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Profili della responsabilità penale del medico primario Dr. Guglielmo Passacantando

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Profili della responsabilità penale del medico primario

Dr. Guglielmo Passacantando1

Il tema della responsabilità penale del medico nell'esercizio della sua funzione di “primario”

conduce direttamente nell'ambito delle problematiche concernenti, in generale, la responsabilità professionale dell'operatore sanitario, con la specificazione dei particolari profili di responsabilità correlati alla qualità, al ruolo e ai poteri doveri connessi all'esercizio delle mansioni del medico “primario”.

Perciò, diventa indispensabile, innanzi tutto, rilevare quali siano, in tema di responsabilità professionale, in genere, i criteri attualmente più accreditati dalla giurisprudenza di legittimità e dalla dottrina più autorevole per la valutazione della colpa professionale, che rimane il settore della responsabilità medica più discusso e praticato.

I criteri elaborati dalla giurisprudenza hanno subito un'evoluzione storica che, partendo da una posizione, per così dire, indulgente, verso l'attività medica, è approdata recentemente a criteri più rigorosi.

Infatti, secondo un indirizzo giurisprudenziale meno recente2, veniva ravvisata la colpa del medico soltanto in presenza di “errori grossolani”, di “ignoranza o violazioni delle più elementari norme generali che presiedono l'arte medica”.

Significativa al riguardo la seguente decisione della Corte Suprema, secondo cui: “La colpa del sanitario deve essere valutata dal giudice con larghezza di vedute e comprensione sia perché la scienza medica non determina in ordine allo stesso male un unico criterio tassativo di cure, sia perché nell'arte medica l'errore di apprezzamento è sempre possibile. Pur tuttavia la esclusione di colpa professionale medica trova un limite nella condotta del professionista incompatibile col minimo di cultura e di esperienza che deve legittimamente pretendersi da chi sia abilitato all'esercizio della professione medica”3.

Tale indirizzo giurisprudenziale che trovava il suo riferimento normativo nella norma civilistica dell'art. 2236 c.c. (di cui veniva operata una sorta di trasposizione nel campo penale), limitando i casi di responsabilità penale del medico al solo “errore grossolano” e parificando ogni forma (imperizia, negligenza, imprudenza) e grado (colpa grave, lieve e lievissima) della colpa, finiva per postulare, in linea di principio, che la prestazione del medico implicasse sempre e comunque “la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”.

Successivamente, una più attenta lettura dello stesso art. 2236 c.c., da parte di un più autorevole indirizzo giurisprudenziale4, faceva rilevare come la norma civilistica invocata si riferisse soltanto alle prestazioni professionali che implicassero “la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, sicché, non ogni intervento medico terapeutico era soggetto ad un tale trattamento di favore, ma solo quello di particolare delicatezza e complessità.

Inoltre, si faceva osservare che una valutazione siffatta ineriva non a tutti i possibili profili della colpa professionale, ma esclusivamente a quello che riguardava la “imperizia” del medico, restando escluse l'imprudenza e la negligenza, che dovevano essere valutate secondo i criteri dettati dall'art. 43 c.p. (come del resto regolate dall'art. 1176 c.c.), sicché, se gli addebiti colposi erano di imprudenza o di negligenza, il medico doveva rispondere penalmente anche per colpa lieve.

1 Magistrato Procura Generale Corte D’Appello – Ancona.

2 Cass. Sez. IV, 4.2.1972, Del Vecchio, in Cass. pen. Mass. ann., 1973, 538, m. 653; Cass. Sez. IV, 26.1.1968, Chiantese, in Cass. pen. Mass. ann., 1969, 1077, m. 1634; Cass. Sez. IV, 6.3.1967, Izzo, in Cass. pen. Mass. ann., 1968, 420, m. 632.

3 Cass. Sez. IV, 6.3.1967, in Cass. pen. Mass. ann., 1968, 420, m. 632.

4 Cass. Sez. IV, 24.6.1983, Veronesi, in Cass. pen., 1984, 307, m. 233; Cass. Sez. IV, 19.2.1981, Desiato, in Cass.

pen., 1982, 1171, m. 1032.

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Tale impostazione del problema della colpa professionale del medico riceveva autorevole conferma dalla Corte Costituzionale (sentenza 28.11.1973 n. 166), chiamata a pronunciarsi sulla legittimità degli artt. 589 e 42 c.p., in relazione all'art. 3 Cost., nella parte in cui tali disposizioni consentivano, nella valutazione della colpa professionale, una “rilevanza penale a gradi di colpa di tipo particolare”.5

La Corte cui era stata rimessa la questione di legittimità costituzionale predetta dal Tribunale di Varese in una fattispecie di omicidio colposo a carico di un odontotecnico e di un medico, sul rilievo che sussisteva una oggettiva inconciliabilità “tra la situazione normativa esaminata che consente che, a parità di grado della colpa, siano ricondotte conseguenze diverse sul piano della legge penale, con esclusivo riguardo alla professione esercitata dagli imputati ed il principio della uguaglianza dei cittadini davanti alla legge”6 dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, ed osservava che “la esenzione o limitazione di responsabilità sancita dall'art. 2236 c.c.” trovava “la sua giustificazione, non in relazione a mere condizioni personali, bensì nei caratteri oggettivi dell'attività svolta dal professionista”7, cui era riservato un trattamento giuridico diverso, con la limitazione della sola ipotesi di dolo o colpa grave, esclusivamente per la colpa derivante da imperizia, in relazione appunto alle sue prestazioni comportanti la soluzione di “problemi tecnici di speciale difficoltà”, mentre le altre forme di colpa (imprudenza e negligenza) continuavano ad essere sottoposte ad un giudizio improntato a criteri di normale severità.

Nella più recente giurisprudenza8, infine, si sta affermando il principio secondo il quale l'accertamento della colpa professionale del sanitario deve essere fatto, per qualunque tipo di addebito, in base ai criteri dell'art. 43 c.p., negando ogni operatività, nel campo penale, alla norma civilistica dell'art. 2236 c.c., sulla base dei seguenti rilievi9:

a) che la norma dell'art. 2236 c.c., prevedendo un'ipotesi di responsabilità contrattuale derogatoria ai principi civilistici generali degli artt. 1176, 1218 e 2043 c.c., non è estensibile per via analogica, stante il divieto stabilito dall'art. 14 delle disposizioni della legge in generale;

b) che la stessa norma non è applicabile, per via di una interpretazione estensiva, perché incompatibile con la disciplina (caratterizzata da completezza ed omogeneità) sistematica del dolo e della colpa nel diritto penale, per la quale il grado della colpa può rilevare soltanto agli effetti della determinazione della pena (art. 133 c.p.) o della realizzazione della circostanza aggravante (art. 61, n. 3 c.p.) e mai per l'individuazione della sussistenza o meno dell'elemento psicologico del reato.

Tanto meno praticabile, poi, si dimostra il criterio della “colpa grave” nel caso, sempre più frequente, di attività medica esercitata in équipe, giacché - come rileva un'autorevole dottrina10 si potrebbe verificare il paradosso che il capo dell'équipe, cui addebitare la culpa in eligendo, sarebbe responsabile a titolo di colpa lieve, mentre il medico suo collaboratore, esercente prestazioni mediche di speciali difficoltà, sarebbe punibile soltanto per colpa grave, sotto il profilo dell'imperizia.

Analoghe conseguenze paradossali deriverebbero, sempre in attività mediche di équipe, per il personale sanitario ausiliario, privo di una qualifica “professionale” vera e propria e, quindi,

5 Corte Cost., 28.11.1973, n. 166, in Giust. pen., 1974, I, c. 35.

6 cfr. ord. Trib. Varese, 12.7.1971, in Giur. Cost., 1971, II, p. 2579.

7 Corte Cost., 28.11.1973, n. 166, cit..

8 Cass. Sez. IV, 9.6.1981, Fini, in Cass. pen., 1982, 1994, m. 1768; Cass. Sez. IV, 18.2.1983, Rovaschi, in Cass.

pen., 1984, 2417, m. 1628; Cass. Sez. IV, 13.6.1983, Dué, in Cass. pen., 1984, 1965, m. 1339.

9 Cass. Sez. IV, ud. 21.11.1996, dep. 6.3.1997, Spina, in Cass. pen,, 1998, p. 819, m. 456 e in Riv. Penale, 1997, p.

593.

10 N. MAZZACUVA, Problemi attuali in materia di responsabilità penale del sanitario, in Riv. It. Med. Leg., 1984, p. 4-13.

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non suscettibile di essere valutato con il criterio della colpa grave, pur vigendo, almeno in alcune decisioni della Suprema Corte, un reciproco obbligo di sorveglianza e di controllo tra tutti i membri dell'équipe stessa.

Pertanto, anche per valutare la colpa professionale del medico, valgono i normali criteri di cui all'art. 43, 3° comma, c.p. (rappresentabilità, prevedibilità, evitabilità), regolanti l'imputazione soggettiva colposa dell'evento lesivo.

Ma, “dovendo tenere conto della difficoltà propria di un settore che consente legittime scelte tra interventi terapeutici, tutti tecnicamente validi, ed in cui non può pretendersi l'assoluta certezza dei risultati”, la giurisprudenza di legittimità si avvale della nozione di “colpa speciale”

o “professionale”.

La quale riguardando attività giuridicamente autorizzate, in quanto socialmente utili, ma per loro natura rischiose è caratterizzata sia dall'inosservanza di regole di condotta (leges artis), scritte e non scritte, idonee alla prevenzione non del rischio consentito dall'ordinamento e insito nell'esercizio dell'attività, ma di un ulteriore rischio non consentito (cosiddetto aumento del rischio), sia dalla prevedibilità, in difetto dell'adozione di tali misure, ed evitabilità, nel caso della loro osservanza, dell'evento conseguente al superamento del rischio consentito.

Pertanto, è stato più volte affermato il principio che: “l'agente nel caso specifico il medico risponde per colpa solo dei danni prevedibili, ma prevenibili mediante l'osservanza delle leges artis e non di quelli prevedibili verificatisi, però, nonostante la fedele osservanza delle regole tecniche, trattandosi, in questo caso, di rischio consentito che l'ordinamento si è accollato nello stesso momento in cui autorizza l'attività rischiosa”.11

Il problema, poi, della misura del rischio consentito, nel caso di difetto di predeterminazione legislativa delle regole cautelari o di autorizzazioni amministrative, subordinate al rispetto di precise norme precauzionali, è rimesso al potere discrezionale del giudice, che deve tenere presenti le peculiarità del caso concreto, nonché la specificità dell'attività sanitaria svolta ed adottare, nella valutazione della prevedibilità e prevenibilità dell'evento, il parametro relativistico dell' “agente modello”, dell' “homo ejusdem condicionis et professionis”.

Perciò, la Suprema Corte ha affermato che, nel caso di delitto colposo, addebitato ad un soggetto in forza della specializzazione delle sue funzioni, l'indagine sulla colpa non può essere effettuata in riferimento ai criteri della prevedibilità dell'uomo comune, ma va operata sulla base delle cognizioni tecnico-scientifiche, rapportate al medio grado di cultura e di professionalità dello specialista.

Così, si è affermato che, nel caso di prestazioni mediche specialistiche, effettuate da un medico specializzato, ai fini della valutazione della colpa, non può farsi riferimento alle cognizioni di un medico generico12.

In definitiva, operando con il criterio della colpa speciale o professionale, la più recente giurisprudenza, pur rifiutando una diretta applicazione nel campo penale della norma civilistica ex art. 2236 c.c., adotta il suo significato, come regola di esperienza, nel valutare, secondo i criteri ordinari penalistici della colpa, l'addebito di imperizia.

Così, afferma che “nell'esercizio della professione medico-chirurgica, non di rado l'operatore si imbatte in situazioni dubbie, sia quanto a diagnosi, che a terapia, in relazione alle quali la scienza e l'esperienza non danno indicazioni univoche ed uniformi, mentre i risultati in passato ottenuti possono apparire contrastanti.

In siffatte situazioni il rischio di cadere in errore, postumamente come tale valutabile, è elevato sicché iniquo sarebbe addebitare al medico, che abbia per ogni altro verso adottato prudenza e diligenza, le conseguenze di un'obbiettiva difficoltà che è della scienza o dell'arte e non del singolo operatore”13.

11 Cass. Sez. IV, ud. 21.11.1996, dep. 6.3.1997, Spina, cit..

12 Cass. Sez. IV, ud. 2.10.1990, dep. 6.11.1990, Fonda, in Cass. pen., 1992, p. 313, m. 193.

13 Cass. Sez. IV, ud. 23.3.1995, dep. 21.4.1995, Salvati, in Cass. pen., 1996, p. 1835, m. 1046.

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Ciò, del resto, risponde al significato più razionale ed equo della stessa norma dell'art. 2236 c.c., che non può certo richiedere all'operatore sanitario un minore grado di perizia, rispetto ad una prestazione sanitaria più difficile (la lettura semplicemente letterale dell'art. 2236 c.c. nonché della sentenza della Corte Costituzionale sopra citata porterebbero, infatti, all'assurdo giuridico, secondo cui potrebbero essere imputabili al medico soltanto gli errori gravi in presenza di un quadro patologico complesso, che, al contrario, esigerebbe una maggiore perizia), bensì vuole semplicemente limitarsi ad esigere dal professionista, nei casi in cui la sua prestazione comporti la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, quella competenza e abilità adeguate al buon professionista della sua categoria.14

Il che significa che una interpretazione razionale ed equa dell'art. 2236 c.c., nonché della pronuncia della Corte Costituzionale, induce a ritenere - come è stato acutamente osservato15 che la difficoltà tecnica di un problema sanitario non modifica il grado della colpa, ma influisce sul giudizio circa la condotta del medico, nel senso che in tal caso si richiedono dal medico “solo quegli atti (tra quelli astrattamente possibili in funzione del risultato) che rientrano nella capacità del buon professionista della sua categoria”.16

In altri termini, è stato giustamente affermato che: “La colpa grave dell'art. 2236 c.c. non è che la colpa lieve da valutare tenendo conto della speciale difficoltà della prestazione”.17

In tal senso sembra consolidarsi la più recente giurisprudenza, secondo cui: “In tema di attività professionale medica, deve ritenersi colposa per imperizia la condotta mediante la quale non vengono osservate le leges artis scritte o non scritte finalizzate alla prevenzione non del rischio consentito dall'ordinamento, connesso alle scelte tra interventi terapeutici, ma di un ulteriore rischio non consentito nell'esercizio dell'attività stessa.

Per quanto riguarda la misura del rischio, in mancanza di predeterminazione legislativa o di autorizzazioni amministrative subordinate al rispetto di precise norme precauzionali, la valutazione del limite di tale rischio resta affidata al potere discrezionale del giudice, il quale dovrà tenere conto che la prevedibilità e la prevenibilità vanno determinate in concreto, avendo presente tutte le circostanze in cui il soggetto si trova ad operare ed in base al parametro relativistico dell'agente modello, dell'homo eiusdem condicionis et professionis, considerando le specializzazioni ed il livello di conoscenze raggiunto in queste”.18

Così, in termini di errore diagnostico, si è affermato che: “Quando si deve valutare non già l'imprudenza o la negligenza del medico, bensì l'errore diagnostico (…) quel che decide della scusabilità dell'errore e, quindi, sulla sussistenza o meno della colpa, è il grado di difficoltà del problema tecnico-scientifico in relazione al quale l'errore si verifica, con la conseguenza che solo la mancata percezione di un quadro clinico, la cui gravità sia agevolmente riconoscibile può essere attribuita a colpevole imperizia”.19

In definitiva, tale nozione penalistica di colpa speciale quale criterio interpretativo da utilizzare per la valutazione del profilo colposo tecnico professionale dell'attività dell'esercente l'arte sanitaria - non discostandosi dall'unico significato costituzionalmente corretto che può attribuirsi all'omologa norma civilistica dell'art. 2236 c.c., contribuisce ad eliminare l'apparente discrasia20 nel medesimo procedimento penale tra i due diversi parametri valutativi della condotta dell'operatore sanitario, l'uno, valido agli effetti delle statuizioni

14 N. MAZZACUVA, op. cit., pp. 406-407; V. NAPOLEONI, Nuovi orientamenti del Supremo Collegio in tema di responsabilità colposa nell'esercizio dell'arte sanitaria, in Cass. pen., Mass. Ann, 1980, 1564; C. CATTANEO, La responsabilità del professionista, Giuffrè, Milano, 1958, p.77.

15 P. DELLA SALA, La responsabilità professionale, in AA.VV., Medicina e diritto, a cura di M. BARNI e A.

SANTOSUOSSO, Giuffrè, Milano, 1995, p. 389.

16 C. CATTANEO, op. cit., p. 77.

17 C. CATTANEO, op. cit., p. 77.

18 Cass. Sez. IV, ud. 21.11.1996, dep. 6.3.1997, Spina, in Cass. pen., 1998, p. 819, m. 456.

19 Cass. Sez. IV, ud. 30.10.1998, dep. 5.1.1999, Capelli ed altri, in Guida al diritto, Il sole 24 ore, 1999, fasc. 5, p.

100.

20 M. BILANCETTI, La responsabilità penale e civile del medico, Padova, 1996, p. 222.

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civilistiche (risarcimento danni), rapportato alla colpa “grave” ex art. 2236 c.c., l'altro, strettamente penalistico (colpa anche lieve), utilizzabile ai fini del giudizio di colpevolezza.

Essa, inoltre, contribuisce a ridurre la rilevanza della distinzione, agli effetti dei diversi gradi di colpa, rispetto ai differenti profili di addebiti colposi nella valutazione della responsabilità medica, tra negligenza ed imprudenza, da un lato, ed imperizia, dall'altro.

Distinzione che si presenta obbiettivamente difficile21, con il conseguente rischio di un giudizio valutativo, comprensivo di tutti e tre i profili colposi, della responsabilità medica, attestato o su un criterio troppo permissivo (solo colpa grave) o troppo rigoroso (colpa lieve), stante la stretta connessione funzionale tra loro e la non definibile natura dell'uno o dell'altro profilo colposo, tanto da essere definita, da un'autorevole dottrina22, l'imperizia (o negligenza) come un'imprudenza qualificata.

La colpevolezza del medico, pur valutata alla stregua dei criteri sopra indicati, presuppone, in ogni caso, la sussistenza del nesso di causalità tra la sua condotta e l'evento subito dal paziente.

A tal proposito uno degli aspetti tradizionalmente problematici, in tema di responsabilità penale del medico, è quello della causalità omissiva imputabile alla condotta inerte del medico rispetto alla lesione sofferta dal paziente.

In tale campo della responsabilità professionale sanitaria, sembra doversi registrare una accentuazione rigoristica della Corte di Cassazione nel ribadire il criterio essenzialmente probabilistico che deve guidare il giudice nella individuazione e nell’accertamento del nesso di causalità tra l’eventuale condotta omissiva colposa del medico e l’evento letale sofferto dal paziente.

Invero, la Suprema Corte non si è discostata mai dal suo costante indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale “In tema di responsabilità per colpa professionale sanitaria, nella ricerca del nesso di causalità tra la condotta dell’imputato e l’evento, al criterio della certezza sugli effetti della condotta si può sostituire quello della probabilità di tali effetti (e della idoneità della condotta a produrli)”, con la conseguenza che “il rapporto causale sussiste anche quando l’opera del medico, se correttamente e tempestivamente intervenuta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì soltanto serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata probabilmente salvata” 23.

Tuttavia, in alcune più recenti decisioni,24 è stata ritenuta sufficiente, per la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva colposa del medico e l’evento una bassa percentuale di probabilità (pari al 30%) in considerazione del bene primario della vita umana, che, in tali casi, deve essere oggetto di tutela.

Ciò ha sollecitato la dottrina più avveduta ad una attenta riflessione sulla natura e sui limiti di un siffatto criterio probabilistico nella valutazione e nell’accertamento del rapporto causale tra la condotta omissiva colposa del medico e l’evento ad esso ricollegabile.

E’ pur vero, infatti, ed in ciò la dottrina25 e la giurisprudenza di legittimità concordano, che la struttura probabilistica della causalità omissiva dipende sia dalla diversa previsione normativa di cui all’art. 40 cpv. c.p. che per i reati omissivi non richiama lo stesso concetto valido per i reati commissivi, ma configura quello della mera “equivalenza” tra il cagionare e il non impedire sia dalla necessaria natura prognostica del giudizio che deve essere formulato nelle fattispecie omissive.

21 N. MAZZACUVA, op. cit., p. 408; F. SIRACUSANO, Ancora sulla responsabilità colposa del medico: analisi della giurisprudenza sulle forme e i gradi della colpa, in Cass. pen., 1997, p. 2910.

22 R. BETTIOL, Diritto penale, Padova, 1982, p. 477.

23 Cass. Sez. IV, ud. 18.10.1990, dep. 23.11.1990, Oria, in Cass. Pen., 1992, p. 2102, m. 1114.

24 In particolare v. Cass. Sez. IV, ud. 12.7.1991, dep. 17.1.1992, Silvestri, in Foro it., 1992, II, p. 363, che afferma essere sufficiente per la sussistenza del nesso di causalità una percentuale del 30%, con nota di I. Giacona, Sull'accertamento del nesso di causalità tra la colposa omissione di terapia da parte del medico e la morte del paziente; Cass. Sez. IV, 7.3.1989, Prinzivalli, in Riv. pen., 1990, p. 119, che richiede una percentuale del 50%.

25 Fiori, Il criterio di probabilità nella valutazione medico - legale del nesso causale, in Riv. it. med. leg., 1991, p.

29; Padovani, Diritto penale, p. 169.

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Tuttavia, nell’uso del criterio probabilistico, per l’accertamento del nesso eziologico nella causalità omissiva, in alcune decisioni26 la Suprema Corte sembra discostarsi dall’orientamento più rigoroso della dottrina, specialmente quando:

„ il giudizio di probabilità viene fondato, più che sulla disamina delle specifiche circostanze che qualificano il fatto concreto, sulle leggi statistiche che regolano, nella scienza medica, fenomeni similari;

„ la sussistenza del nesso di causalità viene ritenuta anche nei casi di medio-bassa probabilità.

In entrambe le ipotesi suindicate, infatti, l’accertamento del nesso di causalità omissiva potrebbe risultare non altrettanto rigoroso, come dovrebbe essere invece al pari di quello riferito ai casi di causalità attiva nei reati commissivi, in quanto fuorviato come rileva la dottrina27 sia dal prevalente ricorso a criteri esclusivamente statistici, non idonei, da soli, a cogliere la peculiarità della fattispecie e quindi a guidare l’interprete nella formulazione del giudizio circa la ricorrenza del nesso eziologico nel caso concreto, sia dall’indicazione di percentuali statistiche di probabilità, non altrettanto idonee a sorreggere un attendibile accertamento del nesso causale, che, anche nelle ipotesi di causalità omissiva, deve essere rigoroso.

Né, a quest’ultimo proposito, un abbassamento ingiustificato del livello di probabilità può essere giustificato come pure è stato affermato28 dalla Suprema Corte dall’esigenza di tutelare il bene primario della vita umana (“È da aggiungere, altresì, che quando è in gioco la vita umana anche solo poche probabilità di successo di un immediato e sollecito intervento chirurgico sono sufficienti, talché sussiste il nesso di causalità quando un siffatto intervento non sia stato possibile a causa dell’incuria colpevole del sanitario che ha visitato il paziente”).

Ciò perché, come è stato correttamente osservato29 sarebbe impropriamente utilizzato un giudizio di valore ai fini dell’accertamento di un fatto (rapporto di causalità), con la conseguenza paradossale, da un lato, che i principi di legalità e di certezza in tema di accertamento del nesso eziologico, sia pure nelle fattispecie omissive, troverebbero sempre più minore tutela, con l’abbassamento del livello di probabilità sufficiente per la ritenuta sussistenza del nesso causale, quanto più importante è il bene messo in pericolo, e che, dall’altro, ipotesi di responsabilità omissiva sarebbero giudicate più severamente di quelle ritenute invece più gravi di natura commissiva.

In conclusione, appare più corretto e rigoroso l’orientamento della dottrina e di quella parte di giurisprudenza, secondo cui, in tema di individuazione del nesso di causalità nelle fattispecie omissive, il giudice, se non disponga di leggi universali che offrano la certezza che ad un determinato evento ne segua un altro, potrà avvalersi delle cosiddette leggi statistiche, sostituendo il criterio della “certezza” con quello della “probabilità logica o credibilità razionale”, a condizione, però, che quest’ultima debba essere “di alto grado, nel senso che il giudice dovrà accertare che, senza il comportamento dell’agente, l’evento non si sarebbe verificato, appunto, con alto grado di probabilità”30.

In tal modo, il grado di certezza, richiesto per la causalità attiva, non diverge da quello della causalità omissiva, specie se si considera che, in realtà, anche nelle fattispecie commissive, spesso è necessario far ricorso alle leggi statistiche e quindi al giudizio di probabilità e che,

26 Cfr. Cass. Sez. IV, 7.1.1983, in Foro it., 1986, II, p. 351, con nota di L. Renda, Sull'accertamento della causalità omissiva nella responsabilità medica; Cass. Sez. IV, 2.4.1987, Ziliotto, in Cass. Pen., 1989, p. 72, m. 45; Cass. Sez.

IV, 7.3.1989, Prinzivalli, in Riv. Pen., 1990, p. 119. Cass. , 26.4.1983, Andreini, in Riv. Pen., 1984, p. 482.

27 I. Giacona, Sull'accertamento del nesso di causalità tra la colposa omissione di terapia da parte del medico e la morte del paziente, in Foro it., 1992, II, 363.

28 Cass. Sez. IV, 7.1.1983, Melis, in Foro it., 1986, II, p. 355.

29 I. Giacona, op. cit., 366. Inoltre v. F. Siracusano, Giudizi di probabilità e sequenze causali nell'accertamento della colpa medica, in Cass. pen., 1996, p. 3329.

30 Cass. Sez. IV, 6.12.1990, Bonetti ed altri, in Foro. It., 1992, II, p. 36. Nello stesso senso, da ultimo, Cass.

Sez. fer., ud. 1.9.1998, dep. 20.10.1998, Casaccio, in Dir. pen. e proc., 1999, p.31.

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proprio in tema di responsabilità professionale del medico, nell’accertamento del nesso di causalità, l’evento è ricollegabile, in più di un’occasione, non solo a condotte omissive dell’agente, ma anche a suoi comportamenti attivi, magari colposamente sostitutivi di quelli che avrebbe dovuto tenere.

Perciò, appare senza dubbio più rispettosa dei principi di legalità e di certezza, nell’accertamento dei fatti, l’affermazione contenuta in una recente decisione della Suprema Corte, secondo la quale: “In tema di responsabilità per colpa professionale del medico, se può essere consentito il ricorso ad un giudizio di probabilità in ordine alla prognosi sugli effetti che avrebbe potuto avere, se tenuta, la condotta dovuta, qualora debba accertarsi il rapporto di causalità fra due avvenimenti concretamente verificatisi (nella specie, anestesia praticata con un determinato farmaco, l’Ethrane, e successiva insorgenza di una crisi di mioglobinuria) è necessario che l’esistenza del nesso causale venga riscontrata con sufficiente grado di certezza, se non assoluta (data la molteplicità dei fattori normalmente presenti), almeno con un grado tale da fondare su basi solide un’affermazione di responsabilità, non essendo sufficiente a tal fine un giudizio di mera verosimiglianza”31.

Se quelli innanzi indicati appaiono i criteri più accreditati e validi per orientare un corretto e congruo giudizio di responsabilità professionale medica in punto di individuazione sia della colpa sia del nesso di causalità, specie riguardo alle condotte omissive, del medico, ancor più problematico, per carenza di decisioni giurisprudenziali e di legittimità e per la posizione non uniforme della dottrina, si presenta il nodo della responsabilità professionale colposa del medico primario in relazione agli ulteriori e specifici compiti e funzioni connesse alla sua posizione apicale riconosciutagli dall'ordinamento, che egli esplica sia nell'esercizio della prestazione strettamente medico-terapeutica, anche come capo di una équipe, sia come responsabile dell'organizzazione e del buon funzionamento del reparto o della divisione che è chiamato a dirigere.

E, a proposito di quest'ultima posizione di dirigente che il medico primario assume, si è ritenuta la sua penale responsabilità nella seguente fattispecie: “In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, l'art. 4 d.p.r. 27.4.1955 n. 547, che prescrive gli obblighi gravanti su dirigenti e preposti, non può essere interpretato disgiuntamente dall'art. 374, comma 2, del medesimo decreto, relativo alla necessaria idoneità degli impianti di sicurezza ed all'obbligo di mantenerli in buono stato di conservazione e di efficienza. (Nella specie è stata ritenuta la penale responsabilità del primario di un reparto radiologico per omesso controllo dell'efficienza dell'impianto di ricambio di aria nel locale adibito a camera oscura)”.32

Mentre ne è stata esclusa ogni responsabilità nella seguente diversa situazione di fatto: “L'art.

63 quinto comma d.p.r. 20.12.1979 n. 761 sullo stato giuridico del personale delle USL specifica che al primario competono esclusivamente funzioni di indirizzo e di verifica sulle prestazioni di diagnosi e cura” ed è, dunque, esclusivamente a tali funzioni che egli deve impartire “istruzioni, direttive” ed esercitare “la verifica inerente all'attuazione di esse”. Esulano, dunque, dai compiti assegnati al primario quelli manageriali e di organizzazione aziendale che spettano ai vertici amministrativi delle USL (nella specie, dotazione di contenitore di sostanze venefiche immediatamente distinguibili esteriormente da quelli destinati alla conservazione di medicamenti), così come, in particolare, esula quello della custodia dei veleni, che spetta ad altri soggetti (caposala, infermiere professionale)”.33

Ricorre, di nuovo, la responsabilità penale del primario, quando da parte sua viene meno il doveroso controllo delle apparecchiature, pur difettose per colpa di altri soggetti preposti alla installazione e alla verifica delle stesse, come si evince dalla seguente decisione: “Qualora all'interno di un ospedale vengano eseguiti lavori all'impianto di erogazione dei gas medicali e di

31 Cass. Sez. IV, ud. 27.9.1993, dep. 16.11.1993, Rossello, in Cass. pen., 1996, p. 3325, m. 1848, con nota di F.

Siracusano, Giudizi di probabilità e sequenze causali nell'accertamento della colpa medica.

32 Cass. Sez. III, ud. 14.6.1983, dep. 30.9.1983, Zarro, in C.E.D. rv. 160338.

33 Cass. Sez. IV, ud. 26.3.1992, dep. 6.5.1992, Vallara, in C.E.D. rv. 190284.

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anestesia afferenti ad una sala operatoria, l'obbligo di verificare il corretto funzionamento di detto impianto, al fine di garantire la ripresa dell'attività chirurgica senza pericolo per i pazienti in dipendenza dei lavori realizzati, incombe, oltre che sul responsabile tecnico amministrativo della struttura sanitaria e sui soggetti ai quali è demandata la materiale esecuzione dei detti lavori, sul primario ospedaliero responsabile del reparto di anestesia, che deve, prima di consentire la ripresa dell'attività nella sala operatoria, accertare, direttamente o delegando un medico o un paramedico, che l'erogazione avvenga regolarmente. (Fattispecie relativa a decesso di un paziente, cui era stato somministrato, nella fase del risveglio postoperatorio, potassio di azoto anziché ossigeno, causato dal fatto che, nel corso del lavori eseguiti nei giorni precedenti, sull'impianto di erogazione dei gas medicali e di anestesia, erano stati invertiti i tubi di derivazione afferenti alla sala operatoria con conseguente inversione dei gas erogati dalle bocchette)”.34

Ma anche nell'espletamento della sua prestazione strettamente medico-chirurgica il primario, quale capo di una équipe, può trovarsi a rispondere penalmente per fatti e comportamenti posti in essere dai suoi collaboratori.

Infatti, in tema di responsabilità professionale colposa del primario capo-équipe, dalla giurisprudenza di legittimità della dottrina più autorevole che si è occupata del problema, può essere tratto il seguente quadro di riferimento.

Innanzi tutto, trattandosi di una attività sanitaria pluridisciplinare, espletata da un gruppo di medici professionalmente qualificati e gerarchicamente organizzati, nella individuazione delle loro rispettive eventuali colpe e quindi anche di quella del primario, quale capo della équipe, non può prescindersi dal rigoroso rispetto del principio-costituzionalmente sancito (art. 27, 1°

comma, Cost.) della personalità della responsabilità penale.

Principio che salvaguarda anche l'autonomia professionale di ciascun componente dell'équipe, conciliandola con la posizione sovraordinata del primario capo-équipe.

In questa prospettiva sembrano inserite alcune e significative decisioni della Suprema Corte, in tema di responsabilità professionale medica, nel caso in cui l'esito infausto o parzialmente infausto sia stata la conseguenza di un lavoro di gruppo.

Così, è stato ritenuto che: “Rettamente è affermata la responsabilità di un anestesista per la morte di una paziente dovuta ad arresto cardiaco per anossia acuta da oblio respiratorio conseguente all'effetto deprimente dei farmaci utilizzati per la narcosi, nel caso in cui costui, dopo l'intervento operatorio, abbia omesso di sorvegliare adeguatamente la paziente in fase di risveglio, affidando intempestivamente il relativo compito ad un'infermiera professionale non specializzata in anestesia, e, conseguentemente, di intervenire con efficacia ai primi sintomi della turba anossica, poi divenuta irreversibile”.35

Mentre è stata esclusa la responsabilità penale dell'anestesista ed affermata solo quella del chirurgo per le lesioni cagionate al paziente nel cui addome era stata dimenticata una garza, sui seguenti rilievi: “In un'équipe medica che svolge un'operazione chirurgica, l'anestesista è deputato a controllare lo stato di insensibilità del paziente all'azione chirurgica, la sua reazione e, magari, la sua sicurezza dal punto di vista circolatorio, mentre non ha nessuna competenza e, quindi, nessun incarico di porre o estrarre tamponi dalla cavità soggetta all'operazione. Ne consegue che l'anestesista non risponde del fatto che venga dimenticata nell'addome del paziente una garza laparatomica, che dia luogo ad un processo infiammatorio endiperitoneale, con formazione di una sacca purulenta inglobante il corpo estraneo e producente lesioni colpose gravi”.36

In tali ipotesi, dunque, al criterio dell'autonomia professionale e dell'autoresponsabilità di ciascun componente l'équipe medica, corrisponde, rispetto al primario capo-équipe, il principio del cosiddetto affidamento, secondo cui “ogni consociato può confidare che ciascuno, si

34 Cass. Sez. IV, ud. 11.1.1995, dep. 24.4.1995, Bassetti ed altri, in C.E.D. rv. 201612.

35 Cass. Sez. IV, ud. 30.11.1992, Aniballi, in Cass. pen., 1994, 1497.

36 Cass. Sez. IV, ud. 9.4.1984, dep. 30.10.1984, Passarelli, in C.E.D. rv. 166435.

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comporti adottando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell'attività che di volta in volta viene in questione”37 e, quindi, anche il capo-équipe può ragionevolmente confidare sull'esatto adempimento dei compiti specifici a ciascuno assegnati in rapporto alla loro specializzazione ed esperienza.

Principio dell'affidamento che, pur salvaguardando l'autonomia funzionale di ciascun membro dell'équipe, nonché la divisione dei ruoli e delle specifiche mansioni svolte da ognuno, non esonera sempre e comunque il primario capo-équipe dal concorrere, con gli altri componenti suoi collaboratori, nella responsabilità penale per fatti e comportamenti direttamente posti in essere da questi ultimi.

Ciò si verifica quando il primario capo-équipe, violando i suoi poteri - doveri (art. 63 d.p.r.

20.12.1979, n. 761) di impartire istruzioni e direttive e di esercitare funzioni di controllo e di sorveglianza sull'operato altrui, contribuisce a porre in essere un fatto in rapporto causale con l'evento subito dal paziente.

Nell'ambito di questo gruppo di ipotesi possono essere ricondotte diverse decisioni del Supremo Collegio che hanno affermato il concorso di colpa del medico primario nella responsabilità penale, egualmente colposa, dei suoi collaboratori.

Così, è stato ritenuto che: “Il chirurgo capo équipe, fatta salva l'autonomia professionale dei singoli operatori, ha il dovere di portare a conoscenza di questi ultimi tutto ciò che è tenuto a sapere sulle patologie del paziente e che, se comunicato, potrebbe incidere sull'orientamento degli altri (fattispecie in tema di omicidio colposo di cui è stato ritenuto responsabile, insieme con l'anestesista, il chirurgo per non essersi egli premurato di informare l'anestesista stesso delle condizioni cardiologiche del paziente)”.38

Ed ancora: “Il primario (nella specie, facente funzioni) di una divisione di chirurgia di un ospedale ha compiti di indirizzo, di direzione e di verifica dell'attività diagnostica e terapeutica; a lui, pertanto, spettano le scelte operative congruenti all'evoluzione della condizione nosologica della persona ricoverata (fattispecie relativa a morte di una paziente per un versamento pleurico mal diagnosticato)”.39

Nella stessa logica, si muove la seguente ulteriore decisione: “In tema di causalità, il chirurgo capo-équipe, una volta concluso l'atto operatorio in senso stretto, qualora si manifestino circostanze denunzianti possibili complicanze, tali da escludere l'assoluta normalità del decorso post-operatorio, non può disinteressarsene abbandonando il paziente alle sole cure dei suoi collaboratori, ma ha l'obbligo di non allontanarsi dal luogo di cura, onde prevenire tali complicanze e tempestivamente avvertirle, attuare quelle cure e quegli interventi che una attenta diagnosi consigliano ed altresì vigilare sull'operato dei collaboratori; ne consegue che il chirurgo predetto, il quale tale doverosa condotta non abbia tenuto, qualora, per complicanze insorte nel periodo posto operatorio e per carenza di tempestive, adeguate, producenti cure da parte dei suoi collaboratori, un paziente venga a morte, in forza della regola di cui al capoverso art. 40 c.p., risponde a titolo di colpa (ed in concorso con i detti collaboratori) della morte dello stesso paziente”.40

Infine, è stato ribadito che: “In tema di colpa professionale, il primario ospedaliero, al quale la normativa vigente, particolarmente l'art. 63 d.p.r. 20.12.1979, n. 761, attribuisce il potere - dovere di impartire istruzioni e direttive e di esercitare la verifica inerente all'attuazione di esse, risponde, a titolo concorsuale, della morte di un paziente al quale sia stato somministrato (o fatto somministrare) un medicinale risultato letale (nel caso valium), qualora trovandosi egli (occasionalmente o meno) presente al momento in cui, dopo sommaria indagine anamnestica (della quale il detto primario percepisca i termini), un medico suo dipendente disponga al riguardo, non intervenga, pur consapevole dei gravi rischi connessi alla somministrazione di

37 Cass. Sez. IV, ud. 6.12.1990, dep. 29.4.1991, Bonetti ed altri, in Cass. pen., 1992, p. 2726, m. 1411.

38 Cass. Sez. IV, ud. 24.11.1992, Gallo, in Cass. pen. Mass. Uff., 1994, fasc. 10, m. 100.

39 Cass. Sez. IV, ud. 11.11.1994, Presta, in Cass. pen. Mass. Uff., 1995, fasc. 8, m. 75.

40 Cass. Sez. IV, ud. 7.11.1988, dep. 23.1.1989, Servadio, in Cass. pen., 1990, p. 246, m. 211.

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sostanze farmacologiche della relativa classe, per rimediare agli errori e per colmare le lacune del suo collaboratore e, comunque, per impedire che un trattamento, potenzialmente pericoloso, venga praticato nel suo reparto senza adeguate misure precauzionali”.41

Nelle fattispecie esaminate il principio dell'affidamento subisce, dunque, significative deroghe giustificate o dalla presenza di situazioni concrete tali da indurre il primario capo-équipe a ritenere di non poter confidare sul corretto adempimento ai propri obblighi specifici da parte di alcuno dei suoi collaboratori, ovvero dalla posizione di garanzia che il primario, quale capo- équipe, assume nei confronti del buon esito della prestazione medica, in funzione della quale gli vengono riconosciuti dall'ordinamento (art. 63 del citato decreto) i poteri - doveri di direzione, controllo e sorveglianza sull'operato dei suoi collaboratori.

Non si può, invece, neppure parlare di deroga al principio dell'affidamento nel caso in cui colui che dovrebbe invocarlo versasse già in colpa per una sua condotta negligente, imprudente o imperita, giacché il confidare nel comportamento corretto altrui postula una irreprensibile condotta nel soggetto che dell'applicazione di quel principio dovrebbe beneficiare.42

In tal senso, è stato affermato che: “In tema di causalità, non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme precauzionali o per aver omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, che gli succede nella stessa posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione; sicché ove, anche per l'omissione del successore, si produca l'evento che una certa azione avrebbe dovuto e potuto impedire, l'evento stesso avrà due antecedenti causali, non potendo il secondo configurarsi come fatto eccezionale, sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l'evento (fattispecie di omicidio colpo per colpa professionale, in cui la Corte ha giudicato corretto il giudizio di responsabilità di entrambi i medici, che, avendone ciascuno autonomamente la possibilità, in successione temporale, non hanno eliminato la fonte di pericolo - emorragia - evolutasi a causa delle loro omissioni nella morte di una puerpera)”.43

Infine, in tema di colpa professionale del medico primario, che opera in una struttura sanitaria pubblica, è opportuno rilevare come, agli effetti della individuazione delle rispettive responsabilità, diventi essenziale la distinzione più volte evidenziata dalla giurisprudenza di legittimità tra il caso in cui il primario ospedaliero si sia limitato, ai sensi del quinto comma dell'art. 63 d.p.r. 20.12.1979 n. 761, ad affidare ad altri medici i pazienti ricoverati e quello, invece, in cui lo stesso primario si sia avvalso, ai sensi del sesto comma del medesimo art. 63, del potere di avocare a sé l'esecuzione della prestazione medica.

Ciò, perché secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, nella prima ipotesi, il primario, esercitando il potere di intervento nel senso dell'avocazione riconosciutogli dal 6° comma dell'art. 63 d.p.r. 761/1979, annulla l'autonomia professionale dei suoi collaboratori, onde “ogni responsabilità è assunta dall'avocante (“primario”), mentre, nella seconda ipotesi, il primario, limitandosi ad esercitare i poteri di direttiva, di cui al 5° comma del citato art. 63, lascia integra ed efficace l'autonomia professionale delle altre posizioni funzionali dei suoi collaboratori, sicché ciascuno primario, da un lato, e medici collaboratori, dall'altro può essere ritenuto penalmente responsabile delle proprie rispettive condotte colpose.

Al riguardo, appare significativa la seguente decisione del Supremo Collegio: “In tema di disciplina della ripartizione dei ruoli tra i medici operanti in una struttura sanitaria pubblica, l'art.

63 del d.p.r. 20 dicembre 1979 n. 761, mentre attribuisce, al quinto comma, al primario il potere di impartire disposizioni e direttive e di verificarne l'attuazione nel rispetto dell'autonomia professionale ed operativa del personale dell'unità assegnatagli (lasciando, quindi, spazio all'autonomia professionale delle altre posizioni funzionali, nell'ambito e con i relativi diritti e doveri di ciascuna qualifica funzionale), prevede, invece, al 6° comma, il potere di avocazione da parte del primario (che elimina ogni autonomia delle altre posizioni funzionali, riservando ad

41 Cass. Sez. IV, ud. 22.9.1989, dep. 30.11.1989, Cipollaro, in Cass. pen. 1991, p. 433, m. 364.

42 Cass. Sez. IV, ud. 6.12.1990, dep. 29.4.1991, Bonetti ed altri, cit., p. 2735.

43 Cass. Sez. IV, ud. 1.10.1998, dep. 3.11.1998, Bagnoli ed altro, in C.E.D. rv. 212140.

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esse semplici compiti di collaborazione). Ne deriva, come ritenuto nella specie, che l'assistente, quando non è stata disposta l'avocazione, è responsabile dell'evento conseguente ad errate iniziative da lui prese nel corso della terapia, ancorché l'iniziale diagnosi effettuata dal primario fosse erronea”.44

44 Cass. Sez. IV, ud. 17.11.1995, dep. 31.1.1996, Ferraro, in C.E.D. rv. 205212. Nello stesso senso, vedi anche:

Cass. Sez. IV, ud. 2.5.1989, dep. 13.5.1989, Argelli, in C.E.D. rv. 181340.

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