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Indice

Introduzione ... 3

Capitolo primo: Poesia, traduzione e ritmo ... 4

1.1 La traduzione della poesia ... 4

1.2 Il ritmo ... 17

Capitolo secondo: Salah Stétié... 23

2.1 La letteratura libanese di lingua francese ... 23

2.2 Biografia dell’autore ... 25

2.3 La poesia universale ... 28

2.4 Il poeta profeta ... 35

2.5 Aspetti stilistici ... 36

2.6 Tra Oriente e Occidente ... 38

2.7 Il rapporto tra le lingue ... 40

2.7.1 La lingua francese ... 40

2.7.2 La lingua madre ... 42

2.8 Francofonia ... 44

Capitolo terzo: Analisi della raccolta D’une langue ... 46

3.1 Aspetti stilistici ... 46

3.2 Le tematiche ... 48

3.3 Per una lettura dei componimenti ... 51

Capitolo quarto: Traduzione della raccolta D’une langue ... 70

4.1 Dédicace ... 71

4.2 D’une langue ... 75

4.3 La chute du jour ... 141

4.4 Respir ... 151

Capitolo quinto: Strategie traduttive ... 153

5.1 La struttura e lo stile ... 154

(2)

2

5.3 Il lessico ... 160

Intervista a Salah Stétié ... 163

Conclusioni ... 170

Bibliografia ... 171

Bibliografia primaria ... 171

Bibliografia secondaria ... 171

(3)

3

Introduzione

Il faut d’abord souligner à quel point la traduction est difficile. Pour passer d’une langue à l’autre, nous avons à passer d’un monde à l’autre, il faut franchir un fossé.

Barbara Cassin1 La traduzione della poesia è un’operazione complessa e non schematizzabile una volta per tutte. Di fronte a un testo poetico il traduttore mette alla prova le proprie capacità linguistiche e creative in modo profondo cercando, al tempo stesso, di rispettare l’essenza dell’opera originale. Le classiche coppie dicotomiche: traduzione bella e infedele o brutta e fedele, letterale o libera, estraniante o naturalizzante, che hanno dominato il dibattito sulla traduzione, si rivelano riduttive e banali dinanzi al delicato compito di tradurre letteratura perché non conferiscono il medesimo valore al testo di partenza e al testo di arrivo. Oggi, infatti, la tesi più accreditata afferma che la traduzione letteraria, e in particolare quella poetica, deve essere vista come un processo che porta alla creazione di due opere dotate di pari dignità artistica, ovvero come un passaggio da un testo a un altro nel quale vi è un rapporto costante tra la poetica dell’autore e del traduttore.

Partendo da queste premesse teoriche, scopo della presente tesi è analizzare e tradurre l’opera poetica D’une langue di Salah Stétié, autore libanese che sceglie di scrivere in francese ponendo così in relazione la cultura orientale e quella occidentale. Grazie alle origini arabe egli riesce a immettere nel francese le strutture circolari e ripetitive dell’arabo creando una lingua ibrida e originale.

La tesi si articola in cinque capitoli seguiti da un’intervista all’autore. Il primo capitolo si focalizza sul problema della traduzione della poesia in generale e sul ruolo cruciale che il ritmo riveste in questa attività. In particolare, le teorie sul rapporto tra suono e senso di Yves Bonnefoy e Paul Valéry, il sistema dei compensi analizzato da Franco Fortini e la concezione del ritmo di Henri Meschonnic si rivelano un valido sostegno per la traduzione poetica. Il secondo capitolo presenta il poeta Salah Stétié fornendo un’indagine critica dello stile, della poetica e del pensiero dell’autore. Il terzo capitolo propone un’analisi dell’opera D’une langue: una raccolta di poesie che celebra la lingua mostrandone il potere magico e incantatorio e nella quale la lingua francese viene “contaminata” dalla ritmicità dell’arabo. Il quarto capitolo è dedicato alla traduzione dell’opera D’une langue. Il quinto e ultimo capitolo mostra le possibili strategie traduttive alla luce delle teorie analizzate nel primo capitolo.

1

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4

Capitolo primo Poesia, traduzione e ritmo

1.1 La traduzione della poesia

La traduzione della poesia è al centro del dibattito traduttologico da secoli, tuttavia nessuna soluzione teorica può considerarsi “definitiva”. Manca infatti una visione univoca, l’unico punto di incontro tra i critici pare essere la necessità di considerare la traduzione come un processo che porta alla creazione di due opere artistiche dotate di pari dignità. La disputa francese tra Henri Meschonnic e Jean-René Ladmiral è un valido punto di partenza per trarre nuove conclusioni sul processo traduttivo; essa dà vita a due scuole di pensiero: una legata alla poetica della traduzione (di Meschonnic), l’altra connessa allo strutturalismo che mira al solo trasferimento del significato lasciando da parte il significante (di Ladmiral)2.

La poetica del tradurre più ricca di conseguenze è quella di Henri Meschonnic (1932-2009), poeta, traduttore della Bibbia e linguista che nel libro Poétique du traduire (1999) afferma l’inseparabilità di significante e significato e quindi l’importanza del concetto forma-senso. Da qui parte, tra l’altro, la polemica con il linguista statunitense Eugene Nida che invece li considera distinti perché vede due momenti nella traduzione: prima si trasmette il significato poi lo si adorna formalmente. La teoria di Meschonnic si basa sul concetto di ritmo inteso come l’«organizzazione del movimento della parola nella scrittura»3, «l’organisation et la démarche même du sens dans le discours»4, esso è espressione di un soggetto storico che manifesta la sua presenza nella prosodia. Il ritmo quindi non coincide più con la metrica ma dà struttura al discorso; da ciò deriva l’unità tra significante e significato. Di conseguenza tradurre significa rendere il ritmo del testo, che è costitutivo della propria lingua5. Non occorre cancellare la poetica dell’autore di partenza e sostituirla con quella del traduttore, ma entrare in rapporto con essa, ri-enunciarla e ciò porta a una rivoluzione nel processo traduttivo. Meschonnic dà prova delle proprie convinzioni nella traduzione della Bibbia, da lui considerata come un testo poetico nel

2

Fabio Scotto, Il senso del suono. Traduzione poetica e ritmo, Donzelli Editore, Roma, 2013, pp. 5-7.

3

Gérard Dessons, Henri Meschonnic, Trattato del ritmo dei versi e delle prose, in F. Buffoni (a cura di),

Traduttologia: la teoria della traduzione letteraria, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato Spa, Roma, 2006,

pp. 3.

4

Henri Meschonnic, Poétique du traduire, Éditions Verdier, Lonrai, 1999, p. 99.

5

(5)

5 quale non è presente una differenza tra prosa e poesia; nel libro Poétique du traduire infatti sostiene che:

Or la Bible n’est pas métrique. Donc ne connaît pas la distinction entre la prose et le vers. Mais elle est de part en part une codification du rythme, corporel-oral, verset par verset. Jusqu’à contrarier la syntaxe6.

e ancora:

On voit alors aussitôt que les traductions courantes de la Bible (je me limite à peu près aux traductions françaises) traduisent l’énoncé, non l’énonciation; la langue, non le discours; le sens, coupé du rythme, au lieu de prendre le langage avec son effet global, où tout fait sens, rythme et prosodie autant que lexique et syntaxe7.

Egli tenta quindi di riprodurne lo schema metrico; tuttavia, alla fine, la sua traduzione risulta orientata verso il testo di partenza. Si potrebbe definire Meschonnic un “sourcier” usando le parole di Jean-René Ladmiral e di conseguenza anche in questo caso si torna all’annoso problema delle coppie dicotomiche che oppongono una tendenza naturalizzante (tipica dei “ciblistes”) a una estraniante (propria dei “sourciers”).

Alla poetica di Meschonnic si contrappone quindi il semanticismo del filosofo traduttore Jean-René Ladmiral8 (1942). Per Ladmiral è importante la trasmissione del senso del testo perché l’aspetto formale dell’originale viene inevitabilmente perso, la sua idea (illusoria) è di far scrivere all’autore che viene tradotto il testo come l’avrebbe scritto se fosse stato francese. Inoltre crea una distinzione dualistica tra i “sourciers” ovvero gli stilisti, i letterati che privilegiano la “langue source”, la lingua di partenza e i “ciblistes” o semanticisti, linguisti, filosofi, nei quali egli stesso si rispecchia, che privilegiano la “langue cible”, la lingua di arrivo9

. Il primo tipo di traduzione ricerca l’”equivalenza formale” e tende a copiare il testo di partenza, tanto che questo non risulta più comprensibile in modo diretto, se non attraverso le note a piè di pagina; ragione per cui il lettore capisce che si tratta di un testo tradotto. Il secondo tipo di traduzione cerca di creare un’espressione naturale cosicché il lettore non ha la sensazione di trovarsi davanti a una traduzione. Inoltre i sourciers evocano i sorciers (gli stregoni) e quindi un modo di pensare arcaico e magico, mentre i ciblistes ricordano la C.B. (Citizens Band) alludendo all’idea di

6

H. Meschonnic, Poétique du traduire, cit., p. 100.

7

Ivi, p. 104.

8

Jean-René Ladmiral, Sourciers e Cibilstes, in F. Buffoni (a cura di), Traduttologia: la teoria della

traduzione letteraria, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato Spa, Roma, 2006, pp. 353-368. 9

(6)

6 modernità e di comunicazione. Ladmiral colloca tra i sourciers Walter Benjamin, Henri Meschonnic e Antoine Berman; tra i ciblistes Georges Mounin, Eugene Nida ed Efim Etkind. Ogni traduzione, anche di poesia, vive della tensione tra queste due tendenze e propende per l’una o per l’altra. In conclusione, la visione di Ladmiral risulta chiusa in questi schemi teorici o “teoremi” che riportano alla situazione di impasse delle coppie dicotomiche e non crea un cambiamento utile nella visione della traduzione.

Un'altra posizione teorica significativa è quella dell’autore francese Yves Bonnefoy (1923-2016) che nel libro La communauté des traducteurs (2000) mostra la rilevanza della poesia e della traduzione nel suo percorso artistico. La poetica della traduzione di Bonnefoy si basa sull’incontro e sulla relazione con l’altro (idea ripresa dal libro di Antoine Berman La traduction et la lettre ou l’auberge du lointain), il traduttore deve essere in grado di entrare in comunione con l’autore originale tanto da percepirne gioie e sofferenze, rivivendo così l’atto creativo (come già asserito dal noto critico George Steiner). Per questo motivo i traduttori hanno il compito di costituire una comunità che abbia la funzione antropologica di fare avvicinare le culture e di comprendere le passioni umane. Inoltre secondo Bonnefoy la poesia non è un semplice sistema di segni, ma nasconde aspetti dell’esistenza del poeta e «il significato non è affatto ciò che costituisce una poesia»10, infatti questa non ci attrae per il senso ma per le parole, la musica, i ritmi; pertanto «la poesia non significa, mostra»11 e rivela «l’immediatezza dell’essere sensibile che i concetti ci nascondono»12. Il traduttore, a sua volta, ha il dovere fondamentale di stabilire un rapporto con la materia sonora, non deve trasportare lo schema prosodico della lingua di partenza in quello della lingua di arrivo poiché «nessuna lingua è capace in materia di prosodia di passare per le vie di un’altra»13. Solo in questo modo il traduttore riuscirà a comprendere davvero il testo e a superare la dicotomia sourciers-ciblistes. In aggiunta, Bonnefoy sottolinea che l’essere umano è caratterizzato da una dualità: esiste un me, che è il «ripiegamento della persona su se stessa»14, il modo di esistere e dà vita al romanzo e un Io poetico capace di raggiungere l’essenza dei significati tramite la poesia. Il me prova a far tacere l’Io, ma è proprio l’Io l’elemento che il traduttore deve ritrovare per creare una buona traduzione.

10

Yves Bonnefoy, La comunità dei traduttori, trad. it. Fabio Scotto, Sellerio Editore Palermo, Palermo, 2005, p. 35. (Ed. or. La communauté des traducteurs, Presses Universitaires de Strasbourg, Strasbourg, 2000). 11 Ivi, p. 36. 12 Ibidem. 13 Ivi, p. 41. 14 Ivi, p. 37.

(7)

7 Successivamente Bonnefoy consolida i concetti cardine del suo pensiero teorico: non bisogna tradurre alla lettera, ma in versi liberi e ritmici, senza riprodurre fedelmente le rime e i metri della lingua di partenza e soprattutto utilizzare la lingua al suo «stato rigorosamente presente»15. Una traduzione può addirittura essere superiore all’originale quando riesce a portare a compimento dei significati che erano rimasti nell’ombra, tuttavia ci sono opere insuperabili perché non vi è materiale verbale equivalente nelle altre lingue. Per altro, secondo Bonnefoy non occorre essere poeti per tradurre poesia, basta amare l’autore originale poiché in questo modo lo si comprende ed è inutile tenere conto delle traduzioni già esistenti, infatti è solo partendo da se stessi che si può tradurre poesia. Il critico mostra la validità delle sue teorie traducendo le opere di Shakespeare e di Leopardi. Inoltre confuta l’idea di George Steiner della traduzione come atto di annessione e di trasferimento del significato, cui oppone l’esigenza della traduzione come ri-elaborazione dell’opera originale partendo da una rivoluzione interiore: il traduttore deve «rivivere la passione delle parole della poesia che vacilla di fronte all’invisibile»16. Di Walter Benjamin invece critica l’idea dell’Ur-sprache (la lingua unica) e del compito abissale del traduttore che deve creare il testo e la lingua stessa, perché secondo Bonnefoy il mondo è fin dalle origini caratterizzato dalla presenza di innumerevoli lingue che devono essere confrontate per creare una poetica comparata.

In conclusione, per Bonnefoy la traduzione implica capacità di ascolto, rifiuto dell’etnocentrismo, una ricerca di sé attraverso l’altro17

, quest’attività insegna non solo a rispettare, ma anche a comprendere l’essere umano e l’esistenza stessa garantendo così la salvezza del mondo. Il suo pensiero è fondamentale in quanto affronta sia il problema della traduzione come tecnica sia gli effetti che essa comporta su chi traduce.

Cinquant’anni prima di Bonnefoy, anche il poeta Paul Valéry (1871-1945), nelle Variations sur les Bucoliques che precedevano il libro Traduction en vers des Bucoliques de Virgile (1956, postumo), giungeva a conclusioni simili. Secondo Valéry la poesia è «un art de contraindre continûment le langage à intéresser immédiatement l’oreille (et par celle-ci tout ce que les sons peuvent excelle-citer par eux-mêmes) au moins autant qu’il ne fait l’esprit»18

; un verso è composto da una successione di sillabe e da un insieme di parole, le parole devono dare vita a un senso probabile mentre le sillabe devono originare una figura per l’udito che si imponga sul significato. Pertanto la poesia deve «créer l’illusion d’une

15

Y. Bonnefoy, La comunità dei traduttori, cit., p. 65.

16

Ivi, p. 110.

17

F. Scotto, Il senso del suono. Traduzione poetica e ritmo, cit., p. 75.

(8)

8 composition indissolubile de son et de sens, quoiqu’il n’existe aucune relation rationnelle entre ces constituants du langage»19. Di conseguenza, in traduzione è fondamentale ricreare il ritmo e i suoni ricordandosi di non limitarsi al solo significato perché ciò vorrebbe dire snaturare la poesia. Inoltre la traduzione non è un semplice atto di trasposizione di un testo da una lingua all’altra ma consente di mettere i propri passi sulle orme di quelli dell’autore quindi di rivivere l’atto creativo.

L’idea della traduzione come atto creativo e processo artistico viene ripresa da altri traduttori tra i quali: Efim Etkind, Valéry Larbaud e Octavio Paz.

Il linguista russo Efim Etkind (1918-1999) sottolinea l’importanza della traduzione creatrice. Nel libro Un art en crise. Essai de poétique de la traduction poétique (1982) distingue sei tipi di traduzione: 1. la informazione, 2. la traduzione-interpretazione, 3. la traduzione-allusione, 4. la traduzione-approssimazione, 5. la traduzione-ricreazione, 6. la traduzione-imitazione.

1. La traduzione-informazione (T-INFO) mira a «donner au lecteur une idée générale de l’original»20

, essa è caratteristica della prosa, non ha mire estetiche.

2. La traduzione-interpretazione (T-INT) mette insieme la traduzione, l’analisi e la parafrasi.

3. La traduzione-allusione (T-ALLUS) fa appello all’immaginazione del lettore, tanto è vero che in alcune traduzioni vengono fatti rimare i solo primi quattro o otto versi dell’originale e il resto viene tradotto in versi liberi, questo dimostra la mancanza di capacità artistica del traduttore.

4. La traduzione-approssimazione (T-APPROX) si ha quando il traduttore è convinto di non riuscire a tradurre il testo e quindi si scusa con il lettore tramite un’introduzione. Un esempio può essere la traduzione interlineare che è un testo accessorio senza qualità letteraria.

5. La traduzione-ricreazione (T-R) ricrea l’insieme del testo conservando la struttura dell’originale, essa si realizza tramite sacrifici, trasformazioni e aggiunte. Il traduttore dovrà capire quali sono i sacrifici necessari, fare trasformazioni e aggiunte che rientrano nello stile dell’originale. Etkind opta per questo tipo di traduzione perché implica una rielaborazione dell’originale sempre nel rispetto del messaggio del testo, superando così le coppie dicotomiche.

19

P. Valéry, Œuvres, édition établie et annotée par Jean Hytier, cit., p. 211.

20

Efim Etkind, Un art en crise. Essai de poétique de la traduction poétique, L’Âge de l’homme, Lausanne, 1982, p. 18.

(9)

9 6. La traduzione-imitazione (T-I) si ha nei poeti che mirano a esprimere loro stessi e non a ricreare l’originale.

La T-R mantiene la struttura del testo originale, la T-I la trasforma; la T-R riproduce le immagini dell’originale, la T-I le modifica per adattarle al nuovo testo; la T-R crea un’opera in relazione stretta con l’originale, la T-I dà vita a un testo completamente diverso. Secondo l’autore la R è poco praticata in Francia mentre la INFO e la T-ALLUS tendono a essere le più utilizzate, ciò ha portato alla crisi della traduzione poetica21.

Inoltre Etkind analizza una serie di conflitti che caratterizzano il testo poetico: fra sintassi e metrica, fra metrica e ritmo, fra suono e senso, fra parole del linguaggio e parole nel verso, fra proposizione e parola; afferma quindi che è fondamentale fare interagire questi aspetti per creare una buona traduzione perché se si privilegia solo uno di essi si crea un testo deformato. Il limite di questo pensiero sta nel fatto che è impossibile ricreare in traduzione tutti i conflitti che riguardano l’originale.

Anche il traduttore e romanziere Valéry Larbaud (1881-1957) recupera la visione della traduzione come opera creativa nel libro De la traduction (1984, postumo). Egli sostiene che ogni opera è caratterizzata da «un son, une couleur, un mouvement, une atmosphère, qui lui sont propres»22. Oltre al senso letterale, ogni testo ha un senso meno apparente che crea nel lettore l’impressione estetica ricercata dal poeta; il compito del traduttore è proprio rendere questo senso nascosto, ricrearlo, senza deformare il testo. Pertanto la traduzione può essere vista come una forma di critica umile. Inoltre è essenziale tradurre un’opera che si ama poiché ciò permette di capirla in modo profondo e di possederla completamente. Il traduttore trae un profitto personale dalla traduzione e, al tempo stesso, arricchisce la letteratura del proprio paese; da un punto di vista pratico può utilizzare dizionari monolingue o bilingue come punti di partenza ma le parole nasceranno dal suo ingegno, egli infatti è un «peseur de mots»23.

A sua volta il poeta e saggista messicano Octavio Paz (1914-1998), rievoca il pensiero di Paul Valéry nel saggio Traduzione: letteratura e letteralità sostenendo che «il traduttore, in un’altra lingua, deve comporre una poesia analoga all’originale»24

. L’attività del

21

E. Etkind, Un’arte in crisi. Saggio di poetica della traduzione, in F. Buffoni (a cura di), Traduttologia: la

teoria della traduzione letteraria, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato Spa, Roma, 2006, p. 596 22

Valéry Larbaud, De la traduction, Extrait de sous l’invocation de Saint Jérôme, Actes Sud Hubert Nyssen Editeur, Avignon, 1984, p. 15

23

Ivi, p. 31.

24

Octavio Paz, Traduzione: letteratura e letteralità, in F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Marcos y Marcos, Milano, 2004, p. 106.

(10)

10 traduttore è parallela a quella del poeta, con una differenza sostanziale: mentre scrive, il poeta non ha idea di come si presenterà la sua poesia, il traduttore, al contrario, ha già a disposizione la materia prima del suo lavoro. La poesia tradotta deve ricreare l’originale, ne è una «trasmutazione»25, occorre quindi «riprodurre con mezzi differenti effetti analoghi»26. Traduzione e creazione sono definite operazioni gemelle, esse si riflettono, si fecondano, tanto che a volte diventano indistinguibili. Da un punto di vista teorico solo i poeti dovrebbero tradurre poesia, ma, in realtà, spesso i poeti non sono buoni traduttori perché usano la poesia straniera come ispirazione per comporre la propria, distruggendola. Il vero traduttore invece deve dare vita a una poesia simile all’originale che preservi la molteplicità dei significati e abbia rispetto del messaggio che l’autore straniero ha voluto trasmettere.

I due autori James S. Holmes e Jiří Levý affrontano il problema della traduzione di poesia da un punto di vista pratico, il loro metodo può essere valido per comprendere quali sono i problemi concreti che si trova davanti il traduttore al di là delle teorizzazioni.

Il saggio del poeta e traduttore olandese James S. Holmes (1924-1986) Forme della traduzione in versi e traduzione di forme del verso evidenzia quali sono i diversi generi di traduzioni di poesia. L’autore sottolinea che non si tratta di regole normative ma di differenti interpretazioni dell’originale. Secondo Holmes la scelta del verso poetico da utilizzare deve essere presa nella fase iniziale del processo di traduzione e determina l’aspetto stilistico del testo. Si possono distinguere quattro approcci:

1. Il primo approccio prevede la conservazione della forma dell’originale, tuttavia, in realtà, nessuna forma metrica di una lingua può essere identica a una forma metrica di un’altra lingua, di conseguenza questo metodo può essere definito «forma mimetica». Il traduttore prende in considerazione solo il testo originale per scegliere la forma metrica e non esamina altri aspetti.

2. Il secondo approccio è quello dei traduttori che considerano la funzione della forma dell’originale all’interno della sua tradizione poetica e poi cercano una forma con una funzione simile nella tradizione poetica della lingua di arrivo. Si può parlare in questo caso di «forma analogica». La forma mimetica e quella analogica sono forme «derivate dalla

25

O. Paz, Traduzione: letteratura e letteralità, cit., p. 106.

(11)

11 forma»27 in quanto cercano un’equivalenza della forma poetica di partenza nella lingua di arrivo.

3. Il terzo approccio si basa su una forma metrica «derivata dal contenuto» e si potrebbe definire «forma organica». Il traduttore in questo caso non considera la forma della poesia originale, ma parte dal materiale semantico e sceglie quale forma poetica adottare.

4. Nel quarto approccio la forma non deriva dall’originale e si può chiamare «forma deviante» o «forma estranea». Il traduttore quindi sceglie a sua discrezione quale forma usare.

La scelta di una forma esclude le altre. La forma analogica crea una traduzione naturalizzante, viene utilizzata in periodi storici in cui si crede che le proprie forme letterarie siano un valido metro di paragone per giudicare la letteratura straniera, ciò avveniva durante il Neoclassicismo settecentesco. Al contrario la forma mimetica sottolinea l’estraneità dell’opera straniera:

Invece di reinterpretare l’originale nei termini della tradizione d’arrivo, la metapoesia mimetica chiede al lettore di forzare i limiti della sua sensibilità letteraria, di estendere la sua visione al di là dei confini di ciò che si ritiene accettabile nella sua tradizione letteraria28.

Ciò comporta un arricchimento della lingua di arrivo. Questa forma prevale in periodi storici in cui i generi letterari tradizionali sono in crisi come ad esempio nell’Ottocento. La forma organica si basa sulla ricerca di una forma intrinseca in base al tipo di testo, guarda alla traduzione con pessimismo ed è l’approccio tipico del Novecento. Nella forma estranea il traduttore osserva minimamente le regole della sua cultura poetica e ha libero arbitrio sul significato; essa si diffonde a partire dal Seicento e arriva fino ai giorni nostri nella veste dell’imitazione. Holmes conclude affermando che vi è una stretta relazione tra tipo di verso scelto ed effetto complessivo dell’opera e che non si possono usare regole normative a priori per la traduzione, pertanto si rientra sempre nel campo dell’interpretazione.

Il teorico della traduzione ceco Jiří Levý (1926-1967) nel saggio Il verso: l’originale e la traduzione sottolinea l’importanza della scelta della forma metrica per la traduzione di poesia. Nel verso infatti la parola è spesso secondaria rispetto allo schema metrico; di solito le parole brevi sono più frequenti perché sono maggiormente adattabili al ritmo, le

27

James S. Holmes, Forme della traduzione in versi e traduzione di forme del verso, in F. Buffoni (a cura di), Traduttologia: la teoria della traduzione letteraria, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato Spa, Roma, 2006, p. 607.

(12)

12 parole lunghe invece sono più rare. Nel caso della rima non si ha quasi mai una perfetta corrispondenza tra le due lingue, la simmetria può avvenire tra lingue dello stesso ceppo linguistico ma quelle etimologicamente lontane richiedono di norma l’impiego di un lessico diverso. A volte il traduttore ricorre a «riempitivi» ovvero parole insignificanti per ottenere una rima, questi devono essere usati con attenzione perché rischiano di diventare un elemento dello stile. Di conseguenza il metodo operativo di un traduttore si rivela in modo chiaro nelle parole finali del verso. Un altro problema è dato dalle differenze semantiche tra le due lingue che costringono a restringere o ad aumentare il numero delle parole in base al concetto da esprimere. In conclusione, il traduttore deve ricercare la chiave formale a partire dalle funzioni semantiche della forma29 perché il legame tra suono e contenuto è stretto.

In ambito italiano, numerosi autori si sono interrogati sul problema della traduzione della poesia arrivando a conclusioni spesso divergenti: Franco Buffoni, Franco Fortini, Antonio Prete, Giorgio Caproni, Andrea Inglese, Emilio Mattioli e Umberto Eco.

Il pensiero traduttivo di Franco Buffoni (1948) nasce dal bisogno di superare le classiche dicotomie del pensiero traduttologico (traduzione fedele o infedele, fedele alla lettera o allo spirito). Queste infatti generano una situazione di «impasse»30 poiché portano a credere che lo stile di un autore sia intraducibile e che si possa trasmettere solo il significato. Di conseguenza Buffoni critica il pensiero di Benedetto Croce e di Roman Jakobson secondo i quali non si può tradurre poesia ma la si può comprendere solo dal punto di vista del contenuto. Anche le teorie di Jean-René Ladmiral e di Henri Meschonnic risultano inadeguate perché generano una dicotomia tra sourciers e ciblistes ovvero tra una tendenza naturalizzante (di Ladmiral) e una estraniante (di Meschonnic). Neanche gli studi di Lawrence Venuti sono utili in questo senso perché si schierano dalla parte del filosofo tedesco Friedrich Schleiermacher che preferisce la tendenza source-oriented e criticano il linguista belga André Lefevere che opta per la tendenza target-oriented. Venuti infatti afferma che:

Lefevere non riesce a rendersi conto che la presenza di una lingua non idiomatica, specialmente in testi letterari, è culturalmente specifica: quel che è non idiomatico in una formazione culturale può

29

Jiří Levý, Il verso: l’originale e la traduzione, in F. Buffoni (a cura di), Traduttologia: la teoria della

traduzione letteraria, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato Spa, Roma, 2006, p. 274. 30

Franco Buffoni, La traduzione del testo poetico, in F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Marcos y Marcos, Milano, 2004, p. 15.

(13)

13 essere esteticamente efficace in un’altra. […] Schleiermacher, davvero, può offrire un’alternativa31

.

Buffoni invece crede che la traduzione letteraria sia un processo che porta alla creazione di due testi di pari dignità artistica e ipotizza cinque concetti per superare le coppie dicotomiche: il movimento del linguaggio nel tempo, l’avantesto, l’intertestualità, la poetica e il ritmo.

Il concetto di movimento del linguaggio nel tempo (ripreso dal teorico letterario Friedmar Apel) è dovuto alla necessità di conoscere la lingua di partenza prima di iniziare la traduzione; infatti anche il testo di partenza è in movimento nel tempo e quindi mutano le sue strutture sintattiche e grammaticali. Da questo punto di vista la traduzione appare come il risultato di un incontro tra uguali che comporta la caduta delle coppie dicotomiche. Anche l’avantesto è utile perché permette al traduttore di conoscere i vari documenti dai quali nasce un’opera e quindi sviluppare una maggiore consapevolezza critica. Infatti il testo si muove sia verso il futuro sia verso il passato. In questo senso, Buffoni critica le idee di Umberto Eco che nel libro Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (2003) sostiene che le traduzioni invecchiano mentre le opere originali rimangono immutate.

Il termine intertestualità è ripreso da un saggio della nota linguista Julia Kristeva nel quale viene affermato che ogni testo può essere visto come un insieme di citazioni poiché assorbe altri testi; pertanto secondo Buffoni anche la traduzione di poesia è assorbimento e trasformazione di un altro testo, essa è «contemporaneamente produzione e riproduzione, analisi critica e sintesi poetica, rivolta tanto verso il sistema linguistico straniero, quanto verso il proprio»32. Questa concezione genera una visione “aperta” dell’opera letteraria perché sostiene che in ogni opera si cela il riflesso di un’altra opera, in questo modo si crea un dialogo infinito tra le parole del passato e del presente.

La nozione di poetica deriva dal pensiero del critico letterario Luciano Anceschi che la vede come una riflessione che gli artisti e i poeti operano sul proprio lavoro; la traduzione letteraria si configura allora come il rapporto tra le due poetiche dell’autore e del traduttore.

Infine Buffoni analizza il concetto di ritmo e arriva alla distinzione tra un’idea di ritmo naturale e misurabile, propria dei poeti e una non misurabile e antropologica elaborata da

31

Lawrence Venuti, Genealogie della teoria della traduzione: Schleiermacher, in F. Buffoni (a cura di),

Traduttologia: la teoria della traduzione letteraria, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato Spa, Roma, 2006,

pp. 147-148.

32

(14)

14 Meschonnic33. Il ritmo risulta comunque un elemento fondamentale sia nell’originale che nella traduzione, perché determina il valore di un’opera.

Buffoni inoltre distingue le traduzioni di poesia che spesso finiscono per essere un’esercitazione narcisistica di un poeta su un testo e le traduzioni di servizio che distruggono la ragione d’essere del testo34

, eliminandone la musicalità. Egli propone la traduzione «di rispetto»35 nella quale si realizza un incontro con l’altro, e una «lealtà»36 al testo priva di ostentazione delle capacità artistiche personali.

Il pensiero di Franco Fortini (1917-1994) sulla traduzione è ricco di implicazioni teoriche e pratiche. Nel libro Lezioni sulla traduzione (2011, postumo) parte da una base marxista e introduce la traduzione nella storia affermando che:

La produzione di traduzioni poetiche di più alta qualità coincide cronologicamente con i periodi di maggiore oppressione o conservazione ideologica mentre ai periodi di maggiore movimento e conflittualità politico-sociale corrisponde una vivace produzione di versioni prevalentemente saggistiche, narrative o, come si dice, di servizio37.

Quindi la traduzione è profondamente legata ai mutamenti storici e politici. Da un punto di vista teorico Fortini riprende Meschonnic che privilegia una traduzione spostata verso l’originale, quindi ha una posizione sourcier anche se a volte ammette che per il traduttore è necessario diventare invisibile e fare una traduzione di servizio. Inoltre critica l’uso del testo a fronte perché la traduzione è un’opera di rielaborazione non simmetrica. Il traduttore è un «lettore o lettore-critico»38, ha una sua cultura che è immersa nella situazione storico-sociale e una sua visione della letteratura e della poesia, con diversi gradi di consapevolezza. Egli può «percepire con maggiore o minore complessità la gerarchia di elementi del testo di partenza» e decide come procedere nel suo lavoro in base a un repertorio culturale personale; a seconda dei casi «traduce o adatta o traspone o imita»39. Per questo motivo Fortini è consapevole del fatto che «la traduzione costituisce un nuovo testo» in cui si condensano i problemi di forma e stile.

Nel saggio Dei “compensi” nelle versioni di poesia Fortini sostiene che la traduzione di poesia implica un “sistema di compensi”. In un testo vi sono dei rapporti di narrazione e un

33

F. Scotto, Il senso del suono. Traduzione poetica e ritmo, cit., p. 53.

34

F. Buffoni, Leopardi in lingua inglese come paradigma della simbolicità del compito di un poeta

traduttore, in F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Marcos y Marcos, Milano, 2004, p. 344. 35

Ibidem.

36

Ivi, p. 346.

37

Franco Fortini, Lezioni sulla traduzione, Quodlibet, Macerata, 2011, p. 184.

38

Ivi, p. 123.

39

(15)

15 insieme di contenuti e di tematiche sui quali la possibilità di intervento è minima, mentre è massima per altri livelli, come quello fonosimbolico. Non bisogna trasporre il sistema metrico di partenza in quello di arrivo ma procedere per compensazione: ad esempio, un aumento delle assonanze e allitterazioni supplisce alla caduta delle rime. Quindi la traduzione poetica è «affetta da strabismo»40: da una parte mira a raggiungere la totalità del testo di partenza, dall’altra guarda al proprio punto di arrivo i cui significati e significanti sono immersi nel linguaggio presente.

Anche lo scrittore e critico Antonio Prete (1939) vede la traduzione come un’opera di «trasmutazione di un testo in un altro»41 che genera somiglianza e differenza con il primo testo. Il traduttore è un esegeta, quindi un interprete che ha il compito di riuscire a trasmettere «il rapporto tra silenzio e ritmo, tra attesa e dizione, tra vuoto e immagine»42, deve imitare e inventare al tempo stesso. L’imitazione diventa una linea guida per il traduttore, un segreto incombente43. L’invenzione poetica e la traduzione della poesia sono, a loro volta, due attività parallele: il poeta si occupa della «lingua della natura»44 e la trasforma in una «lingua di suoni e di sensi»45; il traduttore agisce sulla lingua del poeta: anche in questo caso prima trova la voce poi inventa una forma.

Sulla stessa linea di pensiero si colloca il poeta e traduttore Giorgio Caproni (1912-1990), egli infatti sostiene che il tradurre è un’arte. Il testo tradotto non sarà mai un perfetto double (o perfetta copia)46 dell’originale ma deve avvicinarsi ad esso, deve riprodurre il legame indissolubile tra suono e senso. Il traduttore è a tutti gli effetti uno scrittore che esprime se stesso e allarga le proprie conoscenze grazie all’autore originale, pertanto il testo lo costringe ad esplorarsi in modo diverso.

Al contrario, il professore e poeta Andrea Inglese (1967) ritiene che la traduzione non porti quasi mai alla creazione di un’opera d’arte. Il traduttore deve restituire un testo in una lingua provvisoria, «nella quale sono passati aspetti fondamentali del testo originale, ma altri sono stati adombrati»47, dunque si tratta di una lingua potenziale; infatti mentre le

40

F. Fortini, Dei “compensi” nelle versioni di poesia, in F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo

poetico, Marcos y Marcos, Milano, 2004, p. 74. 41

Antonio Prete, Traduzione come esegesi, in F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Marcos y Marcos, Milano, 2004, p. 230. 42 Ibidem. 43 Ibidem. 44 Ivi, p. 231. 45 Ibidem. 46

Giorgio Caproni, L’arte del tradurre, in F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Marcos y Marcos, Milano, 2004, p. 32.

47

Andrea Inglese, La lingua provvisoria, in F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Marcos y Marcos, Milano, 2004, p. 544.

(16)

16 parole dell’originale sono definitive, quelle della traduzione lo sono meno. Anche la lettura e la comprensione diventano atti provvisori, sono solo un avvicinamento al testo. Il limite di questo pensiero è dovuto al fatto che non riconosce il valore estetico del testo di arrivo in quanto opera dotata di dignità artistica. Inglese ha comunque il pregio di ritenere il testo tradotto come il frutto di una contaminazione48, esso permette di allontanarsi dagli automatismi del proprio linguaggio ed entrare così in relazione con poetiche diverse. Infine il saggio di Emilio Mattioli (1933-2007) La traduzione di poesia come problema teorico è utile per trarre conclusioni sulla traduzione poetica. Egli afferma che l’insuccesso di tante traduzioni di poesia è dovuto a una inadeguata riflessione sull’importanza del verso e quindi della forma metrica. L’assenza di una concezione teorica porta di fatto a credere che basti mantenere lo schema metrico o trovarne uno equivalente per fare una buona traduzione. Ma anche la sola astrazione concettuale può condurre a soluzioni arbitrarie, come dimostra la linguistica teorica che ha sostenuto l’intraducibilità della poesia e la non specificità del problema della traduzione poetica (il libro After Babel di George Steiner è proprio un attacco a questa impostazione). Il dibattito oggi può andare oltre perché gli studiosi concordano sul fatto che è inutile soffermarsi sull’obiezione pregiudiziale49, ovvero sulla negazione della possibilità di tradurre; questa infatti è dovuta a una visione elementare della traduzione, intesa come un mero processo binario che porta a una corrispondenza biunivoca tra una parola della lingua di partenza e una della lingua di arrivo. Abbandonata l’obiezione pregiudiziale occorre domandarsi come presentare il problema teorico della traduzione della poesia ricordando sempre che non esistono soluzioni definitive. Grazie al contributo di autori come Efim Etkind, Karl Dedecius, Henri Meschonnic e Friedmar Apel vengono messe in crisi le coppie dicotomiche fedele-infedele, lettera-spirito, estraniante-naturalizzante perché legate a una visione banale del processo traduttivo e cade pure la pretesa di definire una norma univoca per il processo traduttivo.

In definitiva, Mattioli sostiene che non si può creare una teoria della traduzione a partire da un sistema, ma che occorre una riflessione in stretto rapporto con la storia della traduzione e con le traduzioni esistenti50; non si può nemmeno decidere preventivamente come dovrà essere una traduzione, poiché in questo campo non esiste prevedibilità: è il traduttore stesso che decide come svolgere il proprio lavoro. In ogni caso egli non deve

48

A. Inglese, La lingua provvisoria, cit., p. 537

49

Emilio Mattioli, La traduzione di poesia come problema teorico, in F. Buffoni (a cura di), Traduttologia:

la teoria della traduzione letteraria, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato Spa, Roma, 2006, p. 206. 50 Ivi, p. 214.

(17)

17 agire in modo arbitrario, ma essere consapevole delle scelte che compie. Inoltre esaminare la storia delle traduzioni esistenti di un testo è utile perché queste costituiscono una forma di interpretazione e, insieme, una soluzione di un problema traduttivo.

La teorizzazione di Mattioli comporta pertanto una visione aperta della traduzione che diventa parte integrante della poesia originale; di conseguenza la stessa nozione di intertestualità diventa la chiave di volta per comprendere l’intero processo traduttivo.

1.2 Il ritmo

Il ritmo sta assumendo grande rilevanza nel dibattito contemporaneo tanto che ha dato vita a una scienza: la ritmologia. Il critico Fabio Scotto (1959) nel libro Il senso del suono. Traduzione poetica e ritmo (2013) distingue vari indirizzi di studio che si occupano di questo tema: l’orizzonte filosofico-scientifico, l’orizzonte estetico e poetico, l’orizzonte traduttivo.

L’orizzonte filosofico-scientifico cerca la funzione del ritmo nel mondo. Platone lo associa all’ordine del cosmo collocandolo così al di fuori del linguaggio, Aristotele lo interpreta come una rappresentazione dell’agire umano, la fisica invece lo collega all’idea di temporalità.

L’orizzonte estetico e poetico afferma che il ritmo è estraneo alla soggettività e scorre sul mondo, tocca la natura e le persone. La prosodia e la cadenza sono gli elementi grazie ai quali il bambino conosce il linguaggio e, di conseguenza, il poeta nella sua opera rispecchia l’acquisizione primaria della lingua51. In particolare, lo scrittore Franco Loi (1930) vede il ritmo come una «vibrazione»52 che attraversa il mondo e il poeta pertanto è costretto ad aderire a questo flusso. Anche il critico Edoardo Zuccato (1963) sostiene che il poeta deve saper ascoltare la musica della lingua. Secondo la sua visione, i poeti romantici inglesi e tedeschi sono stati i primi ad affermare che la musica è un elemento fondamentale della poesia e a far emergere il carattere storico della distinzione tra ritmo e metro53. A sua volta, il compositore Carlo Galante (1959) nel saggio Ritmo e Ritmi: alcuni esempi di rapporto tra poesia e musica asserisce che il ritmo è un elemento sensoriale percepito da

51

F. Buffoni, Ritmologia, in Buffoni F. (a cura di), Ritmologia. Il ritmo del linguaggio, Poesia e traduzione, Marcos y Marcos, Milano, 2002, p. 10.

52

Franco Loi, Il ritmo dell’emozione, o emozione del ritmo, in Buffoni F. (a cura di), Ritmologia. Il ritmo del

linguaggio, Poesia e traduzione, Marcos y Marcos, Milano, 2002, p. 307. 53

Edoardo Zuccato, La musica dei versi. Sorgività linguistica e pastiche nella poesia contemporanea, in Buffoni F. (a cura di), Ritmologia. Il ritmo del linguaggio, Poesia e traduzione, Marcos y Marcos, Milano, 2002, p. 315.

(18)

18 ognuno di noi ma difficile da definire; fin dall’antichità è stato usato in vari ambiti: musica, danza, poesia, arti visive, vita quotidiana e lavoro. L’aspetto che accomuna questi vari significati del ritmo è il concetto di movimento: «un divenire nello spazio secondo un certo tempo»54. Per quanto riguarda la musica, nei trattati antichi e medievali si divideva la materia in due parti: nella prima si parlava del suono, la sua divisione e articolazione; nella seconda parte si trattava del ritmo diviso in musicale, oratorio e poetico. Il ritmo oratorio e il ritmo poetico hanno bisogno della parola per manifestarsi, viceversa, il ritmo musicale non ne ha bisogno e può essere collegato al concetto di tempo. Quindi il rapporto tra ritmo delle parole, ritmo musicale e figura musicale appare ricco di possibilità interpretative55. L’orizzonte traduttivo vede lo scontro di due visioni opposte: quella semiotico-linguistica e quella filosofico-poetica. In ambito teorico si può parlare di ritmo come concetto astratto; nel caso della traduzione, invece, occorre anche un confronto diretto con il testo.

La teoria di Meschonnic si può ascrivere a quest’ultimo orizzonte, in netto contrasto con la visione universale del ritmo. Egli parte dalla concezione di Eraclito e Democrito che opponeva rhythmos (forma di ciò che si muove) a skhêma (forma fissa)56 e afferma che il ritmo è l’organizzazione della parola nella scrittura, «l’organisation et la démarche même du sens dans le discours»57, ovvero il discorso di un soggetto storico che esprime se stesso. Da ciò deriva la critica del dualismo significante e significato su cui si fonda la semiotica e l’enunciazione dell’importanza del concetto forma-senso. Inoltre la metrica diventa solo una variante del ritmo mentre per secoli era stata considerata equivalente alla poesia stessa, opposta alla prosa a-ritmica. Quindi non occorre più la distinzione tra prosa e poesia perché il ritmo, essendo nel soggetto, è in ogni testo. In particolare, Meschonnic considera la Bibbia come un testo poetico e ritmico nel quale non è presente questa differenza tra prosa e poesia. Infine egli dà importanza alla punteggiatura, considerata un elemento fondamentale per capire la poesia moderna, infatti essa ha una funzione ritmica perché scandisce parola e silenzio.

Nel libro scritto con Gérard Dessons Traité du rythme, des vers et des proses (1998), Meschonnic parla di quattro pregiudizi che hanno caratterizzato lo studio del ritmo: 1. il ritmo di un testo sarebbe una nozione secondaria, facoltativa; 2. il ritmo sarebbe riservato alla poesia; 3. il ritmo sarebbe arbitrario, dipenderebbe dal lettore; 4. il ritmo sarebbe una

54

Carlo Galante, Ritmo e Ritmi: alcuni esempi di rapporto tra poesia e musica, in Buffoni F. (a cura di),

Ritmologia. Il ritmo del linguaggio, Poesia e traduzione, Marcos y Marcos, Milano, 2002, p. 121. 55

Ivi, p. 126.

56

F. Scotto, Il senso del suono. Traduzione poetica e ritmo, cit., p. 156.

57

(19)

19 realtà puramente formale che non ha nulla a che vedere con il significato58. Questi pregiudizi vengono analizzati e confutati affermando che:

1. «Il ritmo non è una nozione secondaria», non è un semplice accessorio della poesia come lo riteneva la poetica classica, esso è invece «una realtà fondamentale del linguaggio»59, pertanto ogni opera letteraria è ritmica.

2. «Il ritmo non è riservato alla poesia». Questa visione nasce dalla confusione (antica) tra ritmo e metrica. Nel mondo classico alcuni poeti si erano accorti della presenza del ritmo nella prosa, ma è nel XIX secolo che si parla esplicitamente di “poème en prose” (poema in prosa) grazie a Baudelaire, Verlaine e Rimbaud. Le teorie strutturaliste sulla narrativa non hanno tenuto in considerazione il ritmo, relegandolo all’ambito della poesia. Oggi, invece, la riflessione può andare oltre perché il ritmo è ritenuto come costitutivo sia della prosa che della poesia.

3. «Il ritmo non è una nozione arbitraria». Esso è stato considerato un elemento soggettivo e arbitrario a causa di analisi poco approfondite: veniva infatti definito “spezzato”, “pesante”, “regolare”, “cadenzato”. L’analisi ritmica invece deve basarsi su una tecnica oggettiva, nata da principi fonetici. Un esempio è l’«accentuazione di gruppo»60 che determina la non accentuazione del tu nel sintagma tu viens? e la sua accentuazione nel corrispettivo viens-tu?

4. «Il ritmo non è una nozione formalista». Spesso gli studi sul ritmo sono stati associati a un insieme di norme formali che non avevano legami diretti con il significato del testo, ma in realtà il ritmo è l’elemento fondamentale di un’opera perché crea una sintesi tra sintassi, prosodia e semantica. Di conseguenza l’analisi ritmica deve chiarire come si formi il significato a partire dal ritmo.

Meschonnic sostiene che il ritmo è stato tradizionalmente considerato

[…] sia una nozione tecnica, limitata e formale, sia una nozione universale, valida in tutti i campi. È la stessa nozione di ritmo che si inserisce in tutti i ritmi: i ritmi cosmici, i ritmi biologici, i ritmi sociali, il ritmo nel linguaggio, e il ritmo nelle arti, dalla musica alle arti plastiche fino all’architettura61

.

In ambito letterario, esso è stato accostato alla metrica e quindi alla presenza del verso, creando così l’idea che la prosa fosse a-ritmica. Secondo questa concezione classica il ritmo sarebbe dunque un alternarsi di marche (tempo forte e tempo debole) nel verso.

58

G. Dessons, H. Meschonnic, Trattato del ritmo dei versi e delle prose, cit., p. 383.

59

Ivi, pp. 383-384.

60

Ivi, p. 385.

(20)

20 Inoltre la linguistica tradizionale ritiene che il linguaggio sia caratterizzato dalla presenza del segno linguistico il quale è a sua volta costituito da due elementi: i fonemi (il suono) e le parole (il senso). Tuttavia, secondo Meschonnic, il segno non è tutto il linguaggio ma solo un modello (discutibile) di funzionamento, o paradigma, esso infatti non si produce solo nel linguaggio ma anche in altri cinque campi. Si possono così distinguere un paradigma linguistico del segno, un paradigma antropologico, un paradigma filosofico, un paradigma teologico, un paradigma sociale e un paradigma politico.

Il paradigma linguistico del segno è l’elemento attorno al quale si modellano gli altri cinque campi. Esso è caratterizzato dalla coppia formata dal significante (la forma) e dal significato (il senso). Da questo paradigma si originano altri dualismi come quello tra prosa e poesia.

Il paradigma antropologico del segno va alla ricerca della definizione dell’uomo creando una serie di opposizioni: tra voce e scritto, tra vivente e morto, tra linguaggio e vita. A questo si oppone l’antropologia storica del linguaggio che si basa sulla poetica del ritmo e quindi una concezione non dualistica del segno.

Il paradigma filosofico del segno contrappone le cose alle parole. Il segno serve a designare l’assenza delle cose tramite le parole. La poesia riesce a ritrovare l’unione tra termini e cose ed è quindi opposta al linguaggio ordinario.

Il paradigma teologico del segno oppone il Vecchio testamento al Nuovo Testamento. Il paradigma sociale del segno crea una contrapposizione tra l’individuo e il sociale, oppone la società atomizzata di oggi al comunitarismo primitivo.

Il paradigma politico del segno mette in contrasto, nella democrazia, la minoranza alla maggioranza. La maggioranza è assimilata al Sovrano, creando così una contraddizione con il termine democrazia.

In definitiva, il paradigma linguistico del segno impone una visione dualistica e discontinua delle realtà che descrive, in esso il segno è solo una rappresentazione del linguaggio, non il linguaggio stesso; la teoria del ritmo, al contrario, concepisce «le pratiche umane come delle semantiche del continuo»62 e sostiene che tutto ciò che fa parte del linguaggio è dell’ordine del continuo. La Bibbia è lo strumento che permette di ripensare il ritmo, in essa non è presente la distinzione tra prosa e poesia, ma solo tra il parlato e il cantato. Il ritmo quindi organizza il «movimento del senso»63, esso è

62

G. Dessons, H. Meschonnic, Trattato del ritmo dei versi e delle prose, cit., p. 392.

63

(21)

21 «l’organizzazione del movimento di una parola nel linguaggio» ed è creato da un soggetto specifico, il «soggetto di un poema»64.

Da questa definizione di ritmo come continuo derivano tre conseguenze:

1. La nozione di oralità viene trasformata: la dualità tra scritto e orale (inteso come elememto fonico e auditivo) viene sostituita da tre termini: scritto, parlato e orale; l’orale indica il modo di significare di un testo a partire dal ritmo.

2. La visione del ritmo come organizzazione del continuo chiarisce la discontinuità del segno e la sua organizzazione paradigmatica. Tramite il ritmo vengono trovati altri paradigmi: al posto del paradigma antropologico si ha una poetica del linguaggio in relazione con la vita, in luogo del paradigma filosofico si sviluppa la storicità del linguaggio, per conto del paradigma teologico nasce un mondo a-teologico, invece del paradigma sociale che oppone individuo e società, viene creato il soggetto sociale, al posto del paradigma politico che contrappone minoranza e maggioranza, si ha una pluralità di rappresentanza65.

3. La teoria del ritmo critica la separazione delle discipline umanistiche in lettere, filosofia e scienze umane, esse al contrario si influenzano perché sono espressione di un soggetto storico.

Quindi lo studio del ritmo non è più un esercizio formale e poco utile per analizzare un’opera ma un processo fondamentale per capire la letteratura. In tutti i suoi saggi Meschonnic sottolinea l’importanza dell’idea di ritmo come inserimento della soggettività in un testo poiché ciò mette in crisi la rappresentazione tradizionale del segno e porta a una rivoluzione nella conoscenza del linguaggio.

Anche per Yves Bonnefoy il ritmo è l’elemento chiave per comprendere la poesia, esso può essere realizzato tramite l’utilizzo della punteggiatura e del verso libero. Il traduttore ha il ruolo di entrare in contatto con la materia sonora e ricreare la musica del testo, non deve trasportare lo schema prosodico della lingua di partenza in quello della lingua di arrivo perché le lingue sono profondamente diverse in materia di prosodia e infine ha il compito di utilizzare la lingua contemporanea. Lo stesso Bonnefoy afferma che:

L’essenziale, è che vi sia musica, è che si sappia e si senta il legame essenziale, originario, con il tipo di senso che si cerca in poesia; e tutto il resto verrà. […] Non c’è motivo di tradurre poesia verso per verso, ad esempio: perché significa destinarsi a spezzare le concatenazioni che sono il

64

G. Dessons, H. Meschonnic, Trattato del ritmo dei versi e delle prose, cit., p. 397.

65

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22 soffio delle strofe. […] Piuttosto attendere dal nostro verso libero che si apra, con i suoi mezzi, al ricordo e alla meditazione sulla regolarità ormai fuori portata, se non attraverso vane acrobazie66. Il pensiero di Bonnefoy è quindi attuale, la sua predilezione per il ritmo e il rifiuto di ridurre tutto al solo significato lo liberano dalla logica cibliste67. Egli riprende le riflessioni di Paul Valéry che sottolineava l’importanza della cooperazione tra suono e senso in poesia. All’interno di un verso le sillabe creano una figura per l’udito mentre le parole veicolano un senso probabile. Di conseguenza, in traduzione è fondamentale riprodurre il ritmo e i suoni e non limitarsi alla trasposizione del solo significato.

Le teorie di Meschonnic, Bonnefoy e Valéry confermano la rilevanza del problema del ritmo nel pensiero contemporaneo sulla traduzione di poesia. Quest’ultima, in particolare, si configura come un terreno di dialogo tra le culture in cui si possono esprimere le capacità artistiche dell’essere umano.

66

Y. Bonnefoy, La comunità dei traduttori, cit., pp. 49-50.

67

(23)

23

Capitolo secondo Salah Stétié

2.1 La letteratura libanese di lingua francese

Nella prima parte del Novecento il Libano ha subito il controllo della Francia, per questo motivo il francese è diventato la seconda lingua madre ed è oggi largamente diffuso grazie alla presenza di istituti scolastici francofoni, di case editrici e di numerose riviste tra le quali «La Revue Phénicienne» e «L’Orient littéraire et culturel».

La letteratura libanese di lingua francese si sviluppa proprio a partire dal XX secolo e può essere suddivisa in due periodi: il primo si estende dall’inizio del secolo fino all’indipendenza dalla Francia nel 1943; il secondo comincia nel 1943 e si conclude alla fine del Novecento68, con sviluppi fino ai giorni odierni. All’inizio lo stile degli autori non è innovativo poiché tende all’imitazione, successivamente sorge una scrittura matura e originale i cui tratti caratteristici sono: il predominio della poesia, il sentimento nazionale e l’impegno politico, il problema dell’identità e la commistione tra lingua francese e strutture sintattiche arabe69.

I poeti del primo periodo (come Chekri Ganem, Hector Klat, Charles Corm, Élie Tyane e Michel Chiha) hanno ricevuto una formazione “alla francese”70, pertanto sono influenzati sia dal classicismo del XVII secolo sia dal romanticismo del XIX secolo, il loro stile rispetta i principi di versificazione classica e si basa su una sintassi regolare.

In particolare, Chekri Ganem (1861-1929) dà l’avvio alla letteratura libanese di espressione francese con la sua opera teatrale Antar, rappresentata per la prima volta al Teatro dell’Odéon di Parigi nel 1910. Il protagonista, Antar, è un eroico cavaliere pre-islamico che combatte per la liberazione della sua terra; la sua impresa incita simbolicamente il popolo libanese a liberarsi dal giogo ottomano. Le poesie classiche di Hector Klat (1888-1976), di Charles Corm (1894-1963) e di Michel Chiha (1891-1954) mostrano invece il fascino che la Francia esercita sugli intellettuali libanesi del primo Novecento.

I poeti del secondo periodo (come Nadia Tuéni, Georges Schehadé, Fouad Gabriel Naffah, Andrée Chédid, Vénus Khoury Ghata e Salah Stétié) manifestano maggiore

68

Sonia El Fakhri, Le Liban et un siècle de littérature francophone, «Cahiers de l’Association internationale des études françaises», 2004, (LVI), p. 36.

69

Ibidem.

70

(24)

24 modernità in quanto si ispirano alla letteratura del XX secolo dominata dal surrealismo e dall’esistenzialismo.

Fouad Gabriel Naffah (1925-1983) dimostra non solo di avere una perfetta conoscenza della lingua francese ma anche di saperla modificare in base alle esigenze della sua arte; le poesie che crea sono sontuose, presentano la realtà con una «sensibilité méditerranéenne»71 e una velata ironia. Anche Georges Schehadé (1905-1989), Andrée Chedid (1920-2011), Vénus Khoury Ghata (1937) e Salah Stétié (1929) possiedono una profonda conoscenza del francese e permettono la sua commistione con la cultura orientale liberando la Francia dall’asfissia culturale72

.

I temi principali delle poesie riguardano il rapporto tra Oriente ed Occidente, il patriottismo, il lirismo personale, il sentimento della Natura rigogliosa e la ricerca della spiritualità. Si tratta in ogni caso di “letteratura impegnata” che mira a sottolineare le aspirazioni del popolo libanese (la liberazione dagli Ottomani durante la dominazione turca, l’indipendenza dalla Francia sotto il mandato francese e l’unità del paese durante la guerra civile).

La lingua francese non viene solo deformata, ma è arricchita dalle strutture frasali ampie dell’arabo, pertanto diventa un idioma composito o un «franbanais»73. L’uso della lingua dell’antico colonizzatore non è un fattore che provoca lacerazione nell’identità libanese, la doppia appartenenza infatti è vissuta come una simbiosi tra due lingue e tra due culture in dialogo continuo.

Anche il critico libanese Zamy Zein sottolinea che l’uso del francese in Libano non provoca alienazione: da un lato l’identità di questo paese è multipla nella sua essenza, dall’altro la scelta dell’idioma degli ex colonizzatori non implica un rifiuto dell’arabo, può infatti succedere che «on choisisse le français “sans” l’arabe. Il arrive plus souvent qu’on choisisse le français “avec” l’arabe. Mais il est rare qu’on choisisse le français “contre” l’arabe…»74

, infine le lingue fanno parte di un patrimonio universale, non appartengono a una sola nazione e permettono la massima espressione degli ideali di un popolo.

71

Gérard Tougas, Les écrivains d’expression française et la France, Éditions Denoël, Paris, 1973, p. 93.

72

Ivi, p. 95.

73

S. El Fakhri, Le Liban et un siècle de littérature francophone, cit., p. 46.

74

(25)

25 2.2 Biografia dell’autore

Salah Stétié è un poeta di origine libanese che scrive in lingua francese, è una delle figure più rilevanti del panorama letterario contemporaneo poiché nelle sue opere fonde la cultura orientale con quella occidentale tramite un linguaggio inedito e mistico. In più di ottant’anni di vita ha scritto innumerevoli poesie che cercano di rivisitare il mondo con una nuova sensibilità e di svelare i misteri dell’esistenza.

È nato a Beirut il 28 settembre 1929 da una famiglia borghese sunnita, terzo di cinque figli (tre femmine e due maschi). Il padre, Mahmoud Stétié, era un insegnante e un poeta che scriveva poesie in arabo classico, leggeva le sue opere alla moglie e amava circondarsi dei poeti del suo paese; grazie a lui Salah Stétié ha ricevuto un’ottima educazione filo-francese. La madre, Raïfé Mabsout, di dieci anni più giovane del padre, scriveva e leggeva, distinguendosi dalle altre donne libanesi per l’emancipazione e la profonda cultura. Stétié era molto affezionato anche alla nonna, Sarah Samadi, donna religiosa e analfabeta che tuttavia parlava come un libro grazie alla forte memoria. Le capacità artistiche dei parenti hanno avuto un’influenza capitale nella formazione dell’autore, egli stesso definisce la sua infanzia «heureuse»75 e ricca di stimoli. La musicalità e la ritmicità del linguaggio sono entrate sin da subito nella sua vita proprio grazie al padre che era solito leggere le sue poesie ad alta voce. Da bambino Stétié amava studiare la lingua francese, era poco sensibile all’arabo e provava astio verso l’inglese; tramite i fumetti in francese si accosta ad autori come Villon, Racine, Molière e Chateaubriand tantoché per riassumere il suo itinerario letterario egli stesso afferma: «Je suis allé de Bicot à Beckett»76.

Da ragazzino studia al Collegio protestante francese di Beirut, scuola prevalentemente femminile, dove riceve un’ottima educazione pedagogica e vive i primi amori spesso non corrisposti. Successivamente studia al Collegio San Giuseppe dei Padri Gesuiti, scuola maschile dove di nuovo si trova in uno stato di solitudine perché non ama lo sport ed è quindi escluso da molte amicizie.

L’infanzia è un momento cruciale per l’esistenza di Salah Stétié, in questo periodo infatti si forma la sua immaginazione creativa. Le vacanze estive passate sull’altopiano di Barouk gli trasmettono l’amore per la natura. L’autore ama in particolare la montagna e i suoi alberi: il cedro (emblema del Libano), il salice, il pino, il pioppo; è attratto dall’acqua gelata, dal sole, dagli alveari, dal miele, dalla frutta e dalle conchiglie pietrificate; tutti

75

Salah Stétié, L’Extravagance. Mémoires, Robert Laffont, Paris, 2014, p. 20.

76

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26 questi frammenti di esistenza formano il reticolo sottostante alle sue poesie. Il giovane Stétié si pone anche domande cruciali relative all’esistenza di Dio, dell’aldilà e del cosmo; questi interrogativi non l’hanno mai abbandonato e permeano la sua poesia. Durante l’infanzia non sono mancati episodi tragici come la morte di un’amica dalla bellezza rara che era stata violentata e uccisa da un nomade e l’incendio nella cantina di casa dove erano morti una zia con il figlio appena nato; questi eventi sono alla base dell’ossessione per l’immagine della bambola e del fuoco.

La Seconda Guerra Mondiale viene vissuta dal giovane autore come un periodo di insopportabili privazioni. Dopo la guerra, nel 1946, Stétié si diploma e poi, nel 1947, si iscrive all’École Supérieure des Lettres di Beirut dove conosce due figure fondamentali per la sua formazione: Gabriel Bounoure, direttore della scuola e consigliere culturale all’ambasciata del Libano e Georges Schehadé, scrittore e poeta. Durante gli studi legge autori come Villon, Racine, Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Nerval, quest’ultimo diventerà il suo punto di riferimento. Nel frattempo studia alla Facoltà Francese di Diritto perché suo padre immaginava per lui una carriera forense.

Nel 1949 Stétié diventa insegnante di storia presso il Collegio armeno dei Padri mechitaristi di Aleppo, qui evita di dire che è musulmano per non avere problemi con gli allievi cristiani. La città di Aleppo, crocevia di culture, sarà la fonte di ispirazione per il libro di poesie Le voyage d’Alep (2002).

Tra il 1950 e il 1955 va a studiare alla Sorbona grazie a una borsa di studio francese, segue anche vari corsi all’École Pratique des Hautes Études e al Collège de France dove conosce Louis Massignon che diventerà il suo secondo maestro, dopo Bounoure. Con il suo aiuto si riavvicina alla lingua e alla cultura araba. Gli anni a Parigi sono tra i più attivi della sua vita, accresce le conoscenze di poesia e arte (in particolare teatro e pittura). Nel biennio 1953-1954 scrive per la rivista: «Les Lettres nouvelles», fondata da Maurice Nadeau e Maurice Saillet e diventa noto come critico di poesia; entra anche in contatto con i maggiori scrittori dell’epoca: Eugène Ionesco, Yves Bonnefoy, André du Bouchet, André Pieyre de Mandiargues, Édouard Glissant, Roland Barthes, Henri Michaux, Michel Leiris, Eugenio Montale, Walter Benjamin, Raymond Queneau, Jacques Prévert, Pierre Jean Jouve, Marguerite Duras, Paul Éluard, René Char, Emil Cioran e Octavio Paz. Inoltre frequenta il salone letterario di Suzanne Tézenas con la quale stringe un’amicizia duratura. Nel 1955 Stétié torna a Beirut e lavora per il giornale francofono libanese «L’Orient» di Georges Naccache; grazie alle notevoli capacità di scrittore diventa redattore letterario, poi fonda il settimanale culturale «L’Orient littéraire et culturel» come supplemento a questo

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27 periodico. Collabora anche con le principali riviste letterarie francesi: «Les Lettres Nouvelles», «Le Mercure de France» e «La Nouvelle Revue Française». Incontra i poeti Adonis, Gabriel Naffah, Georges Schehadé, Giuseppe Ungaretti e Nazim Hikmet. Mentre lavora al giornale insegna anche all’École Supérieure des Lettres di Beirut e all’Università libanese.

Nel 1961 Stétié entra nella carriera diplomatica a seguito della proposta inaspettata del Ministro libanese degli Affari Esteri Philippe Tackla. Il suo scopo è da subito quello di perseguire la pace a tutti i livelli: sociale, nazionale e internazionale. Così il ruolo di poeta e di diplomatico si incrociano nella ricerca della parola giusta per dialogare e nell’attenzione verso l’essere umano; inoltre la diplomazia, come la poesia, si crea in una condizione di esilio77, quindi di lontananza dalle origini e al tempo stesso di meditazione. Stétié lavora inizialmente all’Ambasciata del Libano a Parigi e in Europa Occidentale come consigliere culturale, poi all’UNESCO in veste di delegato permanente del Libano. Qui si batte per la salvaguardia nel monumenti della Nubia (regione tra Egitto Meridionale e Sudan Settentrionale). Poi, nel 1963, viene eletto presidente del Comitato intergovernativo dell’UNESCO per il ritorno dei beni culturali, oggetto di appropriazione illegale, nel loro paese d’origine. Inoltre nel 1973 si sposa con una siriano-libanese molto più giovane di lui, tuttavia il matrimonio non durerà a lungo.

Nel 1982 diventa ambasciatore del Libano nei Paesi Bassi, nel 1984 ambasciatore in Marocco, nel 1987 è eletto segretario generale del Ministero degli Affari Esteri a Beirut che stava affrontando la guerra civile, poi dal 1991 al 1992 è nominato una seconda volta ambasciatore del Libano nei Paesi Bassi. Infine nel 1992 si ritira dalla carriera diplomatica. Durante gli anni vissuti da diplomatico Stétié continua a scrivere poesia, saggi e racconti e a occuparsi di traduzione; incontra anche figure autorevoli come Papa Giovanni Paolo II, Hassan II e Jacques Chirac. I suoi libri vengono pubblicati da varie case editrici come Gallimard e Fata Morgana. Negli anni ha ottenuto numerosi premi tra cui: il Prix Max-Jacob (1982), il Gran Prix de la Francophonie dell’Académie Française (1995), il Prix Saint-Simon (2015); è stato più volte nominato dottore honoris causa e nel 2015 è stato eletto grande ufficiale della Legion d’onore. Oggi vive a Le Tremblay-sur-Mauldre, ha una moglie, Caroline e un figlio, Maxime; continua l’attività di scrittore e partecipa attivamente a conferenze.

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