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STONE DESIGN

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Academic year: 2021

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STONE DESIGN

STONE DESIGN

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Editoriale

Alfonso Acocella, Veronica Dal Buono Issue editors

Essays

Alfonso Acocella, Laura Badalucco, Maurizio Barberio, Angelo Bertolazzi, Shajay Bhooshan, Luca Casarotto, Francesco Dell’Aglio, Loredana Di Lucchio, Giuseppe Fallacara, Matteo Generelli,

Carla Langella,Viktor Malakuczi, Vincenzo Minenna, Vincenzo Pavan, Dario Scodeller,Edoardo Tibuzzi, Viviana Trapani, Davide Turrini

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2 A. Acocella MD Journal 1 2016[ ]

MD Journal

Numero 6, Dicembre 2018 Anno III Periodicità semestrale

Direzione scientifica Alfonso Acocella Direttore Veronica Dal Buono Vicedirettore Dario Scodeller Vicedirettore Comitato scientifico

Alberto Campo Baeza, Flaviano Celaschi, Matali Crasset,

Claudio D’Amato, Alessandro Deserti, Max Dudler, Hugo Dworzak, Claudio Germak, Fabio Gramazio, Massimo Iosa Ghini, Hans Kollhoff, Kengo Kuma, Manuel Aires Mateus, Caterina Napoleone,

Werner Oechslin, José Carlos Palacios Gonzalo, Tonino Paris, Vincenzo Pavan, Gilles Perraudin, Christian Pongratz, Kuno Prey, Patrizia Ranzo, Marlies Rohmer, Cristina Tonelli, Michela Toni, Benedetta Spadolini, Maria Chiara Torricelli

Comitato editoriale

Alessandra Acocella, Chiara Alessi, Luigi Alini, Angelo Bertolazzi, Valeria Bucchetti, Benedetta Caglioti, Rossana Carullo,

Maddalena Coccagna, Vincenzo Cristallo, Federica Dal Falco, Vanessa De Luca, Barbara Del Curto, Giuseppe Fallacara, Anna Maria Ferrari, Emanuela Ferretti, Lorenzo Imbesi, Alessandro Ippoliti, Carla Langella, Alex Lobos, Giuseppe Lotti, Carlo Martino, Patrizia Mello, Giuseppe Mincolelli,

Kelly M. Murdoch-Kitt, Pier Paolo Peruccio, Lucia Pietroni,

Domenico Potenza, Gianni Sinni, Sarah Thompson, Vita Maria Trapani, Eleonora Trivellin, Gulname Turan, Davide Turrini, Carlo Vannicola, Rosana Vasquèz, Alessandro Vicari, Stefano Zagnoni, Michele Zannoni, Theo Zaffagnini, Stefano Zerbi

Procedura di revisione Double blind peer review Redazione

Giulia Pellegrini Art direction, Federica Capoduri, Annalisa Di Roma, Fabrizio Galli, Monica Pastore

Promotore

Laboratorio Material Design, Media MD

Dipartimento di Architettura, Università di Ferrara Via della Ghiara 36, 44121 Ferrara

www.materialdesign.it

Rivista fondata daAlfonso Acocella, 2016 ISSN 2531-9477 [online]

ISBN 978-88-85885-02-8 [print]

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Grafiche Baroncini

Rivista scientifica di design in Open Access

Le immagini utilizzate nella rivista rispondono alla pratica del fair use (Copyright Act 17 U.S.C. 107) recepita per l’Italia dall’articolo 70 della Legge sul Diritto d’autore che ne consente l’uso a fini di critica, insegnamento e ricerca scientifica a scopi non commerciali.

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In copertina

Aqvadra, dettaglio, Studio AAIDO MA, prod. AlfaMarmi, 2015, ph. Gaetano Del Mauro

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STONE DESIGN

MD Journal 6 2018

Stone Design. La materia litica è il tema Alfonso Acocella, Veronica Dal Buono Essays

Alle origini del design litico Alfonso Acocella

Gli Artieri dell'alabastro di Volterra Davide Turrini

Superfici litiche (1930-1940) Angelo Bertolazzi, Vincenzo Pavan

Il design nelle produzioni in pietra lavica dell’Etna Viviana Trapani

Pietra ancestrale

Francesco Dell’Aglio, Carla Langella Immateriale in materiale

Viktor Malakuczi, Loredana Di Lucchio Lapella Chair

Maurizio Barberio, Shajay Bhooshan, Giuseppe Fallacara, Matteo Generelli, Edoardo Tibuzzi

Dallo scarto al valore

Laura Badalucco, Luca Casarotto Innovazione di senso nel design litico Vincenzo Minenna

Design litico e retail design Dario Scodeller

Editoriale 6

14 50 68 80 94 108 118

130 142 156

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7 A. Acocella, V. Dal Buono

EDITORIALE

STONE DESIGN.

LA MATERIA LITICA È IL TEMA

Alfonso Acocella Università di Ferrara, Dipartimento di Architettura alfonso.acocella@unife.it

Veronica Dal Buono Università di Ferrara, Dipartimento di Architettura veronica.dalbuono@unife.it

6 → 11

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A. Acocella Orcid id 0000-0003-3707-8859 V. Dal Buono Orcid id 0000-0003-0348-0225 ISSN 2531-9477 [online], ISBN 978-88-85885-02-8 [print]

Dopo aver affrontato una serie di temi di natura trasver- sale [1], il numero 6 di MD Journal propone una riflessi- one centrata su una materia “particolare”. La materia litica e più in generale l’universo litologico sono messi in rap- porto con il design inteso nella sua accezione di “processo formalizzante”.

Partendo dal rapporto tra materia e forma, per dirla con le parole di Vilém Flusser: «Se la forma è l’opposto del- la “materia”, allora non esiste nessun design che si possa definire “materiale”: è sempre in-formatrice. E se la forma è il “come” della materia, e la materia il “che cosa” della forma, allora il design è uno dei motodi per conferire for- ma alla materia e farla apparire così e non in altro modo.

Il design, come tutte le espressioni culturali, mostra che la materia non appare (non è appariscente) se non nella misura in cui la si in-forma, e che, una volta in-formata, inizia ad apparire (diventa fenomeno)» [2].

La comunità dei ricercatori interessati al Tema è stata invitata a leggere la materia litica come risorsa “prezio- sa”, oltreché per la sua varietas, perché non rinnovabile, indagandola attraverso un filtro critico oscillante fra la disamina dei caratteri naturali (originari) e di quelli ar- tificiali (trasformativo-configurativi) indotti dall’azione dell’uomo.

Lo sguardo indagativo-interpretativo dei saggi presen- tati, cerca quindi di rispondere – sia retrospettivamente, sia nella dimensione contemporanea – al quesito primo formulato in avvio dell’indagine: a quale tipo di design la materia litica sembri prestarsi meglio e quali approcci

progettuali siano a lei più appropriati, idonei e congeniali.

L’uomo ha iniziato a confrontarsi con l’universo litico sin dai primordi, per proseguire attraverso manifestazi- oni più coscienti, mirate e intenzionali, intravedendo in questa materia – offerta dalla natura in una assai ampia varietà di tipi, di durezze, di configurazioni geometri- co-dimensionali – una risorsa propizia per farne arma, monile, strumento di lavoro, oggetto domestico o pubbli- co, recinzione, casa, palazzo, monumento, tomba.

Oggi, nell’era della rivoluzione informatica, l’uomo af- fronta il più antico e duraturo dei materiali con fare es- plorativo altrettanto interessato.

Vocazioni formali

«Le materie – per riprendere le parole di Henri Focillon – comportano un certo destino o, se si vuole, una certa vo- cazione formale. Esse hanno una consistenza, un colore, una grana. Sono forme, come dicemmo, e per ciò stes- so, chiamano, limitano o sviluppano la vita delle forme dell’arte. Sono scelte, non soltanto per la comodità del lavoro, oppure, nella misura in cui l’arte serve ai bisogni della vita, per la bontà del loro uso, ma anche perchè si prestano ad un certo trattamento particolare, perchè dàn- no certi effetti. (...) Ma giova osservare subito che questa vocazione formale non è un determinismo cieco, poichè – e qui è il secondo punto – quelle materie così ben car- atterizzate, così suggestive ed anche così esigenti riguar- do alle forme dell’arte sulle quali esercitano una specie di attrazione, si trovano da queste, di rimbalzo, profonda- mente modificate.

Così si stabilisce un divorzio tra le materie dell’arte e le materie della natura, anche se unite fra loro da una rig- orosa convenienza formale. S’assiste allo stabilirsi di un ordine nuovo. Sono due regni, anche se non intervengono gli artifici e la fabbrica» [3].

Quale, allora, ci domandiamo sia l’essere della materia lit- ica e quale la vocazione del suo design.

Il design litico ha sempre rappresentato una forma di de- sign singolare, sia sotto il profilo dei modi e delle des- tinazioni funzionali a cui la materia è stata sottoposta e indirizzata, sia per quanto riguarda la committenza e il mercato che, nel tempo, ne ha sollecitato l’utilizzazione e la valorizzazione, con una domanda di artefatti ristretta, spesso elitaria, che dall’antico è giunta fino alla contem- poraneità.

In genere si è trattato di famiglie tipologiche di prodotti destinati a interni domestici (nella forma sia dei rivesti- menti che dei complementi di arredo), a spazi inter-ester- ni (con oggetti per terrazze, piscine, cortili, atrii, giardi-

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ni, l’attuale outdoor) o agli spazi pubblici (con fontane, sedute, cippi, superfici memoriali).

Artefatti “in solido”, contraddistinti da alcuni caratteri univoci e altri ricorrenti, capaci – in casi specifici – di valorizzare latenti potenzialità fisico-formali che la mate- ria litica è in grado di mettere a disposizione degli artefici (oggi designer) impegnati nella sua messa in-forma e in- terpretazione d’utilizzo.

Le vocazioni formali della materia litica non possono non dipendere che dalla sua essenza, dalla sua natura, derivante dai caratteri costitutivi delle molteplici e var- iegate classi di litotipi esistenti: graniti, porfidi, marmi, alabastri, onici, pietre calcaree, pietre dure…

Composizione mineralogica, colore, grana, disegno, di- mensioni giacimentologiche, hanno consentito di assec- ondare scalarità, assetti, trattamenti, forme, funzionalità molto diverse fra loro, con maggiore o minore successo di risultati, nel progetto di artefatti per soddisfare le esi- genze e le aspettative dell’uomo, indirizzando di volta in volta, la materia verso attese ed esiti finali variati, talora imprevedibili.

Tali caratteristiche e vocazioni ci restituiscono le declinazioni con cui, di volta in volta, il tema litico può essere esplicitato, morfologie talora riguardabili come antinomiche, di doppia natura, se non addirittura oppos- itive fra loro.

Nelle trattazioni argomentative presentate nel volume, i rimandi semantici che distinguono la materia litica rispet- to ad ogni altra formalizzabile dal processo di design, si presentano in forma di antinomie rivelatrici del suo “co- dice genetico”.

Naturalità e artificialità rappresentano la coppia di- alettica che per prima si impone alla lettura interpre- tativa, discernendo tra i caratteri naturali d’origine del materiale litico e quelli trasformativi indotti dall’uomo sulla materia, progressivi e crescenti in funzione delle tecnologie disponibili nelle diverse epoche, sino alla creazione di “nuove” materie artificiali in mimesi ana- logica alla materia litica d’origine come le pietre artifi- ciali; micro e macro-dimensionalità della pietra – qual- ità unica tra tutte le materie [4] – capace di conservarsi intera anche nel frammento, atta ad essere portatrice di senso nella forma del masso imponente cavato dalla roccia, in quella degli elementi costruttivi e strutturali dell’architettura, nella dimensione dell’oggetto, quanto del frammento, della pezzatura granulometrica minima funzionale al recupero, alla rigenerazione; bidimension- alità e tridimensionalità, come l’intervallo tra la spin- ta sottigliezza delle lastre contemporanee, esili come

lamine, e la configurazione volumetrica estremizzata, resa possibile plasmando il blocco con le contemporanee macchine a controllo numerico in tracciati complessi e inusitati, con inclinazioni multiple e orientamenti sot- tosquadro; leggerezza e pesantezza, naturale proseguo delle esplorazioni sulle coppie semantiche precedenti, ove micro-dimensione e bidimensionalità conducono la materia litica ad acquisire caratteri di leggerezza, di levità, finanche di grazia, che paiono contraddire la sua natura originale, spessa, grave, ponderosa; monocroma- ticità e policromia che assieme a uniformità e disegno, conferiscono alle superfici l’infinita varietas, quando in superficie emergono misteriose continuità coloriche oppure seducenti e magici policromatismi, evidenziati da venature, brecciature, linee stratigrafiche che ne seg- nano come in una pittura i campioni; opacità antitetica a lucentezza – come le categorie di fulgor e splendor, da sempre associate alle pietre preziose ove la luce river- bera come fosse emanata dalle pietre stesse – sono cat- egorie estensibili anche al mondo delle superfici o agli oggetti di design litico, quando le superfici assorbono la “pressione” esercitata dalla massa terrestre facendo- si oscure e impenetrabili, oppure quando, attraverso il

“polimento” che conferisce lustratura, raggiungono fi- nanche l’effetto di traslucenza. È proprio la lucentezza a portare in evidenza massima sulla superficie, la natura dell’universo litologico, dissimulandone la bidimen- sionalità, compensandone la mancanza di profondità, conferendo alle superfici una energia di vita autonoma.

Il design litico contemporaneo, per proseguire la con- catenata progressione di antinomie, è ancor oggi mosso e indirizzato – possiamo attestarlo – tra artigianalità e industrializzabilità.

I mercati registrano oggi in tutti i campi del design, la richiesta di un passaggio dall’omologazione dei prodotti alla singolarità, dalla standardizzazione alla diversificazi- one e personalizzazione.

Nell’epoca che vede da un lato la rivoluzione legata alle tecnologie informatizzate e dell’altro il ripensamento dei modi produttivi non più orientati esclusivamente alle grandi serie di prodotti, il design litico contemporaneo ritrova – attraverso oggetti unici, singolari o in serie lim- itata, ma pur sempre di elevata qualità e valore aggiun- to – una propria e specifica collocazione nell’ambito dei mercati internazionali di alta gamma.

La ricerca e la materia

Oggi più che mai, prototipi sperimentali, opere uniche, oggetti di design in serie limitate, possono essere editati

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10 A. Acocella, V. Dal Buono 11 A. Acocella, V. Dal Buono produttivamente al di fuori della visione seriale e omolo-

gante di matrice fordista, sia grazie dalla flessibilità delle attuali macchine robotiche, sia attraverso la rivalutazione e l’aggiormento tecnologico dei processi esecutivi di alto artigianato, custodi di straordinari saperi e magisteri tra- mandati di generazione in generazione.

Nel corso del Novecento – con l’identificazione del design con l’“industrial design” indirizzato al mercato di oggetti seriali, ripetitivi, realizzati meccanicamente dalla mani- fattura industriale – il design litico è rimasto ancorato a una metodica produttiva laboratoriale (tendenzialmente di tipo artigianale, anche quando ha utilizzato strumenti sofisticati come negli ultimi decenni) e non sempre inter- essato – per le stesse vocazioni della materia – ad alimen- tare una dimensione quantitativa dei prodotti di design.

A questo orizzonte appartato e minoritario (in termini quantitativi, non qualitativi) di produzione specializza- ta – circoscritta in aree particolari per quanto riguarda il nostro Paese e spesso tramandata di generazione in gen- erazione quanto a mestieri, magisteri, saperi, dotazioni materiali e strumentali – appartiene una storia, sia pur in forma puntuale nel tempo e nello spazio, di artefatti litici eccellenti, in cui non manca l’autorialità di protagonisti della ricerca contemporanea: designer, architetti-design- er, designer-designer, designer-artisti, creativi in genere.

I contributi presentati in questo numero, sembrano af- fermare che l’autentica pecularità, la cifra stilistica, del design litico (con una storia ancora tutta da scrivere, di cui questo numero non costituisce che un principio di indagine), risiede nel non aver rincorso il modello di una produzione di tipo industriale seriale, quanto avere as- secondato la prosecuzione di una tradizione fortemente orientata al concepimento e alla realizzazione di artefatti di elevata qualità, unici o replicati in serie limitate, ma sempre – alla fine – valorizzativi della singolarità della materia litica.

Il contributo di Acocella, in apertura al volume, pre- senta una fondamentale testimonianza riferita al ruolo della materia litica nel design, scendendone alle radi- ci, ricercandone lo stadio di gestazione e fondazione, andandone a svelare le origini nell’architettura monu- mentale, negli allestimenti d’interni, negli stessi arte- fatti scenici e oggetti d’arredo dell’edilizia pubblica e privata dell’Età romana. Il racconto, con rigorosa ar- gomentazione e intessuto di singolari e inedite imma- gini, intende riavvicinare concettualmente le vicende del design litico contemporaneo ai temi degli “inizi”, ritrovandone i modelli, i valori, gli archetipi. Scopriamo quindi attraverso la “bella materia”, le ragioni di una

rivoluzione di stile, che ha sortito effetti sulla cultura

“materiale” romana d’epoca imperiale e quindi su tutta la cultura occidentale che ne seguirà, indicando nella preziosa materia litica – che subentra al laterizio – la via alla valorizzazione, qualificazione, magnificazione estetica dello spazio e del progetto.

Si innesta nella linea retrospettiva il contributo di Turrini che, partendo dalla presentazione del progetto di riordino e analisi dell’archivio storico della Società Cooperativa degli Artieri dell’Alabastro di Volterra (tra i ’20 e la fine dei ’50 del Novecento), fa luce su di un contesto pecu- liare del design litico italiano, nel passaggio storico da bottega a laboratorio. Offre la possibilità di comprendere come il design – declinato in forma di direzione artistico- progettuale a tutto tondo – abbia storicamente innestato il rinnovamento dei processi di lavorazione dei lapidei, in- dirizzando all’aggiornamento degli esiti formali degli ar- tefatti, dai pezzi unici artigianali alla produzione seriale e favorendo lo sviluppo del modello sociale ed economico dell’impresa moderna che giunge a pianificare le strate- gie di posizionamento e promozione dei propri prodotti.

Si colloca in un quadro temporale di un doppio decen- nio (’30-’40 del Novecento) il contributo di Bertolazzi e Pavan, che focalizza l’attenzione sulle tecnologie di ri- vestimento in materiali lapidei degli edifici pubblici. Nel racconto, costruito attorno ad alcuni degli edifici pubblici rappresentativi delle politiche del tempo, emergono le caratteristiche di avanzamento tecnologico e lavorazio- ne dei prodotti in pietra destinati alle superfici esterne, agli spazi inter-esterni, unitamente ad alcuni oggetti parte dell’arredo fisso. La descrizione del prodotto litico per l’architettura nel periodo fra le due guerre, mostra come il processo di industrializzazione, coniugato alla volontà espressiva di conferire effetto di tridimensionalità mono- litica, sia stato indirizzato alla realizzazione di pezzi uni- ci, quindi riprodotti in serie con l’ausilio delle macchine, anticipando la creazione dell’artefatto di design litico contemporaneo.

Il contributo di Trapani è volto a illustrare inusitate in- terpretazioni di un materiale connotato dalla spiccata territorialità e versatilità d’uso, la pietra lavica dell’Et- na. Una materia che afferisce al paesaggio antropizzato – naturale e culturale insieme – della Sicilia, e che può essere valorizzata come importante fattore competitivo, nella consapevolezza circa la peculiarità del litotipo che pur riproducendosi ad ogni eruzione non è comunque rinnovabile. La pietra lavica alimenta modi di produzio- ne che si spingono dall’esemplare unico, quindi diffuso attraverso l’art e exhibit design, alla serialità industriale.

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Contemporanee sperimentazioni di fabbrica ripercorrono a ritroso il processo di fusione della materia, per trasfor- marla in prodotto seriale: si supera la contrapposizione tra processi naturali e artificiali, verso una crescente consape- volezza della complessità ambientale.

Il valore ancestrale ed evocativo della materia litica, con- giunto al paradigma del “limite” – nel vincolo di estra- zione, nei processi di trasformazione e produzione, nel- la limitata disponibilità – sono alla base del contributo di Dell’Aglio, Langella, che si svolge con un approccio misto, da un lato teorico-speculativo sui valori estetici e simbolici, dall’altro attraverso la pragmatica sperimenta- zione. Il contributo prefigura un orizzonte prossimo in cui la pietra sia di difficile reperimento e il progetto di design lavori, quindi, su produzioni legate alla scarsità della ma- teria, con artefatti di dimensioni ridotte e vincolate, collo- candosi nell’area di confine tra tecnologie, arte e design.

Il progetto di ricerca e di didattica “Immateriale in ma- teriale”, presentato da Malakuczi e Di Lucchio, indaga i nuovi valori semantici della pietra, valorizzando le qualità estetico-sensoriali dei lapidei in artefatti insieme iconici e tecnologici. Osserviamo esplorazioni progettuali originali che cercano una nuova ragion d’essere della pietra nel- la congiunzione con il digitale, integrando, questa volta, componenti intelligenti per trasformare prodotti normal- mente percepiti come non tecnologici, in dispositivi con nuove funzionalità.

La ricerca condotta dal gruppo di progetto di Lapella Chair intende mostrare le ultime sperimentazioni nell’uso di pannelli a forma libera in pietra naturale, rinforza- ti con l’uso di fibre di carbonio, per ridurre lo spessore della componente litica fino a pochi millimetri e raggiun- gere gradi di performance strutturali elevate. Il progetto si innesta nella ricerca di Digital Stereotomy già lancia- ta dal Manifesto (2000) da Fallacara e Barberio presso il Politecnico di Bari. Lapella Chair è una seduta dalle forme sinuose sviluppata assieme allo studio di Zaha Hadid e presentata nel 2018 come evoluzione del Moebius Sofa (2016), proseguendo la ricerca sull’ottimizzazione delle macchine robotiche e sulla progettazione algoritmica. Si prefigurano orizzonti di utilizzo anche nel settore dell’ar- chitettura, per pannelli strutturali e non strutturali.

La trattazione proposta da Badalucco e Casarotto prende avvio dalle vocazioni nascoste nei residui litici, focaliz- zando l’attenzione su quegli elementi di scarto che – fra le diverse opzioni operative del recupero – possono essere ri-rivalutati per le caratteristiche formali. Vengono illus- trati casi studio di opere-artefatti che lavorano su via geo- metrica, sull’ottimizzazione del taglio, evidenziandone

vocazioni nascoste tra la materia, la forma e la geometria.

Sono le competenze proprie del Basic design, come la composizione e la ricomposizione volumetrica, incroci- ate con gli obiettivi dell’economia circolare, ad essere in- dividuate come le potenzialità per proseguire l’innovazi- one nel progetto litico.

La ricerca proposta da Minenna indaga la multi-sensoria- lità come valore potenziale dei lapidei. L’autore presenta esperienze progettuali dove l’innovazione si fa guidare talora dalla tecnologia, talora dal design, svolgendo eser- cizi di trasformazione sinestesiche sulla materia, dove il tatto, la vista, l’udito, l’olfatto diventano elementi com- positivi, coniugati con elementi naturali come acqua, aria e luce.

Il contributo di Scodeller, infine, ripercorre il ruolo che la pietra e i materiali litici hanno avuto nel campo dell’interior design per il commercio e le modalità e le motivazioni per cui questi materiali hanno assunto, nel corso dell’ultimo ventennio, un ruolo centrale nel design per il retail legato al mondo della moda.

In conclusione, osservando il quadro complessivo dei contributi, sembra di poter affermare che l’interesse del mondo del design per la ricerca e sperimentazione di nuovi linguaggi orientati alla materia litica, quanto l’impegno per la lettura critica delle sue configurazioni storiche, si intensifichino, favoriti dalla crescente atten- zione verso le risorse naturali e limitate, promossi dal diffondersi della cultura del sostenibile e dalle conquiste processuali ed espressive rese disponibili dai sistemi dig- itali e dalle macchine robotiche.

Una possibile chiave di lettura per interpretare gli indi- rizzi contemporanei di indagine, applicazione ed espres- sione sui lapidei, vede il “processo formalizzante” con- vergere con un proponimento di dialogo continuo tra il designer e la materia, dove il progettista è chiamato a sviluppare capacità di ascolto, di mediazione, di sintesi delle numerose attitudini e competenze che si addensano attorno alla trasformazione e messa in forma dei lapidei.

Un dialogo che si svolge con l’attitudine a trovare il pun- to di congiunzione e mediazione tra componenti etero- genee e antitetiche, per agire all’interno del suo “codice genetico” e svelarne le potenzialità latenti.

Il presente numero di MD Journal, pur nella consape- volezza di non esaurire la complessità del tema, costi- tuisce un contributo alla implementazione e diffusione della cultura dei materiali litici tra designer, architetti, in- gegneri, tecnici, aziende del settore e mondo universitar- io in genere, aggiungendo una nuova tessera al mosaico della conoscenza.

NOTE[1] “Involucri sen- sibili”, vol. 1, 2016;

“Sinapsi. Design e connettività”, vol. 2, 2016;

“Design paramen- trico”, vol. 3, 2017;

“Design & Industry 4.0”,

vol. 4, 2017;

“Design e Territori”, vol. 5, 2018.

[2] Vilém Flusser,

“Forma e Materia”, p. 12, in Filosofia del design, Milano, Bruno Mondadori, 2003 (ed. or. 1993), pp. 153.

[3] Henri Focillon,

“Le forme nella materia”, p. 52, in Vita delle forme, Torino, Einaudi, 1972 (ed. or 1943), pp. 134.

[4] Roger Caillois, “Il senso dila- pidato”, p. 54, in Malversazioni, Roma, Meltemi, 2003 (ed. or. 1993), pp. 64.

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15 A. Acocella 14 49

Il focus e la struttura argomentativa dell’essay prende le mosse dalla posizione, espressa da Andrea Branzi nel volume Introduzione al design italiano. Una modernità in- completa, che valuta la storia recente dell’industrial design – così come prodottasi e, soprattutto, “vulgata” nel Paese –

«una sorta di teoria riduttiva, perché ha reso inutilizzabili le complesse e ricche vicende della storia antica» (Branzi, 1999, p. 10).

Il saggio si propone di riprendere il filo di questa storia, bruscamente e artatamente interrotta, cercando, di riavvi- cinare concettualmente le vicende del design italiano con- temporaneo – nel caso specifico del design litico – alle sue radici, allo stadio sperimentale e fondativo degli Inizi.

Bella materia, Grandiosità, Animismo, Elitarietà, Autorap- presentazione

The focus and the content structure of the essay starts from the position expressed by Andrea Branzi in the book Introduction to Italian Design. An in-complete modernity, which evaluates the recent history of industrial design – as produced and, above all, “vulgate” in the country – «a sort of reductive theory, because it made the complex and rich history of ancient history unusable» (Branzi, 1999, p. 10).

The essay aims to take up the thread of this story, abruptly and artfully interrupted, trying to conceptually reconcile the events of contemporary Italian design – in the specific case of the lithic design – to its roots, to the experimental and foundational stage of the Beginnings.

Beautiful material, Majesty, Animism, Elitism, Self-repre- sentation

A. Acocella Orcid id 0000-0003-3707-8859

ISSN 2531-9477 [online], ISBN 978-88-85885-02-8 [print]

La “bella materia”

«Chi s’aggiri ancor oggi per il Palatino, per i Fori, per le rovine di terme e di monumenti, vedrà tra i sassi e la ter- ra smossa, soprattutto dopo la pioggia, spiccare scaglie e frammenti di varie sorta di marmi colorati. Questi fram- menti non sono pietre originarie del suolo di Roma, ma vengono da tutte le parti dell’Impero.

“I monti d’oriente, i monti d’occidente

d’Austro e di Borea, mandan marmorei drappi a comporre tinto nell’iride il manto imperiale

a la città fatale”.

Queste parole d’un poeta romano del secolo scorso non sono un’esagerazione. La Spagna, la Mauritania, la Numidia, la Tripolitania, l’Egitto, l’Asia, la Grecia, le Gallie, ogni provincia ha mandato il suo contributo di pietre a Roma né c’è quasi marmo, usato nella più remota località dell’Impero, che non sia in qualche modo rappresentato a Roma, o di cui non si sia rinvenuto ai nostri giorni o in antico qualche frammento negli scavi. Talune varietà di marmi, al dire di Plinio, provenivano perfino dall’India e da Taprobane, l’odierna Ceylon» (Gnoli, 1988, p. 5).

Con questo incipit Raniero Gnoli dà avvio, nel suo Marmora romana – uno dei più penetranti e documentati studi sui marmi antichi –, al tema dell’utilizzo della “bella materia” nell’architettura monumentale, negli allestimen- ti d’interni, negli stessi artefatti e oggetti d’arredo dell’edi- lizia pubblica e privata romana.

Quali le circostanze, le pulsioni, gli elementi peculiari della materia litica che concorrono alla “fortuna” e allo sviluppo d’uso dei litotipi (soprattutto colorati) sin dal II sec. a.C. per giungere, poi, in epoca imperiale, alla codifi- cazione di un gusto, di uno stile peculiarmente romano?

La conquista – prima – della Grecia e dell’Asia Minore (II sec. a.C.) e, poi, dell’Egitto tolemaico (30 a.C.) consente ai romani l’espansione in tutto il Mediterraneo portandoli a contatto con le civiltà che già avevano utilizzato i marmi – bianchi o colorati – in elementi costruttivi “in solido” nel- le loro architetture grandiose e di prestigio; ma rispetto a esse, introducendo numerosi caratteri di originalità, la civiltà romana sviluppa la ricerca e la codificazione di uno stile peculiare che si estende progressivamente dall’archi- tettura monumentale agli spazi pubblici all’aperto, dalle ville suburbane alle domus di città, dall’arte scultorea agli oggetti d’arredo decorativo.

Le pietre e i marmi colorati diventano, con Roma impe- riale, i materiali “status symbol” per eccellenza, mediante i quali si esibisce il potere politico acquisito o la ricchez- Alfonso Acocella Università di Ferrara, Dipartimento di Architettura

alfonso.acocella@unife.it

Alle origini del design litico

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za accumulata da parte delle classi più facoltose. Narra Svetonio che, giustamente, Augusto si gloriò di aver ereditato dai precedessori una Roma costruita di matto- ni (oltretutto mattoni cotti al sole) e di averla trasmessa ai posteri attraverso la solidità e la bellezza dei marmi (Zanker, 1987).

Numerose sono le classi di artefatti litici di qualità ec- cellente e di grandi dimensioni – se non addirittura mo- numentali – posti a caratterizzare, in epoca imperiale, luoghi e architetture della sfera pubblica (fori, piazze e strade, terme, templi) o a concorrere allo sfarzo di spazi interni dell’edilizia privata a partire dalle ville d’otium, per poi diffondersi nelle domus urbane delle ricche classi ari- stocratiche e mercantili di Roma e delle città di provincia.

01 Marmi antichi.

Collezione conservata presso i Musei Capitolìni, Roma (fonte:

Caterina, 2001) 02 Pavimento in alabastro degli Horti Lamiani.

Musei Capitolini, Roma (ph. A. Acocella) 01

02

Grandiosità e dominio della materia litica

Poste a testimoniare la forte presenza, la varietà e la ric- chezza dei litotipi colorati nella civiltà romana sono innan- zitutto gli artefatti in forma di bacini circolari o di vasche oblunghe di cui ci sono pervenuti significativi esemplari.

Dimensioni monumentali assumono una serie di macro oggetti, testimonianze tangibili di un perfetto dominio della materia litica e della ricerca di grandiosità nell’epoca imperiale, destinati a fini puramente decorativi, come il colossale bacino circolare in porfido rosso egiziano (dal- la circonferenza di tredici metri e un diametro di circa 5 metri) attualmente esposto nella Sala Rotonda dei Musei Vaticani o il bacino in “granito verde del Foro” del Monte Claudiano nel deserto orientale egiziano (con un diame- tro di sei metri) riusato in forma di solenne fontana nella piazza del Quirinale a Roma.

Artefatti litici antichi di grande mole e maestria esecutiva sono, inoltre, attestati da una serie di vasche oblunghe di cui due – in “granito verde del Foro” – risultano riutiliz- zate come fontane simmetriche in Piazza Farnese a Roma (rispettivamente di 6 e 6,25 metri); altre due vasche, en- trambe di granito egiziano, si trovano invece posizionate nel giardino di Boboli (di 6,55 metri quella collocata nello spazio dell’Anfiteatro, di 5,6 metri quella nel Cortile della meridiana).

Caratteristiche tipologiche e stilistitiche simili sono rin- tracciabili in tre vasche oblunghe (in questo caso superiori ai tre metri): due, in granito grigio e granito rosa egiziano, sono collocate nel cortile Ottagono dei Musei Vaticani;

la terza, in pavonazzetto, è esposta nel Museo Nazionale Romano all’interno delle Terme di Diocleziano.

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18 A. Acocella 19 A. Acocella Artefatti monolitici, quelli finora menzionati, la cui scala

volumetrica e l’uso prevalente di materiali duri di prove- nienza egiziana suggeriscono una committenza verosi- milmente imperiale, o quantomeno di alto rango legata all’aristocrazia romana.

A fronte del ristretto numero di bacini circolari e vasche di grandiosa scalarità pervenuteci è da evidenziare l’eleva- ta consistenza numerica di esemplari di medie e piccole dimensioni, realizzati con marmi colorati o bianchi, che costituiscono il repertorio più ampio e diffuso restituito dagli scavi e dalla ricerca archeologica.

Peculiarmente romana è la famiglia delle vasche oblun- ghe a lati rettilinei e curvi, di cui già si sono citati monu- mentali esemplari. Tale classe di artefatti è caratterizzata da un assetto volumetrico compatto ed espanso, ottenuto dall’associare ai due lati longitudinali rettilinei, due lati curvi che, nel loro sviluppo spaziale, danno vita a un so- lido cavo con pareti svasate, degradanti dall’alto verso il basso; a concludere superiormente le vasche è posto, in genere, un labbro aggettante verso l’esterno con estrados- so curvo, o anche piatto. Tre i principali sottotipi:

– il primo presenta pareti lisce con elementi figurativi in rilievo, a volte rappresentati da coppie di anelli circolari a simulare maniglioni, altre con raffigurazioni di proto- mi feline (singole o in coppia);

– il secondo sottotipo si caratterizza per una lavorazio- ne delle superfici molto elaborata – affidata al motivo, tipicamente romano, della strigilatura con scanalature curve – impreziosita, a volte, da protomi leonine che

03 Sezioni di bacini e basamenti in porfidi e graniti egiziani (fonte:

Gnoli, 1988) 04Bacino monumentale in porfido rosso egiziano. Musei Vaticani, Roma (ph. A. Acocella)

05Bacino monumentale circolare in granito verde egiziano. Piazza del Quirinale, Roma (ph. A. Acocella) 06Bacino circolare fastoso in porfido rosso egiziano. Museo Archeologico Nazionale di Napoli (ph. A. Acocella) 07Vasca monumentale in granito verde egiziano. Giardini di Boboli, Firenze (ph. A. Acocella) 03

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in alcuni esemplari stringono nelle fauci degli anelli circolari;

– il terzo sottotipo presenta anch’esso pareti lisce ma

«con spigoli all’incontro» (Ambrogi, 1995, p. 20) e mo- tivi plastici a rilievo.

Le vasche di questa classe tipologica sono viste come derivazione o, quantomeno, come evoluzione delle più utilitarie vasche da bagno (pyelos) di origine greca, par- ticolarmente diffuse in epoca ellenistica, configurate in forma di tinozza.

Rispetto alle potenziali suggestioni formali derivate dalle piccole vasche da bagno greche si passa con gli esemplari litici romani a grandi, se non monumentali, vasche di solo arredo decorativo in una perfetta definizione volumetri- co-formale, a cui gli ornati aggiungono elementi di fine completamento plastico; modellati che, nelle ricorrenti raffigurazioni di protomi feline, rappresentano una ripre- sa e reinterpretazione di temi dell’iconografia greca, che a sua volta li eredita dalla tradizione egiziana.

La maggior parte dei bacini e vasche, di cui sin qui si è trattato, trovano la loro massima diffusione fra il I e il II sec. d. C. quando la tecnica di lavorazione dei litotipi co- lorati – anche di quelli più duri come i porfidi, i graniti, il basalto provenienti dall’Egitto – è ampiamente acquisita, specializzata e qualificata in laboratori urbani (o periferi- ci) di Roma, grazie anche all’apporto di lapicidi emigrati nella capitale dalle regioni orientali.

Nel contesto produttivo della capitale potrebbe essere sta- ta realizzata la maggior parte, se non la quasi totalità, di queste classi di artefatti litici rivolti a una committenza elitaria utilizzando i litotipi più svariati: da quelli durissi- mi – granito (grigio e rosa), porfido (rosso, verde, nero), basalto (nero, verde, marrone) – fino alla variegata gam- ma di marmi e pietre colorate quali il rosso antico, verde antico, giallo antico, bigio antico, portasanta, pavonazzet- to, alabastro, cipollino, breccia, senza escludere i meno caratterizzati marmi bianchi (Pensabene, 1997, pp. 43-54, Pensabene, 2002, pp. 50-67)

Una classe diversa di vasche decorative è caratterizzata da una configurazione tettonica, sostanzialmente trilitica, composta da tre elementi: la conca marmorea vera e pro- pria sollevata da terra (una sorta di architrave in forma di bacino scavato) e da due supporti verticali laterali in forma di piedritti di sostegno.

Annarena Ambrogi (1995) suddivide questa famiglia ti- pologica in due sottotipi: il primo include al suo interno vasche di qualità più elevata (quanto ad adozione di mar-

08Tipologie di vasche ornamentali a lati rettilinei e curvi (fonte:

Ambrogi, 1995) 09Vasca ornamentale in pavonazzetto.

Museo Nazionale Romano-Terme di Diocleziano, Roma (ph. A. Acocella)

10Vasca ornamentale in granito grigio egiziano. Musei Vaticani, Roma (ph. A. Acocella) 08

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22 A. Acocella 23 A. Acocella mi rari, preziosi, e a caratteristiche morfologico-stilistiche

fortemente variate) al punto da poter considerare ogni esemplare come un unicum; il secondo gruppo, dal dise- gno e tipo di lavorazione stereotomica più standardizzata, raggruppa invece vasche sostanzialmente simili fra loro, contraddistinte da una semplificazione delle modanature superiori e inferiori, frutto di una possibile “produzione di serie” effettuata in laboratori in cui i lapicidi hanno come riferimento modelli comuni da copiare e riprodurre senza uno specifico apporto creativo personale.

Vasche a lati rettilinei, di medie e grandi dimensioni, sono documentate copiosamente a Roma con uso di marmi colorati, sia pur oggigiorno sempre decontestualizzate ri- spetto ai luoghi originari: edifici pubblici, terme, parchi, grandi giardini di ville e domus aristocratiche.

Esemplari rinvenuti in situ sono attestati, invece – oltre che a Delos – nelle città vesuviane, in particolare a Pompei (casa dei Vettii, casa di Obellius Firmus); le vasche pompe- iane – con caratteristiche dimensioni contenute e adozio- ne di marmi bianchi – sono collocate negli atrii, nei peri- stili o nei giardini svolgendo il ruolo funzionale di raccolta di getti d’acqua di piccole fontane ornamentali.

L’abitare lussuoso romano

A differenza delle abitazioni contemporanee, dove regna la privacy e quindi la difesa degli ambienti domestici dalla vita sociale e dalle relazioni di lavoro, nella casa romana – soprattutto nelle ricche domus cittadine e nelle lussuose ville di vacanza – si legge una più articolata dialettica frui- tiva dello spazio interno. Paul Zanker, autore di un illumi- nante lavoro sulle forme antiche dell’abitare, ci offre uno spaccato di tale spazio che, sotto l’influenza ellenistica, si diffonde nella civiltà italica e romana di età tardo repub- blicana e assume alla fine, in epoca imperiale, una propria e peculiare fisionomia in grado di influenzare la cultura progettuale dell’allestimento degli interni insieme a tutto ciò che costituisce l’arredo decorativo delle residenze.

«La casa romana – per dirla con le parole di Zanker – era un centro di comunicazione sociale e di autorappresen- tazione dimostrativa. Già la sua facciata e il suo ingresso rivelano lo status del proprietario; di giorno, quando i por- toni stavano aperti, dall’entrata si poteva guardare in pro- fondità verso l’interno grazie alla sapiente messa in scena degli assi visivi. Se ci si basa sulle case di Pompei, anche nel ceto medio regnava una profusione di spazio enorme, almeno per i nostri standard; ma tale profusione, come l’intero arredo, era al servizio dell’autorappresentazione del padrone di casa. Il criterio fondamentale nell’organiz- zazione dello spazio era la chiara distinzione tra le parti rappresentative della casa, destinate alla frequentazione sociale, e gli ambienti puramente funzionali dell’infra- struttura (dalla cucina alle camere per il personale). […]

11Vasca ornamentale in giallo antico.

Museo Nazionale Romano-Terme di Diocleziano, Roma (ph. A. Acocella) 12Tipologie di vasche ornamentali a lati rettilinei (fonte:

Ambrogi, 1995)

13Atrio tetrastilo con cartibulum e impluvio marmorei della Casa del Labirinto a Pompei (ph. Luciano Romano, da Mazzoleni, 2004) 11

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La moderna cultura abitativa borghese è caratterizzata dall’assegnazione fissa di determinate stanze a determina- te funzioni della vita quotidiana e da un arredamento che modella conseguentemente lo spazio (stanze da letto e da pranzo, soggiorni, camere per bambini ecc.); nella casa romana, al contrario, le stanze arredate in maniera rap- presentativa venivano impiegate in molti modi: negli stes- si luoghi di giorno si svolgeva la vita familiare, i bambini giocavano, venivano accolti clienti e visitatori, schiavi e liberti ricevevano i loro incarichi, e probabilmente passa- vano anche i locatari di appartamenti e botteghe, mentre verso sera venivano ricevuti gli ospiti della cena.

Vi erano meno mobili che da noi, ed erano più facilmente spostabili. Gli stessi letti per i banchetti potevano essere comodamente portati da una stanza all’altra a seconda delle necessità; soprattutto mancava quella grande quan- tità di armadi e scaffali di ogni tipo che è il simbolo del bisogno di accumulare e conservare così caratteristico del modo di abitare moderno. Si potevano quindi valorizzare molto di più le stanze in quanto tali, decorandole per in- tero» (Zanker, 1993, p. 15).

Ornamentazione e spazio rappresentativo e della vita relazionale si fondono, sin dalla fase tardorepubblicana, in programmi unitari nell’architettura domestica delle classi elevate di Roma (capitale, centro del potere e delle ricchezze) e, poi, in età imperiale, di tutte le città di pro- vincia, sul modello delle lussuose abitazioni ellenistiche a peristilio di Pella, di Olinto, di Delo.

In questa accresciuta profusione di spazi, tutti i generi ar- tistici disponibili – pittura, mosaico, opus sectile, stucco, arredo decorativo – sono chiamati a svolgere importanti e

impegnativi programmi allestitivi ai fini dell’autorappre- sentazione dei ricchi proprietari, in quanto sia il livello di trattamento parietale e pavimentale, sia l’arredo fisso e quello amovibile, rientrano nella sfera del confronto e della forte competizione sociale instauratasi, già dalla fase tardorepubblicana, fra le singole personalità politiche e fra i vari gruppi sociali emergenti.

È importante che l’ospite, accompagnato attraverso gli spazi della casa, riceva una sensazione tangibile e vivi- da sia della sua ampiezza dimensionale, sia dello sfarzo allestitivo e ornamentale profuso; per questo motivo gli ambienti più importanti dell’abitazione, quali le sale per banchetti, si aprono spesso direttamente sugli atria ri- ammodernati, o sui peristili con cortili colonnati di più recente influenza ellenistica: spazio, decorazione, colori, rappresentazioni, rimangono – alla fine – inscindibilmen- te legati e reciprocamente convergenti verso un risultato unitario e coerente esteticamente. I pochi oggetti di ar- redamento che si inscrivono negli ambienti delle domus romane (quali sedie e sgabelli, tavoli serventi, letti tricli-

14Spaccato assonometrico della Casa del Labirinto a Pompei (Mazzoleni, 2004) 15Veduta angolare dell’oecus corinzio della Casa del Labirinto a Pompei (ph. Luciano Romano, da Mazzoleni, 2004) 14

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26 A. Acocella 27 A. Acocella nari coperti di stoffe multicolori) lasciano libere, in primo

piano, le superfici parietali e pavimentali il cui trattamen- to suntuoso, policromatico, svolge un ruolo di primaria importanza ricercando effetti scenografici e sensuali.

All’interno dello spazio delle domus, sostanzialmente vuo- to, si esprime con esuberanza materica, coloristica, figura- tiva la condizione di elitarietà e di ostentazione del lusso;

sono questi i principali segni distintivi di uno stile ricercato, i topoi di quella luxuria romana, tanto criticata dagli austeri censori dei nuovi modi di vita della ricca società romana.

A fornire influenti modelli di riferimento è, in origine, la ricca aristocrazia senatoriale e, successivamente, le perso- nalità di vertice della politica romana, in primis le figure degli imperatori a partire da Augusto (Zanker, 1987). La tendenza autocratica nella gestione del potere e delle ri- sorse economiche dello Stato, di cui si fanno interpreti – sempre più marcatamente – alcuni successori di Augusto, porta alla costruzione di residenze personali che assurgo- no al rango di splendide regge, al cui confronto – come sarà sottolineato da Svetonio – la stessa Casa del Divo Augusto sul Palatino appare modesta.

Soprattutto sotto Tiberio, Caligola, Nerone, Domiziano, Traiano, Adriano, l’arte marmoraria fornisce il suo signi- ficativo contributo al conseguimento della grandiosità imperiale dove sontuosità e magnificenza alimentano, oramai, non solo i programmi di un’architettura pubblica ma anche le numerose residenze degli imperatori e della classe degli aristocratici, realizzate sia nello spazio urbano della capitale, sia in siti paesaggisitici fuori città, scelti – di volta in volta – per la villeggiatura e l’otium.

L’effetto di propagazione di questo gusto allestitivo degli interni ben presto influenzò anche le case dei nobiles e del- le classi agiate delle città di provincia diventando, già nella prima età imperiale, una sorta di “stile abitativo”, unani- memente ambito e imitato in tutte le regioni dell’Impero.

Visitando le cittadine distrutte dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. (Pompei, Ercolano, Oplontis, Stabia) è pos- sibile cogliere – ancora oggi, tangibilmente – l’esibizione di una architettura d’interni, coloristicamente esuberan- te, nella quale pittura decorativa o a carattere mitologico, mosaici pavimentali e parietali, opus sectile, arredi mar- morei, suppellettili preziose, rappresentano i variegati apporti allestitivi.

Dei mobili domestici di epoca romana, realizzati prevalen- temente in legno – mentre bronzo, argento, marmo saran- no adottati solo nelle domus più lussuose – anche le città vesuviane (con esclusione di Ercolano) hanno restituito solo pochi esemplari integri; tali artefatti arredativi sono conosciuti e consegnati alla memoria storica, prevalente-

mente e indirettamente, attraverso le pitture raffiguranti interni domestici o le testimonianze delle fonti scritte.

«Il mobilio di una casa pompeiana del I secolo d.C. – pre- cisa Marisa Mastroroberto – prevedeva, a seconda della vastità e complessità dell’unità abitativa, letti (con diffe- renti funzioni a seconda dell’uso e dell’ambiente di desti- nazione: lectur cubicularius o iugalis, letto per dormire, singolo o matrimoniale; lectus convivialis, letto per stare sdraiati, generalmente disposto in tre esemplari intorno a una mensa del triclinium; gli accessori del rivestimento del letto, materassi, coperte, cuscini, sono noti solo at- traverso le fonti letterarie e le rappresentazioni figurate;

tavoli rotondi (mensae) collocati davanti ai letti triclina- ri; tavoli con sostegno unico (monopodia) per l’appoggio della suppellettile usata dai convitati; tavoli per atri e giardini (cartibula), generalmente in marmo, essendo de- stinati all’esterno; tripodi come supporto per contenitori (bacini per acqua o vino, incensieri, bracieri o lucerne) o per piani d’appoggio con funzione di tavolino; sedie (sel- lae); sgabelli (scamna, subsellia); casse (cistae); casseforti (arcae), armadi (armaria); inoltre porte, candelabri, bra- cieri» (Mastroroberto, 2003, p. 110).

Nel rinnovato impianto spaziale delle domus romane trovano posto i complementi d’arredo citati il cui nume- ro, varietà tipologica e materica sono in rapporto diretto con le disponibilità economiche e le aspirazioni allestitive connesse alla cultura e al gusto dei proprietari.

Per quanto attiene agli artefatti marmorei – in funzione della resilienza alle azioni degradanti degli agenti atmo- sferici e dell’intrinseca esteticità materica – si assite, in generale, a una loro collocazione negli ambienti “inte- resterni” più rappresentativi delle domus quali sono gli atria, i peristili, i giardini.

16Casa di Marco Lucrezio Frontone.

Quadro con gli “Amori di Ares e Afrodite”

inscritto nella parete nord del tablino (ph. A. Acocella) 16

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In particolare tavoli, candelabri, tripodi, crateri, fontane, vasche e labra, erme, oscilla, sculture rappresentano nel loro insieme le classi di oggetti litici di arredo decorativo più ricercati, destinati a rimanere generalmente fissi e ad avere una vita longeva; la durata e la tramandabilità fra più generazioni di tali artefatti – soprattutto di quelli la- vorati artisticamente – favorirà, per la prima volta, anche la nascita di un mercato d’antiquariato a cui i più colti e facoltosi proprietari si rivolgeranno per le scelte allestitive e arredative delle loro domus.

La raffinatezza e il valore distintivo degli oggetti marmorei si avvarrà lungamente dell’apporto della produzione effet- tuata nelle storiche aree di estrazione dei litotipi (Grecia e Egitto, in particolare) sia mediante l’acquisto di pezzi d’ar- redo completamente finiti, sia attraverso artefatti semilavo- rati (con sbozzatura e formalizzazione parziale dei blocchi litici) completati e “tirati a lucido” – in una seconda fase – nei laboratori delle varie città che, progressivamente, si specializzeranno a partire dalle botteghe di Roma.

A dimostrazione di tale fiorente commercio vi sono i nu- merosi relitti di navi lapidarie naufragate lungo le coste del Mediterraneo – rintracciate ed esplorate dall’archeo- logia subacquea – con carichi costituiti sia da blocchi litici semilavorati, sia da opere completamente configurate de- stinati ai vari mercati dell’impero romano (Coarelli, 1983;

Pensabene, 1997).

La classe dei ricercatissimi tavoli marmorei, realizzati nei più vari litotipi colorati e bianchi, incarna – più di ogni al- tra – la visione “animista” e “scenografica” ben esplicitata da Andrea Branzi: «Mentre le case romane o pompeiane erano rivestite esternamente con un intonaco rustico, non molto diverso da quello che troviamo nelle nostre cam- pagne mediterranee, il loro spazio interno era decorato e colorato. Gli oggetti di arredo erano “abitati” da spiritelli domestici, la cui presenza era segnata con zampe e testine di animali, a conferma della loro sostanziale autonomia rispetto alle funzioni per cui erano stati costruiti: ogget- ti come presenze amiche, talismani e non soltanto nudi strumenti. Quasi “animali domestici” che proteggevano la casa tenendo lontano gli influssi negativi e la sfortuna.

Presenze protettive, antropomorfe o zoomorfe, che spes- so esibivano grandi falli per il culto dei Priapo, per tenere lontanti i ladri e per esorcizzare il malocchio. Amuleti, dunque, collocati dentro uno spazio concavo simile a un teatro, dove si rappresentava la commedia della vita.

Oggetti veri ma insieme oggetti di scena, che fingevano un ruolo attivo in una narrazione mitica […]. Questa du- plice natura dell’oggetto latino, strumento e “servo di sce- na”, appartiene al pensiero classico ma è rimasta a lungo

presente negli oggetti italiani, attraverso il Rinascimento, fino a oggi; alimentando quella segreta ambiguità (o an- che imprevedibilità) di molti prodotti del nostro design.»

(Branzi [1999], 2008, p. 29)

Al centro della concezione – del “design”, diremmo oggi – del tavolo marmoreo antico assume particolare im- portanza, più che il piano orizzontale (ovvero la mensa inevitabilmente geometrica e complanare nel suo ruolo prevalentemente utilitario di superficie d’appoggio), la definizione del sostegno verticale (unico o multiplo, a se- conda dei casi) in quanto componente litico “in solido”, liberamente configurabile in forme decorative, frequen- temente scultoree.

Tali supporti – identificati (e noti) nella letteratura ar- cheologica attraverso il termine di trapezoforo (letteral- mente, “sostegno di tavolo”) – sono attestati in ambito greco già nella tarda classicità attraverso forme semplici a “linee diritte” – spesso con terminazione a piede felino di derivazione «modelli achemènidi» (Coarelli, 1966, p.

968) – per evolvere in età ellenistica anche verso figure zoomorfe, o umane, e – infine – diffondersi con grande successo per tutta l’età imperiale romana.

Il bestiario pietrificato, posto a sostenere questi tavoli marmorei policromi romani, è costituito da sfingi, grifo- ni, aquile, leoni, leoni alati, pantere.

17Trapezoforo con protome di pantera.

Musei Capitolini, Centrale Montemarini (fonte: Di Nuccio, 2006) 18Trapezoforo con protome di leone Museo Ostiense, Ostia (fonte:

Di Nuccio, 2006) 19Trapezoforo con protome di grifo.

Museo Ostiense, Ostia (fonte:

Di Nuccio, 2006)

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SISTEMARE BASE

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30 A. Acocella 31 A. Acocella Il magnifico trapezoforo configurato a sfinge d’età au-

gustea (Zanker, 1987, p. 287) emerso dallo scavo degli ambienti prospicienti il secondo peristilio della Casa del Fauno a Pompei – domus dall’impianto spaziale e gusto decorativo tipicamente ellenistico (Zevi, 1988; Zanker, 1993, pp. 42-51) – può ben costituire l’incipit d’avvicina- mento alle diverse tipologie dei tavoli litici antichi.

La figura di sfinge alata, finemente realizzata in marmo pentelico, poggia a terra le sue gambe posteriori piegate, mentre le anteriori sono tese e proiettate in avanti assecon- dando una calcolata prosecuzione della curvatura delle ali, il cui piumaggio – ottenuto tramite un accurato lavoro a in- cisione – mette in valore la levigatezza e l’equilibrio del mo- dellato del volto; un capitello circolare, impostato sul dorso, funge da appoggio stabile della mensa. Fausto Niccolini, nell’opera in più volumi Le case e i moumenti di Pompei disegnati e descritti (1854-1896), ci restituisce una ricom- posizione di sculture e arredi della dimora; nel disegno il modellato della sfinge fa bella mostra di sé, completato dal- la mensa marmorea e dalla ricca dotazione di suppellettili.

Inseribile nei monopodia, il trapezoforo della Casa del Fauno assume il ruolo di anteprima rispetto alla trattazio- ne delle famiglie tipologiche di tavoli litici antichi – aba- cus, delphica e monopodium – attestate in ambito romano.

Il più importante tipo fra i tavoli marmorei è rappresenta- to dall’abacus – con forma quadrangolare slargata del pia-

20Sostegno di tavolo configurato a sfinge della Casa del Fauno a Pompei, attualmente nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli (ph. A. Acocella) 21Tavola dell’arredo marmoreo e delle suppellettili di Casa del Fauno (fonte: Niccolini, 1854-1896) 20

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no di appoggio – generalmente collocato all’interno degli ambienti semipubblici delle lussuose domus romane, con funzione di passaggio e accoglienza dei clientes “obbligati”

al rito mattutino della salutatio.

Soprattutto nello spazio chiaroscurale degli atri sono sistemati questi tavoli finemente intagliati (denominati anche cartibula) e posizionati, nei numerosi casi di rin- venimento in situ, generalmente al perimetro dell’im- pluvium dal lato del tablino. Dobbiamo immaginare tali tavoli marmorei riccamente apparecchiati con suppellet- tili bronzee o argentee di varia forma e dimensione quale ulteriore, tangibile e sontuosa esibizione del livello di ric- chezza dei loro proprietari.

Le attestazioni di trapezofori ci hanno restituito due tipi di supporti: semplici, dal disegno geometrico; doppi (o bifronti), plasticamente e figurativamente caratterizzati.

Il primo tipo – definibile anche “architettonico” – è rap- presentato, in genere, da supporti verticali a “linee diritte”

con zampa felina a contatto con il pavimento, pilastrino scanalato rastremato, terminazione superiore a capitel- lo in corrispondenza del quale avviene il fissaggio della mensa marmorea. Molto noto e citato, è il cartibulum rinvenuto (e ancora collocato in situ) nell’atrio della Casa di Marco Lucrezio Frontone a Pompei dove si coglie, ef- ficacemente, la coniugazione esuberante e sfarzosa fra la pittura parietale, gli elementi del piano orizzontale (im- pluvium marmoreo, mosaico pavimentale) e l’apporto dell’arredo litico costituito dall’imponente tavolo a zampe leonine posto fra impluvium e tablino.

Di più raffinata e artistica fattura risultano, invece, una serie di trapezofori bifronti (anche denominati “doppi”)

22Casa di Marco Lucrezio Frontone a Pompei: l’atrio con impluvio e tavolo marmoreo a quattro gambe (ph. A. Acocella)

23La decorazione pittorica del tablino aperto sull’atrio della Casa di Marco Lucrezio Frontone (ph. A. Acocella) 24Visione frontale del cartibulum a zampe leonine della Casa di Marco Lucrezio Frontone (ph. A. Acocella)

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34 A. Acocella 35 A. Acocella

ottenuti da masselli marmorei a forte spessore attraverso la “fusione” di due supporti in un unico piedritto: trape- zofori, in alcuni casi, di forma geometrico-architettonica, in altri di natura prevalentemente figurativo-scultorea; la superficie “di mezzo” è lasciata liscia, oppure anch’essa fi- nemente modellata a rilievo.

A fronte di trapezofori doppi meno elaborati – quali pos- sono essere considerati quelli a zampa felina e scanalature verticali (come l’esemplare rinvenuto nell’atrio della Casa del tramezzo di legno a Ercolano) – esistono attestazioni, non solo a Roma, di soluzioni plastiche più ricercate in cui figure intere (Scille, Cariatidi, Centauri, Sfingi) o protomi anima- li (grifi o leoni-arieti alati) occupano i fronti, espandendosi spesso anche sulle superfici laterali dei monoliti marmorei.

Tra gli artefatti più antichi rinvenuti a Pompei risultano di grande forza plastica i trapezofori, rinvenuti nella domus di Cornelio Rufo e caratterizzati da un plastico trattamen- to a rilievo di due coppie di leoni alati, separati figurativa- mente attraverso articolati intrecci di viticci.

Un certo apparentamento stilistico dei soggetti rappre- sentati, riscontrabile in questa serie di trapezofori doppi, ha fatto ipotizzare una loro realizzazione nell’Oriente el- lenistico, anche per il confronto e similitudine con esem- plari di Delos del I sec. a.C.

Una seconda famiglia di tavoli marmorei – realizzati nei più svariati litotipi sia bianchi che colorati – è riconduci- bile al tipo dei delphica, con tre gambe sorreggenti un pia- no di forma circolare; la denominazione deriva dall’ana- logia di assetto costruttivo rispetto al tripode sacro dell’A- pollo di Delfi. Presente nelle rappresentazioni pittoriche e a rilievo sin dalla tarda età classica, tale tipo di tavolo è prevalentemente realizzato in marmo, ma non mancano esemplari in legno, in bronzo e ageminati in argento.

25Casa del tramezzo di legno a Ercolano: l’atrio con il cartibulum e l’impluvio marmorei (ph. A. Acocella) 26Trapezoforo doppio con grifoni e satiri.

Musei Vaticani, Roma (ph. A. Acocella) 25

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I supporti di sostegno, in forma di trapezofori zoomor- fi, sono trattati normalmente in forme plastico-scultoree mediante robuste gambe.

Al fine di assicurare una efficiente stabilità ai tavoli si provvede a serrare le gambe attraverso una traversa mar- morea a tre bracci (in genere leggermente ricurvi) desi- nenti a tenone, mentre nelle facce interne dei trapezofori si procede a scavare un’apposita sede a mortasa; l’incastro è completato dall’impiego di staffe metalliche.

Gli artefatti attestati a Roma, a Ostia, nelle città dell’area vesuviana (interessanti i rinvenimenti in situ della Casa dei Cervi a Ercolano e della Casa dei Vettii a Pompei) presenta- tano mense circolari sorrette da trapezofori con protomi di leoni, pantere, leopardi, linci, aquile (o soggetti della sfera fantastico-mitica come nel caso dei grifoni) e terminazioni inferiori a zampe feline poggianti su blocchi litici regolariz- zati al fine di dotare i tavoli di una adeguata stabilità.

Se i cartibula trovano generalmente collocazione nello spazio centrale degli atria in prossimità dell’impluvium, le delphicae circolari risultano più liberamente dislocate nei vari ambienti delle domus: oltre che nelle sale tricli- nari – per sostenere vasellame e pietanze – trovano posto anche negli spazi dei giardini e delle terrazze (come at- testato dalla Casa dei Cervi a Ercolano) o fra le colonne dei peristili (è il caso della Casa dei Vettii a Pompei) con funzione prevalentemente decorativa.

La terza famiglia tipologica di tavoli marmorei è rap- presentata dai monopodia. Se si escludono i rari, grandi monopodia collocati negli spazi di rappresentanza quali atri e perisitli – come il tavolo citato della Casa del Fauno o quelli della Domus Sirici e della Domus del frutteto sempre a Pompei – le attestazioni emerse documentano prevalentemente esemplari di medie e piccole dimensioni con mensae quadrangolari sostenute da semplici supporti (colonnine, pilastrini) oppure, in alternativa, da trape- zofori figurati (ottenuti mediante assemblaggio di più elementi marmorei) la cui collocazione all’interno degli ambienti domestici prevede, spesso, un fissaggio a parete per la loro più critica stabilità.

27Trapezoforo con decorazione scultorea a tutto tondo. Museo Archeologico Nazionale di Napoli (ph. A. Acocella) 28Tavolo a tre gambe (delphica).

Musei Vaticani, Roma(ph. A. Acocella)

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Tavoli marmorei a unico sostegno con erme (fonte: De Nuccio, 2006) 27

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