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Academic year: 2022

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F a re i r acCONTI con il cambiamento

Fare i racCONTI con il cambiamento

Edizione 2013

INAIL - Direzione Centrale Comunicazione P.le Giulio Pastore, 6 - 00144 Roma

dccomunicazione@inail.it www.inail.it

Entusiasmo, energia, progettualità, amore,

realizzazione, soddisfazione, impegno, dramma, dolore, sofferenza, tristezza, solitudine, solidarietà, reattività,

riappropriazione, perseveranza, determinazione, condivisione, speranza:

è la storia dell’uomo.

Racconto e poesia perpetua, fino a che esisterà il mondo.

M.C.

Edizione 2013

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Fare i racCONTI

con il cambiamento

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pubblicazione realizzata da INAIL

Sede di Torino centro

A cura di

Alessia Congia, Valeria Grotto, Serena Peyron, Lucia Portis, Roberto Sciarra

Testi di

Adrian, Aldo, Beatrice, Consolazione, Dino, Emilia, Francesco, Franco, Issa, Luciano, Marie Jeanne, Marinela, Mario, Maurizio, Norberto, Patrizia, Pietro, Refit, Rita, Sergiu

info Inail

Sede di Torino Centro

Corso Galileo Ferraris 1 - Torino torinocentro@inail.it

torinocentro@postacert.inail.it

La pubblicazione viene distribuita gratuitamente e ne è quindi vietata la vendita nonché la riproduzione con qualsiasi mezzo. È consentita solo la citazione con l’indicazione della fonte.

Tipolitografia Inail Milano, dicembre 2013

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Dedicato a Mario motore fondamentale di questa bellissima esperienza

“Quando l’uomo ha vissuto e imparato va in pensione e si siede su una panchina, è a perdere.

Invece bisogna chiedere ai vecchi cosa hanno imparato;

si ricicla l’immondizia, bisogna riciclare l’esperienza”

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Fare i racCONTI con il cambiamento

Indice:

Prefazione

Tommaso Montrucchio Commento al progetto

Padre Antonio Menegon Introduzione al progetto

Introduzione metodologica al laboratorio Introduzione alle monografie

Monografie Adrian Aldo Beatrice Consolazione Dino

Emilia Francesco Franco Rita Issa Luciano Patrizia Marinela Mario

Marie Jeanne Maurizio Norberto Pietro Refit Sergiu

Riflessioni degli operatori Introduzione alle salienze Salienze

Trauma e cambiamento Le risorse

Gratitudine

Cosa non ha funzionato Prevenzione

Ricominciare Consigli

Messaggio ai lettori

7 9 11 15 17 21 23 31 39 43 45 47 49 53 61 69 71 77 85 95 101 107 119 127 137 145 147 151 153 155 171 179 187 193 201 213 217

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PREFAZIONE

Tommaso Montrucchio

Direttore della Sede Inail di Torino Centro

Me lo ricordo ancora quel signore tranquillo che parlava fitto, fitto, con un sorriso grande così stampato sul viso, gli occhi che brillavano.

Ci raccontava della sua grande passione a gironzolare per il mondo su una nave.

Era il suo lavoro, era un tecnico di grande esperienza. Io, assorto, ascoltavo in silenzio, ero ammirato. Come i miei colleghi. Quell’uomo stava per morire.

E infatti è morto.

Ma non è morta la sua passione per il lavoro, la stessa che hanno i protagonisti di questo libro.

Grazie a loro è nata quest’avventura che li ha portati a raccontare e a raccontarsi in queste venti storie. Io all’inizio ero scettico, dicevo ai colleghi “noi non facciamo gli editori, ma i funzionari del parastato”, ma loro sono testardi e non mi hanno dato retta più di tanto.

E in combutta coi titolari di queste venti storie e col “concorso esterno” della Professoressa Portis hanno prodotto questa “cosa”.

Io adesso lascio la parola ai veri protagonisti e non aggiungo altro.

Anzi no, una cosa la voglio dire:

LEGGETELO QUESTO LIBRO, NE VALE SEMPLICEMENTE LA PENA.

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COMMENTO

Padre Antonio Menegon - Comunità Madian di Torino

Vivere è incontrare volti, storie, esperienze che ti coinvolgono se ti lasci catturare dall’importanza che nella vita hanno le persone.

Noi siamo gli altri, e più condividiamo la nostra vita con la vita degli altri, più riusciamo a dare un senso ai nostri giorni. Tante sono le persone che ho incontrato nella mia vita, le più diverse, le più lontane, ma anche le più vicine, tutte con il loro bagaglio di vita e le loro storie, alle volte fatte di sofferenza, privazione, povertà, malattia, indifferenza.

Fermarsi e saper ascoltare, accogliere, entrare dentro il dramma vissuto ed esprimere partecipazione, coinvolgimento, far sentire una presenza attenta, premurosa, è il primo passo per ridare forza e fiducia nella vita, per risollevarsi e riprendere il cammino.

Nella nostra comunità arrivano persone profondamente provate dalla vita, con vissuti di disperazione, persone arrivate in Italia per lavorare e sostenere la famiglia lasciata nel paese di origine; si ritrovano ammalate e incapaci di sovvenire alle necessità dei loro famigliari perché loro stessi privi della prima grande risorsa che è la salute.

La comunità accoglie non solo le persone ammalate e bisognose di cure, ma tutto quel subbuglio di sentimenti, frustrazioni, ansie, fallimenti che rendono ancor più impotenti e incapaci di sperare in un possibile futuro.

Si vincono lo scoraggiamento e la disperazione non solo dando delle cose, un alloggio, cure mediche, ma soprattutto trasmettendo il messaggio rassicurante che i pesi e le sofferenze vengono portati insieme, che quelli che sono i bisogni, le attese e le speranze sono totalmente condivisi, cosicché la persona non è più sola, isolata, ma rinvigorita dalla certezza che altre persone sono sintonizzate e partecipi.

In una parola, occorre saper scaldare il cuore perché l’altro possa abbandonarsi fiducioso, come un bambino in braccio a sua madre, e, così rinfrancato, riprendere vigore per lottare e superare le difficoltà della vita.

Tanti hanno vinto la loro battaglia, altri non ce l’hanno fatta, ma, sia chi ha vinto, sia chi non è riuscito, ha lasciato una traccia, una storia da raccontare, un’esperienza che può essere di aiuto, non solo ad altre persone ammalate, ma anche a tanti altri che, venendo a contatto con questa storia, hanno saputo trarre insegnamento per potere vedere la vita con altri occhi e cambiare la loro visione del mondo e delle cose.

Questa è l’importanza di questo libro, che aiuta a non dissipare esperienze di vita preziose; e nulla come la sofferenza ci aiuta a dare il giusto posto alle cose e alle persone e fissare sugli assoluti della vita i punti fermi per non vivere invano.

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INTRODUZIONE AL PROGETTO Gli operatori

Innanzitutto ci presentiamo: siamo funzionari dell’Inail della sede di Torino Centro, l’Istituto pubblico che si occupa degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali.

Per raccontarvi di questo progetto, è importante ritornare con la mente alle sue origini e ai bisogni da cui ha preso avvio.

Nel nostro lavoro incontriamo quotidianamente persone che hanno vissuto o stanno vivendo l’esperienza dell’infortunio o della malattia professionale, in prima persona o come famigliare.

Più volte abbiamo osservato l’emergere di un bisogno delle persone di parlare, di sentirsi ascoltate, di raccontare quello che stavano attraversando; perché in queste occasioni si è in tre: l’operatore, la persona colpita dall’evento (o un suo famigliare) e la sofferenza portata.

Questa alcune volte viene esplicitata, altre volte viene trattenuta.

Se il dolore non rimane chiuso all’interno della persona ma fluisce all’esterno e viene riconosciuto, diventa forse più leggero e rende un po’ più semplice continuare a conviverci; in alcuni casi, il parlarne addirittura cambia il proprio modo di vivere l’esperienza di vita.

Molte delle persone incontrate in questi anni si sono aperte al racconto e hanno condiviso con noi che questo faceva loro molto bene. Ci hanno infatti più volte detto che potevano raccontare quello che sentivano in modo libero e che in famiglia questo era molto più difficile, anche per il timore di aggiungere ulteriore sofferenza.

Così abbiamo cominciato a pensare che fosse prezioso raccogliere le esperienze fatte dalle persone e le loro personali risposte date a quello che era loro accaduto.

Infatti, ci imbattiamo spesso in storie e risposte simili quando incontriamo singolarmente le persone e i loro famigliari, che potrebbero quindi ricevere un conforto anche solo ascoltando i racconti degli altri; più volte, dopo un incontro significativo ci siamo detti: “certo che se si conoscessero, si potrebbero aiutare tra loro; inoltre le loro esperienze potrebbero essere utili in funzione preventiva anche a chi non ha mai subito un evento simile”.

L’Inail, infatti, oltre ad assistere sotto vari aspetti chi subisce un infortunio sul lavoro o una malattia professionale, attua interventi di prevenzione fornendo formazione e informazione per la diffusione della cultura della sicurezza sul lavoro, sia nella scuola fin dall’infanzia sia nel mondo del lavoro.

Siamo convinti, infatti, che i vissuti delle persone, portati all’esterno, possano coinvolgere molto di più rispetto ad interventi che insistano solo sulle prescrizioni e sull’obbligo dell’uso dei dispositivi di sicurezza.

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Fare i racCONTI con il cambiamento

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Abbiamo pensato dunque che la raccolta delle esperienze delle persone potesse diventare materiale utile anche per queste iniziative.

Altro obiettivo era quello di capire dove e come noi operatori, svolgendo quotidianamente il nostro ruolo istituzionale, potessimo modificare e migliorare il rapporto con i nostri assistiti: per questo abbiamo chiesto i loro consigli in tal senso. Ci piacerebbe anche poterli diffondere fra i colleghi delle altre sedi, in occasione dei corsi di formazione interna.

Abbiamo infine creduto nell’importanza e nella forza del gruppo.

Il nostro lavoro quotidiano si svolge in gruppo e siamo convinti della validità di questo strumento: questa esperienza ha confermato e rafforzato la nostra consapevolezza.

È stato così che tre uffici della nostra sede, Reinserimento, Prevenzione e Lavoratori, si sono uniti per cercare un’idea che integrasse tutti gli aspetti del loro lavoro, provando a dare concretezza ai bisogni colti ed alle riflessioni sviluppate nel corso del tempo.

I presupposti del progetto sono:

 il valore delle storie delle persone;

 l’importanza di avvicinarsi a queste storie come strumento per favorire un rapporto tra persone ed Ente improntato sull’umanizzazione e valorizzazione del vissuto soggettivo;

 la necessità di utilizzare le storie di vita, infortunio e cambiamento nell’ambito degli interventi per la diffusione della cultura della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Per avvicinarsi alle persone ed alle loro storie, si è scelto di utilizzare lo strumento dell’intervista. Nel corso di un anno sono state intervistate venti persone, fra coloro che avevano subito un infortunio sul lavoro, una malattia professionale, i loro congiunti e i famigliari di chi a causa del lavoro aveva perso la vita.

Attraverso le interviste, le persone hanno raccontato il proprio vissuto, in uno spazio narrativo dove sono state portate le emozioni, le paure, le idee.

Allora abbiamo pensato: perché non creare una situazione in cui le persone possano incontrarsi tra loro e condividere i racconti, le storie di vita, le risposte che singolarmente ognuna di loro ha dato?

Tutte le persone coinvolte hanno accolto positivamente la proposta: è nata così l’idea di dare avvio ad un laboratorio di narrazione autobiografica, nel corso del quale sviluppare il lavoro sulle storie delle persone ed arrivare all’elaborazione della loro esperienza in forma narrativa.

La conduzione del laboratorio è stata affidata alla Prof.ssa Lucia Portis, antropologa, collaboratrice scientifica della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari.

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Fare i racCONTI con il cambiamento

Hanno aderito al laboratorio dodici persone, di cui quattro straniere: quattro delle persone coinvolte sono famigliari di infortunati sul lavoro.

La persone straniere hanno avuto la possibilità di scrivere nella loro lingua madre, a volte aiutati dai figli per la trascrizione in italiano.

Gli operatori che hanno curato questo progetto hanno partecipato attivamente al laboratorio, affiancando i partecipanti nella trascrizione dei testi, lasciandosi coinvolgere nel percorso narrativo e, successivamente, lavorando, con l’assistenza della Prof.ssa Portis, alla sistemazione di tutto il materiale prodotto nel corso delle interviste e del laboratorio.

È stato il primo progetto all’interno della nostra Sede in cui tre uffici così diversi si sono uniti con lo scopo di realizzare un’idea condivisa; questo ha sicuramente prodotto un grande valore aggiunto ed un’interazione maggiore tra gli operatori.

È andato tutto al di là dello sperato e dell’immaginato. L’interazione tra le persone è avvenuta tra le diversità e unicità di ognuno. Spesso i partecipanti hanno condiviso che il fatto di essere in gruppo dava loro un senso di famiglia, di forza e di coraggio.

Il progetto è nato con premesse che nel tempo si sono trasformate ed ha nel contempo arricchito le persone che hanno partecipato e che hanno voluto dar vita a questa testimonianza.

A partire dagli obiettivi iniziali, abbiamo così percorso strade più innovative e meno scontate rispetto al nostro usuale lavoro, arrivando così a pensare ad un mezzo di divulgazione ambizioso: un libro.

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INTRODUZIONE METODOLOGICA AL LABORATORIO Lucia Portis

Il laboratorio di narrazione autobiografica è uno spazio/tempo all’interno del quale le persone intraprendono un percorso mnestico e introspettivo attraverso l’uso di dispositivi atti a favorire il racconto in forma orale e scritta. Questo percorso implica una disposizione all’ascolto di sé e il desiderio di comunicare la propria esperienza ad un interlocutore/ascoltatore.

Infatti oltre alla scrittura individuale, altrettanto importante è la fase interpretativa e di restituzione; in questa fase i narratori e le narratrici sono invitati/e a condividere le loro scritture in gruppo o a coppie e a riflettere su quanto scritto. La rilettura e l’analisi dei testi consentono ai/alle partecipanti la comprensione delle scelte narrative, delle interpretazioni e un’ulteriore attribuzione di significato.

Il laboratorio è quindi uno spazio narrativo di gruppo dove la narrazione di sé diventa, durante la lettura, pratica collettiva e la condivisione dei testi genera un effetto di identificazione e rispecchiamento, e al tempo stesso di differenziazione, rispetto all’unicità delle storie di ognuno.

Il contesto narrativo consente, quindi, da una parte di dar forma alle proprie rappresentazioni, senza la paura del giudizio altrui, dall’altra facilita la condivisione e la connessione della propria rete semantica con quelle degli altri.

Il gruppo negozia e amplifica l’attribuzione di significati comuni dell’agire quotidiano e permette la costruzione di microteorie contestualizzate e utilizzabili per comprendere le diverse visioni della realtà.

È un lavoro di co-costruzione. I testi letti in gruppo sono come gettati nel mondo, un transito che in qualche modo separa la narrazione dall’autore e autrice e li porta ad ascoltarsi. La storia individuale comincia a entrare in un’altra storia, quella del gruppo. E, insieme, la storia individuale permette una nuova conoscenza di sé.

Il gruppo partecipa alla storia di ognuno lasciando la sua singolarità vivida e unica, entra in contatto con la storia di tutti/e senza perdere un solo passo ed entrando in scena con sottolineature - emotive, di contenuto, autoriflessive - che agganciano e mescolano i significati.

Il contesto formativo diventa contesto narrativo proprio perché consente il racconto di frammenti di sé e quindi di dar forma alle proprie rappresentazioni, senza la paura del giudizio altrui, di meticciare, condividere e connettere interpretazioni di sé, dell’altro e del mondo.

Gli incontri del laboratorio sono composti da diversi momenti: il momento introduttivo, in cui viene illustrato il dispositivo e vengono invitati e accompagnati i/le partecipanti a scrivere utilizzando suggestioni diverse: letture,

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Fare i racCONTI con il cambiamento

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sollecitazioni teoriche, immagini; il momento individuale di narrazione e scrittura; il momento della restituzione in cui i partecipanti sono invitati a rileggersi e rielaborare quanto scritto in modo collettivo; il momento di chiusura nel quale sono messe in comune emozioni e riflessioni, e l’accento è posto più sul processo che sui contenuti emersi.

Abbiamo creato questo spazio per consentire ai partecipanti di ricostruire in un primo tempo la loro storia prima dell’incidente o della malattia e poi di affrontare quest’ultima e quello che ne è venuto dopo.

L’obiettivo del laboratorio era quello di raccontare il proprio passato al fine di intraprendere un percorso di risignificazione alla luce dell’oggi e motivare i partecipanti a ripensare al proprio futuro e aprirsi ad altre possibilità. Inoltre il laboratorio ha consentito di conoscere e comprendere le strategie di coping1 utilizzate dai vari partecipanti per far fronte all’evento problematico e le loro capacità di resilienza.

Struttura del laboratorio

Il laboratorio è stato strutturato in otto incontri di due ore ciascuno, i temi affrontati erano relativi alla storia di vita nel suo complesso e in particolar modo all’evento problematico (infortunio o malattia), alle sue conseguenze, alle strategie di coping e resilienza.

Le persone che non erano in grado di scrivere o che non volevano utilizzare questo codice sono state affiancate da operatrici e operatori dell’Inail che hanno messo in forma scritta il loro racconto orale. Il risultato finale non è stato soltanto una produzione di testi significativi e importanti per sé e per gli altri che il lettore potrà trovare nelle diverse monografie, ma anche un’importante presa di coscienza dell’importanza del gruppo e della narrazione per affrontare percorsi difficili come quelli che vivono le persone che subiscono un incidente invalidante o che sono affette da un malattia professionale.

1 Le strategie di coping racchiudono comportamenti, spesso inconsapevoli, emozioni e adattamenti cognitivi utilizzati per affrontare situazioni problematiche.

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INTRODUZIONE ALLE MONOGRAFIE Gli operatori

Come si è detto, il progetto si è articolato in due fasi, le interviste ed il laboratorio: le monografie contengono, per ognuno dei partecipanti, tutta la documentazione prodotta durante i percorsi.

Le interviste riguardano venti persone individuate tra quelle prese in carico nell’ambito di progetti riabilitativi individualizzati, previa verifica della disponibilità a partecipare all’iniziativa.

Dei venti partecipanti tredici sono uomini e sette donne: tra essi sono di nazionalità straniera cinque uomini (Romania, Moldavia, Slovacchia, Senegal e Albania) e una donna (Romania).

Le interviste sono state distinte in tre tipologie: alla persona infortunata, a quella affetta dalla malattia professionale e a un famigliare: riportiamo di seguito le domande comuni e quelle specifiche.

¾ Come definisce il suo infortunio/del famigliare?

¾ Cosa è rimasto nella memoria del momento in cui è accaduto/ha saputo la notizia?

¾ Quali di queste parole sono importanti per la prevenzione?

- attenzione/concentrazione

- prudenza

- formazione

- conoscenza della lingua

- fretta

- eccesso di sicurezza in se stessi

- casualità

- mancato riposo

- misure di sicurezza

- stanchezza

- paura

- abitudine

¾ Una delle funzioni dell’Inail è il reinserimento sociale: quali sono state le sue risorse per ricominciare, andare avanti, superare?

¾ Vuole darci un consiglio sul modo di condurre il nostro lavoro?

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Queste le domande poste alle persone affette da malattia professionale:

¾ Lavoro e realizzazione personale. Quale è stato il ruolo del suo lavoro nella sua vita?

¾ Lavoro e diritti dei lavoratori. Quali cambiamenti significativi ha osservato nell’arco della propria vita lavorativa?

¾ Misure di sicurezza e prevenzione. Quali cambiamenti significativi ha osservato nell’arco della propria vita lavorativa?

¾ Un evento legato alla sua esperienza lavorativa che le torna sovente in mente

¾ La notizia della malattia professionale. I primi pensieri che hanno accom- pagnato la diagnosi.

¾ Come sono cambiate le sue abitudini di vita?

¾ Che cosa ritiene le manchi di più?

¾ In cosa ci vuole più coraggio nel convivere con la malattia?

¾ Cosa ha imparato dalla sua esperienza di malattia che ritiene di poter tra- smettere ad altri?

Troverete le risposte all’interno delle monografie di ciascun partecipante.

Le interviste sono state condotte dagli operatori Inail, che hanno cercato di trascrivere fedelmente i pensieri degli intervistati, anche nei loro modi di espressione.

Le persone intervistate hanno parlato di sé con disponibilità ed autenticità dando vita a testimonianze molto toccanti. Agli incontri individuali con i partecipanti che hanno rilasciato l’intervista, sono seguiti alcuni incontri di gruppo con tutte le persone coinvolte dove è stato riletto quanto scritto e sono state condivise le sensazioni che ognuno aveva avuto nel raccontarsi e nel ri- ascoltare la propria testimonianza letta dagli operatori presenti. Da qui è nata la volontà di proseguire con un percorso di narrazione che consentisse di approfondire questa esperienza in modo più strutturato: il laboratorio di narrazione autobiografica.

Il laboratorio si è svolto nei nostri uffici, è stato strutturato in otto incontri ogni venerdì dalle 12.00 alle 14.00 e si è sviluppato attraverso l’elaborazione di testi, immagini, disegni su questi temi:

 il primo ricordo

 spirale esistenziale (elaborato grafico più narrazione di uno o due episodi significativi della propria vita)

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Fare i racCONTI con il cambiamento

 arcipelago degli affetti (elaborato grafico più lettera ad una persona significativa del proprio arcipelago)

 il lavoro

 lettera al corpo

 risposta dal corpo

 la resilienza (i fattori, le persone, le esperienze o le situazioni che hanno aiutato a superare il momento di crisi dovuto all’infortunio/malattia/perdita)

 il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia)

 cosa è successo dopo

Al laboratorio hanno partecipato dodici delle persone intervistate, cui si è aggiunta la moglie di uno di essi che è morto per la malattia professionale pochi giorni prima dell’inizio del laboratorio (a lui è dedicato questo libro). Gli altri intervistati hanno rinunciato al laboratorio principalmente per motivi di lavoro o famigliari non compatibili con gli orari concordati.

Dei dodici partecipanti otto sono uomini e quattro donne: fra essi sono di nazionalità straniera tre uomini (Romania, Slovacchia e Albania) e una donna (Romania).

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MONOGRAFIE

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ADRIAN

Trentun’anni, infortunio del 21 ottobre 2004. Incidente alla guida dell’auto mentre andava al lavoro. Lesione: paraplegia. Presta volontariato come consulente alla pari presso l’Unità spinale di Torino.

Intervista

L’infortunio per me è stato uno shock. In una parola posso dire scioccante.

Cosa mi è rimasto impresso? Vi interessa sapere le cose belle o le cose brutte?

Perché nel mezzo ci sono state anche cose belle! La cosa brutta è stata trovarsi in questa condizione. In collina (presso un centro di recupero funzionale, ndr) però ho conosciuto parecchie persone e con queste persone ci siamo aiutati a vicenda.

Quando ho avuto l’infortunio sono sempre stato cosciente. I primi tre mesi sono stato al Cto (Centro Traumatologico Ortopedico); un mese in rianimazione e due mesi in reparto. Poi sono passato al Crf (Centro Riabilitazione Funzionale) dove sono stato da fine gennaio 2005 a febbraio 2006. Lì si è formato un gruppo di amici con cui ci si incontra ancora, si va a cena…

Poi sempre tramite il Crf ho fatto un corso di cinque incontri come consulente alla pari: dato che sono in carrozzina, mi contattavano e mi affiancavano ai pazienti nuovi e ai loro famigliari nei casi più disperati. È stato divertente. Non si parlava molto dell’incidente. Forse ci contattavano più i famigliari, perché loro patiscono di più: hanno più bisogno di chi ha avuto l’incidente. I pazienti, se hanno la fortuna di incontrare un gruppo di persone con cui si trovano bene, si riprendono meglio.

Rispetto al nostro gruppo dei tempi del mio ricovero, anche le nostre famiglie sono rimaste in contatto. Allora era anche più facile perché il posto era piccolo, condividevamo gli stessi spazi ed eravamo tutti uniti. C’era una unica sala di svago e quindi ci incontravamo sempre. Ho cercato sempre di non pensare troppo a quello che era successo. Poi con gli anni si può anche tornare un po’

indietro, ma l’importante è pensare ad andare avanti.

Se devo pensare al mio infortunio da un punto di vista della prevenzione, il fattore che per me è stato determinante é indubbiamente il MANCATO RIPOSO.

Ho avuto un colpo di sonno a causa della stanchezza.

Prevenzione è anche rispettare il proprio organismo.

Rispetto alla motivazione per ricominciare, per me il primo passo è stato raggiungere un’autonomia. E poi, piano piano, si ricomincia. All’inizio ho fatto fatica a trovare una casa. Se sapevano che eri in carrozzina la casa non te l’affittavano. Poi abbiamo visto che stavano concludendo questo complesso di case e abbiamo acquistato questa, che è totalmente accessibile. Dato che non

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Fare i racCONTI con il cambiamento

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potevo fare quello che facevo prima, ho provato a riorganizzarmi tutta la vita.

Ho fatto così. In quel momento finisce tutto com’era prima. Il computer, per esempio, prima - sì - lo usavo, ma non molto. Adesso è tutto. È come l’aria.

Serve per fare tutto nella vita quotidiana.

Nel complesso comunque non posso lamentarmi. Nella sfortuna, ho avuto la fortuna quando ho avuto bisogno.

Il primo ricordo

Ricordo mio zio che mi portava sulle spalle.

Spirale esistenziale: primo episodio

I primi giorni di scuola, perché è l’inizio del mio cammino verso la vita. È il periodo più bello, il più innocente, in cui tutto quello che fai lo fai con entusiasmo e non ci sono tutti i problemi che a volte nella vita devi affrontare da grande.

Spirale esistenziale: secondo episodio

Il mio incidente è stato quello che ha lasciato un segno importante nella mia vita: è come se fossi nato per la seconda volta, ho dovuto reinventare la mia vita, riprendere tutto quasi da zero. Ero come un neonato che cominciava dal nutrirsi da solo, vestirsi, lavarsi e tutto il resto. I primi tre mesi sono stati i più duri perché ero fermo nel letto, riuscivo a muovere solo la testa, e lì per la prima volta nella mia vita l’unico desiderio era la morte. Le cose sono cambiate una volta andato al centro di recupero in collina; ero ancora fiducioso di riprendermi, però con il passare del tempo e grazie a degli amici che ho conosciuto lì dentro è stato più facile accettare questa condizione e soprattutto accettare la carrozzina.

Arcipelago degli affetti: lettera alla persona

La mia mamma si chiama Maria ed è nata il 5 maggio 1959 in una famiglia numerosa con nove figli (quattro femmine e cinque maschi). Già da piccola era una ragazzina molto spigliata che andava molto bene anche a scuola. Essendo in una famiglia così numerosa, i miei nonni non potevano offrirle tanto e così lei già dalle medie per farsi la sua paghetta lavorava ogni tanto dopo la scuola e

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Fare i racCONTI con il cambiamento

nei week-end con la zia nel suo bar, arrivando così ad innamorarsi di questo mestiere. Dopo le medie, i genitori non potevano permettersi di farla continuare con gli studi e la nonna voleva mandarla a lavorare in una fabbrica, però lei non voleva e così di nascosto ha partecipato e vinto una borsa di studio di tre anni in una scuola alberghiera che era molto più lontana dalla sua città e così ha dovuto trasferirsi lì. Dopo la scuola è tornata a lavorare in un ristorante nella sua città dove a soli vent’anni era già responsabile del locale, dove nel 1981 ha conosciuto mio padre. Nel 1982 ha sposato mio padre che aveva già due figli da un matrimonio precedente e il 15 dicembre 1982 sono nato io suo unico figlio.

Dopo una vita di alti e bassi come in tutte le famiglie, nel 2000 si è separata da mio padre. Nel 2000 dopo la separazione ha deciso di voltare pagina e su invito di sua sorella è venuta in Italia, dove l’ho raggiunta anch’io nel 2001. Arrivata a Torino è riuscita a trovare lavoro come barista in un noto ristorante dove tuttora continua a lavorare. Ha un carattere forte che mi ha dato tante bastonate quando me le meritavo e mi è sempre stata vicina quando ne avevo bisogno.

Il lavoro

Il primo successo

Nell’estate del 2000 ho lavorato per tutta la vacanza in un villaggio turistico che apparteneva a mio zio. Io lavoravo alla cassa all’ingresso dalle 8 alle 17 con pausa di un’ora. Dopo il lavoro ero libero di fare tutto quello che volevo.

L’ultimo successo

Quando facevo il carrozziere di barche, il titolare della mia ditta voleva prendere del lavoro in un’altra grossa fabbrica di barche che si trovava a Piacenza, e così aveva deciso di mandarmi con altri due compagni per un periodo di prova di due mesi. Alla fine della prova siamo riusciti ad ottenere un contratto, da tre siamo diventati sei e il mio titolare mi ha messo come capo squadra.

Il primo fallimento

Una volta arrivato in Italia ho trovato lavoro in una fabbrica di tende a Caselle, io mi occupavo del confezionamento dei binari su cui venivano appese le tende e del montaggio. Dopo tre mesi ho smesso perché non mi pagavano.

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Fare i racCONTI con il cambiamento

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L’ultimo fallimento

Nel 2010 avevo fatto un corso di web design presso l’unità spinale di Torino.

Hanno chiesto a me e al mio compagno di corso di creare un sito per l’unità spinale. Una volta finito tutti erano entusiasti, lo abbiamo presentato alla direttrice che era molto soddisfatta, mancava solo la presentazione ufficiale.

Peccato che il progetto ancora oggi è “fermo a quattro frecce” (sospeso, ndr).

Il primo conflitto

Quando lavoravo nella fabbrica di tende a Caselle avevo litigato con la titolare che non mi pagava e mi diceva sempre: la prossima settimana.

L’ultimo conflitto

Quando facevo l’imbianchino avevo litigato con il mio capo per un lavoro che avevamo deciso insieme come fare, solo che dopo il proprietario dell’alloggio non è stato contento e il mio capo ha dato tutta la colpa a me.

Il primo disagio

Nel primo giorno di lavoro in Italia ero arrivato in ritardo di un quarto d’ora e non sapevo come spiegare che il treno era in ritardo. Alla fine gli ho detto solo chi ero, lei mi ha detto qualcosa col sorriso e mi ha portato sul posto di lavoro.

L’ultimo disagio

Dopo la litigata con il mio capo il nostro rapporto è degenerato perché mi rinfacciava sempre davanti ai miei colleghi che lui aveva perso dei soldi per colpa mia. Dopo una settimana me ne sono andato.

Il primo desiderio

Prima dell’incidente stavo per mettermi in proprio. Avevo trovato una fabbrica più piccola che aveva bisogno di carrozzieri e cosi ho deciso di aprire una partita iva: con i risparmi che avevo messo da parte potevo permettermi di portare con me un’altra persona per iniziare.

L’ultimo desiderio

Trovare un lavoro che impegna le mie giornate e dà un senso alla mia vita.

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Fare i racCONTI con il cambiamento

Lettera al corpo

Caro midollo ti scrivo queste poche righe ma non da amico perché non lo sei e non lo sarai mai, anche se nel profondo del mio cuore spero ancora di poter far pace un giorno con te. Non so quale possa essere il motivo della tua frattura, se eri tu che volevi punirmi perché ti sentivi solo (adesso starai meglio visto che ci sono due placche in titanio con quattro chiodi che ti fanno compagnia) oppure è la vita che si è accanita contro di me; ma anche se fosse non dovevi abbandonarmi al primo ostacolo che hai incontrato per strada.

Dovevi essere più forte, così come sono stato forte io a reagire dopo la tua frattura, che mi ha provocato non tanti problemi, ma di più. I primi mesi sono stati i più duri, con il mio stato d’animo che era un insieme di sentimenti confusi: passavo dallo sconforto alla sfida, dalla gioia alla depressione, dalla voglia di andare avanti alla chiusura in me stesso.

Anche se ho passato momenti di grande delirio, non mi sono mai lasciato andare e grazie al mio grande amore per la vita sono riuscito ad andare avanti con tranquillità e serenità, diventando così ancora più forte.

Sappi però che non mi piangerò addosso perché so che c’è gente che soffre anche più di me, riuscirò a considerarti come qualcosa di diverso col quale convivere il meglio possibile, se non altro perché so che purtroppo mi accompagnerai per tutto il resto della mia vita.

Per concludere ti dico una cosa sola “Ho perso una battaglia ma non la guerra.”

Risposta dal corpo Caro Adrian,

anch’io spero di potere fare PACE ancora con te e di riuscire un giorno di vederti ancora in piedi. Non sono né io che ti volevo punire, né la vita che si è accanita contro di te. Forse eri solo tu che dovevi lavorare un po’ di meno e riposare un po’ di più così non avresti preso quel colpo di sonno al volante. Mi dispiace tanto per tutto quello che hai passato perché non era nelle mie intenzioni farti soffrire così tanto. Per concludere ti dico solo che un giorno mi piacerebbe stringerti la mano come sconfitto della guerra.

La resilienza

Dopo l’incidente c’è stata una serie di persone che mi sono state d’aiuto nel mio percorso riabilitativo.

Comincio dal mio ex titolare, una grande persona che mi è stato vicino dall’inizio alla fine del mio percorso. In un mese di rianimazione era venuto

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quasi tutte le sere a trovarmi, mi prendeva la mano e pregava, e dopo mi raccontava la sua giornata di lavoro e quella dei miei colleghi per distrarmi un po’.

Dopo un mese di rianimazione mi hanno trasferito al settimo piano dove ho conosciuto un sacco di persone fantastiche, però con una sola si è creato un legame speciale, si chiama Stefania ed è un’infermiera. Con lei ho condiviso un sacco di emozioni, momenti di grande gioia e anche tanti momenti di grande tristezza, però lei riusciva sempre a tirarmi su il morale con la sua pazzia e con la sua simpatia, aveva sempre la risposta pronta ad ogni mia domanda. Dopo due mesi al settimo piano al Cto, era arrivato il momento tanto desiderato, sono stato trasferito al centro di riabilitazione Crf in collina. Arrivato in collina mi sono ritrovato in stanza con Marco il pilota e Alessandro il pazzo, due dei miei compagni d’avventura. Dopo poco tempo si è unito al gruppo anche Frank il regista, Francesco lo sbirro (era un ex poliziotto) e Daniela: insieme a loro si è creato un gruppo chiamato da tutti “il clan dei bastardi” che tutt’ora continua ad esistere. Con loro mi sono lasciato andare, e così dalle serate tristi passate a letto siamo passati alle serate con tante feste, con le uscite in birreria e tante ubriacature, è stata come una terapia di gruppo, non avevi neanche il tempo per pensare alle cose brutte. Ci sono state anche altre persone che mi sono state vicino come mia madre, gli amici di prima e tante persone meravigliose che ho incontrato strada facendo, come l’assistente sociale con la quale tutt’ora c’è un rapporto di amicizia, oppure la mia fisioterapista che ha faticato tanto con me per farmi raggiungere l’autonomia che desideravo più di ogni altra cosa al mondo; però per quanto riguarda la mia salute mentale penso che il gruppo sia stato fondamentale.

Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) Datevi da fare con la ricerca sulle staminali!

Cosa è successo dopo

Tutto ha continuato a trascorrere come prima. Avevo già avuto delle esperienze simili anche prima, ma questa è stata una delle poche dove ero l’unico in carrozzina. A me non cambia nulla perché sono abituato, ma rimangono colpiti più loro che io.

La vita per il resto è andata avanti come al solito.

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Spirale esistenziale di Adrian

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Arcipelago degli affetti di Adrian

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ALDO

Cinquantatré anni, infortunio subito il 29 luglio 2008: è stato investito da un muletto guidato da un collega. Lesione alla gamba sinistra. Attualmente in cerca di nuova occupazione.

Intervista

Se dovessi definire il mio infortunio mi viene in mente la sensazione di un impatto sgradevole, quasi agghiacciante ed improvviso; sicuramente non voluto.

Quando si sta svolgendo un lavoro è molto importante concentrarsi su quello che si sta facendo, senza pensare ad altre cose che potrebbero influire negativamente sul risultato del lavoro o peggio ancora determinare delle situazioni di rischio. Ho poi notato che alcuni colleghi non prestano molta attenzione a quello che stanno facendo, comportandosi in maniera superficiale, come quello che mi ha investito col muletto e che era solito, anche durante il lavoro, fare uso delle cuffiette, determinando di conseguenza situazioni di pericolo, dovute non tanto al rumore, quanto alla distrazione da quello che si sta svolgendo, senza considerare poi il calo della concentrazione, di cui accennavo prima.

Il risultato è solo quello di creare disgrazie di notevole entità.

Io penso che quando si arriva al lavoro non bisogna essere di cattivo umore, come se tutte le cose andassero per il verso sbagliato, altrimenti la giornata non può che continuare in maniera sbagliata e sgradevole.

Credo, pertanto, che sia molto importante arrivare carichi di energia, che aiuta molto a prevenire gli avvenimenti spiacevoli e soprattutto cercare di impostare il lavoro in maniera responsabile, evitando un inizio negativo che porta come risultato solo quello che mi è accaduto, poiché la persona che mi aveva investito aveva la testa tutta da un’altra parte. Penso che il parlare dei comportamenti, degli stili di vita e delle responsabilità, che ognuno di noi ha nei confronti degli altri, sia molto importante per evitare molti incidenti.

Cosa mi è rimasto impresso di quel momento? Ogni infortunio è un fatto a sé stante. Benché abbia avuto la percezione in quell’istante di quello che mi stava accadendo è rimasta in me una gioia, una forza di riuscire a sopportare le conseguenze del danno che il collega mi aveva provocato, in quanto sono sopravvissuto all’evento. In quei momenti, anche se ero conscio di vedere la fine, sono riuscito comunque a rialzarmi e confrontarmi con l’impatto, rivelatore della crudeltà del fatto. Sono riuscito ad esprimere alla persona che mi ha cagionato il danno tutto il mio risentimento per ciò che mi era accaduto.

La forza che mi ha permesso di fare tutto questo mi è stata data dalla visione delle foto che si sono staccate dal mio portafoglio e che riportavano le immagini

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del mio nipotino, i suoi occhi hanno contribuito a fare in modo che potessi reagire in quella maniera. Per me è stato come un’improvvisa immissione di ossigeno proprio in un momento in cui mi veniva a mancare e che mi ha permesso, anche solo per alcuni istanti, di poter dimenticare quello che mi stava succedendo, come se non fossi stato io quello che aveva subito l’incidente.

In questo momento, mentre parlo con voi, mi vengono in mente le morti di tutti quei lavoratori che, come me, sono considerati alla stregua di entità astratte, anziché come persone da tutelare.

Se devo pensare al mio infortunio da un punto di vista della prevenzione, per me un fattore determinante è la formazione, intesa però come capacità interiore di riuscire con la prudenza e con la coscienza ad agire in maniera corretta.

Sicuramente i corsi di formazione sono utili, ma se non vi è qualcosa di se stessi, difficilmente potranno avere l’esito per il quale sono predisposti. Tutto ciò l’ho potuto verificare quando ho seguito il corso per saldatore dove ho avuto l’impressione che i corsi, in genere, devono essere rivolti a persone predisposte ad apprendere, altrimenti è tutto tempo perso.

Un altro fattore a cui bisogna prestare attenzione è “l’eccesso di sicurezza in se stessi” perché nella vita c’è sempre da imparare e anche se si è convinti di sapere il fatto proprio, non bisogna mai fidarsi delle proprie capacità perché si potrebbe cadere in situazioni spiacevoli.

Un’altra parola che ritengo importante è la “prudenza” che per me è una conseguenza della concentrazione. A proposito di questa parola, mi viene in mente un incidente accaduto insieme a mia figlia e mio nipote durante un viaggio in macchina. Mi ricordo che ero molto agitato a causa dell’altra macchina che, sbandando, aveva provocato l’incidente ma, grazie alla presenza dei miei famigliari, sono riuscito comunque a trattenermi e a concentrarmi sul modo migliore di reagire.

Rispetto al superamento di un infortunio, a mio avviso non vi è alcuna possibilità di poter superare il trauma subito; tuttavia con un carattere molto forte si potrebbe ravvisare qualche spiraglio, che possa essere d’aiuto nell’arginare tutto quello che di negativo si trova intorno. Senza dubbio l’affetto dei propri famigliari è la soluzione migliore, e la mia famiglia mi è stata di grande aiuto nel superare tutte le avversità conseguenti all’accaduto.

Certamente ci vuole anche un pizzico di determinazione, che ti permette di affrontare ancora meglio il tutto.

È anche una questione di dignità.

Devo anche dire di essere stato molto contento quando l’Inail mi ha consegnato l’onorificenza. Vuol dire che l’Inail ha riconosciuto la gravità dell’infortunio.

Per me è stato come se si fossero immedesimati nel dramma che ho vissuto, comprendendo la situazione in cui mi sono trovato, anche se sono convinto che per poter capire una determinata situazione è necessario viverla.

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Posso dire, inoltre, che ho sempre cercato di non desistere nella ricerca di una mia stabilità interiore e allo stesso tempo di portare, in qualche modo, conforto alla mia famiglia.

Il primo ricordo

Il mio primo ricordo è legato alla sfera più bella, la famiglia, ma è il rifiuto della mia nascita.

Nato dopo sette sorelle, mio papà morì il 20 dicembre 1959 a soli ventotto anni ed io nacqui il 4 novembre 1959.

Quindi chi mi mise al mondo mi volle consegnare ad un brefotrofio dove io (che ero nato in una bella famiglia numerosa) non sono stato accettato.

Da qui seppe la notizia la nonna materna la quale insultò la figlia e mi tenne con sé alla tenera età di settantanove anni. Stetti con lei al paese sino all’età di tre anni. Poi venni in Piemonte e mi misero in collegio. Qui mi trattarono come un oggetto anche perché venendo dal Sud ero proprio un selvaggio e il selvaggio sinceramente non è facile da addomesticare. La mia grande “fortuna” è andata avanti con le suore ed i preti che ho conosciuto. Loro, quando mi comportavo bene mi premiavano, invece quando non mi comportavo bene mi mettevano in punizione. Le punizioni erano molto impegnative, tipo: pulire il refettorio, lavare i piatti, non andare tutti insieme a giocare.

Spirale esistenziale: un episodio significativo

Un ricordo a me caro è stato: il 12 giugno 1978 (giornata fatidica perché c’era il referendum per l’aborto) quando io mi licenziai dopo sei mesi di lavoro e due anni di medie superiori ed ecco che dentro di me si sprigionò un’aria molto fresca e profumata.

Sì, la mia libertà di esistere realmente e moralmente.

Il secondo ricordo molto bello è quello di quando intrapresi il percorso di commesso. Ma mica è stato tanto facile.

Infatti io prendendo in mano la mia libertà, andai giù al paese. E dopo quattro mesi che ero lì vidi un biglietto con su scritto “cercasi commesso anni 14/15”.

Io ne avevo diciotto e dovevo partire anche per il militare. Però a diciotto anni ne dimostravo quattordici e quindi insistevo su questo vantaggio.

Per venti giorni ogni mattina mi presentavo al negozio dicendo che avevo un forte desiderio di fare il commesso, ma la ragazza mi diceva: “ma tu sei grande.” E io:

“no!” e poi mi diceva: “hai fatto il soldato?” e io: “no, non mi hanno chiamato”.

Invece, lei non lo sapeva, ma avevo ricevuto già la cartolina. Tutto questo pur di riuscire a entrare in negozio. Sentivo che sarebbe stato un lavoro per me molto

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gratificante. Allora al ventunesimo giorno mi riaffacciavo al negozio e dissi di nuovo le medesime parole, ho quattordici anni ed ho il desiderio di lavorare. La ragazza, vista la mia insistenza chiamò il padre nel capoluogo (Foggia) e spiegò tutta la situazione. Fin quando egli disse alla figlia: “se ha voglia di lavorare fallo venire a Foggia”. Io come mi diede quella notizia feci un salto di gioia e dissi “grazie, grazie”.

All’indomani andai a Foggia e quando mi vide il padre mi disse: “ma sei tu il ragazzo che ha voglia di lavorare?” risposi: “sì”.

Allora disse al capo commesso, il quale si chiamava A., di darmi uno straccio per togliere la polvere sulle mensole. Per tutto il giorno.

Ed io gioioso dissi: “sì”.

E poi divenni un ottimo vetrinista e un ottimo commesso responsabile (non per altro mi fece prendere la licenza per gestore). Di qui mi rimane ancora il saperlo fare. Però purtroppo i tempi non te lo permettono più, e resta non un bello ma bellissimo ricordo!

Lettera al corpo

Carissima gamba sinistra, ti dedico questa lettera perché, come cita un proverbio si dice: "SEMPRE IN GAMBA". Ebbene sì: iniziò quando tu sei stata praticamente schiacciata, anzi distrutta completamente (tipo cannibalismo). Io allibito ti osservavo indifeso senza poterti proteggere, anche perché non riuscivo nemmeno ad alzarmi per incoraggiarti.

Infatti tu eri già spezzata dal primo passaggio di ruota piena, io sentii il

"CRACK!" Che dolore… ma tu indifferente. Poi arrivò il colpo di grazia: infatti il carrello che tu tanto apprezzavi ti svirgolò sopra e tu sempre in silenzio hai attutito il forte colpo perdendo tanto, tanto ma tanto ma veramente tanto sangue.

Pensavi “Chissà se mi salveranno”. Visto che ci trovavamo a Chivasso, sì, TU mi portasti all’ospedale di Chivasso, ma i medici vedendo l’accaduto mi diedero un calmante e mi riavvicinarono a te. Ed io mi sentii più protetto quando ti avvicinarono a me.

Poi fu tutto in un attimo che mi chiesero se volevo andare a Torino. Sì, io avendo pochissime probabilità di sopravvivenza, dissi di sì.

E così mi portarono a Torino e anche tu ne sei rimasta fiera ricordi?

E da qui partì il tuo primo intervento in cui ci salvarono a tutti e due, in quel primo momento.

Poi ci mandarono via dall’ospedale; dandoci praticamente le dimissioni forzate, esattamente il 22/08/2008. Lì poi, ci fu un grosso problema, perché la settimana che eravamo a casa tu cambiavi colore; da viola a giallo poi giallo acre fino a peggiorare. Infatti mancò pochissimo per l’amputazione all’arto perché entrò in

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cancrena. Ma un bravo ortopedico ci mandò in un altro ospedale: dove abbiamo incontrato un chirurgo plastico molto bravo che ci ha salvato dall’amputazione.

Infatti gamba mia, ti misero un apparecchio, richiesto appositamente per me dall’Inghilterra, chiamato: v.a.c. Il quale aveva il compito di assorbire tutte le porcherie che mi avevano buttato nella voragine della gamba per arrivare alla cancrena. Però la grande fortuna è stata che dopo 40 giorni il sangue è ritornato rosso anzi rossissimo come prima e quindi mi ha riportato alla purificazione del sangue.

Solo che nel frattempo in un altro intervento uscì all’esterno l’osso della tibia. E qui il dottore ha detto che ci voleva un intervento di microchirurgia che tu hai affrontato con molto coraggio. Beh posso dire, gamba mia, che sei stata molto in gamba (scusa il gioco di parole) ad affrontare tanti interventi e tante infezioni.

Però come si dice: "CHI LA DURA LA VINCE" e così è stato. Ricordi quando ti dissi che tu non mi servivi più perché non mi sorreggevi in piedi? Ebbene sì, su questo sei stata molto brava perché tanto hai insistito che mi hai rimesso in piedi. E per questo te ne sono molto grato. E ti dico a squarciagola (perdendo pure l’ugola): grazie, grazie, grazie mille gamba mia per tutto quello che hai fatto e che stai continuando a fare per me.

Per questo ti dico: G R A Z I E D I E S I S T E R E !!!

Risposta dal corpo

Io, arto inferiore sinistro, sì proprio io cinque anni or sono riuscivo a dare molte soddisfazioni al fisico a cui appartengo, ed è di Aldo. Fra le grandi soddisfazioni c’era la pubblicità dell’olio Cuore, i 100 metri in 15", il salto in alto ecc. ecc. ecc..

Da quel fatidico giorno del 29 luglio 2008, sono entrato nel tunnel più profondo ed inimmaginabile che io abbia mai conosciuto; tra l’essere amputato o continuare a fare il mio lavoro da sostenitore.

Ebbene non ci crederete ma con la grande collaborazione del corpo, a cui sono fiero d’appartenere, siamo riusciti con grande volontà fisica e psicologica a superare gli ostacoli più bui.

Io ho contribuito a tutto questo per dire che le soddisfazioni che do da quando sono passato dall’altra parte della medaglia (categoria protetta), sono molto ma molto più soddisfacenti delle precedenti.

Perché do sostegno con grande forza, amore e sensibilità a chi mi tiene.

Infatti Aldo, ha subito compreso l’unione della nostra grande forza.

Ed è per questo che affronto il mio percorso di vita insieme a lui con immensa umiltà e affetto.

E per questo che dico a te grazie di esistere!

Continuiamo uniti e felici per sempre!!! Sempre!!! Sempre!!!

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La resilienza

Beh!! Credo veramente che questa (oltre ad aver colloquiato con il nostro pezzo mancante) sia la parte più delicata e sensibile.

Ricordo che durante le prime fasi ero proprio insopportabile e inavvicinabile.

Anche perché non c’era nulla da fare per chi si sarebbe avvicinato.

Con questo non è che disprezzavo chi mi stava vicino, ma non avevo la minima sensibilità proprio perché ero in un tunnel senza fine che solo il mio IO riusciva a capire. Un effetto incredibile ma vero!

Fino a quando dopo le prime medicine vidi veramente la “vera medicina” che mi fece uscire da quel tunnel. Chi erano? Ebbene sì! Le persone veramente a me più care. Ma care care… I miei figli e il nipotino e pur non credendoci la grande prova di amore della mia dolce metà.

Poi con la voglia di credere in me stesso e lo stimolo di affrontare qualsiasi cosa, ho cominciato a essere un po’ più buono con me stesso.

Eh sì, questi sono i momenti crudi e veri per la grande prova e così fu. Ogni tanto mi faceva arrabbiare ma era scontato in quelle condizioni.

Poi piano piano ho ripreso veramente la felicità di vivere, perché vivere oltre ad essere difficoltoso e turbolento è anche molto ma molto bello. GRAZIE a tutti!

Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia)

Messaggio nella bottiglia all’Inail. Grazie di questo immenso gesto di amore che hai avuto per me.

Nel dar vita a questo bellissimo laboratorio che ci ha fatto crescere psicologicamente, moralmente e fisicamente!

Ti ricorderò per sempre.

Cosa è successo dopo

Beh, posso dire che quello che ho acquisito durante il percorso di reinserimento di crescita, dopo il grande urto, è stato e continua a essere molto utile. Anche perché mi ha dato forza ad affrontare persone che si prendevano gioco di me e poi sono riuscito a comunicare molto più facilmente.

Per questo ringrazio molto l’Inail e il fantastico staff delle dottoresse che mi hanno aiutato non solo teoricamente ma anche psicologicamente e soprattutto col cuore, perché si sono immedesimate in ogni singolo caso.

Grazie, grazie mille per esserci sempre vicini.

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Fare i racCONTI con il cambiamento

La spirale esistenziale di Aldo

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L’arcipelago degli affetti di Aldo

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BEATRICE

Sessant’anni, il marito Giuseppe, sessantaquattro anni, è caduto da un tetto nel febbraio 2010. La conseguenza è stata un grave trauma cranico. Attualmente residenti in Svizzera, il sig. Giuseppe solo di recente ha iniziato un percorso riabilitativo efficace che gli consente di passare dei periodi a casa con la famiglia.

Intervista

Se dovessi definire l’infortunio che ha colpito la nostra famiglia direi un disastro.

Un incidente molto grave, ancora oggi non si vede futuro: il cervello è un’incognita.

È stata una cosa inimmaginabile: già quando l’ho visto al Cto, ero persa, non sapevo cosa fare; una cosa talmente grossa, sembra di annegare. Quando mi hanno detto che era in coma… uno si sente perso, ti manca la terra da sotto i piedi. C’è l’incognito, poi quando si tratta del cervello è un grosso punto interrogativo, anche per i medici che tentano. Hanno asportato l’ematoma; già avevano detto che toccavano delle cellule… una volta sveglio speri che parli, poi che si riprenda, è tutto uno sperare. A volte parla, adesso si ribella: la situazione è molto critica non si capisce cosa vuole. Non si capisce se capisce e fino a che punto.

Da quando succede l’incidente c’è lo smarrimento. Dopo un anno e mezzo è ancora così. Cerchi di andare avanti per figli e nipoti, ma se no verrebbe voglia di finirla lì.

Anche per i problemi della ditta, che ancora oggi non sono risolti. Aveva tutto nella sua testa. Ancora adesso cerco di farmi forza, ha momenti di crisi:

attualmente è in una struttura, secondo noi vorrebbe uscire…

Ancora oggi si va di tappa in tappa, ma non sappiamo cosa fare. Vorremmo portarlo in qualche altro posto ma non sappiamo dove, cosa vuole.

A dicembre ho avuto una forte depressione. Stavo male ero in cura dallo psichiatra. Non ce la facevo più, non c’erano possibilità di metterlo in una struttura. Ero proprio al limite, mi hanno dato degli antidepressivi. Lui era sempre dietro di me…

Tutto insieme mi ha fatto crollare... In quel momento ero persa.

I nipoti mi hanno portato in ospedale e ho parlato all’assistente sociale dicendo che non ce la facevo più: dovevo fare commissioni veloci, lui era sempre con me, non potevo lasciarlo solo, non dormivo più. Dopo ventiquattro ore gli hanno trovato una sistemazione e mi hanno ricoverata. All’inizio avevo paura che non mi facessero più uscire: sono però stata bene per tre giorni, tranquilla,

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in silenzio dopo mesi di assillo e angoscia senza dormire. Avevo assistenza tutto il giorno, mi hanno fatta parlare e mi sono sfogata.

Oggi capisco chi si sente disperato.

Quando mio marito è stato ricoverato, non l’ho visto per due mesi per paura che volesse ritornare a casa. Adesso sono più serena e ho le notti tranquille, ma il senso di vuoto e di smarrimento dura e durerà ancora.

Oggi è in una struttura in provincia di Torino dove ci sono persone che stanno peggio di lui e secondo me si rende conto e vuole andare via. Io vado a trovarlo tre volte alla settimana. Ho paura che se lo togliamo da lì non troviamo più posti. Sto guardando su internet ma non trovo niente, ha bisogno di un posto dove sia stimolato, invece lì è solo parcheggiato. Altri posti sono troppo lontani e poi vorrei trasferirmi in Svizzera e quindi ora non so cosa fare. Ma così sta peggiorando, è quasi sempre assente, forse si rifugia nel suo mondo perché lì c’é gente che sta peggio. Le sue condizioni sono discontinue. Penso a quei due secondi che hanno rovinato tante vite… fatalità.

Quando ripenso al giorno dell’infortunio mi torna in mente la paura.

La telefonata della notizia dell’incidente: un crollo.

Dovevo andare in macchina al Cto: ero persa. Volevo essere subito lì e vederlo, ma prima passano ore: e quindi ti fai tante domande prima e non hai la risposta.

Pensavo che lui diceva che era meglio che capitasse a lui che ai suoi ragazzi (gli operai, ndr), perché sarebbe stato distrutto. Sono rimasta là ore senza sapere niente. Una cosa insormontabile. Dopo ore mi dicono che è in coma, non capisci cosa vuol dire, ti chiedi per quanto tempo e non ti sanno dire niente.

Ore e ore lì: quando l’ho visto è stato terribile… il cervello che gonfiava, poteva morire da un momento all’altro. Non dormi perché ti aspetti sempre la chiamata. C’era l’ematoma che si ingrossava. Bisognava operare per asportarlo: dieci giorni al pronto soccorso attaccato alle macchine, non sai cosa fanno, perché non capisci le spiegazioni. Poi in terapia intensiva, non apriva gli occhi. Aspetti i movimenti, aspetti le tappe perché si riprenda, ma sono faticose, ti svuotano. Ricevevo tante telefonate che mi chiedevano come stava, e ricominciavo da capo ogni volta; devi essere forte.

Se penso a quanto è accaduto dal punto di vista della prevenzione devo premettere che lui era sempre molto attento, non faceva fare le cose pericolose ai ragazzi, era molto prudente. Aveva molta responsabilità verso gli operai.

Sapeva bene tutti i rischi del suo mestiere.

Era prudente e usava le misure di sicurezza, ma diceva che l’imbragatura a volte è un intralcio. Molte misure sono quasi impossibili. Potrebbero risultare più pericolose.

Non aveva mai fretta, piuttosto ci metteva un’ora in più per fare bene il lavoro ma non rischiava. Erano gli operai che guardavano l’orologio. La fretta è un pericolo.

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Non aveva eccesso di sicurezza ma sempre molta prudenza, era sicuro di sé ma senza eccesso, conosceva il pericolo e come arrivava. La sicurezza è una modalità di lavoro legata alla prudenza: lui faceva alla vecchia maniera ma il lavoro era garantito. La sua paura era che succedesse qualcosa ai suoi ragazzi su cui vigilava: diceva “preferisco a me che a loro”.

Però era stanco, era già in pensione da due anni ma voleva lavorare lo stesso.

Bisognerebbe sapersi riposare: arrivava a casa ma la giornata non era finita, c’erano i clienti, gli incassi, i nuovi lavori.

E poi c’è stato il caso: se fosse stato a pochi metri di distanza dal bordo del tetto non sarebbe caduto dall’alto, probabilmente è caduto incosciente perché non ha reagito, è caduto a peso morto sulla testa.

Il soccorso è stato lento: l’incidente è successo alle 15.30 e al Cto è stato portato alle 18, forse sarebbe andata diversamente.

Non si poteva muovere perché doveva arrivare la polizia.

Come andare avanti dopo un evento del genere?

La prima spinta è cercare di fargli recuperare il più possibile. Ancora oggi. Noi speriamo sempre che ci possano essere ulteriori sviluppi guardando altri così che ce l’hanno fatta. Magari non più come prima, ma che possa tornare a casa e sia cosciente e si renda conto.

Per quanto riguarda me invece io ho le figlie e le nipotine. Se deve rimanere così io mi faccio forza pensando a loro. Ho anche pensato che era meglio se ce ne andavamo tutti e due: ma no, il dolore sarebbe troppo grosso, lo devo fare per loro; lui così com’è non mi deve annientare, malgrado il dolore che si rinnova ad ogni visita.

È molto importante la famiglia per chi ce l’ha. Figlie e nipoti mi sono state molto vicine. Prima ero sola, non avrei immaginato questa disponibilità delle mie figlie che facevano sacrifici per venire dalla Svizzera. Mi hanno dato vicinanza e supporto che non potevo immaginare. Sono venute tante volte. Una volta ero sul balcone con mia nipote di quattordici anni e guardando la strada ad una certa ora le ho detto che lì una volta si vedeva arrivare il camion con il nonno che tornava dal lavoro: lei mi ha guardata e mi ha detto “nonna non devi pensare a questo, devi guardare al futuro”.

Anche mia figlia che sta in Africa è venuta tante volte. Il nipote di mio marito e la moglie si sono occupati di me. Questa cosa ci ha riavvicinati nonostante la distanza.

Se mi chiedete un consiglio posso solo dirvi che sono venuta qui e mi avete dato molto. Qui si trova comprensione e dedizione. Già si hanno tanti problemi e si ha paura di trovare negli uffici risposte aggressive o disinteressate. Questo blocca la persona. Non venivo con l’angoscia ma volentieri. Disponibilità e accoglienza già ci sono, non ho niente da aggiungere.

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CONSOLAZIONE

Settant’anni, in un infortunio del 26 settembre 1979 ha subito l’amputazione dell’avambraccio destro lavorando ad una impastatrice. Dopo l’infortunio non ha mai più trovato lavoro ma si è dedicata al marito ed ai due figli, minori al momento del fatto. In passato è stata contattata più volte dal Centro Protesi Inail di Vigorso di Budrio (BO) per affiancare nell’utilizzo della protesi altra donne vittime di amputazioni degli arti superiori.

Intervista

Quando penso al mio infortunio, non posso evitare di pensare che se c’era il salvamano, non mi portava via la mano. Ero all’impastatrice, facevo gli gnocchi; se c’era il disco, che poi hanno messo, non perdevo la mano. E poi... ti fanno delle domande all’ospedale: “Signora ce l’ha messa apposta la mano?”

Ma che domande sono? Avevo trentanove anni, sono passati trentadue anni…

(nel parlarne, le viene ancora da piangere, ndr)

È stata una cosa inattesa anche perché non era mai successo niente… Hanno chiuso il negozio, sono arrivati i giornalisti…

Queste cose non dovrebbero succedere, ma succedono… Ma proprio a me?

Eravamo in due; non era mai accaduto.

Comunque è così. Forse, se non avessi messo i guanti, non mi avrebbe preso la mano.

Oggi reagirei con l’età, ma allora non ho avuto il coraggio di reagire…

Dopo l’infortunio dovevo ritirare la prima protesi, ma l’ho rifiutata perché per errore era da uomo e poi volevano attaccarla al gomito. “Piuttosto non la metto” ho detto.

Poi la D.ssa C. mi ha mandata a Budrio: sono stata io a dire come farla per attaccarla al polso. Io riuscivo a tenerla, loro studiavano su di noi, dicevo: “se il pezzo ce l’ho buono perché attaccarla al gomito?”

Le persone che lavorano al Centro Protesi riescono a capire come fare. Mi hanno ascoltata. Io ormai conosco tutti. Telefono a G. e lui mi capisce. Hai bisogno e chiedi.

Sono stata un mese a Budrio, poi sono tornata a casa e poi dovevo andare a prenderla. Volevo che venisse mio marito, ma non è stato autorizzato ad accompagnarmi. Dovevo prendere la corriera per Budrio, fare tutto da sola.

Non dimentico le cose che sono successe, sono cose che rimangono.

Ricordo ancora… in via Mercadante (allora c’era una sede dell’Inail, ndr) dopo tre mesi mi hanno mandato a lavorare. Io ho pensato: “con una mano sola cosa faccio?”

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Fare i racCONTI con il cambiamento

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In queste situazioni entri in confusione, vai fuori di testa. Io volevo tornare, ma a fare che cosa?

Sono cose che ti rimangono dentro: cose dette che sono state ingiuste.

Avevo ancora i punti. Che poi loro dicevano che se hai bisogno di soldi puoi chiedere al titolare. Strano che ti dicono queste cose e non pensano alle persone; che dicono che hai messo la mano dentro apposta.

Oggi reagirei. Direi: “lei la metterebbe la mano dentro?”

Sono cose che si devono gestire con delicatezza. Io mi sono sentita trattata male.

Non ho avuto persone vicine, solo mio marito. Quello che mi ha operato al Cto mi faceva le visite private. Volevano tagliarmi un altro pezzo di braccio perché se no non potevano farmi la protesi.

Al Rizzoli (ospedale di Bologna, ndr) una volta ho visto un ragazzo più giovane senza entrambe le mani e allora mi sono sentita più fortunata.

Quando sono andata a Budrio, mi hanno aggiustato la mano. Poi mi hanno chiamata per farmi vedere come usare la protesi mioelettrica ma non sono potuta andare per non abbandonare i figli.

Sono riuscita a imparare a scrivere con la protesi, si comincia a scrivere come alle elementari. Bisogna impegnarsi ma si riesce. Se uno non si impegna a fare qualcosa non riesce nella vita: ringrazio Dio che mi ha dato quella forza e volontà.

Se devo pensare al mio infortunio dal punto di vista della prevenzione, penso che se c’era il disco, evitavo di mettere la mano dentro.

Dopo l’infortunio io mi sono chiusa, volevo uscire con il mantello.

La motivazione per andare avanti sono stati i miei figli, lo dico ancora adesso.

Pensavo a loro, preparavo il pranzo, facevo i lettini. Avevano dieci, tredici, e diciotto anni. È stata quella la mia forza, se non avessi avuto loro, guai!

Pensando a un consiglio, a cosa può essere utile per le persone in situazioni come la mia, l’unica cosa che dico è che noi abbiamo bisogno di persone come voi, che sappiano essere sensibili e avere pazienza. Dove vai vai, ti sgridano, ti trattano male.

Se chiedo: “Abbia pazienza, mi aiuta a mettere la firma?” “Ah, no!” Ti rispondono scorbutiche! Non è giusto, non sto chiedendo nulla. Perché non dobbiamo essere tutti più disponibili? C’è gente cattiva.

Dobbiamo essere più umani uno con l’altro. Ma oggi la vita è così, devi fare attenzione a chiedere qualcosa, sono tutti nervosi.

Invece c’è bisogno delle persone che ti capiscono.

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DINO

Settantasette anni, il 27 luglio 2011 gli è stato diagnosticato un mesotelioma pleurico per esposizione ad amianto. È morto il 1 settembre 2012.

Intervista

Mi sembra di aver lavorato tutta la vita. Da quando sono nato in poi. I miei erano contadini; allora si lavorava la terra. Poi dal paese ci siamo spostati in città per motivi lavorativi. Sono passato sotto la compagnia tubisti di Torino facendo sempre lo stesso lavoro: il saldatore. Si saldava, si metteva su… Lì ho lavorato circa due anni e mezzo sotto le gallerie della Fiat. Lì l’amianto volava perché c’erano gli altri che rivestivano i tubi. Poi ho iniziato a lavorare presso la Fiat: stesso discorso. Ho lavorato molti anni attaccato ad una giostra:

facevamo i sedili per le autovetture. Dopo tanti anni mi hanno esonerato dal lavoro a contatto con il fumo. Successivamente lavoravo riparando frizioni e freni, e l’amianto c’era anche lì.

Alla Fiat sono stato l’ultimo a uscire. Poi hanno chiuso. Allora sono andato da Pininfarina a fare lo stesso lavoro che facevo alla Fiat. Gli ultimi anni li ho passati lì. Anche lì stessa esposizione all’amianto. Dopo l’infarto mi hanno levato da quel posto e mi hanno messo in magazzino. Di questo li ringrazio: mi hanno trattato come un padre. Gli ultimi anni ho lavorato con tanti giovani ed è stata una bella esperienza.

Molti anni fa non si era salvaguardati come adesso (mascherine, aspiratori…).

Gli ultimi anni prima di venire via la Fiat era già attrezzata, e anche dopo Pininfarina.

I primi anni non avevo i dispositivi di sicurezza che ci hanno dato in seguito.

Non ci davano la mascherina… Quando lavoravo per la compagnia tubisti mi davano il latte… ma a cosa serviva? Quando lavoravo attaccato alle giostre c’era il fumo del grasso e lo respiravamo di continuo.

Gli anni in cui siamo adesso, casi come il mio non succedono più. Si è più attrezzati. L’amianto non esiste più nei posti di lavoro, ma ce n’è ancora molto in giro. Però penso che gli anni che verranno non saranno come quelli che abbiamo vissuto noi che respiravamo e mangiavamo tutta la polvere…

Io ho addestrato molti giovani.

Quando me li davano, io a loro trasmettevo tutto. Guai se mettevano una mano dove non dovevano metterla. Li prendevo e ci facevo dei “discorsetti”.

Facevo formazione. Gli allievi in Fiat venivano lì. C’erano quelli più presuntuosi, che avevano studiato; pensavano di sapere tutto ma non conoscevano niente. Allora bisognava dargli una “raddrizzata”.

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