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Publius Vergilius Maro (Virgilio)

Eneide

www.liberliber.it

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Eneide

AUTORE: Publius Vergilius Maro (Virgilio) TRADUTTORE: Annibal Caro

CURATORE:

NOTE: L'opera di Virgilio qui pubblicata è stata tradotta da Annibal Caro (1507-1566) che volontariamente ha stravolto l'originale (nei vv. 772-782), inserendo nel testo un episodio legato alle satire dei villani.

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:

http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/

TRATTO DA: L' Eneide di Virgilio

nella traduzione di Annibal Caro Ulrico Hoepli Editore S.p.A.

Milano 1991

CODICE ISBN: 88-203-1919-5

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 21 luglio 1998

INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:

Amedeo Marchini

REVISIONE:

Enrico Flaiani, efl@iol.it

PUBBLICATO DA:

Alberto Barberi

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ENEIDE di Virgilio

Trad. di Annibal Caro

LIBRO PRIMO

Quell'io che già tra selve e tra pastori di Titiro sonai l'umil sampogna,

e che, de' boschi uscendo. a mano a mano fei pingui e cólti i campi, e pieni i vóti

d'ogn'ingordo colono, opra che forse agli agricoli è grata; ora di Marte

L'armi canto e 'l valor del grand'eroe che pria da Troia, per destino, a i liti d'Italia e di Lavinio errando venne;

e quanto errò, quanto sofferse, in quanti e di terra e di mar perigli incorse,

come il traea l'insuperabil forza del cielo, e di Giunon l'ira tenace;

e con che dura e sanguinosa guerra fondò la sua cittade, e gli suoi dèi ripose in Lazio: onde cotanto crebbe il nome de' Latini, il regno d'Alba, e le mura e l'imperio alto di Roma.

Musa, tu che di ciò sai le cagioni, tu le mi detta. Qual dolor, qual onta fece la dea ch'è pur donna e regina de gli altri dèi, sí nequitosa ed empia contra un sí pio? Qual suo nume l'espose per tanti casi a tanti affanni? Ahi! tanto possono ancor là su l'ire e gli sdegni?

Grande, antica, possente e bellicosa colonia de' Fenici era Cartago,

posta da lunge incontr'Italia e 'ncontra a la foce del Tebro: a Giunon cara sí, che le fûr men care ed Argo e Samo.

Qui pose l'armi sue, qui pose il carro, qui di porre avea già disegno e cura (se tale era il suo fato) il maggior seggio, e lo scettro anco universal del mondo.

Ma già contezza avea ch'era di Troia per uscire una gente, onde vedrebbe le sue torri superbe a terra sparse, e de la sua ruina alzarsi in tanto, tanto avanzar d'orgoglio e di potenza, che ancor de l'universo imperio avrebbe:

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tal de le Parche la volubil rota girar saldo decreto. Ella, che téma avea di ciò, non posto anco in oblio come, a difesa de' suoi cari Argivi, fosse a Troia acerbissima guerriera, ripetendone i semi e le cagioni, se ne sentia nel cor profondamente or di Pari il giudicio, or l'arroganza d'Antígone, il concúbito d'Elettra, lo scorno d'Ebe, alfin di Ganimede e la rapina e i non dovuti onori.

Da tante, oltre al timor, faville accesa, quei pochi afflitti e miseri Troiani

ch'avanzaro agl'incendi, a le ruine, al mare, ai Greci, al dispietato Achille, tenea lunge dal Lazio; onde gran tempo, combattuti da' vènti e dal destino,

per tutti i mari andâr raminghi e sparsi:

di sí gravoso affar, di sí gran mole fu dar principio a la romana gente.

Eran di poco, e del cospetto a pena de la Sicilia navigando usciti,

e già, preso de l'alto, a piene vele se ne gian baldanzosi, e con le prore e co' remi facean l'onde spumose, quando, punta Giunon d'amara doglia:

«Dunque, - disse - ch'io ceda? e che di Troia venga a signoreggiar Italia un re,

ch'io nol distorni? Oh, mi son contra i fati!

Mi sieno: osò pur Pallade, e poteo ardere e soffocar già degli Argivi tanti navili, e tanti corpi ancidere per lieve colpa e folle amor d'un solo, Aiace d'Oïlèo. Contra costui

ella stessa vibrò di Giove il tèlo giú dalle nubi; ella commosse i vènti e turbò 'l mare, e i suoi legni disperse:

e quando ei già dal fulminato petto

sangue e fiamme anelava, a tale un turbo in preda il diè, che per acuti scogli

miserabil ne fe' rapina e scempio.

Tanto può Palla? Ed io, io de gli dèi regina, io sposa del gran Giove e suora, son di quest'una gente omai tant'anni nimica in vano? E chi piú de' mortali sarà che mi sacrifichi, e m'adori?»

Ciò fra suo cor la dea fremendo ancora, giunse in Eòlia, di procelle e d'àustri e de le furie lor patria feconda.

Eolo è suo re, ch'ivi in un antro immenso le sonore tempeste e i tempestosi

vènti, sí com'è d'uopo, affrena e regge.

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Eglino impetuosi e ribellanti

tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito, che ne trema la terra e n'urla il monte.

Ed ei lor sopra, realmente adorno di corona e di scettro, in alto assiso, l'ira e gl'impeti lor mitiga e molce.

Se ciò non fosse, il mar, la terra e 'l cielo lacerati da lor, confusi e sparsi

con essi andrian per lo gran vano a volo;

ma la possa maggior del padre eterno provvide a tanto mal serragli e tenebre d'abissi e di caverne; e moli e monti lor sopra impose; ed a re tale il freno ne diè, ch'ei ne potesse or questi or quelli con certa legge o rattenere o spingere.

A cui davanti l'orgogliosa Giuno allor umíle e supplichevol disse:

«Eölo, poi che 'l gran padre del cielo a tanto ministerio ti prepose

di correggere i vènti e turbar l'onde, gente inimica a me, mal grado mio, naviga il mar Tirreno; e giunta a vista è già d'Italia, al cui reame aspira;

e d'Ilio le reliquie, anzi Ilio tutto seco v'adduce e i suoi vinti Penati.

Sciogli, spingi i tuoi vènti, gonfia l'onde, aggiragli, confondigli, sommergigli, o dispergigli almeno. Appo me sono sette e sette leggiadre ninfe e belle;

e di tutte piú bella e piú leggiadra è Deiopèa. Costei vogl'io, per merto di ciò, che sia tua sposa; e che tu seco di nodo indissolubile congiunto,

viva lieto mai sempre, e ne divenga padre di bella e di te degna prole».

Eolo a rincontro: «A te, regina, - disse - conviensi che tu scopra i tuoi desiri,

ed a me ch'io gli adempia. Io ciò che sono son qui per te. Tu mi fai Giove amico, tu mi dài questo scettro e questo regno;

se re può dirsi un che comandi a' vènti.

Io, tua mercé, su co' celesti a mensa nel ciel m'assido; e co' mortali in terra son di nembi possente e di tempeste».

Cosí dicendo, al cavernoso monte con lo scettro d'un urto il fianco aperse, onde repente a stuolo i vènti usciro.

Avean già co' lor turbini ripieni di polve e di tumulto i colli e i campi,

quando quasi in un gruppo ed Euro e Noto s'avventaron nel mare, e fin da l'imo

lo turbâr sí, che ne fêr valli e monti;

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monti, ch'al ciel, quasi di neve aspersi, sorti l'un dopo l'altro, a mille a mille volgendo, se ne gian caduchi e mobili con suono e con ruina i liti a frangere.

Il grido, lo stridore, il cigolare de' legni, de le sarte e de le genti, i nugoli che 'l cielo e 'l dí velavano, la buia notte, ond'era il mar coverto, i tuoni, i lampi spaventosi e spessi, tutto ciò che s'udia, ciò che vedevasi rappresentava orror, perigli e morte.

Smarrissi Enea di tanto, e tale un gelo sentissi, che tremante al ciel si volse con le man giunte, e sospirando disse:

«O mille volte fortunati e mille color che sotto Troia e nel cospetto de' padri e de la patria ebbero in sorte di morir combattendo! O di Tidèo fortissimo figliuol, ch'io non potessi cader per le tue mani, e lasciar ivi questa vita affannosa, ove lasciolla vinto per man del bellicoso Achille, Ettor famoso e Sarpedonte altero?

E se d'acqua perire era il mio fato, perché non dove Xanto o Simoenta volgon tant'armi e tanti corpi nobili?»

Cosí dicea; quand'ecco d'Aquilone una buffa a rincontro, che stridendo

squarciò la vela, e 'l mar spinse a le stelle, Fiaccârsi i remi; e là 've era la prua,

girossi il fianco; e d'acqua un monte intanto venne come dal cielo a cader giú.

Pendono or questi or quelli a l'onde in cima;

or a questi or a quei s'apre la terra fra due liquidi monti, ove l'arena, non men ch'ai liti, si raggira e ferve.

Tre ne furon dal Noto a l'Are spinte;

- Are chiaman gli Ausoni un sasso alpestro da l'altezza de l'onde allor celato,

che sorgea primo in alto mare altissimo - e tre ne fûr dal pelago a le Sirti,

(miserabile aspetto) ne le secche tratte da l'Euro, e ne l'arene immerse.

Una, che 'l carco avea del fido Oronte con le genti di Licia, avanti agli occhi di lui perí. Venne da Bora un'onda,

anzi un mar, che da poppa in guisa urtolla, che 'l temon fuori e 'l temonier ne spinse;

e lei girò sí che 'l suo giro stesso le si fe' sotto e vortice e vorago, da cui rapita, vacillante e china, quasi stanco palèo, tre volte volta,

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calossi gorgogliando, e s'affondò.

Già per l'ondoso mar disperse e rare le navi e i naviganti si vedevano;

già per tutto di Troia, a l'onde in preda, arme, tavole, arnesi a nuoto andavano;

già quel ch'era piú valido e piú forte legno d'Ilïonèo, già quel d'Acate

e quel d'Abante e quel del vecchio Alete, ed alfin tutti sconquassati, a l'onde micidïali aveano i fianchi aperti;

quando, a tanto rumor, da l'antro uscito il gran Nettuno, e visto del suo regno rimescolarsi i piú riposti fondi:

«Oh - disse irato - ond'è questa importuna tempesta?» E grazïoso il capo fuori

trasse de l'onde; e rimirando intorno, per lo mar tutto dissipati e laceri vide i legni d'Enea; vide lo strazio de' suoi ch'a la tempesta, a la ruina e del mare e del cielo erano esposti.

E ben conobbe in ciò, come suo frate, che ne fôra cagion l'ira e la froda

de l'empia Giuno. Euro a sé chiama e Zefiro, e 'n tal guisa acremente li rampogna:

«Tanta ancor tracotanza in voi s'alletta, razza perversa? Voi, voi, senza me, nel regno mio la terra e 'l ciel confondere, e far nel mare un sí gran moto osate?

Io vi farò... Ma di mestiero è prima abbonazzar quest'onde. Altra fiata in altra guisa il fio mi pagherete del fallir vostro. Via tosto di qua, spirti malvagi; e da mia parte dite al vostro re che questo regno e questo tridente è mio, e che a me solo è dato.

Per lui sono i suoi sassi e le sue grotte, case degne di voi; quella è sua reggia;

quivi solo si vanti; e per regnare, de la prigion de' suoi vènti non esca».

Cosí dicendo, in quanto a pena il disse, la tempesta cessò, s'acquetò 'l mare, si dileguâr le nubi, apparve il sole.

Cimòtoe e Triton, l'una con l'onde, l'altro col dorso, le tre navi indietro ritirâr da lo scoglio in cui percossero.

Le tre che ne l'arena eran sepolte, egli stesso, le vaste sirti aprendo, sollevò col tridente ed a sé trassele.

Poscia sovra al suo carro d'ogn'intorno scorrendo lievemente, ovunque apparve, agguagliò 'l mare, e lo ripose in calma.

Come addivien sovente in un gran popolo,

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allor che per discordia si tumultua, e imperversando va la plebe ignobile, quando l'aste e le faci e i sassi volano e l'impeto e 'l furor l'arme ministrano, se grave personaggio e di gran merito esce lor contro, rispettosi e timidi, fatto silenzio, attentamente ascoltano, ed al detto di lui tutti s'acquetano;

cosí d'ogni ruina e d'ogni strepito

fu 'l mar disgombro, allor che umíle e placido a ciel aperto il gran rettor del pelago

co' suoi lievi destrier volando scórselo.

Stanchi i Troiani, ai liti ch'eran prossimi drizzaro il corso, e 'n Libia si trovarono.

È di là lungo a la riviera un seno, anzi un porto; ché porto un'isoletta

lo fa, che in su la bocca al mare opponsi.

Questa si sporge co' suoi fianchi in guisa ch'ogni vento, ogni flutto, d'ogni lato che vi percuota, ritrovando intoppo, o si frange, o si sparte, o si riversa.

Quinci e quindi alti scogli e rupi altissime, sotto cui stagna spazïoso un golfo

securo e queto: e v'ha d'alberi sopra tale una scena, che la luce e 'l sole

vi raggia, e non penètra: un'ombra opaca, anzi un orror di selve annose e folte.

D'incontro è di gran massi e di pendenti scogli un antro muscoso, in cui dolci acque fan dolce suono; e v'ha sedili e sponde di vivo sasso: albergo veramente di ninfe, ove a fermar le stanche navi né d'àncora v'è d'uopo, né di sarte.

Qui sol con sette, che raccolse a pena di tanti legni, Enea ricoverossi.

Qui stanchi tutti e maceri, e del mare ancor paurosi, i liti a pena attinsero, che a terra avidamente si gittarono.

Acate fece in pria selce e focíle scintillar foco, e dièlli esca e fomento.

Altri poscia d'intorno ad altri fuochi (come quei che di vitto avean disagio, e le biade trovâr corrotte e molli) si diêr con vari studi e vari ordigni a rasciugarle, a macinarle, a cuocerle.

Intanto Enea sovr'un de' scogli asceso, quanto si discopria con l'occhio intorno, stava mirando s'alcun legno fosse

per alcun luogo apparso, o quel d'Antèo, o quel di Capi, o pur quel di Caíco

che in poppa avea la piú sublime insegna.

Nïun ne vide: ma ben vide errando

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gir per la spiaggia tre gran cervi, e dietro d'altri minori innumerabil torma,

che in sembianza d'armenti empian le valli.

Fermossi: e pronto a cotal uso avendo l'arco e 'l turcasso (ché quest'armi appresso gli portava mai sempre il fido Acate),

diè lor di piglio: e saettando prima i primi tre, che piú vide altamente erger le teste e inalberar le corna,

contra 'l volgo si volse; e 'l lito e 'l bosco, ovunque gli scorgea, folgorò tutto.

Ne cacciò, ne ferí, strage ne fece a suo diletto; né si vide prima sazio che, come sette eran le navi, sette non ne vedesse a terra stesi.

In questa guisa ritornando al porto, gli spartí parimente a' suoi compagni;

e con essi del vin, che 'l buon Aceste a l'uscir di Sicilia in don gli diede, molt'urne dispensò per ricrearli;

poscia a conforto lor cosí lor disse:

«Compagni, rimembrando i nostri affanni, voi n'avete infiniti omai sofferti

vie piú gravi di questi. E questi fine,

(quando che sia) la dio mercede, avranno.

Voi la rabbia di Scilla, voi gli scogli di tutti i mari omai, voi de' Ciclopi varcaste i sassi; ed or qui salvi siete.

Riprendete l'ardir, sgombrate i petti di téma e di tristizia. E' verrà tempo un dí che tante e cosí rie venture, non ch'altro, vi saran dolce ricordo.

Per vari casi e per acerbi e duri perigli è d'uopo far d'Italia acquisto.

Ivi riposo, ivi letizia piena

vi promettono i fati, e nuova Troia e nuovi regni al fine. Itene intanto:

soffrite, mantenetevi, serbatevi a questo, che dal ciel si serba a voi, sí glorioso e sí felice stato».

Cosí dicendo a' suoi, pieno in se stesso d'alti e gravi pensier, tenea velato

con la fronte serena il cuor doglioso.

Fecer tutti coraggio; e di cibo avidi già rivolti a la preda, altri le tèrgora le svelgon da le coste, altri sbranandola mentre è tiepida ancor, mentre che palpita, lunghi schidioni e gran caldaie apprestano, e l'acqua intorno e 'l fuoco vi ministrano.

Poscia d'un prato e seggio e mensa fattisi, taciti prima sopra l'erba agiandosi,

d'opima carne e di vin vecchio empiendosi,

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quanto puon lietamente si ricreano.

Poiché fûr sazi, a ragionar si diêro, con voce or di timore or di cordoglio, de' perduti compagni, in dubbio ancora se fosser vivi, e se pur giunti al fine piú de' richiami lor nulla curassero.

Enea vie piú di tutti e di pietate e di dolor compunto, il caso acerbo or d'Àmico, or d'Oronte, e Lico e Gía ne' sospir richiamava e 'l buon Cloanto.

Erano al fine omai; quando il gran Giove da l'alta spera sua mirando in giuso la terra e 'l mar di questo basso globo, mentre di lito in lito, e d'uno in altro scerne i popoli tutti, al cielo in cima fermossi, e ne la Libia il guardo affisse.

Venere, allor ch'a le terrene cose lo vide intento, dolcemente afflitta il volto, e molle i begli occhi lucenti, gli si fece davanti, e cosí disse:

« Padre, che de' mortali e de' celesti siedi eterno monarca, e folgorando empi di téma e di spavento il mondo, e quale ha contra te fallo sí grave

commesso Enea mio figlio, o i suoi Troiani, che, dopo tanti affanni e tante stragi,

c'han di lor fatto il ferro, il fuoco e il mare, non trovin pace, né pietà, né loco

pur che gli accetti? In cotal guisa omai del mondo son, non che d'Italia, esclusi.

Io mi credea, signor (quel che promesso n'era da te), che tornasse anco un giorno, quando che fosse, il generoso germe di Dardano a produr quei glorïosi eroi, quei duci invitti, quei Romani de l'universo domatori e donni:

e tu ne 'l promettesti. Or come, padre, il ciel cangia destino, e tu consiglio?

Questa sola credenza era cagione di consolarmi in parte de l'eccidio de la mia Troia, ch'io soffrissi in pace tante ruine sue, fato con fato

ricompensando. Or la fortuna stessa e vie piú fera la persegue e dura.

E quanto durerà, signore, ancora?

Tal non fu già d'Antènore l'esilio;

ch'ei non piú tosto de l'achive schiere per mezzo uscio, che con felice corso penetrò d'Adria il seno; entrò securo nel regno de' Liburni; andò fin sopra al fonte di Timavo; e là 've il fiume

fremendo il monte intuona, e là 've aprendo

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fa nove bocche un mare, e, mar già fatto, inonda i campi e rumoreggia e frange, Padoa fondò, pose de' Teucri il seggio, e diè lor nome e le lor armi affisse.

Ivi ridotto il suo regno, e composto quïetamente, or lo si gode in pace.

E noi, noi del tuo sangue, e che da te avemo anco del cielo arra e possesso, ad una sola indegnamente in ira, perdute, ohimè! le proprie navi, fuori siamo d'Italia e di speranza ancora

di non mai piú vederla. Or questo è 'l pregio che si deve a pietade? E questo è il regno che da te, padre mio, ne si promette?»

Sorrise Giove, e con quel dolce aspetto con che 'l ciel rasserena e le tempeste, rimirolla, basciolla, e cosí disse:

«Non temer, Citerèa, ché saldi e certi stanno i fati de' tuoi. S'adempieranno le mie promesse; sorgeran le torri de la novella Troia; vedrai le mura di Lavinio; porrai qui fra le stelle il magnanimo Enea. Ché né 'l destino in ciò si cangerà, né 'l mio consiglio.

Ma per trarti d'affanni, io te 'l dirò piú chiaramente; e scoprirotti intanto de' fati i piú reconditi secreti.

Figlia, il tuo figlio Enea tosto in Italia sarà; farà gran guerra, vincerà:

domerà fere genti: imporrà leggi:

darà costumi, e fonderà città:

e di già, vinti i Rutuli, tre verni e tre stati regnar Lazio vedrallo.

Ascanio giovinetto, or detto Iulo, ed Ilo prima infin ch'Ilio non cadde, succederagli; e trenta giri interi

del maggior lume, il sommo imperio avrà.

Trasferirallo in Alba: Alba la lunga sarà la reggia sua possente e chiara.

Qui regneranno poi sotto la gente d'Ettorre un dopo l'altro un corso d'anni tre volte cento; finch'Ilia regina

d'un parto produrrà gemella prole.

Indi capo ne fia Romolo invitto.

Questi, in vece di manto, adorno il tergo de la sua marzïal nudrice lupa,

di Marte fonderà la gran cittade:

e dal nome di lui Roma diralla.

A Roma non pongo io termine o fine:

ché fia del mondo imperatrice eterna.

E l'aspra Giuno, ch'or la terra e 'l mare e 'l ciel per téma intorbida e scompiglia,

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con piú sano consiglio al mio conforme, procurerà che la romana gente

in arme e 'n toga a l'universo imperi.

E cosí stabilisco: e cosí tempo ancor sarà ch'Argo, Micene e Ftia e i Greci tutti tributari e servi de la casa di Assàraco saranno.

Di questa gente, e de la Iulia stirpe, che da quel primo Iulo il nome ha preso, Cesare nascerà, di cui l'impero

e la gloria fia tal, che per confine l'uno avrà l'Oceàno, e l'altra il cielo.

Questi, già vinto il tutto, poi che onusto de le spoglie sarà de l'Orïente,

anch'egli avrà da te qui seggio eterno, e là giú fra' mortali incensi e vóti.

L'aspro secolo allor, l'armi deposte, si farà mite. Allor la santa Vesta e la candida Fede e 'l buon Quirino col frate Remo il mondo in cura avranno.

Allor con salde e ben ferrate sbarre de la guerra saran le porte chiuse:

e dentro in fra la ruggine sepolto con cento nodi incatenato e stretto gran tempo si starà l'empio Furore;

e rabbioso fremendo orribilmente,

con fuoco a gli occhi, e bava e sangue a i denti morderà l'armi e le catene indarno».

Cosí detto, spedí tosto da l'alto di Maia il figlio a far sí ch'a' Troiani fosse Cartago e il suo paese amico, perché del fato la regina ignara, non fosse lor, per ferità de' suoi o per sua téma, inospitale e cruda.

Vassene il messaggier per l'aria a volo velocemente, e ne la Libia giunto, quel ch'imposto gli fu ratto eseguisce.

E già, la dio mercé, lasciano i Peni la lor fierezza; e la regina in prima s'imbeve d'un affetto e d'una mente verso i Troiani affabile e benigna.

La notte intanto, del pietoso Enea molti furo i sospir, molti i pensieri.

Conchiuse alfin ch'a l'apparir del giorno spïar dovesse, e riportarne avviso a suoi compagni, in qual paese il vento gli avesse spinti; e s'uomini o pur fere (perché incolto il vedea) quivi abitassero.

Cosí tra selve ombrose e cave rupi fatti i legni appiattar, sol con Acate, e con due dardi in mano in via si pose.

In mezzo de la selva una donzella,

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ch'era sua madre, sí com'era avanti che madre fosse incontro gli si fece.

Donzella a l'armi, a l'abito, al sembiante parea di Sparta, o quale in Tracia Arpàlice leggiera e sciolta, il dorso affaticando di fugace destrier, l'Ebro varcava.

Al collo avea di cacciatrice un arco abile e lesto, i crini a l'aura sparsi, nudo il ginocchio; e con bel nodo stretto tenea raccolto della gonna il seno.

Ella fu prima a dire: «Avreste voi, giovani, de le mie sorelle alcuna

vista errar quinci, o ch'aggia l'arco al fianco, o che gli omeri vesta d'una pelle

di cervier maculato, o che gridando d'un zannuto cignal segua la traccia?»

Cosí Venere disse. Ed, a rincontro, di Venere il figliuol cosí rispose:

«Nïuna ho de le tue veduta, o 'ntesa, vergine... qual ti dico, e di che nome chiamar ti deggio? Ché terreno aspetto non è già 'l tuo, né di mortale il suono.

Dea sei tu veramente, o suora a Febo, o figlia a Giove, o de le ninfe alcuna:

e chïunque tu sii, propizia e pia

vèr noi ti mostra, e i nostri affanni ascolta.

Dinne sotto qual cielo, in qual contrada siamo or del mondo: ché raminghi andiamo;

e qui dal vento e da fortuna spinti nulla o de gli abitanti o de' paesi notizia abbiamo. A te, s'a ciò m'aíti, di nostra man cadrà piú d'una vittima».

Venere allor soggiunse: «Io non m'arrogo celeste onore. In Tiro usan le vergini di portar arco, e di calzar coturni;

e di Tiro e d'Agènore le genti

traggon principio, che qui seggio han posto:

ma 'l paese è di Libia, ed avvi in guerra gente feroce. Or n'è capo e regina Dido che, da l'insidie del fratello fuggendo, è qui venuta. A dirne il tutto lunga fôra novella e lungo intrico.

Ma toccandone i capi, avea costei Sichèo per suo consorte, uno il piú ricco di terra e d'oro, che in Fenicia fosse, da la meschina unicamente amato, anzi il suo primo amore. Il padre intatta nel primo fior di lei seco legolla.

Ma del regno di Tiro avea lo scettro Pigmalïon suo frate, un signor empio, un tiranno crudele e scellerato

piú ch'altri mai. Venne un furor fra loro

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tal, che Sichèo da questo avaro e crudo, per sete d'oro, ove men guardia pose, fu tra gli altari ucciso; e non gli valse che la germana sua tanto l'amasse.

Ciò fe' celatamente: e per celarlo vie piú, con finzïoni e con menzogne deluse un tempo ancor l'afflitta amante.

Ma nel fin, di Sichèo la stessa imago, fuor d'un sepolcro uscendo, sanguinosa, pallida, macilenta e spaventevole,

le apparve in sogno, e presentolle, avanti gli empi altari ove cadde, il crudo ferro che lo trafisse, e del suo frate tutte l'occulte scelleraggini le aperse.

Poscia: "Fuggi di qua, fuggi" le disse

"tostamente, e lontano". E per sussidio de la sua fuga, le scoperse un loco sotterra, ov'era inestimabil somma d'oro e d'argento, di molt'anni ascoso.

Quinci Dido commossa, ordine occulto di fuggir tenne, e d'adunar compagni;

ché molti n'adunò, parte per odio, parte per téma di sí rio tiranno.

Le navi che trovâr nel lito preste, caricâr d'oro, e fêr vela in un súbito.

Cosí 'l vento portossene la speme de l'avaro ladrone. E fu di donna questo sí degno e memorabil fatto.

Giunsero in questi luoghi, ov'or vedrai sorger la gran cittade e l'alta ròcca de la nuova Cartago, che dal fatto Birsa nomossi, per l'astuta merce che, per fondarla, fêr di tanto sito

quanto cerchiar di bue potesse un tergo.

Ma voi chi siete? onde venite? e dove drizzate il corso vostro?» A tai richieste pensando Enea, dal piú profondo petto trasse la voce sospirosa, e disse:

«O dea, se da principio i nostri affanni io contar ti volessi, e tu con agio udissi una da me sí lunga istoria, non finirei che fine avrebbe il giorno.

Noi siam Troiani (se di Troia antica il nome ti pervenne unqua a gli orecchi), e la tempesta che per tanti mari

già cotant'anni ne travolve e gira, n'ha qui, come tu vedi, al fin gittati.

Io sono Enea, quel pio che da' nemici scampati ho meco i miei patrii Penati, fino a le stelle ormai noto per fama.

Italia vo cercando, che per patria

Giove m'assegna, autor del sangue mio.

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Con diece e diece ben guarnite navi uscii di Frigia, il mio destin seguendo e lo splendor de la materna stella.

Or sette me ne son restate appena, scommesse, aperte e disarmate tutte.

Ed io mendíco, ignoto e peregrino, de l'Asia in bando, da l'Europa escluso, e 'n fin dal mar gittato or ne la Libia vo per deserti inospiti e selvaggi.

E qual m'è piú del mondo or luogo aperto?»

Venere intenerissi; e nel suo figlio tant'amara doglienza non soffrendo, cosí 'l duol con la voce gl'interruppe:

«Chïunque sei, tu non sei già, cred'io, al cielo in ira; poi ch'a sí grand'uopo ti diè ricovro a sí benigno ospizio.

Segui pur francamente: e quinci in corte va' di questa magnanima regina;

ch'io già t'annunzio le tue navi, e i tuoi da miglior vènti in miglior parte addotti salvi e securi omai, se i miei parenti

non m'ingannâr quando gli augúri appresi.

Mira là sovra a quel tranquillo stagno dodici allegri cigni, che pur dianzi confusi e dissipati a cielo aperto erano in preda al fero augel di Giove, com'or sottratti dal suo crudo artiglio rimessi in lunga ed ozïosa riga si rivolgono a terra, e già la radono.

E sí com'essi con gioiose ruote trattando l'aria, col cantar, col plauso mostrato han d'allegria segno e di scampo;

cosí, placato il mare, a piene vele, e le tue navi e gli tuoi naviganti

o preso han porto, o tosto a prender l'hanno:

vattene or lieto ove 'l sentier ti mena».

Ciò detto, nel partir, la neve e l'oro e le rose del collo e de le chiome, come l'aura movea, divina luce e divino spirâr d'ambrosia odore:

e la veste, che dianzi era succinta, con tanta maestà le si distese

infino a' piè, ch'a l'andar anco, e dea veracemente e Venere mostrossi.

Poscia che la conobbe, e la sua fuga o fermare, o seguir piú non poteo, con un rammarco tal dietro le tenne:

«Ahi! madre, ancora tu vèr me crudele, a che tuo figlio con mentite larve

tante volte deludi? A che m'è tolto di congiunger la mia con la tua destra?

Quando fia mai ch'io possa a viso aperto

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vederti, udirti, ragionarti, e vera riconoscerti madre?» Egli in tal guisa si querelava; e verso la cittade

se ne giano invisibili ambidue:

ché la dea, sospettando non tra via fossero distornati o trattenuti, di folta nebbia intorno gli coverse.

Ella in alto levossi, e Cipri e Pafo lieta rivide, ov'entro al suo gran tempio da cento altari ha cento volte il giorno d'incensi e di ghirlande odori e fumi.

Ed essi intanto in vèr le mura a vista giunser de la città, ch'al colle incontro fe' lor superba e specïosa mostra.

Maravigliasi Enea che sí gran macchina già sorga, ove pur dianzi non vedevasi fors'altro che foreste, o che tuguri.

Mira il travaglio, mira la frequenzia e le porte e le vie piene di strepito.

Vede con quanto ardor le turbe tirie altri a le mura, altri a la ròcca intendono e i gravi legni e i gran sassi che volgono questi, che i siti ai propri alberghi insolcano;

e quei, che del senato e de gli offici piantan le curie e i fòri e le basiliche.

Scorge là presso al mar che 'l porto cavano, qua, sotto al colle, che un teatro fondano, per le cui scene i gran marmi che tagliano, e le colonne, che tant'alto s'ergono,

le rupi e i monti, a cui son figli, adeguano.

Con tal sogliono industria a primavera le sollecite pecchie al sole esposte per fiorite campagne esercitarsi, quando le nuove lor cresciute genti

mandano in campo a côr manna e rugiada, di celeste liquor le celle empiendo;

o quando incontro a scaricare i pesi

van de l'altre compagne; o quando a stuolo scacciano i fuchi, ingorde bestie e pigre, che, solo intente a logorar l'altrui,

de le conserve lor si fan presepi, allor che l'opra ferve, allor che 'l mèle sparge di timo d'ogn'intorno odore.

«O fortunati voi, di cui già sorge il desïato seggio!», Enea dicendo, a parte a parte lo contempla e loda.

Arriva intanto a la muraglia, e chiuso ne la sua nube, maraviglia a dirlo!

tra gente e gente va, che non è visto.

Era nel mezzo a la cittade un bosco di sacro rezzo e grato, ove sospinti da la tempesta capitaro i Peni

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primieramente; e nel fondar trovaro quel che pria da Giunon fu lor predetto di barbaro destrier teschio fatale, la cui sembianza imagine e presagio fu poi che quella gente e quella terra saria per molte età ferace e fera.

Qui fabbricava la sidonia Dido

un gran tempio a Giunone, il cui gran nume e i doni e la materia e l'artificio

lo facean prezïoso e venerando.

Mura di marmo avea; colonne e fregi di mischi, e gradi e travi e soglie e porte di risonante e solido metallo.

Qui si ristette Enea: qui vide cosa

che téma gli scemò, speme gli accrebbe, e di pace affidollo e di salute;

ché mentre, in aspettando la regina ch'ivi s'attende, la città vagheggia, mentre nel tempio l'apparato e l'opre e 'l valor degli artefici contempla, a gli occhi una parete gli s'offerse, in cui tutta per ordine dipinta era di Troia la famosa guerra.

E, conosciuti a le fattezze conte prima il troiano re, poscia l'argivo e 'l fero d'ambidue nimico Achille,

fermossi, e lagrimando: «Oh, - disse - Acate, mira fin dove è la notizia aggiunta

de le nostre ruine! Or quale ha 'l mondo loco che pien non sia de' nostri affanni?

Ecco Priamo, ecco Troia; e qui si pregia ancor virtú; ché ferità non regna

là 've umana miseria si compiagne.

Or ti conforta, ché tal fama ancora di pro ti fia cagione e di salvezza».

Cosí dicendo, e la già nota istoria mirando, or con sospiri, ed or con lutto va di vana pittura il cor pascendo.

E come quei ch'a Troia il tutto vide, i siti rammentandosi e le zuffe,

col sembiante riscontra il vivo e 'l vero.

Quinci vede fuggir le greche schiere, quindi le frigie: a quelle Ettorre infesto, a queste Achille, a cui parea d'intorno che solo il suon del carro e solo il moto del cimiero avventasse orrore e morte.

Né senza lagrimar Reso conobbe ai destrier bianchi, ai bianchi padiglioni, fatti di sangue in mille parti rossi:

che sotto v'era Dïomede, anch'egli insanguinato; e si facea d'intorno alta strage di gente che nel sonno,

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prima che da lui morta, era sepolta.

Vedea quindi i cavalli al campo addotti, che non potêr (fato a' Troiani avverso!) di Troia erba gustare, o ber del Xanto.

Scorge d'un'altra parte in fuga vòlto Troïlo, già senz'armi e senza vita:

giovinetto infelice, che di tanto

diseguale ad Achille, ebbe ardimento di stargli a fronte. Egli in su 'l vòto carro giacea rovescio, e strascinato e lacero da' suoi cavalli, avea la destra ancora a le redini involta, e 'l collo e i crini traea per terra; e l'asta, onde trafitto portava il petto, con la punta in giuso scrivea note di sangue in su la polve.

Ecco intanto venir di Palla al tempio in lunga schiera ed ordinata pompa le donne d'Ilio a far del peplo offerta.

Battonsi i petti, e scapigliate e scalze paion pregar divotamente afflitte perdóno e pace; ed ella irata e fera, vòlte le luci a terra e 'l tergo a loro, mostra fastidio di mirarle e sdegno.

Vede il misero Ettòr che già tre volte tratto era d'Ilio a la muraglia intorno.

Vede il padre piú misero, ch'in forza del dispietato e suo nimico Achille, oro in premio gli dà del suo cadavero;

spettacolo crudel che gli trafigge

profondamente e piú d'ogn'altro il core, ove il carro, gli arnesi e 'l corpo stesso vede d'un tanto amico, ed un re tale, che solo e disarmato e supplichevole stassi a l'ucciditor del figlio avanti.

Vi riconobbe ancor se stesso, ov'era a dura mischia incontro a' greci eroi.

Riconobbe lo stuol che d'Orïente addusse de l'Aurora il negro figlio:

e lui raffigurò, che di Vulcano

avea lo sbergo e l'armatura in dosso.

Scorge d'altronde di lunati scudi guidar Pentesilèa l'armate schiere de l'Amazzoni sue: guerriera ardita, che succinta, e ristretta in fregio d'oro l'adusta mamma, ardente e furïosa

tra mille e mille, ancor che donna e vergine, di qual sia cavalier non teme intoppo.

Stava da tante meraviglie ad una sola vista ristretto, attento e fiso Enea pien di vaghezza e di stupore:

quand'ecco la regina accompagnata da real corte, con real contegno

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entro al tempio bellissima comparve.

Qual su le ripe de l'Eurota suole, o ne' gioghi di Cinto, allor Dïana ch'a l'Orèadi sue la caccia indíce, a mille che le fan cerchio d'intorno, divisar vari offici, e faretrata

da la faretra in su gir sovra l'altre neglettamente altera, onde a Latona s'intenerisce per dolcezza il core;

tale era Dido, e tal per mezzo a' suoi se ne gia lieta, e dava ordine e forma al nuovo regno, a i magisteri, a l'opre.

Giunta al cospetto de la diva, in mezzo de la maggior tribuna, in alto assisa, cinta d'armati, in maestà si pose:

e mentre con dolcezza editti e leggi porge a la gente, e con egual compenso l'opre distribuisce e le fatiche;

rivolgendosi Enea, nel tempio stesso vede da gran concorso attorneggiati entrar Sergesto, Anteo, Cloanto e gli altri Troiani, che da sé disgiunti e sparsi avea dianzi del mar l'aspra tempesta.

Stupor, timor, letizia, tenerezza e disio d'abbracciarli e di mostrarsi assaliro in un tempo Acate e lui.

Ma, dubii del successo, entro la nube dissimulando se ne stêro, e cheti, per ritrar che seguisse e che seguito fosse già de le navi e de' compagni, di cui questi eran primi e li piú scelti di ciascun legno. E già pieno era il tempio di tumulto e di vóti ch'altamente

si sentian vènia risonare e pace.

Poiché furo entromessi, e ch'udïenza fur lor concessa, il saggio Ilïoneo prese umilmente in cotal guisa a dire:

«Sacra regina, a cui dal cielo è dato fondar nuova cittade, e con giustizia por freno a gente indomita e superba, noi miseri Troiani, a tutti i vènti,

a tutti i mari omai ludibrio e scherno, caduti dopo l'onde in preda al foco che da' tuoi si minaccia ai nostri legni, preghiamti a proveder che nel tuo regno non si commetta un sí nefando eccesso.

Fa cosa di te degna, abbi di noi pietà, che pii, che giusti, ch'innocenti siamo, non predatori, non corsari de le vostre marine o de l'altrui:

tanto i vinti d'ardire, e gl'infelici

d'orgoglio e di superbia, ohimè! non hanno.

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Una parte d'Europa è, che da' Greci si disse Esperia, antica, bellicosa e fertil terra, dagli Enotrei cólta.

Prima Enotria nomossi, or, come è fama, preso d'Italo il nome, Italia è detta.

Qui 'l nostro corso era diritto, quando Orïon tempestoso i vènti e 'l mare sí repente commosse, e mar sí fero, vènti sí pertinaci, e nembi e turbi cosí rabbiosi, che sommersi in parte e dispersi n'ha tutti: altri a le secche, altri a gli scogli, ed altri altrove ha spinti:

e noi pochi, di tanti, ha qui condotti.

Ma qual sí cruda gente, qual sí fera e barbara città quest'uso approva, che ne sia proibita anco l'arena?

Che guerra ne si muova, e ne si vieti di star ne l'orlo de la terra a pena?

Ah! se de l'armi e de le genti umane nulla vi cale, a dio mirate almeno, che dal ciel vede e riconosce i meriti e i demeriti altrui. Capo e re nostro era pur dianzi Enea, di cui piú giusto, piú pio, piú pro' ne l'armi, piú sagace guerrier non fu già mai. Se questi è vivo, se spira, se il destin non ce l'invidia, quanto ne speriam noi, tanto potresti tu non pentirti a provocarlo in prima a cortesia. Ne la Sicilia ancora

avem terre, avem armi, avemo Aceste che n'è signore, ed è de' nostri anch'egli.

Quel che vi domandiamo è spiaggia, è selva, è vitto da munir, da risarcire

i vòti e stanchi e sconquassati legni, per poter lieti (ritrovando il duce e gli altri nostri, o se pur mai n'è dato veder l'Italia) ne l'Italia addurne;

ma se nostra salute in tutto è spenta, se te, nostro signor, nostro buon padre, di Libia ha 'l mare, e piú speranza alcuna non ci riman del giovinetto Iulo,

almen tornar ne la Sicania, ond'ora siam qui venuti e dove il buon Aceste n'è parato mai sempre ospite e rege».

Al dir d'Ilïoneo fremendo tutti assentirono i Teucri, e la regina

con gli occhi bassi e con benigna voce brevemente rispose: «O miei Troiani, toglietevi dal cuore ogni timore, ogni sospetto. Gli accidenti atroci, la novità di questo regno a forza mi fan sí rigorosa, e sí guardinga

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de' miei confini. E chi di Troia il nome, chi de' Troiani i valorosi gesti,

e l'incendio non sa di tanta guerra?

Non han però sí rozzo core i Peni:

non sí lunge da lor si gira il sole, che né pietà né fama unqua v'arrive.

Voi di qui sempre, o de la grand'Esperia e di Saturno che cerchiate i campi, o che vogliate pur d'Aceste e d'Èrice tornare ai liti, in ogni caso liberi ve n'andrete e sicuri. Ed io d'aíta scarsa non vi sarò, né di sussidio:

e se qui dimorar meco voleste, questa è vostra città. Tirate al lito vostri navili: ché da' Teucri a' Tiri nulla scelta farò, nullo divario.

Cosí qui fosse il vostro re con voi!

cosí ci capitasse! Ma cercando io manderò di lui fino a l'estremo de' miei confini la riviera tutta,

se per sorte gittato in queste spiagge per selve errando o per cittadi andasse».

Rincorossi a tal dire il padre Enea e 'l forte Acate; e di squarciare il velo stavan già disïosi. Acate il primo

mosse dicendo: «Omai, signor, che pensi?

Tutto è sicuro, e tutti a salvamento i nostri legni e i nostri amici avemo.

Sol un ne manca; e questo a noi davanti il mar sorbissi. Ogni altra cosa al detto di tua madre risponde». A pena Acate ciò disse, che la nugola s'aperse, assottigliossi e col ciel puro unissi.

Rimase in chiaro Enea, tale ancor egli di chiarezza e d'aspetto e di statura, che come un dio mostrossi: e ben a dea era figliuol, che di bellezza è madre.

Ei degli occhi spirava e de le chiome quei chiari, lieti e giovenili onori ch'ella stessa di lui madre gl'infuse.

Tale aggiunge l'artefice vaghezza a l'avorio, a l'argento, al pario marmo, se di fin oro li circonda e fregia.

Cotal, comparso d'improvviso a tutti, si fece avanti a la regina, e disse:

«Quegli che voi cercate, Enea troiano, son qui, dal mar ritolto. A te ricorro, vera regina, a te sola pietosa de le nostre ineffabili fatiche.

Tu noi, rimasi al ferro, al fuoco, a l'onde d'ogni strazio bersaglio, d'ogni cosa bisognosi e mendíci, nel tuo regno

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e nel tuo albergo umanamente accogli.

A renderti di ciò merito eguale bastante non son io, né fôran quanti de la gente di Dardano discesi vanno per l'universo oggi dispersi.

Ma gli dèi (s'alcun dio de' buoni ha cura, se nel mondo è giustizia, se si truova chi d'altamente adoperar s'appaghe) te ne dian guiderdone. Età felice!

Avventurosi genitori e grandi

che ti diedero al mondo! Infin che i fiumi si rivolgono al mare, infin ch'a' monti si giran l'ombre, infin c'ha stelle il cielo, i tuoi pregi, il tuo nome e le tue lodi

mi saran sempre, ovunque io sia, davanti».

Ciò detto, lietamente a' suoi rivolto, al caro Ilïonèo la destra porse,

la sinistra a Sergesto, e poscia al forte Cloanto, al forte Gía: l'un dopo l'altro tutti gli salutò. Stupí Didone

nel primo aspetto d'un sí nuovo caso, e d'un uom tale; indi riprese a dire:

«Qual forza o qual destino a tanti rischi t'hanno in sí strani, in sí feri paesi

esposto, o de la dea famoso figlio?

E sei tu quell'Enea che in su la riva di Simoenta il gran dardanio Anchise di Venere produsse? Io mi ricordo quel che n'intesi già da Teucro, quando, fuor di sua patria, il suo padre fuggendo, nuovi regni cercava. Egli a Sidone

venne in quel tempo a dar sussidio a Belo.

Belo mio padre allor facea l'impresa e 'l conquisto di Cipro. Infin d'allora io del caso di Troia e del tuo nome e de l'oste de' Greci ebbi notizia.

Ed ei ch'era sí rio nimico vostro, celebrava il valor di voi Troiani, e trar volea da Troia il suo legnaggio.

Voi da me dunque amico e fido ospizio, giovini, arete. E me fortuna ancora, a la vostra simíle, ha similmente

per molti affanni a questi luoghi addotta:

sí che natura e sofferenza e pruova de' miei stessi travagli ancor me fanno pietosa e sovvenevole a gli altrui».

Ciò detto, Enea cortesemente adduce ne la sua reggia. In ogni tempio indíce feste e preci solenni. Ordina appresso che si mandino al mar venti gran tori, cento gran porci, cento grassi agnelli, con cento madri, e ciò ch'a' suoi compagni

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per vitto e per letizia è di mestiero.

Dentro al real palagio, realmente, de' piú gentili e sontuosi arnesi il convito e le stanze orna e prepara;

cuopre d'ostro le mura; empie le mense d'argento e d'oro, ove per lunga serie son de' padri e degli avi i fatti egregi.

Enea, cui la paterna tenerezza

quetar non lascia, a le sue navi innanzi ratto spedisce Acate, che di tutto Ascanio avvisi, ed a sé tosto il meni;

ché in Ascanio mai sempre intento e fiso sta del suo caro padre ogni pensiero.

Gli comanda, oltre a ciò, ch'a la regina porti alcune a donar spoglie superbe che si salvâr da la ruina appena e dal foco di Troia: un ricco manto ricamato a figure, e di fin'oro tutto contesto: un prezïoso velo, cui di pallido acanto un ampio fregio trapunto era d'intorno: ambi ornamenti d'Elena argiva, e di sua madre Leda mirabil dono. In questo avea le bionde sue chiome avvolte il dí che di Micene a nuove nozze, e non concesse, uscio;

e porti anco lo scettro, onde superba Ilïone di Prïamo sen giva

primogenita figlia, e 'l suo monile di gran lucide perle; e quella stessa, onde 'l fronte cingea, doppia corona, di gemme orïentali ornata e d'oro.

Tutto ciò procurando il fido Acate in vèr le navi accelerava il piede.

Venere in tanto con nuov'arte e nuovi consigli s'argomenta a far che in vece e 'n sembianza d'Ascanio il suo Cupído se ne vada in Cartago; e con quei doni, con le dolcezze sue, con la sua face alletti, incenda, amor desti e furore nel petto a la regina, onde sospetto piú non aggia o 'l suo regno, o 'la perfidia de la sua gente, o di Giunon l'insidie, che da pensare e da vegghiar le danno tutte le notti. E fatto a sé venire

l'alato dio, cosi seco ragiona:

«Figlio, mia forza e mia maggior possanza:

figlio, che del gran padre anco non temi l'orribil tèlo, onde percosso giacque chi ne diè fin nel ciel briga e spavento, a te ricorro e dal tuo nume aíta

chieggio a l'altro mio figlio Enea tuo frate.

Come Giuno il persegua, e come l'aggia

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per tutti i mari omai spinto e travolto, tu 'l sai che del mio duol ti sei doluto piú volte meco. Or la sidonia Dido l'ave in sua forza, e con benigni e dolci modi fin qui l'accoglie e lo trattiene.

Ma là dov'è, lassa! che val, comunque sia caramente accolto? in casa a Giuno da le carezze ancor chi m'assicura?

Ch'ella piú neghittosa o meno atroce, in un caso non fia di tanto affare.

E però con astuzia e con inganno cerco di prevenirla, e del tuo foco ardere il cuor de la regina in guisa, ch'altro nume nol mute, e meco l'ami d'immenso affetto. Or come agevolmente ciò porre in atto e conseguir si possa, ascolta. Enea manda testé chiamando il suo regio fanciullo, amor supremo del caro padre, e mio sommo diletto, perché de' Tiri a la città sen vada con doni a la regina, che di Troia a l'incendio avanzarono ed al mare.

Questo vinto dal sonno, o sopra l'alta Citèra, o dentro al sacro bosco Idalio terrò celato sí ch'ei non s'accorga, ed accorto di ciò non faccia altrui con alcun suo rintoppo. E tu che puoi, fanciullo, il noto fanciullesco aspetto mentire acconciamente, in lui ti cangia sola una notte, e gli suoi gesti imita.

E quando Dido al suo real convito riceveratti, e, come a mensa fassi, sarà, bevendo e ragionando, allegra;

quando, come farà, cortese in grembo terratti, abbracceratti, e dolci baci porgeratti sovente, a poco a poco il tuo foco le spira e 'l tuo veleno».

Al voler della sua diletta madre

pronto mostrossi e baldanzoso Amore, e gittò l'ali; ed in un tempo l'abito e 'l sembiante e l'andar prese di Iulo.

Ciprigna intanto al giovinetto Ascanio tale un profondo e dolce sonno infuse, e 'n guisa l'adattò, che agiatamente in grembo lo si tolse; e ne la cima de la selvosa Idalia, entro un cespuglio di lieti fiori e d'odorata persa,

a la dolce aura, a la fresc'ombra il pose.

Cupído co' suoi doni allegramente, per far quanto gli avea la madre imposto, con la guida si pon d'Acate in via.

Giunse che giunta era Didone appunto

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ne la gran sala, che di fini arazzi, di fior, di frondi e di festoni intorno era tutta vestita, ornata e sparsa.

E già sopra la sua dorata sponda con real maestà s'era nel mezzo a tutti gli altri alteramente assisa.

Appresso Enea, poscia di mano in mano sopra drappi di porpora e di seta

si stendea la troiana gioventute.

Già con l'acqua e con Cerere a le mense gli aurati vasi e i nitidi canestri

e i bianchissimi lini eran comparsi.

Stavano dentro, a le vivande intorno, intorno a' fuochi, a dar ordine a' cibi, cinquanta ancelle, ed altre cento fuori con altrettanti di una stessa etade tra scudieri e pincerni; e gli atrii tutti si rïempiêr di Tiri, a cui le mense di tappeti dipinti eran distese.

A l'apparir del giovinetto Iulo

corser tutti a mirare il manto e 'l velo e gli altri ch'adducea leggiadri arnesi, a sentir quelle sue finte parole,

a contemplar quel grazïoso aspetto, ch'ardore e deità raggiava intorno.

Ma sopra tutti l'infelice Dido

non potea né la vista, né 'l pensiero saziar, mirando or gli suoi doni, or lui;

e com' piú gli rimira, e piú s'accende.

Poiché lunga fïata umile e dolce del non suo genitor pendé dal collo, e finse di figliuol verace affetto,

si volse a la regina. Ella con gli occhi, col pensier tutto lo contempla e mira:

lo palpa, e 'l bacia, e 'n grembo lo si reca.

Misera! che non sa quanto gran dio s'annidi in seno. Ei de la madre intanto rimembrando il precetto, a poco a poco de la mente Sichèo comincia a trarle, con vivo amore e con visibil fiamma rompendole del core il duro smalto, e 'ntroducendo il suo già spento affetto.

Cessati i primi cibi, e da' ministri già le mense rimosse, ecco di nuovo comparir nuove tazze e vino e fiori, per lietamente incoronarsi e bere.

Quinci un rumoreggiare, un riso, un giubilo che d'allegrezza empian le sale e gli atrii.

E i torchi e le lumiere che pendevano da i palchi d'oro, poiché notte fecesi,

vinceano 'l giorno e 'l sol, non che le tenebre.

Qui fattosi Didone un vaso porgere

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d'oro grave e di gemme, ov'era solito ne' conviti e ne' dí solenni e celebri ber Belo, e gli altri che da Belo uscirono, di fiori ornollo, e di vin vecchio empiendolo, orò, cosí dicendo: «Eterno Giove,

che, Albergator nomato, hai de gli alberghi e de le cortesie cura e diletto,

priegoti ch'a' Fenici ed a' Troiani

fausto sia questo giorno, e memorando sempre a' posteri loro. E te, Lièo, largitor di letizia, e te, celeste

e bionda Giuno, a questa prece invoco.

Voi co' vostri favori, e Tiri e Peni,

prestate a' prieghi miei divoto assenso».

Ciò detto, riversollo, e lievemente del sacrato liquor la mensa asperse, poscia ella in prima con le prime labbia tanto sol ne sorbí quanto n'attinse.

Indi con dolce oltraggio e con rampogne a Bizia il diè, che valorosamente

a piena bocca infino a l'aureo fondo vi si tuffò col volto, e vi s'immerse.

Ciò seguîr gli altri eroi. Comparve intanto co' capei lunghi e con la cetra d'oro il biondo Iopa: e, qual Febo novello, cantò del ciel le meraviglie e i moti

che dal gran vecchio Atlante Alcide apprese.

Cantò le vie che drittamente torte rendon vaga la luna e buio il sole;

come prima si fêr gli uomini e i bruti;

com'or si fan le piogge e i venti e i folgori:

cantò l'Iade e l'Orse e 'l Carro e 'l Corno, e perché tanto a l'Oceàno il verno

vadan veloci i dí, tarde le notti.

Un novo plauso incominciaro i Tiri:

seguiro i Teucri: e l'infelice Dido, che già fea dolce con Enea dimora, quanto bevesse amor non s'accorgendo, a lungo ragionar seco si pose

or di Priamo, or d'Ettorre, or con qual'armi venisse a Troia de l'Aurora il figlio,

or qual fosse Diomede, or quanto Achille.

«Anzi, se non t'è grave, - al fin gli disse - incomincia a contar fin da principio e l'insidie de' Greci e la ruina

e l'incendio di Troia, e 'l corso intero de gli errori vostri: già che 'l settim'anno e per terra e per mar raminghi andate».

LIBRO SECONDO

(27)

Stavan taciti, attenti e disïosi d'udir già tutti, quando il padre Enea in sé raccolto, a cosí dir da l'alta

sua sponda incominciò: «Dogliosa istoria e d'amara e d'orribil rimembranza,

regina eccelsa, a raccontar m'inviti:

come la già possente e glorïosa

mia patria, or di pietà degna e di pianto, fosse per man de' Greci arsa e distrutta.

E qual ne vid'io far ruina e scempio:

ch'io stesso il vidi, ed io gran parte fui del suo caso infelice. E chi sarebbe, ancor che Greco e Mirmidóne e Dòlopo, che a ragionar di ciò non lagrimasse?

E già la notte inchina, e già le stelle sonno, dal ciel caggendo,

a gli occhi infondono:

ma se tanto d'udire i nostri guai, se brevemente di saver t'aggrada l'ultimo eccidio, ond'ella arse e cadeo, benché lutto e dolor mi rinnovelle, e sol de la memoria mi sgomente, io lo pur conterò. Sbattuti e stanchi di guerreggiar tant'anni, e risospinti ancor da' fati, i greci condottieri a l'insidie si diêro; e da Minerva divinamente instrutti, un gran cavallo di ben contesti e ben confitti abeti in sembianza d'un monte edificaro.

Poscia, finto che ciò fosse per vóto del lor ritorno, di tornar sembiante fecero tal, che se ne sparse il grido.

Dentro al suo cieco ventre e ne le grotte, che molte erano e grandi, in sí gran mole, rinchiuser di nascosto arme e guerrieri a ciò per sorte e per valore eletti.

Giace di Troia un'isola in cospetto (Tènedo è detta) assai famosa e ricca, mentre ch'Ilio fioriva. Ora un ridotto è sol di naviganti e di navili,

infido seno, e mal sicura spiaggia.

Qui, poiché di Sigèo sciolse e spario, la greca armata si rattenne, e dietro appiattossi al suo lito ermo e deserto:

e noi credemmo che veracemente fosse partita, e che a spiegate vele gisse a Micene. Onde la Teucria tutta, già cotant'anni lagrimosa e mesta, volta ne fu subitamente in gioia.

S'aprîr le porte, uscîr d'Ilio e d'intorno le genti tutte, disïose e liete

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di veder vòti i campi e sgombri i liti, ch'eran coverti pria di navi e d'armi.

"Qui s'accampava Achille, e qui de' Dòlopi eran le tende, ivi solean le zuffe

farsi de' cavalieri e là de' fanti"

dicean parte vagando; e parte accolti facean mirando al gran destriero intorno meraviglie e discorsi: e chi per sacro, e chi per esecrando il vóto e 'l dono avean di Palla. Il primo fu Timete a dir ch'entro le mura, e ne la ròcca quindi si conducesse, o froda, o fato che ciò fosse de' miseri Troiani.

Ma Capi e gli altri, il cui piú sano avviso o per insidïose, o per sospette,

quantunque sacre, avea le greche offerte, voleano o che del mar fosse nel fondo precipitato, o che di fiamme ardenti si circondasse, o che forato e lacero gli fosse il petto e sviscerato il fianco.

Stava tra questi due contrari in forse in due parti diviso il volgo incerto;

quando con gran caterva e con gran furia da la ròcca discese, e di lontano

gridò Laocoonte: "O ciechi, o folli, o sfortunati! agli nemici, a' Greci date credenza? a lor credete voi che sian partiti? e sarà mai che doni siano i lor doni, e non piú tosto inganni?

Cosí v'è noto Ulisse? O in questo legno sono i Greci rinchiusi, o questa è macchina contra alle nostre mura, o spia per entro ai nostri alberghi, o scala o torre o ponte per di sopra assalirne. E che che sia, certo o vi cova o vi si ordisce inganno, ché de' Pelasgi e de' nemici è 'l dono".

Ciò detto, con gran forza una grand'asta avventogli, e colpillo, ove tremante

stette altamente infra due coste infissa:

e 'l destrier, come fosse e vivo e fiero, fieramente da spron punto cotale, si storcé, si crollò, tonogli il ventre, e rintonâr le sue cave caverne.

E se 'l fato non era a Troia avverso, se le menti eran sane, avea quel colpo già commossi infiniti a lacerarlo,

e del tutto a scovrir l'agguato argolico:

ond'oggi e tu, grand'Ilio, e tu, diletta Troia, staresti. Ma si vide intanto de' pastor paesani una masnada venir gridando al re, ch'ivi era giunto, e trargli avanti un giovine prigione

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ch'avea dietro le mani al tergo avvinte.

Questi era greco; e da' suoi Greci avea di salvare il destrier, d'aprir lor Troia assunto impresa; e per condurla, a tempo ascosto, a tempo a quei pastori offerto s'era per se medesmo, in sé disposto e fermo di due cose una a finire, o quest'opra, o la vita. A ciò concorso, per desio di vedere, il popol tutto dal caval si distolse, e diessi a gara a schernire il prigione. Or ascoltate le malizie de' Greci; e da quest'uno conosceteli tutti. Egli nel mezzo cosí com'era a le nemiche schiere, turbato, inerme e di catene avvinto, fermossi: e poi che rimirolle intorno, con voce di pietà proruppe, e disse:

"Or quale o terra, o mare, o loco altrove sarà, misero me! che mi raccolga,

o che m'affidi omai? poiché tra' Greci non ho dov'io ricovri, e da' Troiani

non deggio altro aspettar che strazio e morte?"

Ne commosse a pietà, n'acquetò l'ira sí doglioso rammarco: e con dolcezza e con promesse il confortammo a dire chi, di che loco e di che sangue fosse, e che portasse, e qual fidanza avesse a darnesi prigione. Egli, in tal guisa assecurato, al re si volse e disse:

"Signor, segua che vuole, in tuo cospetto io dirò tutto; e dirò vero. E prima

d'esser greco io non niego; ché fortuna può ben far che Sinon sia gramo e misero, ma non già mai che sia bugiardo e vano.

Non so se, ragionandosi, a gli orecchi ti venne mai di Palamède il nome, che nomato e pregiato e glorïoso, e da Belo altamente era disceso;

se ben con falso e scelerato indizio di tradigion, per detestar la guerra, ei fu da' Greci indegnamente occiso:

com'or, che ne son privi, i Greci stessi lo piangon tutti! A questo Palamede, a cui per parentela era congiunto, il pover padre mio ne' miei prim'anni pria per valletto nel mestier de l'armi

poi per compagno a questa guerra diemmi.

Infin ch'ei visse, e fu 'l suo stato in fiore, fioriro anco i miei giorni; e l'opre e 'l nome e 'l grado mio ne fûr talvolta in pregio.

Estinto lui (che per invidia avvenne, com'ognun sa, del traditore Ulisse),

(30)

amaramente il piansi. E 'l caso indegno d'un tanto amico, e la mia vita oscura tra me sdegnando, come soro e folle ch'io fui, nol tacqui. Anzi, se mai la sorte mel consentisse, o se mai fossi in Argo vincitor ritornato, alta vendetta

ne gli promisi, e con minacce e motti acerbi acerbamente il provocai.

Questo fu del mio mal prima radice;

e quinci de' suoi falli e del mio duolo consapevole Ulisse, a spaventarmi, a travagliarmi, a seminar susurri si diè nel volgo, e procurarmi inciampi ond'io cadessi. E non cessò, ch'ordimmi per mezzo di Calcante... Ma dov'entro, lasso! senza profitto a fastidirvi

con noiose novelle? A voi sol basta di saver ch'io son greco, già che i Greci tutti egualmente per nimici avete.

Or datemi, signor, supplizio e morte qual a voi piace, ché piacere e gioia n'aranno i regi ancor d'Itaca e d'Argo".

E qui si tacque. Allor brama ne venne, non che disio, di piú sapere avanti;

non ben sapendo ancor, miseri noi!

quanta scelleratezza e quanta astuzia fosse ne' Greci. Egli, a seguir costretto, mostrossi in prima paventoso, e poscia di nuovo assicurossi, e finse, e disse:

"Hanno molte fïate i Greci, afflitti già da la guerra, e dal disagio astretti, disïato e tentato anco piú volte

di qui ritrarsi, e lasciar Troia in pace.

Cosí fatto l'avessero! Ma sempre or il verno, or i vènti, or le procelle gli han distornati. E pur dianzi che l'opra del caval che vedete era fornita,

di nuovo in sul partire, e 'n sul far vela, di tempeste, di turbini e di nembi risonò 'l cielo, e conturbossi il mare.

Onde, sospesi, Eurípilo mandammo a spïar sopra a ciò quel che da Febo ne s'avvertisse. Riportonne un empio e spaventoso oracolo; e fu questo:

- Col sangue e con la morte d'una vergine placaste i vènti per condurvi in Ilio;

col sangue e con la morte ora d'un giovine convien placarli per ridurvi in Grecia. - A cosí fiera voce sbigottissi,

impallidissi, e tremò 'l volgo tutto,

ciascun per sé temendo; e nessun certo qual di loro accennasse Apollo e 'l fato.

(31)

Qui fece Ulisse in mezzo al greco stuolo con gran tumulto appresentar Calcante:

e del volere in ciò de' santi numi interrogollo. Ed ei rispose in guisa che la sua fellonia, benché da tutti fusse prevista, fu però da molti simulata e taciuta, e da molti anco a me predetta: pur ei tacque ancora per dieci giomi; e scaltramente al niego si mise di voler che per suo detto fosse alcun destinato o spinto a morte.

Ma poi, come da gridi astretto e vinto, di conserto con lui ruppe il silenzio, sí ch'io fui dichiarato al fin per vittima;

consentîr tutti, perché tutti ancora finian con la mia morte il lor periglio.

Era già da vicino il giorno orribile, in che doveano al sacrificio offrirmi:

e già 'l farro e già 'l sale e già le bende erano a le mie tempie intorno avvolte, quando, rotto (io nol niego) ogni ritegno, da la morte mi tolsi: e fin ch'a' vènti desser le vele (ch'eran presti a darle) di buia notte in un pantan m'ascosi, ove nel fango infra le scarde e i giunchi stava qual mi vedete. Ora son qui privo d'ogni conforto e d'ogni speme di mai piú riveder la patria antica, i dolci figli e 'l desïato padre,

che saran, lasso me! per la mia fuga, benché innocenti, ancor forse in mia vece incarcerati, e tormentati, e morti.

Or io, signor, per quelli eterni dèi che scorgon di là su se 'l vero io parlo, per quella pura e 'ntemerata fede (se tra' mortali in alcun loco è tale) ond'io già tutto a rivelar ti vegno, priegoti che pietà di me ti prenda, e de' miei tanti e sí gravosi affanni

ch'indegnamente io soffro". A cotal pianto commossi, e da noi fatti anco pietosi, vita e vènia gli diamo. E di sua bocca comanda il re che si disferri e sciolga;

poi dolcemente in tal guisa gli parla:

"Qual tu ti sia, de' tuoi perduti Greci ti dimentica omai; ché per innanzi sarai de' nostri. Or mi rispondi il vero di quel ch'io ti domando. A che fine hanno qui sí grande edificio i Greci eretto?

Per consiglio di cui? Con qual avviso

l'han fabbricato? È vóto? è magia? è macchina?

Che trama è questa?" Avea 'l re detto a pena,

(32)

quand'ei, d'inganni e d'arte greca instrutto, le già disciolte mani al cielo alzando, disse: "Voi fochi eterni e 'nvïolabili, voi fasce ond'io portai le tempie avvinte, voi sacri altari, e voi cultri nefandi,

cui fuggendo anco adoro, a quel ch'io dico per testimoni invoco. A me lece ora

ch'io mi disciolga, e mi dissacri in tutto da l'obbligo de' Greci. E mi lece anco

che non gli ami, e che gli odii, e che divolghi quel che da lor si cela, già ch'astretto

piú non son de la patria a legge alcuna.

Tu, se vero io ti dico, e se gran merto di ciò ti rendo, e te, Troia, conservo, conserva a me la già promessa fede.

Nel cominciar di questa guerra i Greci riposero ogni speme, ogni fidanza ne l'aiuto di Palla; e ben riposte

fûr sempre, infin che l'empio Dïomede, e l'inventor d'ogni mal'opra Ulisse, il sacro tempio suo non vïolaro:

come fêr quando, ne la ròcca ascesi, n'uccisero i custodi, e n'involaro il Palladio fatale, osando impuri por le man sanguinose al sacrosanto suo simulacro; e macular le intatte e 'ntemerate sue verginee bende.

Da indi in qua d'ardir sempre e di forze scemâr, non che di speme; e Palla infesta ne fu lor sempre; e ne diè chiari segni e portentosi, allor ch'al campo addotta fu la sua statua, che, posata a pena, torvamente mirogli, e lampi e fiamme vibrò per gli occhi, e per le membra tutte versò salso sudore. Indi tre volte,

meraviglia a contarlo! alto da terra

surse, e 'mbracciò lo scudo, e brandí l'asta.

Allor gridando indovinò Calcante che fuggir si dovesse, e tosto a' vènti spiegar le vele: ché di Troia in vano era l'assedio, se con altri augúri d'Argo non si tornava un'altra volta, e de la dea non si placava il nume,

ch'or, per ciò fare, han seco in Grecia addotto.

Onde giunti a Micene, incontinente si daranno a dispor l'armi e le genti e gli dèi che gli aíti, e gli accompagni.

Poi, ripassando il mar, con maggior forza di nuovo assaliranvi e d'improvviso:

cosí Calcante interpreta, e predice.

Or questa mole, che tant'alto sorge, qui per consiglio di Calcante è posta

(33)

in vece del Palladio, e per ammenda del nume offeso, a bello studio intesta di legni cosí gravi e cosí grandi, ed a sí smisurata altezza eretta, a fin che per le porte entro a le mura quinci addur non si possa, ove per segno e per memoria poi del nume antico

riverita da voi, sacrata e cólta sia ricovro e tutela al popol vostro.

Ché allor che questo dono a Palla offerto per vostra man sia vïolato e guasto, ruina estrema (la qual sopra lui

caggia piú tosto) a voi vuol che ne venga, ed al gran vostro impero: ed, a rincontro, quando da voi sia dentro al vostro cerchio condotto e custodito, allor che l'Asia congiurerà con le sue forze tutte a l'esterminio d'Argo, e che tal fato sopra a' nostri nepoti in cielo è fisso".

Con tal arte Sinon, con tali insidie fe' sí che gli credemmo; e quelli stessi cui non potêr né 'l figlio di Tideo, né di Larissa il bellicoso alunno, né diece anni domar, né mille navi, furon da lagrimette e da menzogne sforzati e vinti. In questa a gl'infelici un altro sopravvenne assai maggiore e piú fiero accidente; onde a ciascuno d'improvviso spavento il cor turbossi.

Era Laocoonte a sorte eletto

sacerdote a Nettuno; e quel dí stesso gli facea d'un gran toro ostia solenne:

quand'ecco che da Tènedo (m'agghiado a raccontarlo) due serpenti immani venir si veggon parimente al lito, ondeggiando coi dorsi onde maggiori de le marine allor tranquille e quete.

Dal mezzo in su fendean coi petti il mare, e s'ergean con le teste orribilmente, cinte di creste sanguinose ed irte.

Il resto con gran giri e con grand'archi traean divincolando, e con le code l'acque sferzando sí che lungo tratto si facean suono e spuma e nebbia intorno.

Giunti a la riva, con fieri occhi accesi di vivo foco e d'atro sangue aspersi, vibrâr le lingue, e gittâr fischi orribili.

Noi, di paura sbigottiti e smorti,

chi qua, chi là ci dispergemmo; e gli angui s'affilâr drittamente a Laocoonte,

e pria di due suoi pargoletti figli

le tenerelle membra ambo avvinchiando,

(34)

sen fêro crudo e miserabil pasto.

Poscia a lui, ch'a' fanciulli era con l'arme giunto in aiuto, s'avventaro, e stretto l'avvinser sí che le scagliose terga con due spire nel petto e due nel collo gli racchiusero il fiato; e le bocche alte, entro al suo capo fieramente infisse, gli addentarono il teschio. Egli, com'era d'atro sangue, di bava e di veleno le bende e 'l volto asperso, i tristi nodi disgroppar con le man tentava indarno, e d'orribili strida il ciel feriva;

qual mugghia il toro allor che dagli altari sorge ferito, se del maglio appieno

non cade il colpo, ed ei lo sbatte e fugge.

I fieri draghi alfin dai corpi esangui disviluppati, in vèr la ròcca insieme

strisciando e zufolando, al sommo ascesero:

e nel tempio di Palla, entro al suo scudo rinvolti, a' piè di lei si raggrupparo.

Rinnovossi di ciò nel volgo orrore e tremore e spavento; e mormorossi che degnamente avea Laocoonte di sua temerità pagato il fio,

e del furor che contra al sacro legno gli armò l'impura e scelerata mano:

e gridâr tutti che di Palla al tempio si conducesse, e con preghiere e vóti de la dea si facesse il nume amico.

A ciò seguire immantinente accinti, ruiniamo la porta, apriam le mura, adattiamo al cavallo ordigni e travi, e ruote e curri a' piedi, e funi al collo.

Cosí mossa e tirata agevolmente la macchina fatale il muro ascende, d'armi pregna e d'armati, a cui d'intorno di verginelle e di fanciulli un coro, sacre lodi cantando, con diletto

porgean mano a la fune. Ella, per mezzo tratta de la città, mentre si scuote,

mentre che ne l'andar cigola e freme, sembra che la minacci. O patria, o Ilio, santo de' numi albergo! inclita in arme dardania terra! Noi la pur vedemmo con tanti occhi a l'entrar, che quattro volte fermossi, e quattro volte anco n'udimmo il suon de l'armi: e pur, da furia spinti, ciechi e sordi che fummo, i nostri danni ci procurammo: ché 'l dí stesso addotto e posto in cima a la sacrata ròcca fu quel mostro infelice. Allor Cassandra la bocca aperse, e quale esser solea

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verace sempre e non creduta mai, l'estremo fine indarno ci predisse:

e noi di sacra e di festiva fronde velammo i templi il dí, miseri noi, che de' lieti dí nostri ultimo fue.

Scende da l'Oceàn la notte intanto, e col suo fosco velo involve e copre la terra e 'l cielo e de' Pelasgi insieme l'ordite insidie. I Teucri a i loro alberghi, a i lor riposi addormentati e queti

giacean securamente; e già da Tènedo a l'usata riviera in ordinanza

vèr noi se ne venia l'argiva armata, col favor de la notte occulta e cheta;

quando da la sua poppa il regio legno ne diè cenno col foco. Allor Sinone, che per nostra ruina era da noi e dal fato maligno a ciò serbato,

accostossi al cavallo, e 'l chiuso ventre chetamente gli aperse, e fuor ne trasse l'occulto agguato. Usciro a l'aura in prima i primi capi baldanzosi e lieti,

tutti per una fune a terra scesi.

E fûr Tisandro e Stènelo ed Ulisse, Atamante e Toante e Macaóne e Pirro e Menelao con lo scaltrito fabbricator di questo inganno, Epèo.

Assalîr la città che già ne l'ozio e nel sonno e nel vino era sepolta;

ancisero le guardie; aprîr le porte;

miser le schiere congiurate insieme;

e diêr forma a l'assalto. Era ne l'ora che nel primo riposo hanno i mortali quel ch'è dal cielo a i loro affanni infuso opportuno e dolcissimo ristoro:

quand'ecco in sogno (quasi avanti gli occhi mi fosse veramente) Ettòr m'apparve dolente, lagrimoso, e quale il vidi già strascinato, sanguinoso e lordo il corpo tutto, e i piè forato e gonfio.

Lasso me! quale e quanto era mutato da quell'Ettòr che ritornò vestito de le spoglie d'Achille, e rilucente del foco ond'arse il gran navile argolico!

Squallida avea la barba, orrido il crine e rappreso di sangue; il petto lacero di quante unqua ferite al patrio muro ebbe d'intorno. E mi parea che 'l primo foss'io che lagrimando gli dicessi:

"O splendor di Dardania, o de' Troiani securissima speme, e quale indugio t'ha fin qui trattenuto? Ond'or ne vieni

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