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L’IMPOSTAZIONE DELL’AVVOCATO DEL DANNEGGIATO
Avv. Barbara Porta∗
PREMESSA: IL CASO IN ESAME
I dati salienti del caso in esame sono già stati presentati ampiamente da chi mi ha preceduto e verrò dunque subito ad analizzare l’impostazione seguita sul versante giuridico per la tutela della danneggiata.
Le questioni da trattare sono piuttosto numerose e concentrerò la mia attenzione sulle seguenti, poiché esse mi sembrano essenziali per la soluzione della presente controversia:
¾ ¾ dovere di informazione e consenso informato;
¾ ¾ nesso di causa e prova della causa non imputabile;
¾ ¾ colpa professionale, schemi di responsabilità e regime probatorio;
¾ ¾ risarcimento del danno.
Si precisa qui come l’azione risarcitoria sia stata proposta dalla danneggiata nei confronti della struttura sanitaria pubblica e del medico che ebbe ad eseguire l’intervento.
1. DOVERE DI INFORMAZIONE E CONSENSO INFORMATO
Nel caso concreto la paziente non è stata in alcun modo informata sui possibili rischi di effetti negativi dell’intervento che le sarebbe stato praticato e dunque non si è perfezionato il consenso informato che è costantemente richiesto quale presupposto essenziale ed imprescindibile per la somministrazione di un qualsivoglia trattamento medico. Né vi è prova agli atti che siano state fornite alla paziente tutte quelle informazioni idonee a dare luogo a tale grado di consenso. La cartella clinica tace sul punto. Verrò ora ad approfondire quali condizioni debbano essere
∗Studio legale Ambrosio & Commodo, Torino
2 soddisfatte perché si possa configurare e ritenersi perfezionato il consenso informato, come la prova che questo abbia avuto luogo spetti ai convenuti ed infine quali siano le conseguenze che la responsabilità civile attribuisce all’omissione delle informazioni preliminari all’intervento.
1.1. Condizioni del consenso informato.
Il concetto di “consenso informato” esprime l’incontro tra le due conoscenze, quella del paziente, che acconsente al trattamento e quella del trattamento che il medico propone, in quanto, a sua volta, compiutamente informato delle condizioni fisiche e psichiche del suo paziente. Nell’ambito del corretto rapporto giuridico tra questi due soggetti, il consenso è l’elemento essenziale, contenutistico, e nello stesso tempo elemento di valutazione della responsabilità professionale.
Il consenso del paziente non è condizionato a specifici requisiti di forma e può essere manifestato anche con un comportamento tacito. Occorre, naturalmente, per la sua validità, che il consenziente venga in precedenza edotto dei pericoli insiti nell’atto operatorio, con la prospettazione anche dei possibili esiti incidenti sulla sua vita di relazione che, esulando dai limiti del problema tecnico, non sono rimessi alla scelta del solo sanitario.
Tutti questi elementi devono potere essere valutati dal paziente onde consapevolmente, e quindi validamente, manifestare il proprio assenso.
In particolare, il dovere di informazione concerne la portata dell’intervento, le difficoltà, gli effetti conseguibili e gli eventuali rischi, e deve essere tale da porre il paziente in condizioni di decidere sull’opportunità di procedere, con un bilanciamento di vantaggi e rischi.
Per quanto riguarda i rischi, l’informazione non può che riferirsi a quelli prevedibili.
Certamente non è consentito che il medico, forte di mere considerazioni statistiche, non renda edotto il paziente di rischi, anche ridotti, che incidano gravemente sulle sue condizioni fisiche o sul bene vita.
3 L’obbligo di informazione si estende ai rischi specifici rispetto a determinate scelte alternative, in modo che il paziente, con l’ausilio tecnico-scientifico del sanitario, possa determinarsi verso una di quelle, in virtù di una cosciente comparizione di rischi e vantaggi.
La prestazione del consenso può incidere sulla valutazione della colpa dei sanitari che operano una scelta terapeutica innovativa e non convenzionale, ma responsabile e consapevole, obbedendo ai desideri del paziente.
Per completare il quadro occorre tenere conto delle condizioni di necessità ed urgenza, in cui può trovarsi ad essere effettuato il trattamento medico. In tali “situazioni estreme” nelle quali il paziente non è in grado di esprime una cosciente volontà, il medico può intervenire ugualmente nell’interesse del paziente stesso.
Dal punto di vista operativo la necessità e l’urgenza costituiscono così un surrogato del consenso del paziente.
Da ultimo, nel caso di intervento chirurgico complesso effettuato da una equipe è necessaria l’informazione e la manifestazione del consenso informato sulle fasi preparatorie (per esempio in relazione ai diversi metodi anestesiologici utilizzabili, alle loro modalità di esecuzione ed al loro grado di rischio) e successive connesse all’intervento vero e proprio.
1.1. 1.2. Onere della prova.
L’onere della prova in ordine al consenso informato grava non già sul danneggiato bensì sul sanitario e ciò sul presupposto, come anche correttamente ritenuto da una recente pronuncia della Suprema Corte del 23.05.2001 n. 7027, del criterio di vicinanza della prova, secondo cui l’onere della prova di un fatto va posto a carico della parte cui esso si riferisce: onde l’inadempimento- che nasce e si consuma, per così dire, nella sfera d’azione del debitore- non deve essere provato dal creditore, dovendo invece essere il debitore a provarne l’imputabilità.
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Non sembra pertanto che la violazione del dovere di informazione sia tale da comportare l’inclusione del “consenso informato” nella disciplina derogatoria in punto onere della prova, sol che si consideri che esso, lungi dall’essere accessorio o strumentale e derivando da una norma di rilevanza costituzionale volta a tutelare un diritto primario della persona.
1.3. Responsabilità dei convenuti sotto il profilo dell’omessa informazione.
Sotto questo profilo è opportuno premettere come la mancata ed adeguata informazione può essere, salvo eccezioni di legge1 di per sé sola fonte di responsabilità del medico2.
L’affermazione circa l’autonomia dell’obbligo di informazione rispetto a quello della prestazione risulta confortata sia da buona parte della più autorevole dottrina3, sia dalla più recente giurisprudenza che ha ritenuto, “sussistere la responsabilità del sanitario per violazione dell’obbligo di informazione ... anche quando ... non sia allo stesso medico ascrivibile alcun altro profilo di responsabilità professionale”4.
Quindi la conseguenza del mancato adempimento dell’obbligo di informazione-preliminare e condizionante rispetto alla prestazione del consenso-circa la portata, la difficoltà ed i rischi di complicazione dell’intervento o terapia, è la responsabilità del medico per tutti gli esiti negativi risentiti dal paziente.
Altro aspetto da considerare quale ulteriore fonte di responsabilità professionale è la incompleta tenuta della cartella clinica. Nella stessa risultano infatti omessi dati, quali somministrazione di medicinali, operazioni etc. che rendono sicuramente censurabile anche sotto tale profilo sia il sanitario che l’Ente ospedaliero.
1 Ipotesi in cui il medico agisce in stato di necessità e urgenza ex art. 54 c.p., cfr. Cass. pen. 16.2.1981.
2 A. Milano 02.05.1995; T. Padova 09.08.1985; Cass. 08071994 n. 6464.
3 F. CAFAGGI, Responsabilità del professionista, in Dig. Disc. Priv., XVII, Utet Torino, 1997; G. GIANNINI e M.
POGLIANI, La responsabilità da illecito civile, Giuffrè, Milano, 1996.
4 T. Napoli, 11.2.1998 n. 1317; conf. A. Milano 2.5.1995, in Foro it. 1996, I, 1418; A. Venezia 23.7.1990 n. 1990; T.
Padova 9.8.1985.
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CARTELLA CLINICA
Si definisce la cartella clinica come il complesso ordinato e scritto dei dati clinici (anamnestici, obiettivi, specialistici, strumentali e documentali) raccolti dai sanitari sulla persona del malato nel corso della sua degenza ospedaliera.
L’importanza di questo documento è molteplice sia sotto il profilo clinico, poiché la principale finalità è quella della tutela della salute del ricoverato (diagnosi e terapia) ma soprattutto sotto il profilo medico-legale: per la sua efficacia probatoria, per il suo valore storico-documentale e per l’attestazione del consenso informato5.
Circa il valore giuridico della cartella clinica, brevemente, si segnala come si tratta di un documento che rientra nella categoria degli atti pubblici6 in quanto esplicazione del potere certificativo e della natura pubblica dell’attività sanitaria cui si riferisce.
Proprio in quanto atto pubblico la cartella clinica è soggetta a speciale disciplina giuridica per ciò che riguarda l’obbligo della sua compilazione per ogni ricoverato, la riservatezza del contenuto, la sua conservazione nonché il rilascio delle copie7. Vale la pena segnalare che secondo l’art. 2699 del c.c. per atto pubblico” si intende “il documento redatto con le richieste formalità da ... pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato”.
L’atto pubblico (v. art. 2700 c.c. “Efficacia probatoria dell’atto pubblico”) fa piena prova fino a querela di falso “della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti o degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”.
5 V. Cass. pen. sez. V, 24.10.1980, in Cass. pen. 1982, 470: la particolare efficacia probatoria della cartella clinica deve ritenersi limitata alla sua provenienza dal pubblico ufficiale e riguarda per ciò solo i fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati da lui compiuti.
6 Diverse sentenze della Cassazione penale hanno ribadito la natura di atto pubblico sia della cartella clinica ospedaliera sia del registro ospedaliero degli interventi operatori (v. sent. Cass. pen. sez. V, 11.4.1988) sia del registro di pronto soccorso (v. a tale riguardo, sent. Cass. pen. sez. V, 2.4.1989, in Giust. pen. 1990, II, 426).
7 Il D.P.R. 27.3.1969, n. 128 (sull’Ordinamento interno dei servizi ospedalieri) reca norme concernenti: la compilazione, la conservazione ed il rilascio delle cartelle cliniche.
6 La correttezza e la completezza con cui le cartelle sono redatte depongono per la perizia e la diligenza dei sanitari curanti.
In essa, tra l’altro, vi devono essere indicate in maniera leggibile le visite effettuate, il loro esito, la diagnosi formulata all’ingresso, gli esami di laboratorio e strumentali, gli accertamenti specialistici, le terapie praticate, il decorso della malattia durante la degenza, la diagnosi e lo status alla dimissione, le prescrizioni o i provvedimenti adottati al momento della dimissione, la data e l’ora in cui questa avviene, il tipo di dimissione (ad esempio se avviene o meno contro il parere dei sanitari), ecc. (vedi D.M. 27.6.1986, art. 35); il trasferimento eventuale ad altro ospedale con o senza autoambulanza, ecc..
In buona sostanza essa deve contenere tutti gli elementi che consentano di ricostruire in dettaglio l’attività clinica e chirurgica svolta durante la degenza8; inoltre vi debbono essere allegati in originale i risultati degli esami (radiografie, esami ECG, esami di laboratorio, ecc.) effettuati nel corso del ricovero.
Da ciò che si è detto si capisce perché l’art. 23 del Codice Deontologico Medico ammonisce il medico a tenere nella redazione delle cartelle cliniche e di ogni altra documentazione sanitaria, la massima diligenza, la più responsabile cura, a provvedere alla massima e scientificamente corretta registrazione dei dati ed alla più responsabile formulazione dei giudizi.
Fatta questa premessa si comprende come ai fini della valutazione della eventuale responsabilità dei curanti, la cartella sia una delle principali fonte di dati. Di fondamentale rilevanza ai fini dell’accertamento, anche sotto tale profilo, della responsabilità dei sanitari appare quindi
8 La corte di cassazione (sez. V penale, 11.11.1983, n. 9623) ha affermato espressamente che la cartella adempie all’esigenza della attestazione delle attività espletate nel reparto, ha la funzione di diario della giornata, segnala il decorso della malattia, dà atto dell’attività terapeutica spiegata dai curanti, delle analisi effettuate, degli interventi praticati.
7 l’omissione posta in essere, anche solo, per non avere correttamente riportato i dati relativi al loro intervento.
Nel segnare diligentemente l’anamnesi, l’obiettività, la terapia etc., il medico non deve pensare di svolgere attività da burocrate, ma soprattutto di compiere un suo preciso dovere, consapevole di rendere un ulteriore e quanto mai utile servizio alla persona assistita.
Il medico deve quindi assolvere questo dovere con il massimo dell’attenzione e della premura.
2. NESSO DI CAUSA E PROVA DELLA CAUSA NON IMPUTABILE.
In relazione al nesso di causa va subito osservato come non vi sia alcun dubbio sulla sussistenza di un rapporto causale tra le prestazioni sanitarie ricevute dalla paziente e le lesioni dalla medesima riportate.
Risulta infatti soddisfatta la condizione posta tra norma generale applicabile nel caso di specie, ovverosia l’art. 1218 c.c., in base al quale, come si evince dalla semplice esegesi della norma, è necessario che l’attore dimostri il rapporto del danno con le prestazioni oggetto dell’obbligazione, mentre spetta al soggetto convenuto, cui sia imputato l’inadempimento, provare “la causa a lui non imputabile”.
Se pertanto il convenuto non è in grado di colmare i dubbi circa l’alternativa tra eventuale errore professionale ed eventuale complicanza provando in concreto la sussistenza della seconda ipotesi, egli è tenuto a rispondere del danno, poiché non è giunto a provare la “causa non imputabile”.
Del resto, si può qui osservare come la giurisprudenza in ambito di responsabilità medica sia costante nell’affermare che gravi sul danneggiante – ed in questo senso si può sicuramente parlare di inversione - l’onere di dimostrare che “l’esito lesivo è stato causato dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile, ovvero dall’esistenza di una particolare condizione fisica della
8 paziente non precedentemente accertata”9. Tra questi indici, sicuramente il parametro che gioca un ruolo chiave e primario è quello dato dalla tipologia dell’operazione10: se l’intervento è di facile esecuzione il nesso di causa si presume, cosicché, una volta assodato che si rientra nei casi disciplinati dal secondo comma dell’art. 1176 c.c. e non già in quelli, più rari, soggetti alla clausola limitativa della responsabilità di cui all’art. 2236 c.c., spetta al professionista, per “spezzare” il nesso di causa, “comprovare la esistenza e la efficienza eziologia di altri fattori – imprevisti, imprevedibili o comunque non superabili mediante la diligenza media richiesta dal di lui operatore – idonei a provocare (il danno)”11. Siffatta prova liberatoria non si raggiunge peraltro attraverso la
“mera prospettazione di dubbi, incognite e eventualità”12. In questo solco giurisprudenziale, si segnala in particolare la sentenza della Cassazione in Dettori c. Pistorio13, la cui massima ha avuto sicuramente notevole fortuna in tutti questi anni. In codesto precedente la Suprema corte afferma il principio per cui, “mentre il paziente che assume di essere stato danneggiato ha l’onere di provare che la operazione (e se del caso la terapia post operatoria) erano di facile esecuzione e che per effetto dell’intervento ha subito un peggioramento delle condizioni anteriori, spetta al responsabile dell’intervento operatorio fornire la prova contraria e cioè che la prestazione professionale era stata eseguita in modo idoneo e corretto e che l’esito peggiorativo era stato causato dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile, oppure dalla esistenza di una particolare condizione fisica del cliente non accertabile con il criterio della ordinaria diligenza professionale”.
Si osservi poi che il convenuto ben difficilmente potrà dare prova di eventuali complicanze intervenute: infatti, gioca contro questa possibilità la circostanza molto semplice quanto
9 Trib. Roma, 19 ottobre 1989, in Temi Romana, 1990, II, 161.
10 Sul punto cfr. in particolare IAMICELI,La r.c. del medico, cit., 369 e ss.
11 Ad esempio, Cass., 16 novembre 1988, n. 6220, in Rep. Foro it., 1988, Professioni Intellettuali, 94.
12 Cass., 16 novembre 1988, n. 6220, cit. Dubbi che al contrario possono incidere, in senso positivo per l’imputato, sull’accertamento della responsabilità penale.
13 Cass., 16 novembre 1993, n. 11287, in Rep. Foro it., 1993, Professioni Intellettuali, 115 e 116. Il caso aveva ad oggetto un intervento di colecistectomia.
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determinante che in cartella clinica nulla, proprio nulla, viene detto circa l’esistenza di complicanze di tale gravità da dare luogo alla lesione dello SPE.
3. COLPA PROFESSIONALE, SCHEMI DI RESPONSABILITA’ E REGIME PROBATORIO
Quanto sopra espresso è già di per sé idoneo a dimostrare all’uditorio come sotto un profilo squisitamente giuridico si debba necessariamente addivenire a riconoscere la responsabilità dei convenuti.
Non starò qui a ripercorrere le diverse tappe che hanno condotta all’attuale quadro giuridico, mentre mi sembra opportuno specificare che la presente causa si regge in primis sullo schema della responsabilità contrattuale, sia per quanto riguarda l’azione intrapresa nei confronti dell’azienda convenuta sia sul versante del medico.Con la nota sentenza del 22.1.1999 n. 589 la III Sez. civile della Corte14 ha definito di natura contrattuale la responsabilità del medico dipendente del Servizio Sanitario, “ancorché non fondata su contratto ma sul contatto sociale connotato dall’affidamento che il malato pone nella professionalità dell’esercente una professione protetta”.
Quindi quello che secondo la Cassazione rileva per definire la natura del rapporto non è la fonte dell’obbligazione ma il contenuto del rapporto che inevitabilmente, per quanto obbligatoriamente, si instaura tra il medico ed il paziente arrivando a concludere che anche quando non vi sia un contatto diretto tra i due, pur tuttavia si instaura quel rapporto contrattuale di fatto da semplice contatto sociale.
La Suprema Corte nella sua decisione presupponendo che con la creazione del Servizio Sanitario Nazionale si sia di fatto instaurato tra la struttura statale ed il paziente un contratto vero e proprio che trae origine dalla legge e quindi fa nascere diritti e doveri dalla inadempienza dei quali risulta la
14 Resp. civ. e prev. 1999, 652).
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lesione del diritto soggettivo alla salute, ne deduce e conclude rilevando che la cura che viene prestata dal medico immedesimato organicamente nella struttura ha identica natura contrattuale. In questo caso il rapporto contrattuale da contatto avviene e si perfeziona nel momento stesso in cui di fatto il sanitario presta l’opera che gli è demandata dalla pubblica autorità in favore del malato terzo contraente e destinatario della prestazione stessa.
Seguendo l’insegnamento della Corte, non possiamo quindi che ritenere di natura contrattuale la responsabilità dedotta dall’attrice a carico dei convenuti. Responsabilità che risulterà condizionata, ai sensi dell’art. 1176 c.c., da quel principio di diligenza non più media ma proporzionale alla difficoltà del problema.
Spetterà dunque al paziente provare che l’intervento era di facile o routinaria esecuzione mentre il professionista dovrà dimostrare, per liberarsi dalla responsabilità ascrittagli, di aver adottato la diligenza richiesta in simili casi o che nonostante tutto, per la difficoltà dei problemi, il risultato non era raggiungibile.
In pratica deve ritenersi superata la differenza tra obbligazione di mezzi e obbligazione di risultato, posto che nei casi di interventi di facile esecuzione o routinari, come quello relativo al caso in esame, è la stessa evidenza delle cose che denuncia la negligenza, nel senso che laddove l’intervento è routinario (ed oggi l’ambito è molto più esteso che nel passato) o di facile soluzione (come la maggior parte delle cure o degli interventi chirurgici più comuni), con un risultato per così dire quasi scontato, è facile desumere anche solo dall’oggettività dell’intervento la violazione dei principi di buona norma qualora detto risultato non sia raggiunto15.
Concludendo, nel caso di specie non vi è la dimostrazione di un evento imprevedibile, attesa la routinarietà dell’operazione, né la prova di una condotta impeccabile da parte del sanitario: nulla esclude al di là di ogni ragionevole dubbio che egli non abbia commesso errori e certo a nulla rilevi
15 Si veda in proposito la giurisprudenza che in tema di chirurgia estetica ritiene il risultato come obbligo contrattuale:
T. Roma 14.1.1995; Cass. civ. Sez. II, 8.8.1985 n. 4384; Cass. civ. Sez. II 21.6.83, n. 4245.
11 che eventualmente lo stesso sia stimato all’interno del suo ambiente, poiché la dimostrazione dell’adempimento riguarda ovviamente il caso specifico e non la mera potenziale idoneità dello stesso ad operare diligentemente.
Per inciso si rileva come possano trovare applicazione nel caso di specie, oltre l’art. 1218 c.c., anche le seguenti norme: art. 1228, art. 2043, art. 2049 c.c.
4. RISARCIMENTO DEL DANNO.
Risultando dimostrati, per le ragioni tutte sopra esposte, il danno subito dall’attrice, il “sicuro”
nesso di causalità tra fatto lesivo ed evento dannoso passiamo a delineare quelle che possono essere le singole voci di danno risarcibili.
4.1. Sul danno biologico da invalidità permanente e sul danno esistenziale
Come si è sopra già detto, la misura medico legale del danno biologico da invalidità permanente è stata accertata dal CTP nella misura del 20-25% di I.P.. Ciò significa dunque che non risultano più oggetto di contestazione nella presente controversia né la sussistenza di un danno biologico da I.P., né la sua entità (fattori comunque ampiamente già provati e documentati dall’attore).
Ciò premesso, per la liquidazione di questo danno si rinvia, ai parametri di base applicati dal Tribunale di Milano che si rilevano ad essere quelli più diffusi a livello nazione e, quindi, più idonei a garantire l’esigenza di uniformità di trattamento postulata a partire dall’art. 3 della Carta Costituzionale. In particolare, si suggerisce sulla base di quanto indicato dalla tabelle in euro del Tribunale di Milano per una invalidità del 23 % la somma a punto pari ad € 2.760,81, precisando tuttavia che trattasi di valori incrementabili fino al 50% in relazione alle particolari condizioni riguardanti ciascuna singola fattispecie).
12 Nella specie, la quantificazione del danno biologico, in via necessariamente equitativa (art. 2056 c.c.), dovrà senz’altro tenere in debita considerazione i seguenti fattori:
- - età della vittima e tipologia delle lesioni: l’attrice è una donna nel pieno della propria vita
sia fisica che lavorativa
- - impedimento allo svolgimento di attività ludiche e del tempo libero (danno
esistenziale): le lesioni riportate dalla vittima incidono senza ombra di dubbio sulle qualità di vita della danneggiata sia per quanto attiene le attività ludiche che il tempo libero: siffatto stato di incapacità della vittima determina nella stessa una notevole alterazione della sua personalità ed esistenza;
- - danno alla capacità lavorativa generica: come più volte rilevato dalla stessa Cassazione,
questa voce di danno, da considerarsi come lesione del generico modo di essere del soggetto, va ricompresa nel danno biologico ed incide sulla quantificazione dello stesso (Cass., 20 gennaio 1997, n. 535, in Resp. Civ. Prev., 1998, 154): la danneggiata, per il tipo di lesioni riportate, incontrerà sicuramente maggiori difficoltà a svolgere lavori quali quelli precedentemente effettuati e sarà comunque soggetta a maggiore usura.
A fronte di questi dati e della necessaria personalizzazione del parametro monetario di base, si suggerisce per la quantificazione del danno biologico la somma di € 3000 a punto.
Si rileva che questa somma risulta già comprensiva dell’alterazione esistenziale subita dall’attrice, essendo noto che il danno biologico abbraccia tutti i risvolti della lesione sulla vita del danneggiato.
L’Ill.mo Tribunale potrà tuttavia decidere di liquidare il danno esistenziale separatamente dal danno biologico, attribuendo dunque autonomo rilievo al pregiudizio incidente sulla personalità della vittima.
Si tratta questa di un’alternativa in tutto e per tutto percorribile in quanto ciò che conta è che vi sia una personalizzazione del danno quindi il danno esistenziale come danno biologico dinamico.
13 E’ chiaro che, attese queste funzioni, il danno esistenziale andrà liquidato nella misura sopra individuata per una migliore personalizzazione del danno biologico.
Sulla risarcibilità del danno esistenziale ormai si registra del resto un ampio novero di sentenze sia di merito che di Cassazione: App. Milano, 6 dicembre 2001, n. 2444 (danno esistenziale da immissioni acustiche rumorose); App. Torino, 4 ottobre 2001, n. 1285, Rel. Spagnoli, in Danno e responsabilità, 2002, con nota di BONA (danno da uccisione del congiunto); Trib. Pisa, 3 ottobre 2001, G.U. Nisticò, ined. (danno esistenziale da molestie sessuali sul lavoro); Trib. Gorizia, 24 settembre 2001, n. 446, ined. (danno esistenziale dei condomini da inquinamento olfattivo da felini); Trib. Bergamo, Sez. I, 22 settembre 2001, n. 2255, G.U., Saracino, ined. (sempre in tema di danno dei congiunti in un caso di trasfusione di sangue infetto e conseguente contrazione del virus HIV); G.d.P. Sora, 22 agosto 2001, ined. (danno esistenziale da limitazione delle ordinarie occupazioni del vivere, derivante da distorsione del rachide cervicale); Cass., sez. lav., 3 luglio 2001, n. 9009, ined.; Trib. Pistoia, sez. lav., 19 giugno 2001, G.U. Amato, ined. (danno esistenziale subito dal lavoratore per illegittima assegnazione di incarico); Trib. Palermo, III sez., 8 giugno 2001, G.U. De Gregorio, in Giur. It., 2002, con nota di BONA (sul danno da uccisione risarcibile iure proprio); Trib. Agrigento, Sez. Pen., 4 giugno 2001, Pres. Angello, Est. Malato, in Giur. It., 2002, con nota di BONA (danno esistenziale dei congiunti di una ragazza violentata sessualmente);
Trib. Vibo Valentia, Sez. Distaccata di Tropea, 28 maggio 2001, n. 47, G.U. Cricenti, in Danno e responsabilità, 2001, 1095 (in tema di danno da perdita della vita risarcibile iure successionis, qualificato appunto come danno esistenziale iure successionis); Trib. Torino, sez. lav., 18 aprile 2001, n. 1618, G.U. Sanlorenzo, ined. (danno da demansionamento professionale); G.d.P. Torino, 21 marzo 2001, n. 1229, Giud. Falchi, ined. (danno esistenziale da perdita dell’autovettura); G.d.P.
Bologna, 18 marzo 2001, Giud. Camerani, in CASSANO, La prima giurisprudenza del danno esistenziale, Piacenza, 2002, 353; Trib. Milano, sez. XII, 15 marzo 2001, G.U. Chindemi, in
14 Giurisprudenza milanese, 2001, 344 (danno esistenziale da ingiurie e minacce perpetrate dall’ex fidanzato); Trib. Forlì, 15 marzo 2001, G.U. Sorgi, in Resp. Civ. Prev., 2001, 1018, con nota di ZIVIZ; G.d.P. Bologna, 8 febbraio 2001, Giud. Camerani, in Danno e responsabilità, 2001, 981, con nota di BONA e CASTELNUOVO (danno esistenziale da condotta illecita della P.A.); G.d.P. Sora, 30 dicembre 2000, Est. Costantini, in Arch. Giur. Circolaz. Sin. Strad., 2001, 756 (danno esistenziale a bambino per forzata privazione del consueto svago giornaliero); Trib. Locri, Sez. distaccata di Siderno, 6 ottobre 2000, in Giur. It., 2001, con nota di BONA (danno da wrongful birth); Trib.
Torino, sez. IV, 28 giugno 2000, est. Damiano, ined. (danno dei congiunti per morte della vittima principale); Trib. Milano, Sez. XII, 15 giugno 2000, G.U. Chindemi, in Giur. It., 2002, con nota di BONA (danno esistenziale conseguente a crollo di palazzina per fuoriuscita di gas metano); Trib.
Milano, 8 giugno 2000, in Resp. Civ. Prev., 2000, 923, con nota di ZIVIZ (danno esistenziale illegittimo protesto); Cass., Sez. I, 7 giugno 2000, n. 7713, in Giur. It., 2000, 1352, con nota di PIZZETTI, in Danno e responsabilità, 2000, 835, con note di MONATERI e PONZANELLI; Trib.
Milano, 21-10-1999, in Resp. Civ. prev., 1999, 1335, con nota di ZIVIZ; G.d.P. Casamassima, 10 giugno 1999, Est. Stasi, in Danno e responsabilità, 2000, 89, con nota di BONA, in Resp. Civ. prev., 1999, 1335, con nota di ZIVIZ; Trib. Milano, 20 ottobre 1997, in Danno e responsabilità, 1999, 82, con nota di BONA (danno da perdita del frutto del concepimento); Trib. Verona, 26 febbraio 1996, in Dir. Informazione e informatica, 1997, 1436 (danno all’immagine); Trib. Torino, 8 agosto 1995, in Resp. Civ. prev., 1996, 282, con nota di ZIVIZ (danno ai congiunti).
4.2. Danno biologico da invalidità temporanea
Il consulente di parte, ha così individuato il danno biologico da invalidità temporanea:
I.T.T.: 20 giorni;
I.T.P. max al 50%: 70 giorni;
15 Per la liquidazione di questa voce di danno si rinvia ai parametri individuati dalla giurisprudenza (ad esempio, cfr. Tribunale di Torino, aprile 2002: I.T.T.: 50 euro in stato di ricovero, 40 euro;
I.T.P. max: 20 euro; I.T.P. min: L. 10 euro). Si rileva tuttavia che particolare rilievo andrà attribuito in sede di quantificazione alle difficoltà che la vittima ha dovuto fronteggiare in basilari attività della vita quotidiana quale deambulare. Conseguentemente, sempre in via indicativa, si suggerisce di quantificare il danno in questione nel seguente modo:
- - danno biologico da I.T.T. nella misura di L. 100 mila a giorno, e cioè: 51,65 euro x 20
giorni;
- - danno biologico da I.T.P. max nella misura di L. 50 mila al giorno, e cioè: 25,82 euro x
70 giorni - -
4.3. Danno morale da I.T. e da I.P.
Senz’altro risarcibile è altresì il danno morale relativo alle sofferenze, ai patimenti ed allo stress, che l’attrice ha provato in conseguenza della lesione della sua integrità psicofisica.
Per la liquidazione di questa voce di danno si rinvia ai consueti criteri adottati dalla giurisprudenza e si suggerisce una quantificazione del danno morale nella misura di ½ di quanto corrisposto a titolo di danno biologico da I.P. e da I.T. Si ricorda tuttavia in questa sede come si debba comunque fare luogo alla liquidazione in via equitativa, e pertanto il c.d. “criterio della proporzionalità”, che vede il danno morale normalmente quantificato in una proporzione di quanto liquidato a titolo di danno biologico, non possa essere applicato in modo rigido.
4.4. Danni patrimoniali- Spese mediche
16 Dovranno essere risarcite tutte le spese mediche così come documentate mediante la produzione in causa delle relative ricevute fiscali in quanto necessarie per le cure mediche indispensabili alla migliore guarigione possibile.
Tale tipo di comportamento, oltre che a perseguire il bene salute del lesionato, bene di primaria, fondamentale, nonché costituzionalmente garantita importanza per ciascun uomo, è l’espressione inoltre della diligente condotta del creditore che ha fatto tutto quanto in suo possesso per emendare il più possibile il danno patito e conseguentemente per limitare l’entità dell’obbligazione risarcitoria dovutale. Sarebbe dunque profondamente ingiusto ridurre la somma spesa a titolo di cura dall’attrice, la quale si vedrebbe spogliata di somme dovutegli sulla base non solo del diritto ma anche del più comune senso di giustizia. Non v’è chi non veda infatti che l’assunzione di medicinali e l’espletamento di costose terapie così specifiche non siano immediata e diretta conseguenza del danno riportato nel sinistro per fatto e colpa esclusivi del convenuto. Si richiede pertanto la liquidazione integrale della somma richiesta già in atto di citazione e peraltro non ex adverso contestata.
4.5. Visita, assistenza e consulenza medico-legale
A carico della società convenuta deve essere posta infine la somma di L. 300.000, pari a 154,95 euro, a titolo di rimborso della spesa sostenuta dall’attore per lo svolgimento ante causam della perizia medico-legale, poiché la stessa è da ritenersi spesa processuale ripetibile ai sensi dell’art. 91 c.p.c. in quanto espressamente predisposta per essere utilizzata come allegazione difensiva (in questo senso Trib. Torino, n. 7449/97, Cortassa c. Ditta M.B.).
4.6. Danno patrimoniale futuro
17 Occorre poi considerare il danno patrimoniale futuro da decremento della capacità lavorativa specifica e da diminuzione della capacità concorrenziale sul mercato del lavoro. Infatti, il CTP ha messo in luce l’incidenza del danno fisico subito da parte attrice “in misura significativa anche durante l’espletamento dell’attività lavorativa, rendendo la stessa particolarmente gravose ed usurante, situazione questa che, al pari, deve essere oggetto di specifica azione risarcitoria”.
Questa incidenza sull’attività lavorativa di parte attrice e sulla sua capacità concorrenziale nel mondo del lavoro configura un danno autonomo, non essendo riconducibile all’interno del danno biologico, in quanto, sin dalla nota sentenza della Corte costituzionale in Repetto c. A.M.T. di Genova (Corte cost., 14 luglio 1986, n. 184), il sistema risarcitorio italiano si è assestato sulla netta distinzione tra la sfera patrimoniale e la sfera degli altri aspetti non reddituali della persona (all’interno della quale si colloca il danno biologico).
La stessa Cassazione ha più volte ribadito questa impostazione. Ad esempio, in Petrivelli c. Soc.
Firs Assicuraz. (Cass., 1 dicembre 1994, n. 10269, in Riv. Giur. Cirolaz. e Trasp., 1995, 332) e in Soc. Riad c. Rocco (Cass., 16 aprile 1996, n. 3565, in Riv. Giur. Cirolaz. e Trasp., 1996, 767) la Suprema corte ha sottolineato come il danno biologico si riferisce al bene salute (art. 32 Cost.) a prescindere da qualsiasi conseguenza sulla capacità della vittima di produrre reddito, mentre il danno patrimoniale è da collegarsi al diverso interesse del soggetto leso di non avere diminuito il proprio patrimonio materiale (distinzione peraltro più volte confermata nella sua validità dalla dottrina: ad esempio, Monateri e Bona, Il danno alla persona, Padova, 1998, 217 e Bile, Criteri di liquidazione del danno da compromissione del reddito, in Danno e responsabilità, 1998, 19 ss.).
Ciò chiarito in merito all’impossibilità di ricondurre il danno patrimoniale in questione nell’ambito del danno biologico, si deve ora osservare come nella specie ricorrano tutti i presupposti per risarcire, in via autonoma, il pregiudizio in esame.
18 Per quanto inerisce la prova di siffatto pregiudizio si rileva che, se per il danno patrimoniale da riduzione della capacità lavorativa riferito al periodo già intercorso tra l’evento lesivo e la decisione si può ragionare in termini di una dimostrazione più rigorosa della perdita verificatasi, nell’ipotesi invece, in cui - come nella fattispecie in esame - la riduzione della capacità lavorativa specifica riguardi soprattutto il futuro (il disagio e la maggior affaticabilità andranno senz’altro incrementandosi con il trascorrere del tempo ed è nel futuro che si registreranno perdite patrimoniali), è inevitabile un’indagine di tipo probabilistico. In particolare, si deve ritenere che sia sufficiente che chi agisce provi che dall’evento lesivo, secondo la regolarità e la normalità del rapporto causale, egli subirà dei riflessi sul piano della capacità specifica di produrre reddito.
Questa impostazione è stata confermata a chiare lettere anche dalla Suprema corte in Mastropietro e altri c. Società Pinton (Cass., 20 gennaio 1987, n. 495, in Mass. Foro it., 1987): “per la risarcibilità del danno patrimoniale futuro è sufficiente la prova che il danno si produrrà secondo una ragionevole e fondata attendibilità, non potendosi pretendere l’assoluta certezza”.
Secondo l’insegnamento della Cassazione (peraltro già delineato in altre decisioni: Cass., 14ottobre 1986, n. 6029, in Mass. Foro it., 1986; Cass.,15 dicembre 1981, n. 6630, in Mass. Foro it., 1981) la vittima può in pratica offrire la prova anche per presunzioni, facendo dunque riferimento ad un insieme variegato di dati, tra i quali l’età, le proprie attitudini, esperienze, qualità professionali, lo specifico lavoro svolto e il tipo di sforzo fisico e/o psichico richiesti dallo stesso.
Sempre la Cassazione ha rilevato come in fondo si debba fare ricorso all’id quod plerumque accidit (Cass., 22 gennaio 1982, n. 442, in Mass. Foro it., 1982) e ancora recentemente la Cassazione è ritornata a ribadire questi elementari concetti in Gliosci c. SIAD S.p.A. (Cass., 21 aprile 1999, n.
3961, inedita), affermando che il danneggiato può avvalersi anche delle presunzioni semplici.
Nella specie, il danno patrimoniale subito dall’attrice deve ritenersi ampiamente provato: si deve infatti tenere conto del fatto che già oggi, come rilevato dallo stesso CTP, l’attrice accusi difficoltà
19 deambulatorie. Peraltro, secondo l’id quod plerumque accidit, siffatto disagio non solo continuerà a persistere (del resto, la vittima ha subito un danno biologico permanente), ma andrà aumentando con il trascorrere degli anni.
Parte attrice necessiterà quindi sempre di più di periodi di riposo e avrà ridotta la sua disponibilità ad effettuare straordinari, con riflessi dunque sulla sua capacità di produrre reddito o comunque conseguire i premi solitamente riconosciuti dai contratti collettivi.
Provata dunque con i mezzi appena richiamati la lesione della capacità lavorativa specifica futura, il problema successivo è quello di liquidare il danno, ma è chiaro che l’unica via è quella equitativa ex art. 1226 c.c. e l’attrice non può altro che suggerire al giudice un criterio di liquidazione fondato su tale principio, cosicché si indica, anche per non incorrere in eccezioni processuali in punto omessa quantificazione, la somma di € 4.000,00 per ogni anno di attività lavorativa futura.
5. Rivalutazione e interessi
Resta fermo, infine, il fatto che le somme tutte dovute di cui sopra, comunque quantificate, dovranno essere gravate di rivalutazione e interessi al tasso legale, ricorrendo nella fattispecie gli estremi di cui all’art. 1224 c.c., evidenziata in ogni caso la circostanza che proprio all’attualità il fenomeno inflazionistico torna ad acquistare una certa rilevanza (il fatto è notorio).