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364/2014 Hegel dopo la morte dell’arte Postcoloniale e revisione dei saperi

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364

ottobre dicembre 2014

HEGEL DOPO LA MORTE DELL’ARTE

a cura di Francesco Valagussa e Raoul Kirchmayr Hans Blumenberg Non-serietà come qualità

storica 7

Raoul Kirchmayr Il regno delle ombre. Arte

e spettralità nell’Estetica di Hegel 15 Francesco Valagussa La commedia e il negativo 47 Leonardo Amoroso Hegel, Heidegger e la storia

dell’estetica 63

Fabrizio Desideri Hegel e l’opaca origine dell’arte 75 Federico Vercellone Il nichilismo e le nuove

forme dell’immaginario tardo-moderno 91 Vincenzo Vitiello “Svanire è dunque la ventura

delle venture”? Sulla filosofia estetica

di Hegel 103

Massimo Donà La “cosa” dell’arte. Sul rapporto tra agire e patire nell’estetica hegeliana 119 POSTCOLONIALE E REVISIONE DEI SAPERI a cura di Annalisa Oboe

Annalisa Oboe Saperi in transito 137 Iain Chambers La sfida postcoloniale, l’Italia

e il Mediterraneo 147

Roberto Derobertis La critica italiana tra

narrazioni, pratiche sociali e culturali 153 Emanuele Zinato Teoria e critica della letteratura

in Italia: sollecitazioni e rischi postcoloniali 160 Davide Zoletto Verso una rilettura postcoloniale

dei luoghi dell’educazione 167 Farah Polato Il cinema, il postcoloniale e il nuovo

millennio nel panorama italiano 173 Roberto Beneduce Il rumore sordo del

sottosuolo. Per un’antropologia

postcoloniale 183

POST

Petar Bojanic´, Damiano Cantone Jacques

Derrida. Lascito delle decostruzioni 195

(2)

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto,

Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Pierangelo Di Vittorio,

Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto

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Finito di stampare nel dicembre 2014

(3)

3

Hegel dopo la morte dell’arte

L a recente ripresa dell’attenzione per l’Este- tica di Hegel nel dibattito attuale ha fornito l’occasione per ritornare su un testo fon- dativo nella storia del pensiero e che, al di là del tramonto degli storicismi, non smette di offrire motivi e temi di discussione, a partire dall’ambigua diagnosi di “morte dell’arte” con cui si è sovente fatta coincidere la posizione filosofica di Hegel. Il tema della “morte dell’arte” rappresenta di per sé un filo conduttore per tornare a riflettere sul motivo filosofico della “fine”, in un tornante storico come quello attuale, nel quale, dagli anni novanta, una certa retorica della “fine” si è presentata nuovamente sulla scena del dibattito pubblico, filosofico e politico, in certi casi anche in modo massiccio.

Riprendere a esaminare la sintassi del discorso hegeliano

in merito all’arte può comportare due vantaggi: il primo, nella

prospettiva della comprensione di Hegel, consiste nel mostrare

come appaia più che controverso leggere l’Estetica secondo una

retorica della fine di cui occorre saggiare le implicazioni filosofi-

che e ideologiche, con particolare attenzione agli effetti che essa

ha prodotto; il secondo, nella prospettiva di un impiego critico di

Hegel, contribuisce a mettere in luce quanto di surrettizio e di

ideologico vi sia nella costruzione di tale retorica, che non smette

di riprodursi, di circolare nella sfera pubblica e di governare ancora

buona parte dei nostri discorsi. Così, da un lato, i saggi di questo

fascicolo mirano a continuare un percorso di analisi del testo

(4)

4

hegeliano che combatte con la scolastica delle formule con cui è stato spesso cristallizzato e, dall’altro, grazie al ritorno a Hegel, puntano a riconoscere le forme in cui si riproduce la sintassi della

“fine” e la “logica” che la struttura, collegandole in pari tempo alla nostra esperienza culturale di soggetti storici.

Non si tratta allora di rileggere Hegel solo come un classico del canone filosofico moderno, com’è scontato che sia, ma di esamina- re quali ulteriori risorse discorsive possano essere ritrovate nel suo testo alla luce dell’attuale quadro storico e culturale che – segnato da una crisi perdurante – della parola “fine” ha fatto appunto uno dei suoi emblemi. Se il dispositivo linguistico-ideologico della

“fine” contrappone apparentemente il “nuovo” e il “giovane” al

“vecchio”, così come il “vivo” al “morto”, può dunque essere un efficace atout critico analizzarlo a partire da Hegel e dalla sua Este- tica, nella quale i temi dello storico, del patetico, del tragico e del comico forniscono altrettante “figure” con cui possiamo pensare il nostro quadro odierno, dove il “nuovo” si mescola al “vecchio”

e il “vecchio” si presenta con il volto del “nuovo”, senza che sia facile né agevole distinguere i tratti dell’uno da quelli dell’altro.

Oltre a essere un insuperato tentativo di conferimento di senso

storico universale all’arte, l’Estetica di Hegel è tanto un campo di

analisi delle forme sensibili nelle quali le forze storiche si rendono

visibili, quanto l’ambito di un contro-movimento con cui il pensie-

ro stabilisce un rapporto con quelle forze, nella sfera del concetto

e in nome della conciliazione. Se l’Estetica hegeliana trova qui il

suo senso, da qui si può anche far ripartire l’analisi affinché l’e-

stetica possa rivendicare un ruolo critico nella comprensione dei

processi attuali di costruzione della dimensione culturale, miran-

do a evidenziare la dissonanza e la divergenza che l’arte produce

rispetto al discorso che le viene cucito addosso. Così, rispetto al

grande archivio di ciò che è stato detto e scritto sull’Estetica di

Hegel, all’accumulo delle note a piè di pagina e delle glosse al testo,

rileggere Hegel ci può forse portare a riconoscere – al netto della

dimensione ideologica del suo progetto filosofico – una straordi-

naria riserva e un’eccedenza di senso con cui possiamo provare a

intessere un altro discorso rispetto a quello che vuole sì riconoscere

(5)

5

l’arte (e, con essa, pure il discorso filosofico sull’arte), ma come forma addomesticata di un dissenso semplicemente rappresentato, sostituendo dunque il proprio progetto di controllo a un progetto di emancipazione che passa attraverso la dimensione del sensibile.

È in nome di quest’ultimo che abbiamo ritenuto fosse importante

rilanciare la posta critica in gioco. [R.K., F.V.]

(6)

Archivio Enzo Paci

A oltre trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per fa- vorire altri studi. Nello stesso tempo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca.

L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati.

Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo per- tanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente.

L’indirizzo al quale inviare il materiale è:

Archivio Enzo Paci via Beato Angelico 5 20133 Milano

Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche

il proprio recapito.

(7)

7

aut aut, 364, 2014, 7-13

Non-serietà come qualità storica

HANS BLUMENBERG

L a filosofia può essere la riserva del non- serio? E dunque lo sgravarsi dell’esserci dell’uomo da quello stato di eccezione che si è autoprescritto, nel quale non può più o non può ancora prendere fiato, né in chiave lirica, né culinaria, né attraverso il comico, né tramite l’istante dell’essere-impolitico?

La risposta di Marquard

1

a questa domanda è affermativa. Ma la motivazione di questa risposta affermativa mi sembra essere la seguente: la storia può esserlo, dunque deve esserlo.

E perché dovrebbe esserlo? Perché altrimenti niente e nessuno potrebbe più esserlo.

La motivazione mi sembra dipendere da un presupposto che non mi piace.

Per un hegeliano una cosa è passata in giudicato: se qualcosa è morto, allora è defunto.

A partire da questa premessa sorge il complesso della filosofia come l’ultimo rifugio del non-serio. Essa è la sopravvissuta.

La filosofia è tutto questo ma soltanto perché l’arte non può

Fonte originale: H. Blumenberg, “Unernst als geschichtliche Qualität”, in Poetik und Hermeneutik, a cura di W. Preisendanz e R. Warning, Fink, München 1976, vol.

VII

: Das Komische, pp. 441-444. Si è deciso di tradurre il termine Unernst mediante l’espressione

“Non-serietà”, non essendo possibile rendere in un’unica parola tutte le sfumature dell’ori- ginale tedesco.

1. Verosimilmente Blumenberg si riferisce alle tesi esposte in O. Marquard, Schwierig-

keiten mit der Geschichtsphilosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1973. [N.d.C.]

(8)

8

più esserlo. Non lo è più – forse. Ma perché non può più esserlo?

A causa del verdetto hegeliano.

L’hegeliano non si è svincolato dalla fine di questo e di quello.

Egli sa soltanto questo, che dopo la filosofia non viene nient’altro.

A essa bisogna attenersi, anche di fronte alla più grande apatia.

L’arte, in quanto fatta per assumere tutte le manifestazioni del non-serio, è giunta alla fine con la serietà della spiritualizzazione del corpo tipica del cristianesimo – o anche un filo più tardi. Tut- to ciò non può essere provvisorio, dev’essere definitivo, tocca al prossimo – ovvero proprio all’immortale filosofia (il filosofico in quanto ultima e sublime astuzia della ragione!).

L’hegeliano non può considerare possibile – non può più far- lo infatti – che si diano degli intermezzi comici nella storia, per esempio degli intermezzi escatologici (quale frivola contradictio in adjecto!). Una fase dell’apatia nei confronti dell’arte, o meglio, possibilità artistiche creative, come interim, come pausa di respi- ro, questo è ciò che è intollerabile per il filosofo della storia di ascendenza hegeliana.

Da ciò la filosofia riceve la sua chance di natura totalmente diversa, benché sia la felicità al posto di tutte le felicità che giac- ciono inermi, la più inverosimile di tutte le chance – ma essa può e dunque essa deve.

Ciò accade assolutamente contro tutte le attese. Nella sua storia la filosofia ha operato non in maniera costante, ma a sbalzi, nell’incremento della serietà. Perché? Perché essa ha reso sempre più pesante di quanto già non fosse non soltanto, per esempio, possedere delle conoscenze, ma anche voler conoscere come esse fossero possibili e quale grado di attendibilità avessero. La filosofia si è sempre pensata entro condizioni limite, ha sempre riflettuto su situazioni limite date, intendo dire di fronte a tutte le situazioni limite epocali.

Un criterio, piuttosto formale, e generico quanto al contenuto,

rispetto a ogni cambiamento epocale sembra essere che questa

svolta è connessa con la coscienza di una nuova serietà. La totalità

degli atteggiamenti, delle concezioni e delle azioni del passato viene

stigmatizzata come indice di una certa spensieratezza – non era

(9)

15

aut aut, 364, 2014, 15-45

Il regno delle ombre. Arte e spettralità nell’Estetica di Hegel

RAOUL KIRCHMAYR

1. Rileggere l’ Estetica?

È possibile dire che l’arte è morta? È ancora possibile dirlo quando il Sapere Assoluto, se ne resta qualcosa, è svanito con il suo ultimo rintocco funebre? Hegel, letteralmente, non ha mai pronunciato un simile decreto,

1

tuttavia il motivo della morte dell’arte si è co- stantemente intrecciato a un’ideologia della fine che si è presentata come prognosi dell’Occidente, nei termini della descrizione di un avvenuto declino di cui era necessario riconoscere i segni, oppu- re, ottimisticamente, come segno che ha sancito il compiersi di un’epoca, disigillandone la verità. Nel peggiore dei casi, associare il motivo della morte dell’arte all’estetica di Hegel è diventato un locus communis conservatore, in nome di un senso dell’arte che sarebbe andato perduto con la crisi del nostro tempo. Nel migliore, tale motivo è diventato occasione per riflettere sull’incerto statuto dell’arte oggi e sulle discipline che si sono legittimate come saperi sull’arte in nome di un discorso che si vuole scientifico, in primis la storia dell’arte così come, più recentemente, la semiotica, la cui fortunata parabola si è ormai esaurita.

In entrambi i casi non è interessante affaticarsi nel gesto, ancora crociano, di distinguere ciò che è vivo da ciò che è morto nell’Este-

1. Nelle citazioni faremo riferimento alle due principali edizioni italiane dell’opera, quella Einaudi, curata da Nicolao Merker (Estetica, Einaudi, Torino 1967 e 1997, 2 voll.) e quella, più recente, Bompiani, curata da Francesco Valagussa (Estetica, secondo l’edizione di H.G. Hotho, con le varianti delle lezioni del 1820/21, 1823, 1826, Bompiani, Milano 2012, con testo originale a fronte). Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., Bompiani, pp. 170-171;

Einaudi, vol.

I

, p. 16.

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16

tica, o di compiere un’operazione di riattualizzazione di cui non si avverte culturalmente la necessità, mossi da intenti ancorché nobili – come la salvaguardia del canone filosofico – oppure di museifi- care Hegel per un qualsiasi motivo – come, ad esempio, per una capitalizzazione simbolica giocata sul suo nome come significante padrone. Allora quale sarebbe la posta in gioco di un’altra lettura dell’Estetica di Hegel, posto che quest’altra lettura sia possibile?

Qualora si fosse scelto di avventurarsi in essa, con quali protocolli di lettura? In termini più generali di strategia culturale, in nome di quali battaglie può essere condotta una rilettura di Hegel? Su quale fronte ci si dovrà collocare? Per affermare che cosa?

In via programmatica mi limito qui a enunciare per punti al- cuni elementi di una lettura che possa cogliere ancora dei “resti”

testuali: resistenze all’interpretazione che facciano ancora emer- gere dei problemi da pensare. Il primo elemento è un orecchio filosofico che possa cogliere delle eccedenze di senso nel testo, svincolandolo così da un’interpretazione pregiudicata da una lunga tradizione canonizzante. Il secondo elemento vede in un close-reading del testo la strategia ermeneutica adatta a cogliere le eccedenze criptate in esso. Il terzo si rifà alla psicoanalisi come attenzione agli effetti di codice che il discorso hegeliano produce in termini di ambiguità, Unheimlichkeit, doppiezza, aporeticità ecc. Con questi tre elementi, che assumeremo come protocolli di lettura, da un lato non potremo che leggere il testo dell’Estetica in modo fedele.

2

Dall’altro lato sarà indispensabile rivendicare una certa qual infedeltà al testo, per tentare di non sprofondarlo ulteriormente nell’archivio delle pur necessarie analisi storiche e filologiche. Così seguiremo il movimento del pendolo tra la fedeltà e l’infedeltà al testo in alcuni suoi punti, molto circoscritti. Non saremo noi a muovere il pendolo ma, curiosamente, potremo forse

2. Il testo dell’Estetica nacque già pluristratificato e, da sé, richiederebbe un’ulteriore

incorniciatura quanto alla sua storia, alla sua composizione a partire dalle Lezioni di estetica,

alla sua rapida canonizzazione filosofica per mano di Hotho. Su questi punti relativi alla

storia del testo, rimando a F. Valagussa, “Saggio introduttivo”, in G.W.F. Hegel, Estetica,

cit., Bompiani, specie le pp. 9-17; utili sono pure le pagine introduttive di P. D’Angelo a

G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, Laterza, Roma-Bari 2000, pp.

VI

-

XXXVI

.

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17

notare che sarà il testo stesso a oscillare, divenendo così esso stesso la condizione di possibilità di un’altra lettura.

2. Il “regno delle ombre”

Partiamo da una prima oscillazione: si tratta di una parola compo- sta che si presenta tre volte nell’Estetica, con una piccola variazione tra la prima e la seconda occorrenza. Ogni volta Hegel indica l’ambito dell’arte nel suo complesso, e sempre si tratta di ombre (Schatten). Il primo termine a comparire è Schattenreich (“regno delle ombre”), il secondo è Schattenwelt (“mondo delle ombre”).

3

Nel primo caso la parola non solo allude al poema di Schiller in- titolato Das Reich der Schatten, che Hegel, per inciso, ricorda in un’altra pagina dell’Estetica,

4

ma essa designa soprattutto l’arte nel senso di un “dominio” (Reich) che si estende tra la sfera del sensibile e quella dell’intelligibile e che, per sistema, Hegel giudica appartenere al passato quanto al suo compito di manifestare una verità universale e oggettiva. Così, nel sistema hegeliano, l’arte è contemporaneamente il primo ambito del Sapere Assoluto e il passaggio tra il sensibile e l’intelligibile. Nel secondo caso si tratta di un “mondo” (Welt) come totalità che si è compiuta nella sua dimensione storica. Il mondo dell’arte è infatti il primo circolo che si chiude nel processo di costruzione del Sapere Assoluto. Nel momento in cui, compiendosi nel romantico, l’arte si chiude su di sé, essa ha esaurito il suo compito storico.

Soffermiamoci sul carattere del Reich come passaggio, per de- scriverne il movimento. Nella dialettica hegeliana il transito dal sensibile all’intelligibile – che è lo specifico dell’arte – corrisponde a un duplice movimento inverso: il sensibile si eleva nell’intelli- gibile e l’intelligibile discende nel sensibile. Al centro di questo incrocio tra i due movimenti si trova il sensibile stesso in quanto luogo della manifestazione dell’Idea. Tuttavia, il sensibile come pivot del doppio movimento incrociato può e deve essere definito

3. In entrambi i casi le traduzioni dell’edizione Einaudi dell’Estetica e dell’edizione Bompiani coincidono.

4. Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., Bompiani, pp. 2714-2715; Einaudi, vol.

II

, p. 1282.

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47

aut aut, 364, 2014, 47-61

La commedia e il negativo

FRANCESCO VALAGUSSA

. La commedia è il risultato dell’arte. Questo risultato è il benessere (Wohlsein). Il cielo è spopolato,

1

le rappresentazioni delle essenze divine svaniscono nelle nuvole.

2

Il Bello e il Bene sono vuoti e in balia dell’arbitrio individuale.

3

Nel Sé singolare dileguano gli dèi e tutte le determinazioni essenziali. In quell’istante ha luogo “un benessere, un lasciarsi andare al benessere da parte della coscien- za, un benessere tale che al di fuori di questa commedia non se ne trova più uno simile”.

4

Con queste parole si conclude la religione artistica nella Feno- menologia dello spirito e con le seguenti si apre la religione rivelata:

“Mediante la religione dell’arte, lo Spirito è passato dalla forma della sostanza a quella del soggetto”.

5

Si tratta dell’obiettivo dichia- rato da Hegel nella Vorrede: intendere il vero non come sostanza ma altrettanto bene (ebensosehr) come soggetto.

6

Il benessere è la sensazione di pienezza dell’essere in quanto superamento della scissione fondamentale tra pensare ed essere,

1. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807), in Werke, a cura di E. Molden- hauer e H.K. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1970, vol.

III

, p. 540; trad. di V. Cicero, Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2001

2

, p. 973.

2. Cfr. ivi, p. 543; trad. p. 977: “Sono nuvole, sono fumo che sparisce allo stesso modo di quelle rappresentazioni”.

3. Cfr. ivi, p. 544; trad. p. 979.

4. Ibidem.

5. Ivi, p. 545; trad. p. 981.

6. Cfr. ivi, p. 23; trad. p. 67.

Dieses Verweilen ist die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt.

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48

tra soggetto e oggetto: tale benessere preannuncia il giudizio infi- nito “la cosa è Io”,

7

dove la cosa è rimossa e conservata in quanto rimossa, poiché sussiste soltanto nel suo rapporto verso Io. Questo è il senso della proposizione speculativa, dove la sostanza non è annullata, ma restaurata solo mediante Io e il suo rapporto verso Io.

8

La cosa qui è pura utilità. Il “vero” non è più contenuto da comprendere, morta sostanza da contemplare, ma è movimento dell’autocoscienza che si sacrifica e produce la verità, la sostanza in quanto soggetto. L’arte assoluta è l’attività in cui lo Spirito ha esaurito “ogni esistenza inconscia e ogni determinazione salda”: è

“la notte in cui la sostanza fu tradita e si fece soggetto”.

9

2. Già nella Fenomenologia dello spirito si dice che l’unità tra la cosa e l’io non è più quella inconscia dei misteri: a conclusione della religione artistica “il Sé coincide con il personaggio così come coincide con lo spettatore”.

10

Questo spettatore si trova perfetta- mente a suo agio, è “di casa” sul palcoscenico: l’azione scenica non viene avvertita come oggetto esterno, è il suo stesso agire.

Nella grande Estetica si leggono parole non molto diverse: “Noi stessi come spettatori partecipiamo al segreto e, ben sicuri di noi dinnanzi a ogni astuzia e ad ogni inganno, spesso condotto molto seriamente contro il migliore dei padri o degli zii, ecc., possiamo ridere di ogni contraddizione che in questi imbrogli c’è in se stessa o viene alla luce”.

11

È il servo che mette al corrente il pubblico dei suoi intrighi: così cade l’illusione scenica, lo spazio che intercorre tra soggetto e oggetto, la cosa è Io e lo spirito ne gode.

Gode perché tutte le contraddizioni della cosa sono superate:

non perché queste scompaiano, piuttosto perché il Sé si rende conto di esserne stato lui stesso il produttore. Il vero non è so- stanza già data, bensì movimento del soggetto produttore. “Das

7. Cfr. ivi, p. 577; trad. p. 1039.

8. Cfr. ibidem.

9. Ivi, p. 514; trad. p. 929.

10. Cfr. ivi, p. 544; trad. p. 979.

11. Id., Ästhetik (1838), in Werke, cit., vol.

XV

, p. 571; trad. a cura di N. Merker e N.

Vaccaro, Estetica, Einaudi, Torino 1997, vol.

II

, p. 1379.

(14)

49

Werk nicht als Tat getan, sondern als gedachtes Resultat.”

12

Il be- nessere è la rassicurazione dello spirito certo della propria verità:

un produrre per sé. Tale condizione coincide con la dissoluzione dell’arte, di ogni forma, figura e rappresentazione. Dove cosa e Io si congiungono non vi può essere più alcuna Dar-stellung, alcuna ri-presentazione. È lo spazio scenico a essere inghiottito dal Sé in quanto pura negatività. La notte in cui la sostanza si fa soggetto è superamento di ogni determinatezza sostanziale.

3. Bataille sarebbe tornato su queste pagine capitali dell’estetica hegeliana, mostrando come la commedia sia innanzitutto e soprat- tutto rapporto con la morte, con il sacrificio stesso: “Nel sacrificio, il sacrificante si identifica con l’animale messo a morte. In questo modo egli muore vedendosi morire, e anzi in una certa maniera, per sua volontà, all’unisono con l’arma del sacrificio. Ma è una commedia”.

13

L’uomo è l’animale che si illude, nel senso che si mette in gioco nella commedia, fino alla morte: “È necessario, ad ogni costo, che l’uomo viva nel momento in cui muore veramente, o che viva con l’impressione di morire veramente”.

14

La presenza dell’universale è la strategia mediante cui la metafisica occidentale supera la morte del sensibile.

Il problema è come si giunge a costruire tale universale: la morte qui deve essere considerata con la massima serietà. L’universale uccide il sensibile: questa morte irrecuperabile viene poi detta nel linguaggio dell’universale. La morte del sensibile apre la scena, apre il teatro e rende possibile parlare di quella morte. Ma tale “dire la morte” è ormai finzione: l’autentica morte rimane ineffabile;

quella rappresentata è la morte finta, è morte raffigurata sulla scena.

In termini teologici, è chiaro come il farsi-parola da parte del

12. Id., Fragmente historischer und politischer Studien aus der Berner und Frankfurter Zeit (1795-1798), in Werke, cit., vol.

I

, § 19, p. 446: “L’opera non come cosa fatta, bensì come risultato pensato”.

13. G. Bataille, Hegel, la mort et le sacrifice (1955), in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1988; trad. di F.C. Papparo, “Hegel, la morte e il sacrificio”, in Al di là del serio e altri saggi, Guida, Napoli 2000, p. 159.

14. Ivi, p. 160.

(15)

63

aut aut, 364, 2014, 63-74

Hegel, Heidegger e la storia dell’estetica

LEONARDO AMOROSO

. Nel 1835, poco dopo la morte di Hegel, iniziò la pubblicazione delle sue lezioni di estetica.

1

Quest’opera epocale conclude quello che si può ben chiamare il secolo d’oro dell’estetica tedesca, anzi dell’estetica in generale, iniziato nel 1735, quando Baumgarten aveva proposto una nuova scienza, definendola appunto, con un neologismo, “Estetica”.

2

Hegel, col suo pensiero storico, defini- sce la propria estetica anche in riferimento allo sviluppo che essa aveva avuto appunto in quel secolo, presentandosene al contempo esplicitamente come il coronamento.

Ancora un secolo dopo, Heidegger, in una certa tappa del suo

1. La curò l’allievo Heinrich Gustav Hotho, che concluse l’edizione nel 1838 e che, negli anni 1842-45, ne pubblicò poi una seconda versione, riveduta. Non possiamo qui trattare la questione dell’attendibilità del lavoro redazionale di Hotho; negli ultimi decen- ni, comunque, sono state pubblicate varie Nachschriften (cioè appunti presi dagli studenti) dei corsi hegeliani e una di esse è stata anche tradotta in italiano: G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, a cura di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2000. Alla traduzione di N. Merker e N. Vaccaro dell’edizione postuma (G.W.F. Hegel, Estetica, Einaudi, Torino 1967) si è aggiunta recentemente la nuova traduzione di F. Valagussa (con originale a fronte e con alcune significative “varianti”, tratte dalle varie Nachschriften, a piè di pagina): G.W.F.

Hegel, Estetica, Bompiani, Milano 2012. È a quest’ultima che si farà qui riferimento.

Recentissimamente è inoltre uscita la guida L’estetica di Hegel, a cura di M. Farina e A.L.

Siani, il Mulino, Bologna 2014.

2. Cfr. A.G. Baumgarten, Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema perti- nentibus (1735), §§ 115-117; trad. di P. Pimpinella e S. Tedesco, Riflessioni sulla poesia, Aesthetica Edizioni, Palermo 1999, pp. 71-72. Il progetto fu poi realizzato da Baumgarten nella sua Aesthetica (1750-58); trad. a cura di S. Tedesco, L’Estetica, Aesthetica Edizioni, Palermo 2000.

1

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pensiero sempre itinerante, elabora una filosofia dell’arte

3

che non vuole essere però un’“estetica”, ma costituirne piuttosto un suo oltrepassamento, nell’ambito di un più generale oltrepassamento della metafisica. Anche il pensiero di Heidegger, come quello di Hegel, è dunque storico (peraltro, anche in questo caso, secondo un modo molto filosofico di intendere e di praticare la storia).

Perciò anche Heidegger accompagna la propria filosofia dell’arte, in quello stesso periodo, con un serrato confronto con i momenti più significativi della storia dell’estetica, Hegel compreso.

4

Ma cominciamo con un breve cenno alla storia dell’estetica secondo Hegel.

5

2. Nella sua presentazione dell’estetica,

6

Hegel ne definisce innanzi tutto l’oggetto: l’arte bella. Per questo “il nome Estetica non è pro- priamente del tutto calzante, dal momento che ‘Estetica’ indica più precisamente la scienza del senso, del sentire”. Ma è proprio per questo – osserviamo – che Baumgarten l’aveva scelto: l’estetica era infatti per lui innanzi tutto una “scienza della conoscenza sensibile”

7

che solo nel contesto della filosofia leibniziano-wolffiano in cui egli si muoveva poteva poi essere al contempo una filosofia dell’arte bella. Come tale l’avevano piuttosto sviluppata i suoi continuatori (a partire dall’allievo Georg Friedrich Meier). È a loro – e non direttamente a Baumgarten – che Hegel qui pensa, quando ac- cenna alla “scuola di Wolff”, nella quale “si esaminavano le opere

3. Cfr. M. Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes (1936, ma pubblicato solo nel 1950); trad. di V. Cicero, “L’origine dell’opera d’arte”, in Holzwege. Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano 2002. Su di esso cfr. innanzi tutto F.-W. von Herrmann, La filosofia dell’arte di Martin Heidegger. Un’interpretazione sistematica del saggio “L’origine dell’opera d’arte” (1980), trad. di M. Amato, I. De Gennaro, C. Aquino, Marinotti, Milano 2001.

4. Oltre all’inizio della Postfazione del saggio sopra citato (ma “in parte redatta successi- vamente” al medesimo, come l’autore dichiara: cfr. M. Heidegger, Holzwege. Sentieri erranti nella selva, cit., p. 375), si farà qui riferimento soprattutto a M. Heidegger, “La volontà di potenza come arte” (1936-37), in Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994.

5. Ne ho discusso un po’ più dettagliatamente in Estetica e storia dell’estetica in Hegel, in P. D’Angelo et al. (a cura di), Costellazioni estetiche. Dalla storia alla neoestetica. Studi in onore di Luigi Russo, Guerini, Milano 2013.

6. Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., pp. 149-151 (a cui rimandano, salvo diversa indica- zione, anche le citazioni che seguono).

7. A.G. Baumgarten, L’Estetica, cit., § 1, p. 27.

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d’arte tenendo conto dei sentimenti che esse dovevano suscitare”.

Più precisamente, il riferimento è con tutta probabilità a Moses Mendelssohn, che Hegel cita più avanti appunto in questo senso.

8

Un’interpretazione analoga, e dunque altrettanto “strabica”

dell’estetica di Baumgarten

9

era stata data anche da Kant nella pri- ma Critica, facendo curiosamente valere contro di lui il significato etimologico di “estetica”.

10

Ma proprio il significato etimologico, invece, è quello che disturba Hegel. Peraltro, per lui, il nome,

“in quanto puro nome, è indifferente, e inoltre nel frattempo è passato nel linguaggio comune a tal punto che, come nome, può essere mantenuto”.

Un altro nome possibile – argomenta – sarebbe quello di “Calli- stica”. Tuttavia, questo termine non solo non ha avuto fortuna, ma sarebbe comunque inadeguato anch’esso, dato che includerebbe

“il bello in generale”, quindi anche quello della natura, che era stato anzi privilegiato – ricordiamo per inciso – da Kant

11

e che invece – Hegel argomenta subito dopo – non può ovviamente rientrare in una filosofia dello spirito, dove solo il bello dell’arte ha diritto di cittadinanza.

12

Tuttavia, anche riguardo all’arte occorre una precisazione. Per motivi simili a quelli per cui esclude il bello di natura, Hegel esclude anche l’arte in senso ampio (che invece Kant ancora considerava), comprendente cioè anche l’arte non bella.

13

Egli conclude la sua presentazione appunto con questa terza limitazione, oltre a quelle

8. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., p. 223. Cfr. anche Id., Lezioni di estetica, cit., p. 16. Moses Mendelssohn nel 1755 aveva scritto un saggio Über die Empfindungen; trad. di L. Lattanzi,

“Sui sentimenti”, in Scritti di Estetica, Aesthetica Edizioni, Palermo 2004.

9. Solo in tempi recenti l’opera di Baumgarten ha avuto l’attenzione che merita. Ciò è accaduto anche perché la sua concezione gnoseologica dell’estetica è per certi versi ridiven- tata attuale dopo la crisi dell’estetica come filosofia dell’arte bella.

10. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (1781, 1787

2

), § 1, n. 1; trad. di A.M. Marietti, Critica della ragione pura, Rizzoli, Milano 1998, p. 160. Nella terza Critica Kant, in base a un mutamento del suo pensiero, modifica il suo uso dell’aggettivo “estetico” (senza peraltro rise- mantizzare il sostantivo “estetica”) e definisce appunto “estetiche” le “valutazioni” che “riguar- dano il bello e il sublime della natura o dell’arte” (cfr. la Prefazione della Kritik der Urteilskraft, 1790; trad. di L. Amoroso, Critica della capacità di giudizio, Rizzoli, Milano 1998

2

, p. 69).

11. Cfr. I. Kant, Critica della capacità di giudizio, cit., § 42, p. 407.

12. Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., pp. 151-153.

13. Cfr. I. Kant, Critica della capacità di giudizio, cit., §§ 43-44, p. 415 sgg.

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aut aut, 364, 2014, 75-90

Hegel e l’opaca origine dell’arte

FABRIZIO DESIDERI

U na fine infinita. Se volessimo cogliere con la massima evidenza cosa intenda Hegel per “cattivo infinito” potremmo considerare le interminabili interpretazioni che si sono sviluppate a proposito della tesi circa “la fine dell’arte” contenuta nella sua

“estetica”, ovvero nelle lezioni da lui dedicate a più riprese (tra il 1818 e il 1828-29) a questo tema. Delle lezioni hegeliane sull’este- tica possediamo, come noto, sia la monumentale rielaborazione- sistemazione fornita da Heinrich Gustav Hotho nel 1835

1

sia le diverse Nachschriften (tra cui quella relativa alle lezioni del 1823 a opera dello stesso Hotho

2

) tuttora in corso di pubblicazione a cura dello Hegel Archiv

3

e sempre più al centro dell’attenzione della Hegel-Forschung. La consapevolezza della necessità di considerare con maggiore vigilanza critica molti dei topoi messi in circolazio- ne dalla ricezione dell’Estetica di Hegel/Hotho prima del lavoro

1. Vedi da ultimo l’edizione italiana con testo a fronte a cura di Francesco Valagussa, da segnalare anche perché dei passi significativi riporta le varianti contenute nelle Nachschriften delle lezioni a opera di Hotho e di altri allievi: G.W.F. Hegel, Estetica, secondo l’edizione di H.G. Hotho, con le varianti delle lezioni del 1820/21, 1823, 1826, Bompiani, Milano 2012 (d’ora in poi Estetica/Hotho).

2. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Kunst, a cura di A. Gethmann- Siefert, Felix Meiner, Hamburg 2003. Questa edizione si basa sul testo dell’edizione critica pubblicata nel 1998 dalla stessa studiosa; su quest’ultima si basa anche l’ottima traduzione italiana a cura di Paolo D’Angelo: G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, trad. e introduzione di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2000 (d’ora in poi Estetica/1823).

3. Per un elenco delle Nachschriften finora pubblicate si veda la Bibliografia contenuta in

M. Farina, A.L. Siani (a cura di), L’estetica di Hegel, il Mulino, Bologna 2014, pp. 249-250.

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76

critico-filologico intorno alle Nachschriften ha riguardato più che altro la cerchia ristretta degli specialisti. Intorno e a partire dalla nozione di “fine dell’arte” – un tema che nella cultura estetico- filosofica italiana si è semplificato in quello meno concettualmente sfumato di “morte dell’arte” – si sono spese e si continuano a spendere buona parte delle pagine dedicate all’estetica hegeliana, non solo a opera degli specialisti ed estetologi, ma di filosofi in genere, storici dell’arte, critici letterari e così via.

Spesso il tema della fine o morte dell’arte si presenta con col- pevole leggerezza come un tema da leggersi in sintonia con quello benjaminiano relativo a una (presunta) morte dell’aura

4

o, alter- nativamente e talvolta congiuntamente, con quello di ascendenza heideggeriana relativo alla tecnica come compimento-dissoluzione della metafisica. Incuranti dell’effettiva consistenza della tesi e di cosa realmente possa implicare limitatamente a Hegel, si continua a fare surf sull’onda sempre più fiacca di una tesi “epocale” circa la fine/morte dell’arte. Per affermarla o per negarla. Per sostenere che essa non si può intendere banalmente oppure per contrapporre che si tratta dell’idea a fondamento di tutta l’arte contemporanea, da Duchamp in poi. E via estenuandosi in acrobazie ermeneutiche ed esegetiche sempre più goffe. Ponendosi raramente il proble- ma di come la straordinaria vitalità dell’arte novecentesca possa essere letta come una fine o addirittura una morte. Sorvolando il più delle volte sulla componente di “diceria” all’origine del topos stesso. Come viene rilevato, almeno nel titolo, in un volume di Eva Geulen, apparso presso Suhrkamp nel 2002: Das Ende der Kunst. Lesarten eines Gerüchts nach Hegel. Un anonimo commen- to online

5

che segnala la recensione su “Die Zeit” del libro della Geulen

6

riassume una vicenda tutt’ora in corso in questi termini:

4. Perché le tesi benjaminiane circa il declino dell’aura nell’epoca della riproducibilità tecnica non siano da intendere come una “morte” lo spiego in F. Desideri, Aura ex machina,

“Rivista di estetica”, 1, 2013, pp. 33-52.

5. In “perlentaucher.de / das Kulturmagazin”: <www.perlentaucher.de/autor/eva-geu- len.html> (visitato il 20 maggio 2014).

6. Cfr. L. Heidbrink, Grabreden ohne Ende, “Die Zeit”, 29 agosto 2002, a proposito di

E. Geulen, Das Ende der Kunst. Lesarten eines Gerüchts nach Hegel, Suhrkamp, Frankfurt

a.M. 2002.

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“Annunciare la fine dell’arte [...] non è niente di nuovo. Nuovo non è nemmeno mettere in dubbio questa fine”.

Nel mezzo all’astratta contrapposizione tra affermazionismo e negazionismo della “fine dell’arte” nach Hegel e all’interno degli stessi estremi sta il cattivo infinito delle interpretazioni. Alimentato, non da ultimo, dal fatto che non disponiamo a questo proposito di fonti primarie, ma di trascrizioni, appunti. Non del testo, ma del fantasma di esso: di quel che avrebbe potuto essere. Restando alla lettera degli appunti, noi non troviamo – come noto – nessuna enunciazione della morte dell’arte, nessuna tesi circa la sua epocale fine. Troviamo enunciata una tesi assai più sottile e più consona a es- sere connessa con quanto Hegel dice a proposito dell’arte almeno a partire dai Progetti di sistema jenesi e dalla Fenomenologia e, quindi, nelle differenti edizioni dell’Enciclopedia (del 1817, 1827 e 1830).

La tesi di Hegel, quale troviamo formulata sia nelle trascrizioni delle Lezioni sia nella loro rielaborazione/sistemazione dell’allievo, riguarda il fatto che l’arte “è nella sua serietà per noi un passato”:

“Die Kunst in ihrem Ernst ist uns Gewesenes”. Questo ormai tutti lo sanno – mi si obietterà. Tutti o molti lo sanno, ma troppi se ne dimenticano. Trascurando, con imperdonabile leggerezza specula- tiva, quanto l’esser per noi un passato dell’arte possa significare in Hegel. Solo in quanto è un “qualcosa di passato”, l’arte – leggiamo ancora – può essere percorsa nella sua “cerchia” (Estetica/1823, p. 301). Appunto per questo altre forme sono necessarie perché il divino sia “fatto oggetto”: sia conosciuto nella sua obiettività.

Noi – continua la trascrizione delle parole hegeliane – “abbiamo bisogno del pensiero”. Ciononostante – precisa – “l’arte è una guisa essenziale della presentazione (Darstellung) del divino, e noi abbiamo il dovere di capire questa forma” (ivi, p. 302).

In altri termini, oggetto dell’arte non è il “piacevole” o “la

soggettiva abilità”. In questi aspetti tipici della commedia, come

attestano le annotazioni immediatamente precedenti, l’arte “ha la

sua fine”. Nel comico, “in una soggettività dove l’obiettività si an-

nienta” e “diviene sapere di questo annientamento”, l’arte trova il

suo epilogo. Ma non bisogna dimenticare che questo epilogo sta in

un circolo, nel circolo in cui l’arte muovendo dal simbolico dispiega

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91

aut aut, 364, 2014, 91-101

Il nichilismo e le nuove forme dell’immaginario tardo-moderno

FEDERICO VERCELLONE

1. La scomparsa del medium

Una polemica senza fine ci introduce nell’universo contemporaneo dell’immagine. L’immagine non si dà più a riconoscere in quanto universo distinto dal mondo, quale mondo dell’apparenza “so- speso” sulla realtà. Può addirittura accadere che essa introietti il proprio medium. Ed è per l’appunto il medium a rendere ricono- scibile l’immagine. Esso la rende percepibile in quanto immagine evitando che si confonda con la realtà. È questa la barriera che non solo oggi ma più volte è stata infranta nella storia dell’immagine, a partire da Zeusi e Parrasio per venire, procedendo in modo as- solutamente lacunoso, alle fantasmagorie settecentesche e oggi al 3D. Ed è questa la barriera che dal Settecento tardo a oggi ci siamo abituati a definire come nichilismo. Se andiamo all’origine del problema del nichilismo, al suo affacciarsi nella lettera aperta che Jacobi indirizza a Fichte nel 1799, abbiamo esattamente a che fare con queste coordinate della questione che rinviano a un dissolversi della realtà nell’apparenza come tendenza della contemporaneità.

Ciò vale dal 1799 sino a oggi.

Scrive Jacobi: “Per il fatto stesso che io risolvendo e smembran- do sono giunto ad annullare tutto quello che è al di fuori dell’io, mi si è mostrato che ogni cosa era un bel nulla al di fuori della mia immaginazione libera ma ristretta entro certi limiti”.

1

Mentre più avanti Jacobi scrive ancora: “E così, mio caro Fichte, non deve

1. F.H. Jacobi, “Jacobi a Fichte”, in Idealismo e realismo (1787), a cura di N. Bobbio,

De Silva, Torino 1948, p. 178.

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prendersela se Ella o chicchessia vorrà chiamare ‘chimerismo’

quella dottrina che io contrappongo all’idealismo, accusandolo di nichilismo”.

2

In casi come questi sintetizzati così efficacemente da Jacobi nella sua critica alla filosofia di Fichte (che ebbe peraltro una vastissima risonanza e significato), l’immagine si confonde con l’ambiente circostante. Essa si configura come la realtà o come qualcosa di inquietantemente prossimo a questa. Siamo, per dirla con Oliver Grau, “immersi” nell’esperienza estetica dell’immagine. Sprofon- diamo in essa e intratteniamo nei suoi confronti una relazione che non è più semplicemente contemplativa ma interattiva. L’immagi- ne assume il ruolo minaccioso di un soggetto nonostante la chiara consapevolezza che non si ha a che fare con una realtà vivente.

Bisogna tuttavia sottolineare che il nichilismo non propone, quantomeno a questo proposito, una novità assoluta. Fa sì piutto- sto che la soggettività dell’immagine divenga il carattere prepon- derante di un’epoca. Che le immagini siano dotate di una loro sog- gettività è una vecchia vicenda che, più o meno consapevolmente, ci è nota. Basti pensare al mondo delle fiabe e al romanzo gotico per venire sino a Paul Klee. L’immagine acquisisce, in tutti questi casi, uno statuto soggettivo. È un fantasma, un revenant che viene da lontano. Sulla base di questo statuto ambiguo, essa minaccia la condizione quotidiana nel suo tratto più banale e oggettivo.

Sembra voler alludere alla possibilità di una morte non definitiva per cui ciò che era un soggetto non è definitivamente divenuto un cadavere, un oggetto.

Che il morto sia davvero morto è peraltro uno dei presupposti tanto ovvi da risultare inconfessati (e dunque tanto più degni di in- terrogazione) della nostra cultura. Esso fonda l’idea di oggettività, per dirla con Hegel, sull’esigenza di cui l’Intelletto si fa latore di

“tenere fermo ciò che è morto”.

3

In altri termini l’oggettività esiste in quanto essa è il mortuum, ciò che è definitivamente trascorso e

2. Ivi, p. 191.

3. G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito (1807), a cura di G. Garelli, Einaudi,

Torino 2008, p. 24.

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93

si è irrigidito, assumendo così le fattezze di ciò che è definitivo. E l’oggettività è, com’è ben noto, la condizione e la premessa della conoscenza e dell’impresa scientifica.

I confini tra il vivo e il mortuum sono stati messi in questione dalla peculiare “realtà” dell’immagine venuta a rianimarsi, grazie a un singolare e straniante atavismo, nel mondo contemporaneo.

Si mette così anche Hegel in questione da un punto di vista che non sembra toccare direttamente l’estetica ma che, in realtà, la coinvolge profondamente. E che dimostra che i significati messi in moto dall’arte hanno territori di competenza molto più ampi rispetto a quelli che tradizionalmente le vengono riservati quando la si intenda soltanto come il mondo della bella apparenza. Il limite tra il vivo e il morto che sembrava consolidato viene paradossal- mente messo in questione dalle tecnologie che sconvolgono i limiti dettati dalla razionalità classica.

La cosa non è del resto del tutto nuova. Si prepara a lungo nel tempo. I primi passi moderni della vicenda avvengono quasi in coincidenza con quello che è considerato l’atto di nascita dell’este- tica moderna, la pubblicazione della Critica del Giudizio di Kant in cui, com’è ben noto, viene annunciato il presupposto di una bellezza priva di ogni interesse che garantisce, su questa base, la propria autonomia. Per preparare il cammino all’arte museale, e così alla “fine” hegeliana dell’arte. Parallelamente si delinea tutta- via un altro cammino, poco rispettoso nei confronti dell’ortodos- sia estetica ma in realtà estremamente prolifico e influente. Esso mette capo non a una cultura estetica dell’opera ma a una cultura estetizzante dello spettacolo. È il nichilismo realizzato. Quello che cadrà, quasi due secoli più tardi, sotto la mannaia critica di autori peraltro molto lontani tra loro come Heidegger e Adorno, Debord e Baudrillard.

È un cammino che si delinea già a fine Settecento, come ram-

menta Oliver Grau, grazie alle tecniche della fantasmagoria. Grau

rammenta che gli spettacoli nei quali venivano proposte fanta-

smagorie produssero, già a partire dal XVII secolo, veri e propri

effetti terrifici sul pubblico. Per esempio il viaggiatore Rasmussen

Walgenstein propose alla corte del re di Danimarca Frederik III

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103

aut aut, 364, 2014, 103-117

“Svanire è dunque la ventura delle venture”?

Sulla filosofia estetica di Hegel

VINCENZO VITIELLO

. Quando decide di lasciare Francoforte per arrischiarsi nei “clamori letterari” di Jena, Hegel non ha ancora pubblicato nulla, ma la “trasformazione in sistema dell’ideale giovanile” è già in fase molto avanzata.

1

Di fatto aveva formulato il Grundsatz della sua filosofia già da qualche anno, in quello scritto breve trovato tra le sue carte un secolo più tardi, edito da Franz Rosenzweig col titolo, appropriatissimo, Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus.

2

In esso Hegel esponeva con matura convinzione e piglio polemico la propria prospettiva sulla natura e il fine della filosofia. La natura: dacché “il più alto atto della ragione è un atto estetico”, “il filosofo deve possedere tanta forza estetica quanto il poeta”; “verità e bene solo nella bellezza sono intimamente con- giunti”. Il fine: “Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo della facoltà di immaginazione e dell’arte, questo è ciò di cui abbia- mo bisogno”. Hegel muterà in seguito la terminologia, e con questa i rapporti tra le potenze che sorreggono la vita e la storia dell’uomo, sino a togliere l’arte dal trono su cui nel Systemprogramm l’aveva posta e a non usare più la formula, Mythologie der Vernunft, a

1. Cfr. la lettera di Hegel a Schelling del 2 novembre 1800, in G.W.F. Hegel, Lettere, trad. di P. Manganaro, Laterza, Roma-Bari 1972, pp. 42-44.

2. Id., Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus (= ÄS), in Werke in zwanzig Bänden (= W), Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1969 sgg., vol.

I

: Frühe Schriften, pp. 234-236.

Cfr. l’edizione critica, con scritti di F. Rosenzweig, O. Pöggeler, D. Henrich, A. Geth- mann-Siefert, in C. Jamme, H. Schneider (a cura di), Mythologie der Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1984.

1

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104

quel ruolo regale adeguata; ma l’impostazione antikantiana del suo pensiero non muterà, e con questa il progetto di tenere unite, alla radice, “ragione” e “senso”, uomo e mondo, senza però mai negare la loro distinzione. Dall’inizio alla fine il problema di Hegel non è l’unità, l’astratta unità che non ha in sé il principio dei molti, ma la relazione; e cioè: l’unità come potenza del molteplice. Nei termini di Hölderlin: Seyn come Urtheil, Urtheil come Seyn.

3

La scissione originaria come la vera e unica unità. Scriverà qualche anno più tardi: die Verbindung der Verbindung und der Nichtverbindung, così definendo la vita e insieme la filosofia – la filosofia in quanto vita.

4

Questo Grundsatz avrà poi altre formulazioni, volta a volta più determinate e articolate, a seconda dei problemi affrontati nei diversi ambiti scientifici. Ampliandosi e approfondendosi il sistema del sapere, venivano alla luce difficoltà all’inizio neppure sospettate: il “principio” stesso era messo in questione.

2. Muovendo dal Grundsatz, definito nell’ältestes Systempro- gramm, possiamo comprendere il senso “vero” della negazione del bello di natura, con cui si apre l’Estetica di Hegel.

5

La natura, che Hegel respinge come possibile luogo di bellezza, non è la natura

“esterna”, le montagne o il mare in tempesta, il cielo stellato o la calma solenne dell’animale… Ciò che Hegel respinge è la natura

“esteriore”, la natura priva dell’alito vitale, la natura ridotta a macchina, al modo stesso in cui respinge lo stato-macchina: perché

“non c’è idea della macchina. Solo ciò che è oggetto della libertà, si chiama idea”. Ma se non c’è bellezza nella natura “esteriore”, neppure c’è bellezza “interiore”, bellezza puramente spirituale.

Vera, reale bellezza, si ha soltanto nell’arte, nello spirito che alitan- do vita nella carne, si fa carne, e fa della carne spirito. “La filosofia dello spirito è una filosofia estetica” (ÄS, p. 235). Non c’è bellezza

3. F. Hölderlin, Sämtliche Werke und Briefe, 2 voll., Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1989

5

, vol.

I

, pp. 840-841.

4. G.W.F. Hegel, Systemfragment vom 1800, in W, vol.

I

, p. 422.

5. Cito dalla nuova traduzione italiana con testo tedesco a fronte, curata da Francesco

Valagussa, che vi ha premesso un ricco e acuto saggio critico, edita nella collana “Il pensiero

occidentale” di Bompiani, Milano 2012.

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105

nell’interiorità dello spirito, perché…, perché non c’è spirito che non si esteriorizzi in figure sensibili, materiali.

Questo rapporto tra interno ed esterno si esprime in varie forme.

A partire dal rapporto tra spazio e tempo.

Anche banale osservare che la struttura di base del sistema delle arti e della loro successione “storica” è data nell’Estetica dal diverso articolarsi del rapporto spazio/tempo. Dall’architettura alla poesia, dalla pietra lavorata dalla mano dell’uomo alla voce significante articolata in suoni vari, si svolge un unico processo, che è dato dall’interiorizzazione dello spazio nel tempo e dall’este- riorizzazione del tempo nello spazio. Questo processo non scorre soltanto da una forma all’altra dell’arte, attraversa bensì le singole forme artistiche. Dall’epica alla lirica, dalla lirica alla drammaturgia accade la stessa “evoluzione” del rapporto: dall’esteriorità dello spazio all’interiorità del tempo e viceversa. Così detta la “cosa”

ha l’aspetto di uno schema astratto, estraneo ai problemi concreti della storia dell’arte. Ma è vero l’esatto contrario. Ciò che muta nel processo delle arti, e quindi nel sistema, è proprio il rapporto tra tempo e spazio. Cambia il loro “significato”. Lo spazio-tempo dell’architettura è affatto diverso dallo spazio-tempo della poe- sia. Lo spazio dell’architettura è lo spazio materiale, tangibile, in cui sono il colonnato e la porta d’ingresso, la parete e la vetrata che la sovrasta, il pavimento e il tetto. Lo spazio dell’epica è la dispersione della narrazione nelle diverse avventure degli eroi e degli dèi, nelle vicende di una città o di un popolo migrante. Il tempo dell’architettura è il tempo della pietra che il sole cocente e la pioggia battente, i resti degli animali e le azioni degli uomini corrodono e consumano. Il tempo dell’epica è duale: è quello del racconto e il tempo della voce narrante. Allo spazio “esteriore”

dell’architettura, succede quello “interiore” dell’epica, non meno spazio del primo, avendo il triangolo pensato figura spaziale non meno del triangolo disegnato sulla sabbia o sulla lavagna. E del pari al tempo “interiore” dell’epica corrisponde quello “esteriore”

dell’architettura, tempo non meno tempo di quello epico, non es-

sendo la pietra corrosa e frantumata del tempio in rovina identica

alla pietra appena lavorata dalla mano dell’uomo.

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aut aut, 364, 2014, 119-133

La “cosa” dell’arte.

Sul rapporto tra agire e patire nell’estetica hegeliana

MASSIMO DONÀ

1. Dell’arte, tra fisica e metafisica

Chi può dire di non saperlo? Da sempre, l’essere umano si trova a dover fare i conti con “la propria animalità”. Certo, Aristotele si è premurato di precisare che noi, in ogni caso, saremmo animali dotati di logos. Ma la nostra è una vita sempre anche “passionale”.

Per quanto l’uomo agisca (in forza del Nous), infatti, la sua non è mai un’attività libera o assoluta – egli è sempre anche paziente.

Se non altro in quanto “patisce” l’esterno, ossia l’altro da sé. Non a caso – sia pure relativamente (in quanto sempre anche “agente”, cioè dotato di facoltà intellettiva) – egli dipende dall’esterno, os- sia dal mondo esteriore. Almeno, in quanto soggetto empirico, e dunque dotato di quella che potremmo definire una inestirpabile fisicità di natura propriamente animale.

E proprio in quanto “patisce”, l’uomo è spesso costretto a fare ciò che, se fosse dipeso da lui (o meglio, dal suo raziocinare), si sarebbe ben guardato dal fare. Insomma, l’uomo si lascia spesso fagocitare dalle proprie passioni. Ecco perché tutto quello che facciamo in quanto mossi da passione, lo facciamo “per-altro”, e mai “per-noi”.

E in ogni caso, che tale agire vada contro il nostro volere, ossia contro ciò che “secondo ragione” avremmo magari voluto fare, lo si vede facilmente – anche solo guardando all’alterazione dei tratti somatici da cui viene affetto chiunque patisca... anzi, spesso l’alterazione dell’equilibrio muscolare è tale da dar luogo a una vera e propria de-formazione delle sue normali caratteristiche. Una

“de-formazione” che dice innanzitutto questo: che tale individuo è

formato-da “altro”.

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120

Strana cosa, questa: che la “forma” – ciò che Aristotele concepisce come principio di ogni attività (è noto come per Aristotele la forma equivalga all’atto – perciò essa chiama in causa l’anima, ossia il mo- tore di qualsivoglia dinamica corporea… da cui l’idea di anima come principio-che-darebbe-vita al corpo) – indichi, nell’uomo-animale, ossia nell’essere umano in quanto sempre anche “senziente”, non solo un principio attivo, ma anche ciò che gli verrebbe dato dall’e- sterno. Insomma, in quanto “paziente” (in quanto affidato agli umori del pathos), l’Io sembra destinato a ricevere la propria forma non solo da sé (ossia dalla propria anima), ma sempre anche da qualcos’altro.

E non si dica che anche il venire “formati” dalla propria anima implica un patimento. Perché l’anima non indica qualcosa d’“altro”

rispetto al corpo che la ospita. Anzi, forse, essa non dice altro che la verità del corpo – in quanto valevole come semplice “identità del molteplice” (corporeo). Il fatto è che non v’è nulla “al-di-là-del- corporeo” – essendo proprio quella “spaziale”, ossia quella relativa al corporeo, la dimensione in cui si disegnano tutti gli al-di-qua e tutti gli al-di-là, ossia i dentro e i fuori. Ecco perché l’anima non potrà mai costituire un reale “altro” rispetto al corpo (così come un certo platonismo avrebbe per molto tempo voluto farci credere).

Ecco perché, se l’eidos (e l’anima ha sempre natura eidetica) non è rinvenibile in nessuna determinata zona dell’esistente, ciò dipende solo dal suo lasciarsi nello stesso tempo ritrovare in qualsivoglia determinazione dell’essente medesimo – e interamente, in ognuna di esse. Anche perché, occupando un’altra sfera dell’essere, esso finirebbe per costituirsi come elemento di quello stesso molteplice da cui avrebbe voluto invece distinguersi.

Ancora una cosa va comunque precisata: che, là dove fosse davvero “de-terminato” da altro (e dunque dal medesimo “de- formato”), il tutto non solo verrebbe a negare la propria concre- tezza, ma, di più, neppure potrebbe apparire – ecco perché esso non indica mai una mera “sommatoria” di parti, ma al contrario il loro puro e semplice apparire tutte, cioè ognuna, come una.

Ecco perché, ad apparire, è sempre e solamente il mio esser-

parziale; stante che non si dà mai un altro mondo (concepito come

totalità) rispetto a me, in grado di farmi essere quello che sono.

(29)

121

Insomma, la parte, in quanto mancante, può mancare solo di un’altra parte – solo quest’ultima potendo realmente determinare la nostra “parzialità”. E dunque ogni possibile “parzialità”.

Perciò, nell’orizzonte del patire sensibile, “determinante” e

“determinato” sono sempre e comunque distinti, ossia “altri”

ognuno dal proprio altro. Per questo il determinato sarà sempre e comunque manifestazione di sé in quanto parte; vale a dire, del suo stesso ritrovarsi mancante di ciò senza di cui nessun senso potrebbe costituirsi come suo.

Mentre, quando si parla dell’anima, a essere chiamato in causa è un determinante che non dice qualcosa di “esterno” rispetto al determinato – costituendosi essa come semplice “identità-del-mol- teplice” (identità dei molti da cui è costituito appunto il determi- nato in quanto determinato). L’anima, infatti, è sì determinante, ma un determinante che non è mai “a sua volta” determinato. Perciò essa è contraddittoriamente “altra” e “non-altra” dal determinato, ossia dal corporeo o sensibile che dir si voglia.

Insomma, l’anima, concepita come “identità”, non dice qualcosa come una determinatezza – pur lasciandosi contraddittoriamente de-terminare come non-determinato (appunto, in quanto semplice unità dei molti – ossia della determinatezza rispetto a cui “è” e

“non-è” altra).

Anche se, proprio perché “è e non-è” altra dal determinato, essa sarà nello stesso tempo “radicalmente”, cioè “assolutamente”, altra dal determinato. Fermo restando che nessun “altro”, che sia sempli- cemente “altro”, sarà mai radicalmente, cioè assolutamente “altro” dal determinato – non potendo che farsi, il medesimo, sempre in qualche modo determinato. A essere altro è dunque qui un in-determinato che può dirsi tale proprio perché “è” e “non-è” altro dal determinato.

“Assoluta alterità” è dunque solo la sua – proprio quella che lo fa essere, in quanto anima, rigorosamente non-sensibile (sem- plicemente “altro-dal-sensibile” potendo essere solamente un altro-sensibile); da cui la sua natura squisitamente “meta-fisica”.

Per questo l’anima sarebbe stata concepita, già da Platone, come realtà rigorosamente incorporea.

Per lo stesso motivo, anche il “tutto” è sostanzialmente meta-fisi-

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135

Postcoloniale e revisione dei saperi

G li scritti qui raccolti hanno una matrice orale, dialogica e volutamente provvi- soria: nascono da un workshop in cui si sono trovati a conversare attorno a un tavolo studiosi italiani provenienti da più settori del sapere umanistico che, a vario titolo e con diversi gradi di coinvolgimento, si occupano di teoria critica postcoloniale. All’origine della conversazione è il progetto di ri- cerca postcolonialitalia, che ha come obiettivo principale quello di sondare la presenza e le potenzialità del pensiero e delle pratiche d’intervento del paradigma postcoloniale nel contesto italiano.

1

A tal fine vuole creare uno spazio di interazione fra diverse for- me di conoscenza e di produzione artistica e culturale, cercando di mantenere quello spazio radicalmente aperto, come risulta dalla varietà delle voci e dei materiali riuniti qui. Da un punto di vista disciplinare, fra i contributi figurano la teoria critica, la sociologia, la letteratura, la critica letteraria e la comparatistica, la pedagogia, il cinema e l’antropologia, ma il progetto include anche, coerentemente con l’impianto accogliente e transdiscipli- nare, la storiografia, la geografia culturale, la filosofia politica, gli studi interculturali, di genere, sulla razza e le migrazioni. Queste forme del sapere, della politica, dell’arte e della cultura, ciascuna

1. Il workshop su “Gli studi postcoloniali nelle scienze umane: teorie, storie, metodi e pratiche italiane” è stato il primo incontro dei partecipanti al progetto “From the European South: postcolonial studies in Italy” (responsabile scientifico Annalisa Oboe), Università di Padova, 6 dicembre 2013, <www.postcolonialitalia.it>.

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con una sua storia profondamente radicata all’interno dei confini nazionali, sembrano oggi, più che in altri momenti della loro esi- stenza, profondamente in transito: se le si guarda attraverso le lenti del postcoloniale si possono intravvedere risorse, sinergie, linee di faglia collocate fra e dentro le discipline, che, se affrontate avendo il mondo e il futuro come orizzonte, promettono una rilettura radicale dei nostri archivi culturali.

Quanto segue traccia gli intenti teorici e le linee programmati- che del dibattito scientifico proposto, attraverso sollecitazioni che nascono all’incrocio con elaborazioni ed esperienze postcoloniali non italiane (Annalisa Oboe); esplora le potenzialità del passag- gio epistemologico al postcoloniale, in particolare nel raccordo dell’Italia con il Mediterraneo (Iain Chambers); guarda con occhio militante a genealogie, posizionamenti e prospettive dell’attuale dibattito critico sulla letteratura italiana (Roberto Derobertis);

discute alcune problematicità del pensiero postcoloniale per la

teoria letteraria nazionale (Emanuele Zinato); individua le possi-

bilità di intervento di una pedagogia postcoloniale per un presente

(post)migrante (Davide Zoletto); registra i mutamenti in atto nelle

rappresentazioni visive dell’italianità, chiedendosi cosa significhi

fare cinema italiano nel nuovo millennio (Farah Polato); ascolta

le voci dei dannati della terra per riscrivere i compiti dell’antro-

pologia contemporanea (Roberto Beneduce). Tutti gli interventi

rispondono con un proprio linguaggio, anche disciplinare, ma

interlocutorio e non prescrittivo, alle sollecitazioni fornite in Saperi

in transito, restando aperti a future rielaborazioni. [A.O.]

Riferimenti

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