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2. Il patto di prova (art c.c.)

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Avv. Fabio Santoro Avv. Alessandra Speranza Dott. Andrea Giorgi

Socio A.G.I.

“Le clausole accessorie del contratto di lavoro”

SOMMARIO:1.PREMESSA 2.IL PATTO DI PROVA (ART.2096 C.C.)2.1.SCHEMA CONCETTUALE SUL PATTO DI PROVA 3.IL PATTO DI NON CONCORRENZA (ART.2125 C.C.)3.1.SCHEMA CONCETTUALE SUL PATTO DI NON CONCORRENZA 4.LA CLAUSOLA DI RECESSO (ART.1373 C.C.) E IL PATTO DI OPZIONE (ART.1331 C.C.)5.LA CLAUSOLA PENALE (ART.1382 C.C.)6. IL PATTO DI STABILITÁ7.CLAUSOLA DI PROLUNGAMENTO DEL PREAVVISO DI DIMISSIONI

1. Premessa

In virtù dell’ampia autonomia contrattuale riconosciuta dall’art. 1322 c.c., le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto di lavoro, introducendovi delle clausole che ne connotino il tipo di rapporto e ne regolino il suo espletamento.

Tale espediente viene di norma adoperato nei rapporti di lavoro subordinato, in cui si evince uno squilibrio di poteri e di obblighi tra le contrapposte figure del datore di lavoro e del lavoratore.

Tali clausole, definite per l’appunto “accessorie”, sono elementi accidentali del regolamento negoziale ed hanno la funzione di modificare o precisare il contenuto del contratto, per adattarlo alle esigenze concrete degli stipulanti sia nella fase introduttiva del rapporto di lavoro, tramite ad esempio l’apposizione di un patto di prova (art.

2096 c.c.), sia nella fase conclusiva dello stesso e ad essa immediatamente susseguente, come dimostrano i patti di non concorrenza (art. 2125 c.c.) o le clausole penali (art. 1382 c.c.).

2. Il patto di prova (art. 2096 c.c.)

Con l’inserimento del patto di prova all’interno del regolamento contrattuale, le parti intendono tutelarsi dall’instaurazione del rapporto lavorativo tramite la fissazione di un periodo di prova «volto a sperimentare la reciproca convenienza al contratto», così la Cassazione nella sentenza 5016/2004. Il patto ha effetti biunivoci, essendo i suoi benefici direzionati sia in capo al datore, che ha la possibilità di testare le capacità professionali del nuovo assunto e di valutarne la personalità in relazione alle mansioni affidate e al contesto aziendale in cui sono destinate a svolgersi; sia in capo al lavoratore, che viene a contatto con una realtà lavorativa nuova.

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[TITOLO DELL'INT ESTAZIO NE LATERAL E]

[Le intestazi oni laterali sono ideali per evidenzi are punti importan ti del testo o per aggiunge re informaz ioni aggiunti ve da usare come riferime nto rapido, ad esempio una pianifica zione.

In genere si trovano nella

L’art. 2096 c.c. disciplina nel dettaglio il patto di prova richiedendone al primo comma la forma scritta, ai fini della validità dello stesso, pena la nullità della clausola e la trasformazione del rapporto di lavoro in definitivo. L’accordo scritto, cui aderiscono entrambe le parti, deve inoltre precedere l’instaurazione del rapporto o essere quanto meno contestuale all’assunzione, dato che una sua successiva stipulazione ne comporta la nullità, come affermato dalla Cassazione nella sentenza 8038/2002.

Oltre alla forma scritta, la legge prescrive la durata massima del periodo di prova, normalmente statuita dai contratti collettivi di categoria in misura non superiore ai sei mesi e differenziata a seconda della tipologia di lavoratore. Cosi l’art. 2096 c.c. al secondo comma: “l’imprenditore e il prestatore di lavoro sono tenuti rispettivamente a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova”. Tale periodo dell’articolo in questione rinvia alla previsione contenuta nell’art. 2241 c.c. riguardante il lavoro domestico, che a sua volta riconosce una presunzione temporale di otto giorni di durata della prova. In sostanza, il periodo di prova deve avere una durata adeguata al fine di testare le capacità del lavoratore in virtù delle mansioni affidategli e per consentire allo stesso di adeguarsi alla nuova realtà lavorativa. La durata massima semestrale imposta dalla contrattazione collettiva può essere derogata dalle parti, solo in particolari circostanze e in virtù della complessità delle mansioni affidate. Viene richiamato a tal proposito l’art. 10 della legge sui licenziamenti individuali (l. 604/1966), il quale indirettamente evidenzia come un prolungamento della prova oltre i sei mesi convenzionalmente indicati comporta egualmente la stabilizzazione del rapporto alla scadenza del semestre.

La clausola comprovante l’inizio della prova deve contenere, oltre la sua durata, anche la specifica indicazione delle mansioni attribuite al lavoratore nel relativo periodo, avendo così valenza di elemento principale dell’istituto, la cui relativa assenza costituisce «un motivo di nullità del patto, con automatica conversione dell’assunzione in definitiva», come evidenzia la Cassazione nella sentenza 13455/2006. È comunque ammessa dalla giurisprudenza la possibilità di effettuare l’indicazione delle mansioni da espletare nel periodo di prova tramite il rinvio per relationem alle qualifiche di assunzione. Al lavoratore in prova sono riconosciuti i medesimi diritti ed obblighi previsti in capo ai lavoratori già assunti, effettuando la legge una parificazione economica e normativa tra di essi.

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[TITOLO DELL'INT ESTAZIO NE LATERAL E]

[Le intestazi oni laterali sono ideali per evidenzi are punti importan ti del testo o per aggiunge re informaz ioni aggiunti ve da usare come riferime nto rapido, ad esempio una pianifica zione.

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Durante il periodo di prova la legge riconosce ad entrambe le parti la facoltà di recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità, ad eccezione dei casi in cui la prova sia stabilita per un periodo di tempo minimo necessario. Il datore di lavoro non è tenuto a motivare l’esercizio del diritto di recesso, potendo discrezionalmente effettuare la sua scelta purché non attinente ad un aspetto illecito e/o estraneo alla prova (es. invalidità). In tali circostanze, spetterà al lavoratore dimostrare che il recesso è stato determinato da un motivo illecito per ottenerne l’annullamento. Per un approfondimento sulla questione si rimanda alla sentenza della Cassazione 23224/2010: «a norma degli artt.

2096 c.c. e 10 della legge nr. 604/1966, il rapporto di lavoro subordinato costituito con patto di prova è sottratto, per il periodo massimo di sei mesi, alla disciplina dei licenziamenti individuali ed è caratterizzato dal potere di recesso del datore di lavoro, la cui discrezionalità si esplica senza obbligo di fornire al lavoratore alcuna motivazione, neppure in caso di contestazione, sulla valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore stesso. Detta discrezionalità, peraltro, non è assoluta e deve essere coerente con la causa del patto di prova, sicché il lavoratore che non dimostri il positivo superamento dell’esperimento nonché l’imputabilità del recesso del datore a un motivo estraneo a tale causa, e quindi illecito, non può eccepire né dedurre la nullità del licenziamento in sede giurisdizionale». Al lavoratore in prova illegittimamente licenziato vengono applicate le tutele predisposte dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, oltre il risarcimento del danno subito e, ove possibile, il diritto alla prosecuzione del periodo di prova residuo.

Terminato positivamente il periodo di prova, l’assunzione del lavoratore diviene definitiva e l’attività prestata si computa in anzianità di servizio.

2.1. Schema concettuale sul patto di prova

Finalità: il patto mira a tutelare l’interesse di entrambe le parti contrattuali a sperimentare la reciproca convenienza al contratto (Cass. 5016/2004).

Forma: scritta, ad substantiam (art.2096, I comma, c.c.); in caso contrario, il rapporto si intende instaurato a tempo indeterminato.

Durata: limite massimo di 6 mesi. Possibilità di aumentare la durata della prova, se la particolare complessità delle mansioni affidate al lavoratore lo rende necessario.

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Oggetto: verifica della capacità professionale e della complessiva personalità del lavoratore in relazione alle mansioni affidate e al contesto aziendale in cui sono destinate a svolgersi. Il patto deve indicare le mansioni in relazioni alle quali la prova deve svolgersi.

Recesso: Alla scadenza o durante la stessa prova, salvo pattuizione di una durata minima, è consentito ad entrambe le parti il recesso senza preavviso (art. 2096, III comma, c.c.).

3. Il patto di non concorrenza (art. 2125 c.c.)

Il contratto di lavoro subordinato fa nascere in capo alle parti stipulanti diritti e doveri differenti in virtù della diversa posizione ricoperta. Di norma, ad una posizione giuridica di potere corrisponde una correlativa posizione di soggezione, contraddistinta da una serie di doveri e obblighi che il titolare è tenuto ad adempiere e rispettare. Nella relazione tra datore e lavoratore, al poter direttivo del primo si contrappongono gli obblighi di diligenza (art. 2104 c.c.) e di fedeltà (art. 2105 c.c.) del lavoratore. Proprio l’art. 2105 c.c. evidenzia come «il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio». La dottrina maggioritaria sostiene che il dovere di fedeltà imponga l’osservanza esclusivamente di due obblighi aventi contenuto negativo quali il divieto di concorrenza e l’obbligo di riservatezza, la cui violazione comporterebbe una responsabilità disciplinare (art. 2106 c.c.), nonché un obbligo al risarcimento dei danni subiti dal datore di lavoro e, se del caso, una responsabilità penale.

In particolare, l’obbligo di non concorrenza, oggetto di studio, vieta al lavoratore di

«trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore» durante il periodo in cui è lavorativamente legato con il datore. L’ampiezza concettuale del periodo in questione ha portato la dottrina e la giurisprudenza a specificare i casi in cui in concreto tale violazione possa verificarsi. Ad esempio, sussisterebbe quando il lavoratore, in veste di venditore “porta a porta”, abbia sottoposto alla clientela la vendita di determinati prodotti che, seppur differenti da quelli oggetto di commercio del datore, implicano una diminuzione di efficacia dell’azione di vendita, cagionando implicitamente l’interesse della controparte datoriale. Viene esclusa la violazione nelle ipotesi di svolgimento di

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attività meramente preparatorie o per le attività materiali e non intellettuali svolte dal lavoratore per una ditta concorrente.

L’art. 2125 c.c. ammette la possibilità che il datore abbia interesse a prolungare il vincolo di non concorrenza per il periodo successivo alla cessazione del rapporto, stabilendo al primo comma che «il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo». Nel citato articolo, il legislatore prevede determinate garanzie di forma e di contenuto volte a tutelare la parte contro la forte posizione rivestita dal datore. È richiesto che il patto, la cui redazione può essere contestuale alla stipulazione del contratto di lavoro o avvenire alla cessazione del rapporto, debba essere sottoscritto da entrambe le parti ed essere riportato per iscritto, pena la nullità dello stesso (forma scritta ad substantiam). La legge prescrive anche la delimitazione territoriale e temporale del patto, dovendo esso essere stipulato per una determinata zona, nella quale l’imprenditore abbia degli affari o interessi e, a norma del secondo comma dell’art. 2125 c.c., avere una durata «non superiore ai cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni, negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata».

Il patto di non concorrenza deve, ai fini della sua validità, contenere la fissazione dell’oggetto per il quale viene sottoscritto, che può riferirsi, alternativamente o cumulativamente, a mansioni svolte dal dipendente; attività del datore di lavoro; clienti, dipendenti o concorrenti dello stesso. È importante richiamare sul tema la sentenza della Cassazione, 13282/2003, «il patto di non concorrenza, previsto dall’ art. 2125 cod. civ., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Esso è, perciò, nullo allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale».

L’accordo è oneroso, dovendo il compenso essere proporzionato al sacrificio del lavoratore indipendentemente dalla utilità che il datore tragga dal patto, e a prestazioni corrispettive. L’importanza del compenso viene affermata dalla giurisprudenza (Cassazione 15952/2004), essendo nulla la clausola che contenga il recesso libero del

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datore dal patto in qualsiasi momento, proprio perché il lavoratore perderebbe il corrispettivo riconosciutogli, pur essendosi vincolato a rispettare il patto per tutta la durata concordata.

In conclusione, preme precisare come l’art. 2125 c.c. riguardi la concorrenza definita

“lecita”, vale a dire quella esercitata da un ex dipendente che continui a svolgere attività di lavoro presso un differente imprenditore. Si contrappone così alla previsione dell’art. 2596 c.c. che ha ad oggetto la concorrenza tra imprenditori, vale a dire quella “sleale”.

In presenza di un patto di non concorrenza, contro la parte inadempiente sono previste varie azioni per tutelare la propria posizione di liceità. Al datore è riconosciuta la possibilità di esperire l’inibitoria ai sensi dell’art. 700 c.p.c., in presenza dei requisiti del fumus boni iuris – consistente nell’esistenza di un valido patto ex art. 2125 c.c. – e del periculum in mora – ossia di un mero inadempimento capace di pregiudicare gli interessi dell’imprenditore – oltreché di esercitare le azioni di condanna o di adempimento in forma specifica ai sensi dell’art. 1453 c.c. Al lavoratore è invece ammesso difendersi contro l’inadempimento del datore tramite l’esperimento dell’eccezione di nullità del patto, per violazione delle garanzie apprestate dal dettato normativo, o per il tramite delle distinte azioni di accertamento della nullità o di annullamento del patto per violenza o dolo (art.

1427 c.c.).

3.1. Schema concettuale sul patto di non concorrenza

Finalità: il patto mira ad estendere, alla scadenza del rapporto lavorativo, il divieto di concorrenza da parte del lavoratore

Forma: scritta, ad substantiam (art.2125, I comma, c.c.).

Durata: la durata del vincolo non può essere superiore a 5 anni, se si tratta di dirigenti, e a 3 anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata (art. 2125, II comma, c.c.).

Oggetto: si vieta al lavoratore, alla cessazione del contratto di lavoro che lo legava al datore, di trattare affari per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, Luogo: il patto deve essere stipulato, a pena di nullità, con riferimento alla zona di interesse dell’impresa del datore.

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Recesso: è nulla la clausola che contiene il recesso libero del datore dal patto, in quanto il lavoratore perderebbe il corrispettivo concordato (Cass. 15952/2004).

4. La clausola di recesso (art. 1373 c.c.) e il patto di opzione (art. 1331 c.c.)

Le parti possono inserire all’interno del contratto di lavoro la clausola di recesso, riservandosi così la facoltà di rinunciare successivamente alla stipulazione al patto di non concorrenza. L’art. 1373 c.c. prevede per l’appunto che «se a una delle parti è attribuita la facoltà di recedere dal contratto, tale facoltà può essere esercitata finché il contratto non ha avuto un principio di esecuzione». Sul tema si registrano posizioni differenti in giurisprudenza, la Cassazione in più occasioni ha però evidenziato la nullità della clausola di recesso che attribuisce al datore la facoltà di recedere dal patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto di lavoro, in quanto «la durata del patto deve essere delimitata ex ante e non può essere soggetta ad una pattuizione che ne consenta il venir meno in ogni momento della sua durata. Il principio si fonda sull’esigenza del lavoratore di avere contezza, sin dall’assunzione dell’impegno, della durata del vincolo per le determinazioni opportune delle scelte lavorative, che sarebbero ostacolate ove il medesimo fosse soggetto alle determinazioni della controparte».

Invece, con il patto di opzione, il datore si riserva il diritto di scegliere entro un termine stabilito se avvalersi o meno del patto di non concorrenza. Il lavoratore, quale destinatario della proposta (opzionario), ha il diritto potestativo di sottoscrivere il patto di non concorrenza di fronte al quale il datore, in veste di proponente, è in posizione di soggezione, come si ricava dal dettato dell’art. 1331 c.c. La giurisprudenza ha nel tempo assunto posizioni contrastanti sulla validità o meno di una simile clausola.

5. La clausola penale (art. 1382 c.c.)

Tramite l’apposizione di una clausola penale, le parti possono esonerare il debitore dal compimento della prestazione dovuta, tramite la previsione di un corrispettivo per l’inadempimento. La funzione della clausola, come si evince dall’art. 1382 c.c., è quella di evitare che in capo al creditore sussista l’onere di provare il danno da inadempimento (così il secondo comma) e allo stesso tempo di incentivare l’adempimento della

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controparte. A compensazione del fatto che il creditore è esonerato dall’onere di provare il danno, questi non può ottenere il risarcimento per l’ulteriore pregiudizio.

La clausola penale può essere diminuita equamente dal giudice, qualora si riveli eccessivamente sproporzionata o nei casi in cui l’inadempimento è solo parziale. La legge inoltre, all’art. 1383 c.c., prevede il divieto di cumulo specificando come «il creditore non può domandare insieme la prestazione principale e la penale, se questa non è stata stipulata per il semplice ritardo».

6. Il patto di stabilità

Il patto di stabilità rientra tra le clausole denominate di fidelizzazione, tramite le quali il datore e il lavoratore assumono l’impegno di non recedere unilateralmente dal contratto di lavoro per un periodo di tempo prefissato, salve le ipotesi di recesso per giusta causa o per giustificato motivo.

Le motivazioni che spingono i contraenti a stipulare il patto sono differenti: mentre il datore ha l’interesse a preservare la permanenza in azienda del lavoratore, avendo investito sulla sua formazione e volendosene fare affidamento per un determinato periodo;

il lavoratore sottoscrive il patto con l’intento di stabilizzare la sua posizione lavorativa beneficiando di eventuali indennità o altre gratifiche di natura economica.

Sulla validità della clausola di stabilità è intervenuta la giurisprudenza (Cassazione 18376/2009), la quale ha affermato la liceità della stessa senza alcun contrasto con le norme o i principi dell’ordinamento giuridico, essendo riconosciuto alle parti di disporre del rapporto lavorativo nel modo più fruttuoso per il raggiungimento dei propri interessi.

La previsione di un simile patto non preclude comunque alle parti la facoltà di recedere dallo stesso, come evidenzia in termini generali l’art. 2118 c.c., «ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti […]».

7. Clausola di prolungamento del preavviso di dimissioni

In conclusione, si passa ad esaminare la clausola mediante la quale datore e prestatore concordano il prolungamento del periodo di preavviso oltre il termine stabilito dalla contrattazione collettiva di categoria.

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Viene richiamato il dettato normativo dell’art. 98 disp. att. c.c., secondo cui «nei rapporti d'impiego inerenti all'esercizio dell'impresa, in mancanza di norme corporative o di usi più favorevoli, per quanto concerne il trattamento cui ha diritto l'impiegato nei casi d'infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, la durata del periodo feriale, del periodo di preavviso, la misura dell'indennità sostitutiva di questo e l'ammontare dell'indennità di anzianità in caso di cessazione del rapporto, si applicano le corrispondenti norme del R. decreto-legge 13 novembre 1924, n. 1825, convertito nella legge 18 marzo 1926, n. 562 ». In particolar, nel R. decreto-legge richiamato, l’art. 9 specifica che il contratto di lavoro a tempo indeterminato non possa essere risolto dalle parti senza che vi sia una previa disdetta esercitata nei termini previsti nell’art. 10 del medesimo atto. I termini di disdetta vengono così cristallizzati in due mesi, in un mese oppure in quindici giorni a seconda che il lavoratore impiegato, non avendo raggiunto i cinque anni di servizio, ricopra rispettivamente la figura dell’institore, procuratore, rappresentante a stipendio fisso oppure quella di commesso, viaggiatore, direttore di speciali servizi o ancora di commesso di studio e di negozio, assistente tecnico o altro impiegato di grado comune. Per gli impiegati che hanno raggiunto i cinque o i dieci anni di servizio sono previsti periodi di preavviso superiori, tenendo sempre a mente la qualifica rivestita. Così per i primi sono concessi tre mesi, quarantacinque giorni o 30 giorni; mentre per i secondi saranno riconosciuti 4 mesi, 2 mesi oppure 45 giorni per il periodo di preavviso delle dimissioni.

Beneficiando di tale prolungamento, il lavoratore ha a disposizione un periodo più lungo per espletare il proprio iter formativo, che gli consente di raggiungere una posizione particolarmente qualificata, usufruendo così di un emolumento retributivo integrativo.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione (sentenza 1435/1998) ha affermato la legittimità di un tale patto, ove venga riconosciuto al lavoratore un corrispettivo per la prestazione dovuta.

a cura di Andrea Giorgi

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