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1 1.1 L’Italia nell’immediato dopoguerra: cenni storici

Alla fine del secondo conflitto mondiale l’Italia si trova ad affrontare numerose e difficili sfide. Da un punto di vista strettamente politico si trattava di dare una spinta di credibilità internazionale al Paese e alla Repubblica con la nuova forma di governo che aveva soppiantato la monarchia in seguito al referendum popolare del 1946; da un punto di vista economico il Paese doveva rapidamente risolvere i problemi della ricostruzione, della riconversione delle industrie e della ripresa della produzione industriale per poi, infine, occuparsi della disoccupazione crescente e dei problemi sociali che minavano seriamente la stabilità del Paese. All’aprirsi dell’età repubblicana il sistema industriale italiano era molto articolato con settori ad alta intensità di capitali, caratterizzati da un elevato grado di concentrazione, da economia di scala e da diversificazione in cui flessibilità, design e qualità costituivano un fattore molto rilevante nel determinare il successo dell’impresa. All’interno di tale contesto economico vi era un dualismo, rinvenibile in molti comparti, come quello meccanico, dove alle grandi imprese dedite alla produzione di massa si affiancava un ampio strato di piccole e medie imprese che operavano in funzione di sub - contracting1 oppure in nicchie specializzate. Così a fianco dei grandi oligopoli pubblici e privati si trovano molte piccole imprese di natura semiartigianale.

A livello competitivo, nei settori più avanzati, l’Italia era ben distante dalle nazioni leaders del processo di industrializzazione (Germania, Inghilterra e Stati Uniti) sia in termini di capitale investito, sia di tecnologie applicate, sia di grado di specializzazione degli impianti. Se da una parte erano evidenti le difficoltà attraversate nel dopoguerra dagli organismi di maggiori dimensioni, che dovevano fronteggiare mancanza di domanda e riconversione industriale, dall’altra si proponevano nuovi ruoli e nuove prospettive per le piccole imprese che apparivano

1 Il subappalto è un contratto stipulato tra il contraente e un altro contraente, in modo che

quest'ultimo fa il lavoro o esegue il servizio di cui il primo imprenditore si è impegnata a fornire per la committenza.

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2 ora le meglio attrezzate a resistere nella problematica postbellica. Il presidente della Confidustria, Angelo Costa affermò: “Noi non potremmo mai pretendere di fare, salvo in alcuni casi, della grande industria in quanto abbiamo tutti gli elementi favorevoli per uno sviluppo assai maggiore dell’attuale piccola e media industria”. Tuttavia, questa visione dell’Italia orientata alla piccola impresa dedita alle produzioni di nicchia non era accettata da tutti anche se veniva considerata inevitabile dato il grado di inefficienza delle grandi imprese di svilupparsi.

1.2 Il miracolo economico e l’espandersi della PMI

Il decennio che segue il 1950 vede un processo di modernizzazione socio-economica del Paese che segnala la definitiva assegnazione dell’industria e del contesto urbano come forma prevalente d’insediamento. Si ripete, ma con maggiore intensità ed estensione territoriale, quanto era avvenuto all’inizio del secolo con la rivoluzione industriale italiana che fece crescere il reddito nazionale fino al 6% con un incremento nell’industria nel PIL, con particolare sviluppo nel settore secondario dei comparti ad alta intensità di capitale e a più elevato contesto tecnologico, un raddoppio della popolazione delle città capoluogo con i centri superiori a 100 mila abitanti che passano da un’incidenza del 20% al 25% del totale della popolazione. E’ difficile delineare la cause di una simile esplosione, anche se i maggiori fattori possono essere ricondotti a: voglia di riscatto, capacità di sacrificio degli italiani, basso costo della manodopera, domanda interna in forte crescita e rapido numero delle esportazioni di merci italiane2. L’apertura dell’Italia all’economia internazionale non fu però all’insegna della concorrenza e del liberalismo in quanto sino agli anni ’70 i dazi italiani erano i più elevati rispetto agli altri Paesi dell’Europa occidentale per i prodotti siderurgici, le automobili, gli apparecchi elettrici, i filati e agevolazioni creditizie e fiscali vennero concesse ripetutamente alle imprese. L’aumento della domanda interna ed esterna comportò l’avvento di un mercato di

2 Nel 1957 con la nascita del Mercato Comune Europeo (MEC), poi della Comunità

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3 massa per beni essenziali al consumo di un paese che andava rincorrendo con rapidità quelli più avanzati trovando come interlocutore principale la grande impresa che già all’inizio del secolo in Italia, dominava i settori di base, la metallurgia, la meccanica, la chimica, la produzione di energia. Era necessario investire in nuovi impianti superando il timore della sovrapproduzione; espandere il profitto totale e abbassare quello unitario; ricercare la crescita per ridurre drasticamente i costi unitari; concentrare tutte le risorse su una ben definita filiera produttiva eliminando rischi di dispersione; innovare il disegno organizzativo sia della struttura generale dell’impresa sia all’interno della fabbrica in modo da creare un fluido collegamento fra produzione e mercato. Le imprese di maggiori dimensioni decisero così di intraprendere investimenti di dimensioni mai viste fino allora e i maggiori beneficiari furono l’industria automobilistica e quella siderurgica del nord d’Italia che videro moltiplicarsi i rispettivi livelli di produzione. In ogni caso, anche le imprese di piccole dimensioni e di nicchia dovettero affrontare il rapido boom della domanda e furono avvantaggiate dal ciclo economico espansivo, infatti, la maggiore produzione delle grandi imprese si rifletteva in un aumento della produzione dei piccoli fornitori di semilavorati e di materie prime. Ciò comporto che le unità di produzione si allontanavano sempre più dalla figura della bottega artigiana per indirizzarsi verso una fisionomia di imprese di fase, da cui uscivano semilavorati in piccola serie per completare le fasi successive di rifinitura e assemblaggio in altre, e infine le commercializzavano. Accanto all’espansione dei grandi gruppi si assiste a una moltiplicazione delle imprese di minori dimensioni che pongono le premesse per la nascita di sistemi locali specializzati3. Ne è un

3Viene presentato per la prima volta con la legge n°317 del 5 ottobre 1991 (Pubblicata sulla

Gazzetta Ufficiale n°237 del 9 ottobre 1991), nell'ambito di una serie di interventi per l'innovazione e lo sviluppo delle piccole e medie imprese. Nell'art.36 – “I Distretti industriali di piccole imprese e consorzi di sviluppo industriale" si definiscono come le aree territoriali locali caratterizzate da elevata concentrazione di piccole imprese, con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle imprese e la popolazione residente nonché alla specializzazione produttiva dell'insieme delle imprese. Per specializzazione

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4 esempio, il calzaturiero, dove le numerose botteghe lasciano il posto a laboratori e piccole fabbriche in cui negli anni raddoppiano la propria capacità produttiva; il comparto mobiliero, quello della meccanica legato alla produzione di cicli e motocicli, quello alimentare e infine quello degli elettrodomestici, vero e proprio simbolo del miracolo economico. In questi anni non si assiste solo alla crescita e allo sviluppo delle piccole imprese che permette di assorbire un’elevata manodopera, ma anche all’ampliamento di alcune di esse che raggiungono livelli dimensionali medi e rilevanza a livello nazionale in cui i protagonisti sono degli imprenditori innovatori determinati e geniali che spesso provengono dal mondo dell’artigianato. Decisivo in questo percorso di crescita imprenditoriale è l’aver imboccato con decisione la via della crescita, dell’elevata capacità produttiva e delle fonti economiche di scala investendo in impianti, ingrandendo gli stabilimenti esistenti e costruendone di nuovi. In breve tempo, aziende di modeste dimensioni, magari poco più che laboratori artigiani, si trasformano in gruppi industriali di rilievo nazionale e anche internazionale con migliaia di dipendenti (vedi tabella 1).

Tabella 1: Percentuale di addetti negli anni.

Classe addetti 1951 1961 1971 1-9 32,3 % 28 % 20,2 % 10-49 14,1 % 18,9 % 21,8 % 50-199 19,9 % 22,5 % 21,2 % >200 33,7 % 30,6 % 36,8 % Totale 100 100 100

Fonte: S,Brusco – S.Paba, per una buona storia dei distretti industriali4 italiani dal secondo

dopoguerra agli anni Novanta, Roma, Donzelli, 1997.

produttiva si definisce il rapporto tra il numero di addetti occupati in una determinata attività manifatturiera e il totale degli addetti dell'industria manifatturiera dell'area.

4 Sono un'agglomerazione di imprese, in generale di piccola e media dimensione, ubicate in

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5 Il settore dell’artigianato aveva intrapreso la strada dello sviluppo e lo documenta il rapporto di Banca d’Italia che nel maggio del 1949 affermò: “le aziende di tipo artigiano e la piccola e media industria avevano trovato abbastanza facilmente un assestamento, sia perché la loro stessa configurazione strutturale aveva permesso di procedere sollecitamente alla necessaria modernizzazione di macchinario ponendole in grado di competere con la concorrenza estera, sia perché i rapporti con le maestranza si erano mantenuti su un grado di attiva collaborazione riscontrabile presso i grandi complessi industriali”.

Tra il 1950 e il 1962 il nostro Paese fece registrare una crescita economica senza precedenti con riduzione del tasso di disoccupazione e un incremento del reddito nazionale di 1,7 rispetto agli anni ’50. Ciò fu permesso, oltre ad altri fattori (sviluppo, contenimento dell’inflazione incremento dell’occupazione), dalla struttura del modello italiano fortemente caratterizzato dalla presenza di piccole e piccolissime imprese che favorì l’incremento delle aziende artigiane soprattutto al nord che potettero nascere e crescere in piena libertà acquistando e rafforzando capacità e professionalità nonché esperienza. L’industrializzazione del nord, in particolare in Lombardia, fu un processo composito, in cui intorno a grandi agglomerati industriali sorsero migliaia di imprese piccole e medie che consentirono alla grande industria di servirsi di forniture, servizi e progettualità indispensabili per un sistema industriale moderno. L’assorbimento di manodopera e lo sviluppo di un vasto mercato del lavoro si deve anche al sorgere di questo tessuto produttivo che andava a rappresentare l’embrione di una nuova cultura imprenditoriale moderna ed efficiente che tra il 1951 e il 1961 vede l’espandersi del tessuto di piccole e medie imprese nelle regioni settentrionali assorbendo le quote più consistenti di occupazione in ragione delle loro tecnologie meno avanzate e del basso costo medio del lavoro. Secondo i dati dell’Istat del 1951 il tasso di sviluppo dell’occupazione era del 33,8% nelle aziende artigiane da 1 a 10 addetti, il 31,8% nelle industrie da 11 a

fasi di un processo produttivo e integrate mediante una rete complessa di interrelazioni di carattere economico e sociale.

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6 100 addetti, mentre nella media industria da 101 a 105 addetti vi è solo il 23,2% e infine in quella oltre i 500 addetti l’11,2%. Tra il 1952 e il 1953 si registra il cambiamento più intenso per l’economia italiana e la struttura economica si trasforma radicalmente con crescita dei profitti e degli investimenti. L’aumento del reddito era dovuto all’estendersi dell’occupazione e questa era diretta conseguenza della trasformazione strutturale della nostra economia che vedeva l’agricoltura diminuire l’apporto percentuale al PIL sostenuto per lo più dall’industria, ma anche dal settore terziario. Ad aumentare in primis sono i servizi commerciali, mentre più lentamente sono il credito e le assicurazioni. Il boom fu alimentato perché i consumi crescevano in modo proporzionalmente inferiore alla capacità produttiva globale, compensati da esportazioni e investimenti. La nostra produzione si affermò sui mercati esteri per qualità e prezzi contenuti. Le aree trainanti furono le regioni settentrionali e in particolare il triangolo Milano, Torino, Genova, dove approdava la maggior parte dell’emigrazione proveniente dal sud e dove fu assorbita la maggiore percentuale di manodopera. Come ho già sostenuto, la domanda di manodopera proveniva soprattutto dalle imprese di minori dimensioni che esprimevano buone capacità personali e imprenditoriali. Ancora una volta possiamo costatare la funzione decisiva del settore della piccola e media impresa in cui migliaia di imprenditori che spostando risorse dai consumi agli investimenti, consentirono l’incremento globale della produzione in grado di proporre sui mercati esteri un prodotto qualitativamente competitivo a prezzi contenuti per il basso costo del lavoro. Questo rapporto tra crescita produttiva e domanda interna è stato reso possibile da un’interrotta crescita degli investimenti che ha posto le basi per un vero e proprio sviluppo estensivo di grandi dimensioni del tessuto industriale italiano, ponendo il tal modo i presupposti della nostra società industriale. Gli anni ’50 rappresentarono il vero punto di svolta per il mondo dell’artigianato, un’attività destinata ad assumere sempre più le caratteristiche di impresa, perdendo le vecchie connotazioni di mestiere legato all’immagine tradizionale della bottega. Tra il 1958 e il 1963 il numero delle imprese artigiane passa da 664.073 a 1.024.694 con un incremento di 360.621 unità pari al 54,3% sul numero iniziale. L’incremento

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7 maggiore si registra proprio nel corso dell’anno di maggiore espansione economica il 1959 con un balzo in un solo anno di 133.897 unità e una crescita che in termini percentuali raggiunge il 20,1%; ciò significa che alla fine del 1959 si registra un numero di imprese artigiane pari a 797.970 unità contro le 664.073 dell’anno precedente. Durante i cinque anni ricordati l’incremento riguardò sia le ditte individuali, che passano da 617.974 a 949.796 unità (+53,69%), ma anche le società di persone, che fecero registrare un incremento del 62,38% passando dalle 46.126 iniziali a 74.8985.

Alcuni studiosi come Cafagna o Bonelli, analizzando tale periodo, non hanno mai trascurato l’importanza e la rilevanza delle PMI che nel settore del tessile, della meccanica, del cuoio, della lavorazione della pelle e del legno hanno fin da subito contribuito alla generazione di valore in tutto il Paese. Anche Colajanni non trascurò l’importanza della PMI che stava crescendo in settori come l’abbigliamento che nel tempo diverrà efficiente fino ad assumere un peso predominante e con elevata qualità stilistica. Mentre, per quanto riguarda le grandi imprese, l’industria dello Stato dava un supporto notevole attraverso la produzione di semilavorati a prezzi competitivi, come l’acciaio o i prodotti petroliferi, oppure come il know how, in materie di infrastrutture con le autostrade. La domanda si rivolgeva verso prodotti che si presentavano alla produzione di massa, acciaio, auto, prodotti chimici e petroliferi e veniva perciò a costituirsi una situazione per cui l’effetto di scala, con volumi di produzione in costante crescita, alimentati da una domanda in espansione consentiva di aumentare con continuità i profitti globali e quindi di sostenere gli investimenti attraverso l’autofinanziamento anche quando il saggio unitario di profitto diminuiva. Emerge, quindi, uno scontro tra scuole di pensiero in cui da una parte c’era chi sosteneva la validità del modello leggero basato su una funzione centrale delle piccole e medie imprese e dall’altra vi era la scuola fordista che mirava al potenziamento, favorito dallo stato, della produzione di massa. Lo evidenzia molto bene Andrea Colli che riprendendo il confronto svoltosi durante i

5 Riferimenti ISTAT e Ibidem, p.79.

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8 lavori della Commissione Economica costituita nell’ambito del Ministero per la costituente del 1946 afferma: “tra un modello leggero di industrializzazione, che vedeva quali principali protagoniste del futuro industriale del paese le piccole e medie imprese specializzate e le botteghe artigiane, dominatrici a livello anche internazionale in settori a elevata intensità di lavoro caratterizzati da un alto valore aggiunto e considerevole grado di differenziazione della produzione, e uno più ispirato a logiche fordiste di cui si facevano propugnatori esponenti dell’industria pubblica al pari di quella privata e che trovava la sua naturale eco nelle esperienze in atto oltreoceano6”.

1.3 Gli anni Sessanta e Settanta e la fine dell’espansione

La fase espansiva rallenta a cominciare dal 1959 in cui si verificarono aumenti salariali, che proseguirono fino al 1963, erodendo i saggi di profitto e modificando gli indici che stavano alla base della grande crescita. Cominciarono a presentarsi le condizioni per nuovi fenomeni economici, come: inflazione con parallelo aumento dei prezzi, disavanzo della bilancia commerciale e aumento del debito pubblico con arresto della crescita produttiva e furono sufficienti a incrinare la fiducia che aveva pervaso la società negli anni passati.

Le cause di questa depressione possono essere ravvisate in una determinata politica padronale appoggiata in parte da quella di governo che aveva deciso nel ’63 per una stretta creditizia per arginare la ripresa dell’inflazione in Italia. I primi anni ’70 si contraddistinsero per un aumento dei salari, che nel 1962 erano cresciuti più della popolazione e della forza contrattuale dei sindacati. La reazione degli industriali a queste conquiste operaie fu un tentativo di recuperare, attraverso un aumento generalizzato dei prezzi, quanto si era perduto nel corso delle lotte salariali; se i prezzi sino allora erano stati stabili, con crescita regolare del 3-4% l’anno, negli anni ’61 – ’62 questi aumentarono velocemente. Diversi fattori

6 I volti di proteo, Andrea Colli, 2002.

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9 contribuirono allo svilupparsi dell’inflazione: essa era legata a fattori congiunturali che a squilibri strutturali (strozzatura dell’offerta dei servizi, inefficienze del sistema di distribuzione e speculazione del mondo creditizio e finanziario). Anzitutto, gli stessi imprenditori, messi sotto pressione dall’aumento dei salari e dalla corrosione dei profitti, cercarono di difendere i propri introiti agendo sui prezzi di vendita. Infatti, le grandi imprese, a causa di questi problemi, ridussero la propria possibilità di autofinanziamento e le piccole imprese videro entrare in crisi il proprio bilancio. Le aziende avevano la possibilità di ammortizzare i danni ricorrendo ad un aumento dei costi delle merci indirizzate al mercato interno, anche se tale manovra era consentita perché la domanda globale era in forte crescita. Questa manovra era praticabile solo in campo nazionale perché in campo internazionale non lo era poiché la forte crescita delle esportazioni dei prodotti italiani era stato quello dei bassi costi. In questo modo, il padronato italiano si trovò stretto tra due vincoli: la necessità di dover alzare i prezzi per sopperire agli incrementi salariali e l’obbligo di contenere i costi dei prodotti per poter essere ancora competitivo sul mercato internazionale. Tutto ciò comportò una compressione dei profitti delle industrie e un aumento del passivo della bilancia commerciale, sino ad allora in equilibrio. La stretta creditizia del ’63 apparve come l’unica via di uscita praticabile. La depressione venne innescata dalla autorità monetarie per bloccare l’aumento dei salari, ripristinare un livello più elevato dei profitti e per arrestare l’espansione della produzione; tuttavia, essa generò una violenta caduta degli investimenti, seguita da un crollo dell’occupazione ed una caduta della domanda di beni di consumo. Dopo dieci anni di crescita ininterrotta, l’economia italiana era in crisi in quanto non venne affrontata seriamente dalle autorità che ritenevano che la crisi sia stata lasciata andare consapevolmente con lo scopo, non solo di ridurre la combattività sindacale con la disoccupazione, ma anche di consentire all’industria di effettuare una ristrutturazione tecnologica e finanziaria. Infatti, in questi anni, la vera risposta del capitale agli aumenti di salario fu una reazione di carattere tecnologico volta a realizzare cospicui aumenti di produttività.

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10 Al termine degli anni settanta, il sistema economico italiano raggiunse un elevato grado di pubblicizzazione che nessuno paese europeo conobbe e con lo svilupparsi delle partecipazioni statali7. L’avvio della politica d’intervento diretto nel Mezzogiorno provocò la creazione di impianti in aree del tutto prive delle necessarie infrastrutture, con conseguenti elevate diseconomie; così se da un lato aumentavano notevolmente la capacità produttiva e il numero di occupati, dall’altro si incrementarono i costi e la domanda cominciava ad essere inferiore all’offerta.

Tra la fine degli anni settanta e l’avvio del decennio successivo vennero meno le condizioni grazie alle quali l’economia italiana aveva attraversato una fase di crescita difficilmente eguagliabile con il sopraggiungersi di molteplici problemi: le tensioni sociali in aumento che si riflessero in un costo più alto del lavoro, la stato di conflitto sindacale crebbe, la domanda diminuì, la stabilità monetaria internazionale crollò e l’inflazione esplose. Inoltre, ci fu il primo shock petrolifero (1973) che colpì un sistema già in grave difficoltà in cui le imprese pubbliche furono costrette a ricorrere sempre più ai fondi erogati dal Parlamento con una perdita d’indipendenza nei confronti del potere pubblico, le imprese private, ancora strettamente legate alla proprietà e a gestione familiare, presentavano un bassissimo grado di managerialità e di diversificazione produttiva, nonché una scarsa capacità di evoluzione strategico - organizzativa in cui erano assenti strutture di tipo divisionale. Tuttavia, in tale scenario, le imprese meno danneggiate furono quelle di piccole dimensioni, che in breve tempo riuscirono a diminuire la capacità produttiva e ad adattarsi al nuovo ciclo economico. Le imprese che sono sempre più in difficoltà nell’adeguare i prezzi agli aumenti delle componenti fisse e variabili dei costi di produzione, affrontano un periodo con redditività in diminuzione e quindi con sempre minore capacità di autofinanziamento e cercano di porvi rimedio

7 E’ un intervento dello Stato nell'attività economica sia a livello di impresa che di finanza; in

genere l'intervento è caratterizzato dal possesso, da parte dello stato o comunque di un ente pubblico, di partecipazioni azionarie in società private.

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11 attraverso un crescente impiego della leva finanziaria8 e dell’indebitamento bancario. Il concludersi della favorevole congiuntura del boom economico mise in luce più problemi del sistema economico italiano, soprattutto il legame tra banca e impresa che si faceva sempre più stretto con la mancanza di imprenditorialità e managerialità richiesta per affrontare le avversità, tipico del capitalismo privato nazionale.

1.4 Gli anni Ottanta e l’affermarsi delle aree a forte vocazione produttiva

Gli anni ottanta sono gli anni che celebrano il trionfo del mercato libero, il prevalere delle politiche economiche del liberalismo selvaggio, che hai i suoi massimi esponenti nei governi di Ronald Reagan negli Stati Uniti e di Margaret Thatcher in Gran Bretagna. Gli USA conoscono una crescita impressionante, che li porta ad essere l’economia trainante del mondo. Nel 1989 crolla il mondo comunista con la caduta del muro di Berlino e della cortina di ferro che diede inizio verso al percorso della democrazia. In Italia, sul piano economico, la scena è dominata dall’inflazione (20%), da una pesante recessione internazionale e dalla disoccupazione crescente. Le aziende ristrutturano e si rinnovano a ritmo accelerato, crescono le eccedenze di manodopera e la cassa integrazione diventa una costante del sistema delle grandi imprese. Si affermano i distretti industriali, che già negli anni ’70 si erano sviluppati per affrontare le prime avvisaglie della crisi della grande impresa, con la nascita e il diffondersi della piccola impresa di origine artigiana che raggiunse gradualmente rilevanti quote di mercato in produzioni di nicchia. I distretti identificandosi nella piccola impresa dominano la scena sui grandi gruppi industriali, che dopo una breve ripresa attorno alla metà degli anni ’80, nel decennio successivo incappano nuovamente nelle secche della crisi. A seguito di questi successi il modello distrettuale si è consolidato e radicato nel tempo con la mobilitazione di un fascio di energie intellettuali diverse in ambiti disciplinari

8 Denota il rapporto tra indebitamento finanziario netto e patrimonio netto di un'impresa ed

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12 (economia aziendale, geografia economica e storia) anche se spesso poco comunicativi. Si cerca quindi di interpretarne in profondità il problema al fine di proteggere la vitalità dell’impresa e soprattutto di valorizzare i frutti in termini di originalità produttiva ed autenticità strategica. In questo processo il carattere familiare dell’azienda si integra e si arricchisce di una qualità molto particolare, quella delle radici familiari dell’azienda che affondano in territori contraddistinti da saperi e conoscenze produttive di carattere collettivo; ciò permette una capacità cognitiva caratterizzata da elevata specializzazione delle competenze, e da un’elevata differenziazione delle funzioni svolte all’interno della catena del valore tramite un’esplicitata condivisione delle conoscenze. In questo modo le aziende familiari radicate e inserite profondamente in territori a forte vocazione produttiva possono perseguire il proprio vantaggio competitivo9 nel lungo termine valorizzando e rendendo unico il prodotto con l’autenticità strategica produttiva. Il territorio si configura in misura sempre maggiore come patrimonio non solo ambientale da preservare e conservare, ma soprattutto quale espressione di valori intangibili che l’azienda in una simbiosi economica - finanziaria deve farli propri al fine di valorizzare lo sviluppo del disegno strategico.

Conducendo un’indagine economica è necessario porre l’attenzione su due aspetti: il primo è quello dell’unità di indagine, in cui non è più l’impresa e l’organizzazione del processo produttivo all’interno di essa (tipico del modello fordista), ma il sistema locale, ovvero un agglomerato di imprese dalle strutture organizzative semplici, molto specializzate su una o poche fasi del processo di produzione con gradi d’intensità tecnologica non trascurabili. Il secondo aspetto, fa appello nella spiegazione dei risultati ottenuti in termini di efficienza e flessibilità, e quindi a fattori meramente extraeconomici: di carattere sociale e storico, principalmente sui costi di transazione generati dalla fiducia che intessa le relazioni tra i singoli, oppure sulla presenza di economie esterne cui appartengono

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13 conoscenze contestuali pertinenti al processo di produzione, al saper fare e al saper commerciare un certo bene in un certo modo.

L’importanza della piccola impresa si diffuse in tutto il Paese e fu definita come una cellula fondamentale allo sviluppo e alla crescita dell’economia italiana capace di svolgere due funzioni chiave: la prima consisteva nel collegare idealmente la piccola impresa a quella della borghesia industriale, che prendeva un percorso verso l’industrializzazione il più possibile conto delle radici agricole della società nazionale; ciò significava tanto la riproduzione dei rapporti sociali tipici delle società agrarie, quanto l’esaltazione delle attività manifatturiere legate all’agricoltura. La seconda funzione era quella di consentire un’integrazione del reddito proveniente dall’attività agricola in cui la loro funziona sociale stava proprio nel garantire ai ceti a basso reddito, introiti aggiuntivi, conservando al contempo il vantaggio competitivo derivante del basso costo del lavoro. In questo modo il variegato universo delle industrie minori continuò a prosperare sia nei settori leggeri, sia in quelli a produzione specializzata dei cosiddetti settori avanzati, in cui la siderurgica e la meccanica in testa con svariati vantaggi connessi alla localizzazione e alla specializzazione della manodopera. In Italia, quindi, era e lo è tutt’ora difficile che si possa insediare la grande industria multinazionale e i casi esistenti si contano sulle dita di una mano, e soprattutto, alle loro spalle si erge, costante, l’intervento dello Stato. E’ necessario attenersi ai vantaggi che le piccole e medie imprese possono apportare al Paese tenuto conto della creatività, innovatività, abilità e dinamicità imprenditoriale.

1.5 Gli anni Novanta e dimensione dell’industria delle imprese

Con riferimento alla tendenza alla frammentazione produttiva in atto negli anni settanta, nel Censimento del 1991 spicca una diminuzione dell’11% per il totale dell’economia, del numero medio di addetti per impresa. La riduzione della dimensione media delle imprese è attribuibile al peso più elevato di quelle con un solo addetto. Se si esclude la classe con un solo addetto, la dimensione media delle

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14 imprese italiane è di 7,9 dipendenti, lievemente in crescita rispetto al Censimento del 1991 (7,6 dipendenti). Le imprese con un numero di addetti compreso tra 20 e 249 hanno registrato un lieve aumento, rispetto al 1991, della dimensione media (da 46,2 a 48 addetti); al contrario, nella grande impresa (oltre 500 preposti) il numero medio di addetti è diminuito di circa il 13% (1875 unità), mentre il numero di imprese in questa classe dimensionale è cresciuto passando da 1.338 a 1184 nel 1991.

Negli anni novanta, anche in seguito all’introduzione delle nuove tecnologie digitali è proseguito il decentramento produttivo nell’industria che si è riflesso, come in altri paesi avanzati, in un aumento del peso delle piccole imprese e in una diminuzione di quello delle grandi. Tra il 1992 e il 1997 (ultimo anno per il quale sono disponibili dati comparabili) la quota di occupazione delle piccole imprese, al netto del lavoro autonomo, è cresciuta in Italia, Francia, Germania e Regno Unito (vedi tabella 2).

Tabella 2: Struttura dimensionale dell’industria nei grandi Paesi Europei.

STRUTTURA DIMENSIONALE DELL’INDUSTRIA NEI GRANDI PAESI EUROPEI

(quota di occupazione per classe dimensionale) Paesi Piccole imprese

(da 1 a 49) Medie imprese (da 50 a 249) Grandi imprese (250 dipendenti e oltre) 1992 1997 1992 1997 1992 1997 Italia 52,5 53,2 18,9 19,6 28,5 27,2 Francia 25,8 31,3 21,2 20,4 52,9 48,4 Germania 21,7 23,8 18,8 15,9 62,6 60,3 Regno Unito 22,8 24,0 21,7 21,5 55,5 54,6

Fonte: Eurostat, Enterprice in Europe, IV Report.

Il sistema produttivo italiano si discosta da quello degli altri paesi europei per la netta prevalenza delle imprese di minori dimensioni e per il ridotto peso delle

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15 grandi imprese. L’elemento in comune ai quattro paesi europei è costituito dal peso delle medie imprese (50 – 249 dipendenti), pari a circa un quinto del totale degli occupati. La peculiarità dell’industria italiana emergerà solo nel 2001 in cui il 60% dei dipendenti dell’industria, ad esclusione dei lavoratori autonomi, è impiegato nelle imprese (da 1 a 49 dipendenti) e il 21% in quelle con oltre 250 dipendenti. Il segmento delle imprese medie sembra costituire un punto di forza dell’industria italiana, infatti da una recente indagine di Mediobanca e dell’Unioncamere10 sull’universo delle medie imprese industriali italiane (società di capitali con un numero di addetti compreso tra 50 e 499, un fatturato tra 13 e 260 milioni di euro) emergono circa 3.700 aziende medie che nel 1999 occupavano 482.000 addetti pari al 10% dell’occupazione manifatturiera italiana e i cui risultati di gestione erano positivi. Circa nove decimi di queste imprese appartengono alla classe dimensionale da 50 a 249 addetti e si tratta di imprese esportatrici specializzate nelle lavorazioni tipiche del Made in Italy11. In particolare, nel campione vi sarebbero stati flussi cospicui di piccole imprese entrate a far parte della classe media e imprese medie diventate grandi, mentre sono stati poco frequenti i casi di piccole imprese che hanno raggiunto direttamente la classe dimensionale maggiore.

Nel 1992, l’Europa avanza il processo di integrazione e viene firmato il trattato di Maastricht: la vecchia Comunità Europea (CEE) diventa Unione Europea (UE), nella quale circolano liberamente merci, lavoro, risorse finanziarie. Il trattato fissa ai paesi membri le condizioni per l’ingresso nell’area della moneta comune, l’Euro, che entra in funzione il 1° gennaio 1999. Nell’economia mondiale regna la globalizzazione in cui l’interdipendenza tra le economie è sempre più stretta, lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione accresce il ruolo degli scambi finanziari, minacciando la sovranità degli stati e acuendo le diseguaglianze nel

10 Centro studi di Unioncamere e Ufficio di Mediobanca, Le medie imprese industriali, 2003. 11 Viene definito come l’aggregato di prodotti e servizi in cui l’Italia vanta un effettivo grado

di specializzazione e di elevata qualità con un’espressione del tutto italiana, come un firma d’autore, che richiama subito alla mente l’esclusività dei prodotti italiani nonché la creatività e la passione dei nostri imprenditori.

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16 pianeta. L’Europa e ancor peggio l’Italia, stentano a reggere il passo con l’economia degli Stati Uniti che attraversa un forte periodo di crescita. In Europa la prima parte degli anni novanta è all’insegna della stasi e solo nella seconda metà ricomincia a muoversi, anche se l’Italia partecipa alla crescita in misura più rallentata con un’elevata disoccupazione. In Italia, sul piano economico – sociale è dominata dai problemi dei conti pubblici a causa di scelte politiche – economiche poco opportune che penalizzano la crescita, l’occupazione e lo stato sociale. Solo grazie a manovre impopolari, il governo, riesce ad avviare un lento risanamento e a rientrare nei parametri di Maastricht, cosicché il nostro Paese è tra i primi a far parte dell’area Euro. Solo verso la fine del decennio vi sono segnali di ripresa economica con una modesta crescita dei posti di lavoro, ma la disoccupazione rimane alta. Sul piano industriale è un’epoca di rimescolamenti, soprattutto grazie ai processi di privatizzazioni12. I grandi monopoli pubblici passano in mani private, e si cerca di sostituire alla logica dello Stato imprenditore quella della libera concorrenza e della gestione manageriale delle grandi imprese, in cui l’ideologia predominante diventa quella del libero mercato. La globalizzazione dell’economia è imputata al cambiamento in atto ed è proprio ad essa che permette alle aziende familiari una crescita internazionale che può a pieno titolo proporsi a rivestire un ruolo di primo piano nel panorama mondiale. In ragione della propria territorialità, le determinanti strategiche che consentono un tale sviluppo vanno ricercate nel governo familiare, nel patrimonio di cultura sociale e nella creatività economica, elementi che verranno approfonditi nel capitolo terzo.

12 Nel periodo dal 1991 al 2001 molte aziende sono state privatizzate e ancora oggi tale

processo non è ultimato. Si ricordano l’ENI di cui Goldman Sachs che acquisì l’intero patrimonio immobiliare, le aziende controllate dall’IRI tra cui SME (agroalimentare).

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17 Numerosi studiosi in quegli anni si sono approcciati al fenomeno della dimensione con relativismo interpretativo, sviluppando il pensiero che sulla dimensione aziendale incidono elementi endogeni ed esogeni rispetto all’azienda in cui il peso congiunto delle condizioni interne e delle circostanze ambientali turbolente possono rendere variabile la prosecuzione delle finalità aziendali. Tra gli elementi endogeni e quindi interni all’azienda rientrano l’età, qualità e quantità del personale operativo, condizione degli impianti e delle attrezzature, fatturato, posizione finanziaria e rischio d’impresa, governo aziendale e sistemi di management; tra quelli esogeni e quindi esterni vi sono: la ricerca e sviluppo, fattori sociali, fattori politici e giuridici, fattori internazionali e forme di differenziate di finanziamento. Per tali ragioni non è sufficiente e sarebbe riduttivo approcciarsi al tema della dimensione aziendale attraverso la prassi comune che include solo tre elementi, ossia il numero degli addetti, l’attivo dello stato patrimoniale e il fatturato annuo13 perché bisogna necessariamente includere elementi non quantitativi come i sapere, le esperienze, le conoscenze ed il saper fare impresa in ottica strategica tutti elementi che quantificano il patrimonio intangibile. Esso è un elemento indispensabile all’interno dell’impresa e per ciò deve essere considerato a pieno titolo per valutare la reale dimensione aziendale; questo tema sarà approfondito nel capitolo terzo.

13

E’ definito dalla somma dei ricavi delle vendite e delle prestazioni e degli altri ricavi e proventi ordinari.

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18 Nella tabella 3 sono riportati i principali parametri dimensionali europei14.

Tabella 3: Parametri dimensionali europei. Dipendenti (unità lavorative annuo) Fatturato (milioni di euro) Totali di bilancio (milioni di euro)

Micro Impresa Inferiore a 10 Fino a 2 Fino a 2

Piccola Impresa Da 10 a 49 Oltre i 2 e fino a 10 Oltre i 2 e fino a 10 Media Impresa Da 50 a 249 Oltre 10 e fino a 50 Oltre 10 e fino a 50

Grande Impresa Da 250 Oltre i 50 Oltre i 50

Fonte: Raccomandazione della commissione europea del 6 maggio 2003, num. 2003/361 CE recepita DM 18 aprile 2005.

Da ultimo, il decennio si conclude con lo scoppio della bolla internet nel 2000 in cui i mercati azionari crollano verticalmente e comincia una fase di stallo dell’economia mondiale ed europea, ulteriormente penalizzata dagli attentati terroristici di matrice islamica dell’11 settembre del 2001. Solo nel 2003 comincia ad esserci una leggera ripresa trainata per l’ennesima vota dagli Stati Uniti e dai paesi emergenti anche se l’Europa e l’Italia sono costrette a inseguire le grandi potenze. Infine nel 2008 si assiste ad un’ulteriore discesa verso la crisi provocata dai Mutui Sumprime15 che a macchia d’olio si dilaga in tutto il mondo.

14 Raccomandazione della commissione europea del 6 maggio 2003, num. 2003/361 CE

recepita DM 18 aprile 2005.

15 Sono quei prestiti che, nel contesto finanziario statunitense, vengono concessi ad un

soggetto che non può accedere ai tassi di interesse di mercato, in quanto ha avuto problemi pregressi nella sua storia di debitore. I prestiti subprime sono dunque prestiti rischiosi sia per i creditori sia per i debitori, vista la pericolosa combinazione di alti tassi di interesse, cattiva storia creditizia del debitore e situazioni finanziarie poco chiare o difficilmente documentabili, associate a coloro che hanno accesso a questo tipo di credito. I debitori subprime hanno tipicamente un basso punteggio di credito e storie creditizie fatte di inadempienze, pignoramenti, fallimenti e ritardi.

Figura

Tabella 1: Percentuale di addetti negli anni.
Tabella 2: Struttura dimensionale dell’industria nei grandi Paesi Europei.
Tabella 3: Parametri dimensionali europei.

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