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Ernesto Di Fiore. Prefazione di Luigi Maria Epicoco. romanzo

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8 Libri Liberi

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Ernesto Di Fiore

NOSTALGIA NOSTALGIA

DI CASA DI CASA

Prefazione di Luigi Maria Epicoco

romanzo

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PAOLINE Editoriale Libri

© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2021

Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it www.paolinestore.it edlibri.mi@paoline.it

Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.

Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI) Le citazioni bibliche sono tratte da La Sacra Bibbia

nella versione ufficiale a cura della Conferenza Episcopale Italiana

© 2008, Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena

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«Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia».

Dal Vangelo secondo Giovanni 8,56

A ogni cercatore di Dio.

Da qualsiasi punto tu sia partito, qualsiasi via tu stia percorrendo, questa storia ti aiuti a raggiun- gere quell’unica meta.

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Prefazione

Le storie della Bibbia non sono mai storie univoche, so- no invece sempre storie ambigue ma nel senso positivo del termine. I racconti biblici infatti spalancano costantemen- te le storie a una infinita possibilità di introspezione e in- terpretazione. Ernesto Di Fiore ci offre una strada che tie- ne insieme dimensioni diverse: attraverso il testo biblico aiuta il lettore a fare un viaggio interiore che ha come sco- po quello di trasmettere un’esperienza. La via esperienzia- le è infatti la via scelta da Gesù. Con l’evento dell’incarna- zione noi sappiamo che Dio ha voluto trasmetterci la pienezza della rivelazione, cioè suo Figlio Gesù, non più solo attraverso la Legge, i Comandamenti, il semplice cul- to o religiosità, ma attraverso l’incontro con una persona viva, con un volto, una storia, una concretezza. Nell’uomo Gesù noi incontriamo il tutto di Dio. Ecco perché non dob- biamo mai avere paura di seguire la medesima via del- l’incarnazione per metterci nello stesso solco tracciato da

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Cristo. Solo così ciò che può sembrare estremamente sog- gettivo in realtà può diventare la strada maestra per un più efficace incontro con Dio.

Abramo è per eccellenza l’uomo che lascia le proprie certezze, la propria casa, la propria appartenenza per met- tersi alla ricerca di una casa, di un’appartenenza più gran- de. Tra tutti i personaggi biblici forse è quello che più riesce a farci intuire che la vita spirituale è sempre un viaggio fuori e dentro di noi. La via del cuore infatti non è una via che lascia indenne il mondo intorno a noi. Per poter incon- trare Dio bisogna mettersi in gioco nelle relazioni, negli imprevisti, nel rapporto con i nostri limiti, le nostre paure ma anche le nostre potenzialità, i nostri talenti.

Le pagine scritte da don Ernesto Di Fiore sono un ten- tativo ben riuscito di evangelizzazione narrativa. È sempre più facile identificarci con una storia che rapportarci sem- plicemente a un’idea giusta.

Sono certo che scorrendo queste pagine ognuno potrà non solo sentire il calore di una storia ben raccontata ma sentirsi allo stesso tempo letto e capito con più profondità.

In fondo ognuno di noi è Abramo, e ognuno ha una nostal- gia che lo riporta alla sua vera casa.

Luigi maria Epicoco

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I

L’eredità di Nacor

«S

ai perché siamo un popolo nomade?», chiese il nonno Nacor al piccolo Abram. «Perché abbiamo nostalgia di casa », continuò sorridendo, mentre osservava il volto stupito di suo nipote.

«Che cos’è la nostalgia, nonno?»

«La nostalgia è quando ti manca qualcosa che ami».

«A te manca casa?», chiese Abram, fermandosi per qualche secondo a riflettere. «Ma noi siamo a casa, non- no! », esclamò dopo poco il fanciullo.

Nacor esplose in una sonora risata, mentre Abram lo guardava interdetto; quindi afferrò suo nipote, lo fece se- dere sulle proprie ginocchia e incominciò a raccontargli la storia dei loro antenati e di come fossero giunti a Ur dei Caldei, dove ora risiedevano.

«Questo accampamento non è la nostra casa, noi ci vi- vremo ancora per poco; un giorno, quando tuo padre sarà pronto, smonteremo le tende, prenderemo tutti i nostri ave-

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ri e partiremo per un nuovo posto che il Signore ci indi- cherà ».

«Andremo a casa?»

«Sì, piccolo mio».

«E dove si trova?»

«La nostra casa è il cuore di Dio. In ogni altro luogo, noi saremo sempre degli stranieri».

Per un bambino, anche una metafora come quella usa- ta dal nonno può diventare qualcosa di assolutamente rea- le e così «il cuore di Dio» incominciò a essere per Abram il luogo più desiderabile in cui poter andare.

«Quando torneremo a casa?», chiese Abram.

«Quando lo desidereremo più di ogni altra cosa», rispo- se il nonno, guardandolo teneramente.

«E tu lo desideri, nonno?»

«Con tutto me stesso».

«Allora, sono certo che presto partiremo! », affermò esultante Abram, mentre i suoi occhi risplendevano di gioia.

Nacor con le sue parole aveva saputo seminare nell’in- timo del nipote il suo stesso desiderio, o forse aveva sem- plicemente fatto emergere ciò che vi era presente da sempre.

Abram crebbe, chiedendosi come fosse fatto il cuore di Dio e come si potesse arrivare ad abitarci; giocando con i suoi piccoli amici immaginava di essere un esploratore al- la ricerca di questo luogo incantato e ancora sconosciuto,

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disegnava mappe che ad esso conducevano e inventava storie su quanto accadeva in quella terra meravigliosa.

Con il trascorrere degli anni, quel desiderio restava im- mutato nella sua intensità, ma si mostrava ad Abram con un volto diverso e più maturo; il cuore di Dio smetteva di essere un luogo fisico con dei confini ben delineati e inco- minciava a mostrarsi privo di frontiere, capace di oltrepas- sare i limiti dello spazio e del tempo. Il giovane Abram intuiva che la nostalgia di casa, ereditata da suo nonno quando era bambino e che da allora custodiva gelosamen- te nel proprio intimo, poteva avere un altro nome.

“È un desiderio di infinito quello che il nonno mi ha trasmesso, è l’anelito del mio cuore che desidera ascoltare la voce del Signore. Chissà se accadrà mai?”, si domandava.

Abram era contadino e conosceva la terra, la sua gene- rosità e la fatica che si richiede a chi è disposto ad amarla per indurla a donargli i suoi frutti; si alzava con il sole e andava a dormire quando la luna giungeva ad augurargli la buonanotte. Ma era anche un pastore, si prendeva cura delle sue pecore, le accompagnava lungo prati verdeggian- ti e le osservava perché non si perdessero; andava in cerca di quelle smarrite, le medicava quando si ferivano, le aiu- tava a partorire, giocava con gli agnellini e amava portarli sulle spalle; loro, riconoscenti, crescevano, si moltiplicava- no e volentieri si privavano della loro lana e del loro latte per la sua gioia. Tra i campi e i prati trascorreva molto tempo da solo, ma questo non gli pesava; amava la sua vi-

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ta, ma sapeva che non avrebbe trascorso tutti i suoi giorni in quei luoghi, poiché la sua era una famiglia di nomadi.

«Non pretendere mai di possedere nulla come se fosse totalmente tuo e conserverai il tuo cuore libero da ogni at- taccamento alle cose di questo mondo»: il nonno glielo ripeteva sempre. «Un nomade non ha una terra di sua pro- prietà e, per quanto si dedichi a coltivare il suolo in cui ri- siede, sa che tutto è dono del Signore; a lui spetta la respon- sabilità di prendersi cura di questa terra e di far sì che essa generi frutto a ogni stagione. Il nomade non trattiene nul- la tra le sue mani, ma le tiene sempre aperte e rivolte verso l’alto, per accogliere quanto il Signore vorrà donargli ogni singolo giorno e per offrirgli i frutti del suo lavoro».

Nacor gli aveva insegnato a dire sempre grazie, per ogni cosa che riceveva. «L’uomo ha perso la sua libertà quando ha incominciato a smettere di dire grazie. Ringrazia sem- pre chi ti fa del bene, per quanto piccolo sia il suo gesto, e quando ricevi il male taci e ringrazia Dio per aver conser- vato il tuo cuore libero dal rancore. Sarai un vero nomade quando avrai imparato a rendere grazie alla vita ».

Il padre di Abram si chiamava Terach; a differenza di suo figlio e di suo padre, egli viveva con sofferenza la loro condizione di nomadi; avrebbe preferito stabilirsi nella città di Ur, dove erano accampati, acquistare un terreno per costruirvi una casa di sua proprietà e dedicarsi al com- mercio.

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Anche se era fermamente convinto di tutto ciò, Terach non aveva il coraggio di condividere i suoi pensieri con Nacor e continuava a trascorrere le sue giornate fingendo- si felice, desiderando la vita di altri, mentre avvertiva la sua come un vestito troppo stretto, cucito su misura per suo padre ma non per lui.

Dopo circa vent’anni dal loro arrivo a Ur, quella terra venne colpita da un lungo periodo di siccità. Per Nacor quel momento di crisi diventò un’occasione per smontare l’ac- campamento e dirigersi verso nuovi territori. E così invitò suo figlio a lasciare Ur definitivamente. Terach non poteva fingere, e un giorno decise di confidarsi con suo padre.

«Padre mio, non credo che andarcene sia la decisione migliore. I tempi stanno cambiando e non conviene conti- nuare a vivere come nomadi; l’agricoltura e la pastorizia rendono molto meno del commercio, stanno nascendo cit- tà sempre più grandi e ricche, in cui si vive molto meglio che nelle nostre tende».

«Finalmente hai trovato il coraggio di svelare ciò che tenevi nascosto nel cuore», rispose Nacor, mostrando di aver già compreso da tempo i turbamenti del figlio. «Fai atten- zione a questi pensieri, sono ingannevoli: noi siamo nomadi per volontà del Signore e non per mera convenienza ».

«Dio ha smesso di parlare all’uomo dai tempi del nostro padre Noè, si è dimenticato di noi. I popoli vicini hanno i loro dei e sono più ricchi e potenti di noi. Forse essi li ascol- tano, forse essi parlano con loro».

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«Le tue parole sono prive di senno, figlio mio! Non è il Signore che ha smesso di parlare, ma è l’uomo che ha smes- so di ascoltare».

Nacor era visibilmente provato da quella discussione, si piegò su se stesso, ma sforzandosi continuò a parlare:

«Gli dei degli altri popoli non sono altro che statue fabbri- cate dagli stessi uomini, espressione della perversione che abita i loro animi. Ti sei lasciato ammaliare dal fascino della ricchezza e ti sei legato a false e vuote credenze; le nostre tradizioni non hanno più valore per te?».

Terach si rendeva conto della fatica del padre, ma non riusciva a tacere: «Le cose cambiano, i tempi sono diversi.

Ragiona: andare in cerca di nuove terre significa scontrar- si con i popoli che lì risiedono o essere costretti a trovare degli accordi con loro, ma in questo modo saremo sempre deboli. Se invece ci stabilissimo a Ur, avremmo finalmente delle terre nostre e saremmo sempre certi del raccolto che esse ci possono dare; potremmo far crescere il commercio e fortificare i legami con i popoli vicini. La nostra vita non sarebbe più così incerta e i nostri figli sarebbero più sicuri del loro avvenire. Se qualcuno di loro vorrà continuare a viaggiare, sarà comunque libero di farlo».

«Fintanto che io sarò in vita, noi resteremo un popolo nomade, poiché questa è la volontà del Signore! ». Nacor pronunciò le parole alzando il tono della voce, poi, colto da un improvviso malore, si piegò sulle ginocchia, si strin- se con la mano il petto e cadde per terra.

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L’infarto non fu fatale per lui, ma gravò fortemente sul- la sua salute; passava gran parte della giornata a letto o seduto, mangiava poco e divenne molto silenzioso. Terach evitava di riaprire quel discorso con il padre e scelse di continuare la sua vita come prima, fingendo che nulla fos- se accaduto.

Abram era il secondo dei tre figli di Terach. Il maggio- re si chiamava Nacor, come il nonno; un uomo scaltro, ec- cellente comunicatore, cinico e opportunista, e nel tempo era divenuto un abile commerciante. Il fratello minore si chiamava Aran ed era morto cinque anni prima, lasciando una moglie e un figlio di nome Lot, di cui Abram si pren- deva cura.

Un giorno, Abram si ritrovò ad affrontare con il fratel- lo Nacor lo stesso discorso che aveva visto coinvolti il padre e il nonno: «Hai sentito che cosa ha chiesto il nonno a no- stro padre?», chiese Nacor.

«Gli ha fatto promettere di lasciare questa terra alla sua morte e di stabilirsi in un nuovo territorio. Credo che no- stro padre lo farà, anche se non vorrebbe…; lo farà per ri- spetto del nonno e delle nostre tradizioni, ma io non lo seguirò. Qui il commercio rende moltissimo e Ur sta diven- tando una città sempre più grande e ricca. Fratello mio, perché non ti stabilisci anche tu qui? Ormai hai tante terre, beni e un gregge numeroso; potrai continuare a crescere piuttosto che essere costretto a ricominciare tutto daccapo

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in una terra straniera. Potrai avere finalmente un tetto sta- bile sotto cui dormire, godere di tutte le novità che la vita cittadina offre, vedere gente nuova che passa per il merca- to, acquistare schiavi provenienti da terre sconosciute! Non è meraviglioso?»

«Non trovo nulla di attraente in tutto questo e non vedo perché dovrei rinunciare alla vita che amo», rispose Abram.

Ma Nacor incalzò con maggiore insistenza: «Insieme possiamo essere ancora più potenti, farci un nome in città ed essere rispettati, finalmente. Non mi abbandonare, fra- tello mio! ».

«Cerchi soltanto ricchezza, fama e potere. È svilente questo modo di vivere».

«Ogni uomo desidera ottenere quello che tu stai di- sprezzando», rispose Nacor, mentre guardava perplesso suo fratello.

«Se la vita si limitasse a questo, perché il Signore ci chiederebbe di vivere come nomadi?»

«Non è il Signore ad avercelo chiesto, sono semplice- mente le nostre vecchie tradizioni, che considero ormai superate. Fratello mio, non esiste nulla oltre quello che noi possiamo comprendere con la nostra ragione e fabbricare con le nostre mani; anche le divinità esistono perché siamo noi a crearle e non il contrario».

«Almeno tu, a differenza di nostro padre, riconosci che quelle divinità sono solo statuette. Ma Dio esiste, lo stesso Dio che ha parlato un giorno ai nostri padri».

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«C’è forse qualcuno del nostro popolo che ha visto il volto di Dio? A chi di noi egli ha fatto ascoltare la sua vo- ce?», chiese Nacor in modo provocatorio e Abram tacque, non sapeva che cosa rispondere.

«Non so se il Signore parlerà a qualcuno di noi», ripre- se Abram, «non so se vorrà farlo con me o con qualcun altro, ma desidero che ciò avvenga e questo desiderio è co- me un fuoco divorante che brucia le mie ossa, è più grande di me e non sono io ad averlo creato, non l’ho voluto e non l’ho cercato, è semplicemente qui, dentro di me. Non sai quante volte ho provato a farlo tacere, ma più tentavo di soffocarlo, più si faceva sentire con intensità sempre mag- giore. Non posso non desiderare che Dio mi parli, non pos- so smettere di bramare una vita diversa, che abbia il gusto dell’eterno, che sia svincolata dai legacci di questa esisten- za; non riesco a non alzare gli occhi al cielo, sperando di poter abitare un giorno in una patria in cui regni stabil- mente l’amore e in cui il male e l’ingiustizia non abbiano più accesso. Vorrei potermi accontentare di un’esistenza come quella che tu persegui, vorrei che mi bastasse il go- dimento delle ricchezze e dei piaceri che una tale vita sa- rebbe in grado di offrirmi, ma tutto questo non basta, è troppo poco per dare senso alla mia vita ».

Nacor lo guardava con aria di biasimo e preoccupazio- ne: «Così rischi di essere per sempre infelice; questo desi- derio non si realizzerà mai. Non meriti questa vita, sei un uomo brillante e puoi avere tutto, perché non ti rassegni?».

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«Perché credo che la grandezza di un uomo non si mi- suri dai beni che egli possiede, ma dal coraggio che egli ha di ascoltare il proprio cuore».

Il confronto tra i due terminò così, senza aggiungere altre parole e senza che l’uno riuscisse a far cambiare idea all’altro. Passarono i giorni e la situazione del nonno si ag- gravava. Una sera, egli si trovava nella sua tenda, sdraiato nel letto in attesa che Abram lo raggiungesse, come era solito fare dopo aver terminato il lavoro nei campi e con il gregge. Abram arrivò ancora sudato per la fatica; aveva appena parlato con la nonna fuori dalla tenda e sapeva in che stato si trovasse il nonno. Gli aveva portato un poco di latte appena munto e lo aiutò a berlo, alzandogli legger- mente la schiena e offrendogli un braccio come spalliera.

Nacor ne bevve appena un sorso, solo per gratificare il ni- pote, poi Abram lo rimise in posizione supina.

«Non perdere mai quella nostalgia », riuscì a dire final- mente.

Abram rispose assentendo con lo sguardo.

«Sarà lei a mantenerti sempre vivo, a custodirti integro e vero. Potrai anche diventare un uomo ricco e potente, ma finché non avrai imparato ad ascoltare il tuo cuore e a segui- re la voce del Signore che proprio nel cuore ti parla, vivrai da esule nella tua stessa terra e tra i tuoi stessi beni». Rimase in silenzio, lo guardò negli occhi per leggervi ciò che è scritto nel cuore, come se essi fossero le pagine di un libro. «Il tuo sguardo non è sereno: il tuo cuore è turbato, nipote mio».

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«Non è niente nonno». Abram cercò di sviare il discor- so, pur sapendo che non sarebbe servito.

«Non farti remore per la mia salute, dimmi che cosa ti spaventa », gli rispose prontamente il vecchio Nacor.

«Tu hai mai ascoltato la voce del Signore?»

Abram incominciava a far parlare il suo cuore e a con- fidare le sue paure.

«Il Signore non mi ha mai voluto concedere questa con- solazione».

Le parole del nonno erano velate di tristezza, ma era una tristezza leggera, rassegnata, confidente e grata per quanto aveva comunque ricevuto, pur non essendo ciò a cui maggiormente anelava.

«C’è qualcuno a cui il Signore abbia fatto udire la sua voce?»

«Nessuno tra i nostri antenati ha mai ricevuto questo privilegio dopo Noè, da cui discendiamo».

Nacor si fermò nuovamente per leggere negli occhi del nipote e poi continuò risoluto: «Fai attenzione, Abram, a quel che stai pensando».

«Che cosa sto pensando?», restò nuovamente spiazzato dall’acutezza del nonno.

«Tu dai troppo peso all’opinione degli altri: in questo modo non sarai mai libero. Tu sei diverso da loro, tu riesci a vedere il Signore presente in tutte le cose e desideri in- contrarlo. Non lasciarti confondere; dovessi anche essere l’unica persona a pensarla in questo modo, scegli sempre

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di difendere ciò in cui credi. Un giorno traccerai una stra- da che altri seguiranno e non ti sentirai più solo. Quel gior- no ci ritroveremo».

Iniziò a tossire fortemente, Abram si spaventò e chiamò la nonna, ma Nacor cercò di trattenerlo, tossì ancora un po’, poi riuscì a calmarsi. Con quell’ultimo filo di voce che gli rimaneva, sospirò le ultime parole della sua vita per be- nedire il nipote prediletto. Abram piangeva, tenendo il nonno tra le braccia e ringraziando Dio, come gli era stato insegnato dal suo maestro di vita. La nonna si affacciò sul- la soglia della tenda e li trovò abbracciati: Abram seduto sul bordo del letto con il volto del nonno poggiato sul pet- to. Rimase ferma a guardare, intenerita da tanta dolcezza, e per un attimo sembrò quasi cancellare la tristezza di quell’evento, poi corse anche lei dal suo Nacor.

Nacor morì così come era vissuto: a centoquarantotto anni, fedele al Signore, avvolto dall’amore e con la gioia di poter continuare a vivere nel ricordo dei suoi cari e nei so- gni di chi nutriva ancora la sua stessa nostalgia.

Nacor aveva ventinove anni quando ge- nerò Terach; Nacor, dopo aver generato Te- rach, visse centodiciannove anni e generò figli e figlie. Terach aveva settant’anni quan- do generò Abram, Nacor e Aran.

Libro della Genesi 11,24-26

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Indice

Prefazione di Luigi Maria Epicoco pag. 7

I. L’eredità di Nacor » 9

II. Vattene! » 21

III. In cammino » 31

IV. Nella terra d’Egitto » 39

V. Arrivederci, Lot » 53

VI. Il misterioso Melchisedek » 65 VII. Guarda in cielo e conta le stelle,

se riesci a contarle » 77 VIII. Un amore che non chiede nulla in cambio » 89 IX. L’impazienza di Sarai » 95 X. La «correzione» del Signore » 109

XI. Un amico fedele » 119

XII. Un vecchio nemico » 125

XIII. Sii integro » 143

XIV. Abissi profondi » 159

XV. Un fiume d’acqua viva » 173 XVI. Il regno del silenzio » 181

XVII. Un nome nuovo » 193

XVIII. Sodoma e Gomorra » 205

XIX. I tre uomini alle Querce di Mamre » 217

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XX. Verso Gerar pag. 233

XXI. Colui che riderà » 245

XXII. Il Dio dell’eternità » 259

XXIII. La legge dell’amore » 277

XXIV. Ancora un poco, un poco appena » 293

XXV. Fino alla fine » 313

XXVI. Il compimento del viaggio » 327

Epilogo. Soffia il vento » 341

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LIBRI LIBERI

Nella collana trovano casa testi di differente genere, forma e con- fezione che fanno di valori umani e cristiani il loro riferimento e la loro forza. Narrazione, inedito e profondità dicono il tenore dei libri che la collana raccoglie.

1. Nella notte, di Inga Nalbandian, a cura di Letizia Leonardi 2. L’angelo, la mosca e l’anima, di Ferruccio Parazzoli

3. Donne di sabbia. Romanzo, di Laura Cappellazzo 4. Torna da me, di Valentina Barbera

5. Jaap e la collina dei sogni, di Pierpaolo Piangiolino

6. Per un’altra strada. La leggenda del Quarto Magio. Romanzo, di Mim- mo Muolo

7. La trattoria del cardinale. Brevi storie di convivialità e fede, di Sabrina Vecchi

8. Nostalgia di casa. Romanzo, di Ernesto Di Fiore

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