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Ama te stessa,sorellina!

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Academic year: 2022

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estituire dignità, opportu- nità e protagonismo alle persone in sofferenza so- ciale”. È questo il motto della Fonda- zione Munasim Kullakita, un’opera so- ciale della diocesi di El Alto, che da dieci

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suale: imparare a volersi bene, a ripren- dere in mano la vita, a custodire la pro- pria dignità. Ma la Fondazione Munasim Kullakita non si rivolge solo alle ragazze sottratte alla strada: a beneficiare di so- stegno, accoglienza, assistenza, amore, sono anche i giovani con seri problemi di alcol e droga, le persone che hanno fatto della strada la loro casa, i carcerati che, per problemi con la giustizia, vivono sotto il preconcetto del sospetto e del- l’indifferenza della società.

Responsabile del progetto è Riccardo Giavarini, missionario laico bergamasco in Bolivia da 38 anni. Quando gli viene chiesto di ricordare una delle tante per- sone che la diocesi segue con quest’opera sociale, non riesce a tacere la storia di Jhaciel, una 17enne, arrivata qualche anno fa nella casa-famiglia dioce- anni lavora per garantire i diritti basilari

alle tante persone che sono ai margini della società nelle periferie boliviane geografiche ed esistenziali. “Munasim Kullakita”, in lingua locale, significa

“ama te stessa, sorellina” ed esprime con efficacia l’obiettivo che l’opera dioce- sana si pone nei confronti di bambine e adolescenti vittime di sfruttamento ses-

Ama te stessa, sorellina!

di CHIARA PELLICCI

c.pellicci@missioitalia.it

»

A El Alto (Bolivia) per restituire dignità

A colloquio con Riccardo Giavarini, missionario laico bergamasco che vive in Bolivia da 38 anni, si scopre la ricchezza di un’opera sociale diocesana di El Alto, alla periferia di La Paz, capitale boliviana. Munasim Kullakita - che in lingua locale significa “Ama te stessa, sorellina” - è il nome della fondazione che da dieci anni si occupa di bambine e adolescenti vittime di sfruttamento sessuale, giovani con seri problemi di alcol e droga, persone che hanno fatto della strada la loro casa. Un nome, un programma.

Riccardo Giavarini

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sana dopo un’infanzia che fa rabbrividire:

«A tre anni – racconta Riccardo – la bambina viene portata nel carcere di San Pedro a La Paz con il papà, detenuto per omicidio. Un giorno Jhaciel viene sequestrata dalla madre e portata in un’altra città dell’altopiano boliviano per essere prestata al suo amante come

“dama di compagnia”, cioè oggetto dei desideri sessuali: in cambio la mamma riceve soldi e regali. Dopo sei mesi di questo orribile inferno, Jhaciel scappa e, pre- sentandosi alla porta del carcere, supplica la po- lizia di poter rientrare in prigione per stare col papà. Ma pochi mesi dopo scoppia lo scan- dalo: anche il papà uti- lizza la figlia, prestandola ai compagni di cella in

cambio di favori. Da quel momento Jha- ciel vive nella nostra casa-famiglia, dove ha trovato amore e dignità. Qui final- mente ha iniziato a vivere».

La storia di Jhaciel è forse quella più emblematica per spiegare come alla base del progetto Munasim Kullakita ci sia la scelta dei poveri che si traduce in farsi vicini, assumere la sofferenza del- l’altro, vincere l’indifferenza e regalare tenerezza, diritto e dignità.

Da otto anni l’opera della diocesi di El Alto ripone un’attenzione particolare anche su altri gruppi in sofferenza sociale: «La sera – continua Riccardo -

andiamo per le strade, soprattutto dove c’è consumo di droga e alcol. Non fac- ciamo niente di straordinario: siamo lì e accompagniamo le persone che vivono per strada, non in una forma pietistica o assistenziale, ma nell’ottica di aprire opportunità, dare servizi, invitare all’hogar (termine spagnolo per indicare la casa- famiglia, ndr), perché da qui si possa cominciare un percorso di vita nuova.

Cerchiamo di accogliere le persone nello studio, nel lavoro, nell’appoggio psico- logico, nelle questioni legali, nel ricom- porre relazioni con la famiglia o quello che resta».

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

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Riccardo - ci siamo riuniti nella piazza principale con i commercianti della zona per un incontro con le ragazze della casa-famiglia. All’inizio si guardavano vicendevolmente in cagnesco. Poi at- traverso dinamiche con cui le bambine hanno raccontato la violenza subita, ha prevalso la comprensione reciproca. Ciò significa che nella misura in cui c’è il dialogo, il mettersi nei panni altrui, uno cambia la sua idea sull’altro e trova delle risposte».

Un ulteriore dovere irrinunciabile del progetto sociale diocesano di El Alto è quello di collaborare con le istituzioni locali a diversi livelli: l’obiettivo consiste nel costruire politiche pubbliche che

mettano in pratica buone pratiche. «La politica – sostiene Giavarini - non è un terreno scivoloso e pieno di corruzione:

per noi cristiani, che crediamo nel Dio della vita, è uno spazio fondamentale per poter lavorare, favorire l’etica, co- struire una società più giusta». Il Centro Qalauma - nato 12 anni fa anche grazie al sostegno della Conferenza episcopale italiana - è un esempio concreto di col- laborazione con le istituzioni politiche.

Si tratta di un carcere minorile che conta 180 ragazzi e ragazze dai 14 ai 21 anni e che funziona con criteri di giustizia riparatrice e con un modello educativo che fa degli adolescenti i pro- tagonisti di percorsi integrali di forma- zione, lavoro e convivenza responsabile.

Una équipe multidisciplinare accompagna le varie attività durante la giornata Praticamente la questione centrale per

il progetto Munasim Kullakita è: come ridare valore alla vita? Come recuperare il senso del vivere? Non solo nel mangiare e nel vestire ma anche nella dignità, nel capire che c’è un cammino alternativo.

Giavarini e gli altri 17 operatori di Mu- nasim Kullakita non hanno dubbi: a motivarli nel loro impegno è solo e sol- tanto l’incontro personale con Gesù. «Il Signore – confessa il missionario - è sempre stato un motivo per impegnarci in questo servizio: la scelta dei poveri per noi vuol dire condividere giornal- mente con loro il dolore, le difficoltà, la sofferenza, in una forma intelligente.

Non solo assistenzialista, ma dando sem-

pre l’opportunità di guardare più in là, di prendere coscienza che ciascuno è soggetto di cambiamento, non oggetto di un intervento esterno».

Nell’affrontare il tema della sofferenza sociale, fondamentale è anche il coin- volgimento della comunità: quartiere, parrocchia, vicinato, tutti devono sentirsi chiamati in causa. «Nel sobborgo dove abbiamo il Centro di ascolto - spiega

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come scuola, laboratori, momenti di ri- creazione, di cultura e spiritualità. In stretto coordinamento con il Ministero della Giustizia, quello dell’Istruzione, della Sanità e degli Interni, il Centro sta diventando un modello non solo a livello locale, ma nazionale: dimostra nei fatti che con un intervento educativo dove i ragazzi sono protagonisti di percorsi in- tegrali, la recidività del reato si riduce al 10%, contro il 76% nelle carceri co- muni. La collaborazione con le istituzioni nazionali e locali è frutto di dieci anni di incontri, dialoghi, confronti sull’utilità della giustizia riparativa rispetto a quella repressiva. «Ci sono ragazzi – racconta Giavarini - che quando arriva il giorno

della libertà dicono: “Io non voglio uscire! Fuori non ho né famiglia, né la- voro, né un tetto… Dove vado a fini- re?”… Ecco che ultimamente ci siamo trovati obbligati a progettare anche un percorso post-penitenziario».

D’altronde, di fronte a queste situazioni paradossali (come preferire il carcere alla libertà, per non sapere come prendere in mano la propria vita?), è impossibile rimanere indifferenti: «Ma mettere Cristo al centro – commenta Giavarini - aiuta a fare delle scelte e ad andare in territori sconosciuti, che fanno paura o che si preferirebbe delegare ad altri». Anche e soprattutto se si tratta di percorrere nuove strade con gli ultimi, in un ac- compagnamento quotidiano e silenzioso verso il ritrovamento della propria di- gnità.

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