periodo immediatamente precedente, che si riferisce ai “casi di giurisdizione esclusiva”) fa giustizia dei dubbi che avevano adombrato l’interpretazione del vecchio art. 7.31 Quanto alla portata della norma, l’esperienza giurisprudenziale – al di là dei dibattiti dottrinali focalizzatisi sul se, con il riferimento al risarcimento in forma specifica, si fosse o meno introdotta nel sistema una sorta di “azione di adempimento” – è ancora timida32 e un po’ impacciata. Da essa è arduo ricavare elementi univoci a favore

31 Chieppa R., in Quaranta, Lopilato, Il processo amministrativo, cit. 307

32 T.A.R. Veneto, Venezia sez. I, 23 maggio 2008, n. 1557, Foro amm. TAR 2008, 5, 1244 (s.m.) che, riconosciuto il danno ingiusto all’attività produttiva a seguito di espropriazione, ha disposto il risarcimento attraverso la realizzazione in loco da parte della p.a. di opere idonee a garantire la continuità dell'attività produttiva.

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di una ricostruzione sicura potendosi allo stato solo dire che la tendenza maggioritaria è nel senso di guardare alla reintegrazione in forma specifica come ad un rimedio risarcitorio-riparatorio, ossia ad una forma di “reintegrazione dell’interesse del danneggiato mediante una prestazione diversa e succedanea rispetto al contenuto del rapporto obbligatorio”. La specifica reintegrazione sarebbe quindi l’oggetto della condanna alla rimozione delle conseguenze pregiudizievoli, da attuarsi attraverso un facere individuato ad hoc dalla sentenza; un’attività nuova, dunque, ben distinta dagli obblighi specifici originari ed inconfondibile con l’attuazione di un diritto preesistente. In tal senso essa resterebbe ben distinta dalla condanna del debitore all’adempimento dell'obbligazione, e non potrebbe neppure confondersi con il diverso rimedio dell’esecuzione in forma specifica inteso quale strumento per l’attuazione coercitiva del diritto insoddisfatto.33

3.1 – Il quarto comma dell’articolo 30 si ricollega all’art. 2-bis della legge n. 241/1990, il cui primo comma stabilisce che le pubbliche amministrazioni e i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative “sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”. 34 La norma regola i tempi dell’esperimento dell’azione di risarcimento “dell’eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”, stabilendo che il termine decadenziale di centoventi giorni, fissato dal comma 3, vale anche in tale ipotesi, ma che il termine “non decorre fintanto che perdura l’inadempimento”, e che esso “inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere”.

La formulazione dell’articolo è poco perspicua: fissato ad un anno dalla scadenza del termine per provvedere il giorno iniziale dei centoventi a disposizione per agire, non ha

33 In tal senso Consiglio Stato sez.VI, 31 maggio 2008, n. 2622, in Foro it. 2009, 9, III, 441 con Nota di Menzella.La sentenza ricorda che mentre la reintegrazione in forma specifica richiede una verifica in termini di onerosità ai sensi dell’art. 2058, comma 2, c.c., “tale verifica non è richiesta in relazione alle forme di esecuzione in forma specifica della prestazione originariamente dovuta, per le quali può rilevare la sola sopravvenuta impossibilità”. V.ancheCons. Stato, sez. VI, 18 giugno 2002, n. 3338;

sez. VI, 3 aprile 2003, n. 1716; VI, 23 ottobre 2007 n. 5562.

34 Il secondo comma – che aggiungeva (oltre alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo) che il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni – è stato abrogato dall’art. 4 dell’Allegato 4 al codice.

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evidentemente senso stabilire che il termine non corre nel periodo precedente, che ricomprende il periodo anteriore al termine per provvedere. Ma tant’è.

Semmai c’è da notare due cose.

La prima è la disparità che la legge apparentemente sembra porre tra risarcimento dei danni in caso di esercizio dell’azione di annullamento e risarcimento in caso di esercizio dell’azione avverso il silenzio. Per l’annullamento è espressamente disposto che la domanda di condanna sia proponibile fino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di accoglimento, mentre in ipotesi di esercizio dell’azione avverso il silenzio il testo della norma lascia pensare che lo stesso termine si consumi ineluttabilmente e non sia condizionato invece dalla proposizione dell’azione avverso il silenzio.

A mio avviso, il comma 5 dell’art. 30 deve però intendersi come applicabile anche all’ipotesi di passaggio in giudicato della sentenza resa sul silenzio dell’amministrazione.

La domanda risarcitoria potrà proporsi sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza che accoglie la domanda avverso il silenzio: nessuna ragione (salvo la zigzagante andatura delle norme) si oppone a questa interpretazione che elimina un ingiustificato squilibrio tra le tutele: la domanda risarcitoria può essere formulata anche in corso di giudizio sul silenzio35 (non differentemente da quanto avviene in esercizio dell’azione di annullamento), e non si vede perché non potrebbe essere formulata anche in seguito.

Si consideri inoltre che il processo generato dall’inerzia può agevolmente convertirsi (in corso di causa) in un giudizio di annullamento (art. 117 c. 5), sicché, per negare l’esperibilità dell’azione risarcitoria post causam occorrerebbe anche che non si sia verificata l’ipotesi della conversione, perché viceversa il privato avrebbe (per puro accidente) riguadagnato la possibilità che gli si vorrebbe negare.

35 Il giudice “può definire con il rito camerale l’azione avverso il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda risarcitoria” (art. 117 c. 6). Questo vale non solo nel caso di proposizione congiunta, ma anche nei casi di proposizione della domanda risarcitoria in corso di causa (la possibilità di trattare con apposito rito la seconda domanda impedisce che si pongano ostacoli procedimentali). La norma risolve il problema del cumulo del ricorso avverso il silenzio con la domanda di risarcimento del danno correlato all’inerzia, cumulo notoriamente negato dalla giurisprudenza sulla base della specialità del rito del silenzio e della sua asserita incompatibilità con la cognizione degli elementi costitutivi dell’illecito e del diritto al risarcimento.

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Ritengo pertanto che l’ambito di applicazione della disposizione del comma 4 relativa al decorso del termine per agire dopo la scadenza del termine per provvedere, si riduca all’ipotesi della domanda risarcitoria autonomamente proposta, indipendente dall’esercizio di un’azione avverso il silenzio dell’amministrazione. E’ anzi proprio la norma in questione a confermare la possibilità di agire autonomamente per il risarcimento dello specifico danno conseguente all’inosservanza del termine fissato per la conclusione del procedimento. E’ vero che, in precedenza,36 di un tale danno era stata negata la risarcibilità sulla base della insufficienza della lesione del puro interesse alla conclusione del procedimento, in assenza del riconoscimento della spettanza del provvedimento richiesto: è però anche vero che oggi un tale interesse è espressamente riconosciuto quale fonte di danno risarcibile dalla legge (art. 2-bis c. 1 l. n. 241/1990),37 sicché la previsione del termine dei centoventi giorni a partire dall’anno successivo alla scadenza del termine per provvedere si adatta bene alla fattispecie. D’altronde questa era l’interpretazione imposta dall’abrogato comma 2 dell’art. 2-bis che era calato in un contesto problematico quanto alla compatibilità tra azione di condanna e azione avverso il silenzio. Rispetto a quella disposizione l’attuale formulazione si limita pertanto a sostituire al termine prescrizionale di cinque anni per chiedere il risarcimento del danno previsto dal primo comma, un termine più breve.38

L’altro aspetto problematico è quello del rapporto tra decadenza del diritto ai danni e riproponibilità dell’istanza. Il decorso dell’anno dal termine di conclusione del procedimento infatti “non consolida la situazione di inerzia dell’amministrazione, e non preclude la tutela del privato che, come previsto dall’art. 31 co. 2, può sempre riproporre l’istanza” 39 (riproponibilità dell’istanza che ha permesso la ricostruzione dell’illecito legato all’inerzia quale illecito permanente “che non cessa con la scadenza dell’anno dal termine per provvedere”). Da ciò si è ricavato che “la riproponibilità dell’istanza comporta che ogni eventuale danno può essere solo riferito al periodo temporale successivo alla scadenza del termine per provvedere sulla nuova istanza”.40

36 Fondamentalmente Cons. St. A. P. n. 7/2005, seguita da altre in seguito.

37 V. in proposito Bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, in Villata e Sassani, Il processo davanti al giudice amministrativo. Commento sistematico al codice del processo amministrativo, Torino 2011 (in corso di stampa), § 7.

38 A questa posizione mi sembra aderire anche Bertonazzi, loco cit.

39 ChieppaR.,sub art. 30, in Quaranta e Lopilato, Il processo amministrativo, cit., § 10.

40 ChieppaR.,ibidem.

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La conclusione sembra da condividere sul piano generale, anche se non sarebbe forse inopportuno limitarla all’ipotesi della riproposizione dell’istanza di avvio del procedimento successiva alla scadenza del termine per agire in risarcimento. Solo in tal caso infatti si può presumere rinuncia ai danni per il primo periodo: una nuova proposizione dell’istanza per provvedere quando l’azione risarcitoria è ancora proponibile, servirebbe ad evitare duplicazioni di processi. In essa dovrebbe vedersi la volontà di domandare in seguito i danni globalmente subiti.

4.–L’azione avverso il “silenzio dell’amministrazione”41 trova il suo precedente diretto nell’art. 21-bis l. n. 1034/1971, inserito nel corpo della legge dall’art. 2 l. n. 241/2000.

Prima di quel momento l’assenza di una norma processuale relativa alle modalità della tutela dell’interessato di fronte al silenzio, aveva consentito alla giurisprudenza di elaborare talune regole volte ad offrire soluzioni compatibili con un sistema centrato sull’impugnazione e sull’annullamento dell’atto. In questo contesto si discuteva vivacemente dei limiti del potere di controllo del giudice amministrativo nei confronti dell’amministrazione inerte.42

L’art. 21-bis legge TAR giunse in un contesto profondamente segnato dall’irrompere sulla scena, nel decennio precedente, del procedimento amministrativo e fu chiamato a completare quella disciplina. Il testo dell’articolo giustificava una interpretazione piuttosto ampia quanto al potere del giudice del silenzio di valutare la fondatezza della pretesa sostanziale sottostante all’inerzia denunciata. La scelta legislativa sembrava sancire la prevalenza della linea già sancita dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 10/1978 che aveva ammesso la conoscibilità della fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente, a condizione che al giudice non si presentasse un potere connotato da discrezionalità amministrativa o da valutazioni tecniche complesse: la valutabilità del merito della pretesa dipendeva quindi dalla presenza di un potere vincolato

all’accertamento di fatti c.d. semplici.

41 Il cui esercizio e svolgimento sono dettagliatamente ed esaurientemente ricostruiti da Bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, cit.

42 V. per tutti G. Greco, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice amministrativo, in Dir. proc. Amm., 1992, 481.

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Questa posizione venne presto contraddetta dal Consiglio di Stato, la cui Adunanza Plenaria n. 1/2002, facendo un passo indietro rispetto alla posizione precedente, reagì alla lettura estensiva che la dottrina era stata invogliata a rinverdire dalla struttura del nuovo articolo, statuendo che “Nel caso di ricorso avverso il silenzio, la cognizione del giudice amministrativo è limitata all’accertamento dell’illegittimità dell'inerzia dell'amministrazione e non si estende all’esame della fondatezza della pretesa sostanziale del privato; compito del giudice amministrativo è pertanto esclusivamente quello di accertare se il silenzio della p.a. sia o non sia illegittimo e, in caso di accoglimento del ricorso, di ordinare all'amministrazione di provvedere sull'istanza avanzata dal soggetto privato nominando, nell'eventualità di ulteriore inerzia, un commissario ad acta”.43 Il principio di diritto posto dall’Adunanza Plenaria è secco e chiaro: al giudice amministrativo è tout court inibito di pronunciare sulla fondatezza della pretesa sostanziale.

Il successivo intervento sull’art. 2, legge n. 241/90 operato dalla legge n. 35/2005, introducendo al comma 8 la norma per cui, nell’ambito del procedimento avverso il silenzio dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 21-bis legge TAR, il giudice amministrativo “può conoscere della fondatezza dell’istanza”, volle in qualche modo sconfessare la posizione restrittiva manifestata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (peraltro non di rado contraddetta dall’insofferenza dei Tribunali amministrativi, ma costantemente ribadita). La successiva giurisprudenza del Consiglio di Stato ha accolto però cautamente la modifica, operandone una sorta di reductio ad exceptionem.

L’espressione per cui il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza della pretesa, è stata infatti intesa “nel senso che si attribuisce al giudice un potere da esercitare nell’ambito di un rito speciale improntato ad esigenze di snellezza, non obbligandolo ma facoltizzandolo a conoscere della fondatezza della pretesa, senza autorizzarlo a sostituirsi in via diretta alla P.A. adottando il provvedimento richiesto (non potendo, la cognizione sulla fondatezza dell’istanza, sfociare in un accertamento negativo per il richiedente)”.44 Viene intravisto il pericolo della trasformazione del giudizio sul silenzio in “una ipotesi senza confini di giurisdizione di merito”, onde la

43 Vedila in Foro It., 2002, III, 227, con Nota di Travi; in Dir. Proc. Amm., 2002, 932, con Nota di Giglioni; in Foro Amm. CDS, 2002, 46, con Nota di F. Satta; in Urbanistica e appalti, 2002, 4, 420, con Nota di Tarantino.

44 Cons. Stato, Sez. IV, 16/09/2008, n. 4362.

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