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Introduzione La nuova dimensione dell io O m O T

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Academic year: 2022

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Nel lessico letterario moderno, si definisce lirica un genere di poesia fondato sulla soggettività dell’artista che, mediante i suoi versi, espri- me la propria visione del mondo, dei sentimenti e delle passioni umane1.

Ma, come ha scritto Bruno Gentili, “La poesia greca fu un fenomeno profondamente diverso dalla poesia moderna nei contenuti, nelle for- me e nei modi della comunicazione. Ebbe un carattere essenzialmen- te pragmatico, nel senso di una stretta correlazione con la realtà so- ciale e politica e col concreto agire dei singoli nella collettività…

L’elemento che la distanzia radicalmente dalla poesia moderna è il tipo di comunicazione, non destinata alla lettura, ma alla performan- ce dinanzi a un uditorio, affidata all’esecuzione di un singolo o di un coro, con l’accompagnamento di uno strumento musicale”2.

Se schematizzassimo le caratteristiche della nostra “lirica” per con- frontarle con quelle degli antichi, daremmo vita a una serie di pola- rità che risulterebbero le migliori testimonianze delle profonde rottu- re prodottesi nei quasi tre millenni che ci separano: oralità/scrittura;

pubblico/privato (lettura); musica/assenza della musica.

Servirsi della parola “lirica” per designare un fenomeno culturale- letterario così diverso è, dunque arbitrario? E da quale elemento di continuità esso è giustificato?

Il moderno concetto di “poesia lirica” nacque e prese forma nell’Ot- tocento, attraverso l’elaborazione teorica dei critici e dei filosofi del Romanticismo tedesco; in particolare è con l’idealismo dell’Estetica

1 Naturalmente, trattandosi di un discorso letterario, non teniamo conto dell’impor- tantissima accezione di “musica lirica”, nata con il melodramma ottocentesco.

2 Poesia e pubblico nella Grecia antica, Roma-Bari 1986, p. 3. A trent’anni dalla pubblicazione, il libro di Gentili resta fondamentale per conoscere la poesia lirica greca e le modalità delle performances.

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di Hegel che la suddivisione della letteratura già operante in Platone nei tre generi fondamentali – epico, lirico, drammatico – assume un valore canonico e diventa modello di sviluppo dello spirito umano.

Da allora, l’epos è il genere dell’oggettività, la lirica è strettamente connessa alla soggettività e il dramma è la risultante di entrambi gli aspetti. Nella prospettiva idealistica hegeliana la poesia lirica è, dun- que, l’antitesi della dialettica che ha nel dramma la sintesi finale. La sua è una visione dello spirito umano in una prospettiva teologico- evoluzionistica: l’epos esprime l’ingenua alba dei popoli ed è voce collettiva, la lirica nasce con la scissione dell’individuo dalla collet- tività ed esprime una Weltanschauung originale. Infine, il dramma sintetizza i due momenti, quello oggettivo-collettivo e quello sogget- tivo-individuale.

Ed è proprio nella soggettività che possiamo individuare l’anello di congiunzione fra la lirica antica e quella moderna; è questa la carat- teristica che giustifica l’uso estensivo del termine lirico che ancora oggi usiamo per designare la produzione poetica che non rientra né nella categoria epica né in quella drammatica.

Il poeta lirico arcaico pone se stesso al centro dei suoi versi, diventa soggetto e oggetto della sua poesia, mettendo a nudo i suoi sentimen- ti, ma soprattutto proiettando la sua scala di valori sullo sfondo del codice di valori di tradizione omerico-cavalleresca, ormai logoro e incapace di trasmettere esempi e modelli comportamentali, in una società non più dominata dall’eroe che combatte per la gloria e per garantirsi l’immortalità data dalla fama acquisita sul campo di batta- glia (l’omerico κλέος), ma in vista di beni e di valori nuovi, più in- dividuali. In questo senso risultano decisivi i frammenti di Archiloco e di Saffo, due autori che, attraverso la loro poesia, scardinano la tradizionale scala aretologica, mettendo davanti al valore, all’ἀρετή, rispettivamente la propria vita (“meglio salvarsi la pelle che salvare uno scudo”, confessa Archiloco: fr. 5) e la vista della persona amata (“nulla è più bello di ciò che si ama”, proclama Saffo con una fran- chezza prima di allora sconosciuta: fr. 16).

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Introduzione

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Una grossa differenza fra la nostra “lirica” e quella antica consiste nella maggiore estensione critica del termine presso i moderni.

Le più antiche attestazioni di poeta lirico (λυρικός) e di poesia lirica (λυρική ποίησις) compaiono soltanto nel I secolo a.C. nel filosofo e poeta Filodemo e nel trattato Περί λυρικῶν ποιητῶν scritto da Didimo, sotto il regno di Augusto. Prima di allora, infatti, come vediamo in Aristofane (Rane, 1250) e in Platone (cfr. Ione, 533e, Protagora 326a), per definire quelli che noi oggi chiamiamo “poeti lirici”, era usato il termine μελοποιοί (creatori di carmi).

Secondo R. Pfeiffer, il passaggio da μελοποιός a λυρικός fu dovuto al filologo alessandrino Aristofane (morto intorno al 180 a.C.), in quanto il termine μελοποιός non compare più nelle edizioni dei po- eti lirici a lui successive3.

La definitiva affermazione del nome lirico avvenne, tuttavia, grazie agli autori romani che diedero al sostantivo l’accezione attualmente in uso: esempi di ciò sono ben attestati in Cicerone (Orator 55 e 183), in Orazio: “quodsi me lyricis vatibus inseris” (Odi I 35-36) e in Seneca l’Epistola (49, 5).

Un secondo elemento per comprendere la storia della ricezione mo- derna di lirico (e di lirica) è costituito dal suo uso specifico e circo- scritto ad una precisa categoria di poeti; lo attesta senza dubbio il fatto che il canone dei poeti lirici redatto dai grammatici alessandrini (tramandato da due epigrammi anonimi dell’Antologia Palatina: IX, 194 e 571) annovera solo autori corali e monodici (Pindaro, Bacchi- lide, Saffo, Anacreonte, Stesìcoro, Simonide, Ibico, Alceo, Alcmane), escludendo così i poeti giambici ed elegiaci, le cui performances non erano eseguite con il supporto musicale di strumenti a corde (lyra, phòrminx, bàrbiton, kitharis, màgadis). Ed è in questa specifica acce- zione restrittiva che anche presso i romani è recepito il termine lirico.

Infine, è da notare che gli antichi non individuarono mai nella sogget- tività un elemento caratteristico della poesia lirica o di un suo genere

3 Storia della filologia classica. Dalle origini alla fine dell’età ellenistica, trad.

Napoli 1973, pp. 290-91. mO

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particolare; le suddivisioni operate da Platone, prima, dagli alessandri- ni poi si fondano sugli elementi formali (il metro), sui modi d’esecu- zione (canti corali, monodici etc.), sulle occasioni (feste religiose o profane) o sui destinatari (dèi, mortali, atleti, guerrieri, gruppi di fan- ciulle etc.). In un celebre brano della Repubblica, dove discute quali siano i generi poetici che possono avere di diritto di cittadinanza nel- la città ideale, notiamo che Platone chiamava “μέλη” (“carmi”) i componimenti formati da parole, ritmi e armonie, senza ulteriori dif- ferenze tematiche o di destinatari. Solo più tardi, nelle Leggi, egli introduce la distinzione, divenuta poi canonica, fra i canti destinati agli dèi (inni) e quelli riservati ai mortali (encomi), e distingue i canti secondo i culti e le occasioni nelle quali erano eseguiti.

È, dunque, con un arbitrio lessicale (ormai divenuta canonica con- venzione critica) che le moderne storie della letteratura greca riuni- scono sotto la comune definizione di “lirici” poeti diversi tra loro per il genere coltivato, per le modalità d’esecuzione, per i committenti, per i destinatari e per le occasioni delle loro performances.

Ma tale arbitrio nulla toglie alla straordinaria varietà tematica e to- nale di un percorso poetico che si snoda lungo i secoli VII-V, che annovera alcuni fra i maggiori autori della poesia occidentale e che, benché attraverso il filtro della lirica romana, prima, della mediazio- ne estetico-idealista del Romanticismo, poi, ha esercitato un’influenza straordinaria sulla poesia moderna e sul concetto stesso di creazione e d’ispirazione poetica.

Noi conosciamo questo universo poetico grazie agli intensi bagliori dei frammenti che la sorte ha preservato: minuscole isole lessicali nel grande mare dell’oblio nel quale, purtroppo, è naufragato la quasi totalità della produzione antica. Senza contare che nel naufragio sono scomparsi anche la musica e la danza, fondamentali nella lirica co- rale. Ma questi relitti sono sufficienti a darci un’idea dell’insieme e del valore letterario della lirica antica. Non solo: attraverso singole parole, scaglie di versi, strofe spesso lacunose è stato possibile rico- struire aspetti importanti della cultura e della vita quotidiana del mondo antico, facendo rivivere passioni tenere e violente, momenti

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Introduzione

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di gioia o di sconforto, un variegato universo di emozioni che hanno arricchito la nostra conoscenza della Grecia antica e soprattutto dei suoi protagonisti famosi o anonimi.

La poesia lirica scandiva, infatti, le fasi più importanti della vita in- dividuale e collettiva dell’uomo greco. Ogni occasione era buona per comporre e per ascoltare poesia: una riunione tra amici o tra commi- litoni, un banchetto, una festa privata o religiosa, una gara sportiva, la vittoria di un atleta in uno dei grandi giochi panellenici, un com- miato, un lutto, una riflessione. Nella sua cangiante varietà, la poesia faceva vibrare tutte le corde dell’animo umano, ne esprimeva in modi sempre vari le emozioni più profonde – l’amore, l’odio, la guerra, la passione, l’eros, la bellezza, il dolore, la gioia – non vi era, insomma, sentimento della sfera privata o pubblica che non trovasse la propria sublimazione nella poesia, che non vibrasse sotto le accorte mani del poeta.

È possibile individuare quattro generi di poesia lirica, definiti in base al metro e all’esecuzione (recitata o cantata):

a) Giambo.

b) Elegia.

c) Melica monodica.

d) Melica corale (detta anche “corodia”).

Il giambo era eseguito con un ritmo recitativo chiamato parakataloghè, inventato, secondo lo pseudo-Plutarco (De musica, 28, 1141), da Archiloco. L’elegia, invece, era cantata, come si desume da alcune testimonianze antiche sull’elegia di Mimnermo. Entrambi i generi erano accompagnati dal suono dell’aulòs, una specie di flauto.

Il giambo, l’elegia e la melica monodica davano voce a sentimenti e riflessioni legati alla sfera individuale; gli autori destinavano la loro performance a un uditorio ristretto, al quale erano legati da rapporti personali. La lirica corale, invece, coinvolgeva l’intera comunità po- liadica, in occasione di feste (perlopiù religiose) alle quali partecipa- vano tutti i cittadini. Il poeta corale non poteva, pertanto, affidarsi a un codice condiviso solo dal suo ambiente sociale, ma doveva attin- mO

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gere ad un sistema culturale, nel quale tutta la comunità si riconosce- va. Inoltre, il poeta corale non era solo autore del testo, ma anche della musica, delle coreografie e aveva il compito di istruire il coro.

Per questo era chiamato χοροδιδάσκαλος: “maestro del coro” o, come diremmo oggi, “coreografo”.

Ogni genere lirico aveva un suo canone tecnico che ne regolava i temi, il metro, il lessico, la sintassi, le modalità dell’esecuzione, lo strumento musicale. E ciascuno aveva, ovviamente, i suoi “inventori”, la sua coloritura dialettale, la sua zona d’origine: non vi era regione della Grecia che non conoscesse una forma epicorica di poesia lirica e non avesse una sua tradizione più o meno lunga: nell’area ionica fiorisce il giambo, la corodia a Sparta; la lirica corale a tema mito- logico è diffusa soprattutto nelle colonie della Magna Grecia, la melica monodica fiorisce nell’Egeo orientale; l’elegia tocca le coste anatoliche ma si estende anche alla terraferma greca.

Benché le sue radici affondino in un passato coevo, se non preceden- te, alla poesia epica, la fioritura della poesia lirica si colloca intorno al VII-VI a.C. secolo, con propaggini che giungono fino al V. La sua affermazione si spiega con le rinnovate dinamiche sociali – che per- corrono sia il continente sia, e soprattutto, le coste orientali e occi- dentali del Mediterraneo, determinate dalla seconda colonizzazione (VII-VI sec. a.C.) – e con la nascita delle tirannidi, alcune delle quali diedero un contributo fondamentale alla diffusione delle arti.

La poesia lirica è lo specchio di questa nuova società: di essa riassu- me il dinamismo e la volontà di rompere con un codice aretologico cristallizzato. Al tempo stesso la lirica racchiude in sé la polimorfia culturale ed estetica di un’età proiettata verso le conquiste del V se- colo. Ha scritto D. Del Corno: “[I lirici] impongono al loro pubblico un mondo di valori, e a questo adeguano la propria arte. I frammenti lirici dànno sovente l’impressione dell’esultante scoperta di una nuova forma della creatività [...] Il parametro di questa rinnovata concezione dell’esistere umano sono la bellezza della vita e il suo significato assoluto, che concentra in sé anche i momenti di amarezza e di dolo- re” (Storia della letteratura greca, Milano 1988, p. 77).

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Introduzione

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Analizzando, nella sua varietà tematica e tonale, la produzione lirica superstite, si potrà constatare come queste nuove esigenze siano av- vertite e tradotte in versi da ciascun autore secondo sensibilità diver- se e originali. Il poeta, infatti, soprattutto quello monodico, non si lascia più trasportare docilmente dal flusso della tradizione, ma la risale controcorrente, per imprimere ai suoi versi il sigillo di un’espe- rienza irripetibile e di un’originale idea di poesia.

Prospetto riassuntivo della poesia lirica

Generi/Temi Autore Epoca Città

Giambo:

scoptico, diffamatorio Archiloco Ipponatte Semonide Ananio

VII sec.

VI sec.

VII-VI sec.

?

ParoEfeso Amorgòs

? Elegia:

simposiale erotico gnomico politico parenetico

Callino Tirteo Solone Mimnermo Teognide Focilide Crizia

VII sec.

VII sec.

VII-VI sec.

VII-VI sec.

VI-V sec.

VI sec.

V sec.

Efeso Sparta Atene Colofone Megara Mileto Atene Lirica monodica:

esperienze personali (amore, politica, guerra) atmosfere sim- posiali

Saffo Alceo Anacreonte

VII-VI sec.

VII-VI sec.

VI sec.

Lesbo Lesbo Teos Lirica corale:

feste religiose riti iniziatici

narrazione di saghe mitiche lodi per i vincitori di gare atle- tiche

tematiche simposiali

Alcmane Stesìcoro Ibico Simonide Bacchilide Pindaro

VII sec.

VII-VI sec.

VI sec.

VI-V sec.

VI.V sec.

VI-V sec.

Sparta

Imera (Magna Grecia) Reggio

CeosCeos

Cinocefale (Beozia) Il prospetto colloca gli autori più importanti, divisi per il genere coltivato, nel secolo di appartenenza (le date s’intendono a.C.) e li colloca nella loro città di nascita o nella quale hanno esercitato in prevalenza la loro attività.

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Forme e temi

la poesia giambica

Discettando sulle origini della poesia, Aristotele (Poetica 1448b 25) afferma che l’arte nasce dall’istinto mimetico connaturato all’animo umano e che per questo motivo: “secondo l’indole personale di cia- scuno, l’attività poetica restò suddivisa: i più nobili riproducevano le azioni egregie e i fatti del loro rango, e invece gli uomini più comu- ni i fatti del volgo; così composero invettive da principio, mentre altri facevano inni ed encomi” (trad. C. Gallavotti). Subito dopo, Aristotele riconnette il giambo all’imitazione delle azioni vili, e ne rintraccia l’archetipo nel poema pseudo-omerico Margite, asserendo che qui, per la prima volta, fu introdotto il metro giambico. Da lì in poi, fra gli antichi, “gli uni divennero poeti di carmi eroici, gli altri di giambi”. Come ha notato B. Gentili (Poesia e pubblico, p. 143), Aristotele non si riferisce solo al biasimo inteso come attacco perso- nale, come invettiva (nelle forme note dalla giambografia arcaica), ma comprende nel discorso “tutta la dimensione del γελοi'ον, del giocoso, ovvero del “serio-comico”, nel senso che questo termine ha assunto nella teoria del testo letterario di M. Bachtin”. Ma proprio l’ampiezza semantica del termine dimostra che lo ψόγος possiede numerose sfumature, a seconda del soggetto, del bersaglio e della situazione oggettiva. Una molteplicità tonale testimoniata dall’ampio spettro lessicale afferente la categoria del biasimo: μώμος, ὄνειδος, φθόνος, σύλλος, λοιδορία, γελοi'ον etc. (Gentili, Poesia e Pubblico, p. 143), sinonimi che, nondimeno, indicano vari modi di esercitare il biasimo, di insultare e di schernire i nemici.

Numerose fonti, tuttavia, attestano che gli antichi chiamavano giam- bi anche altri metri quali i tetrametri trocaici, i sistemi epodici (es.

asinarteti), tetrametri anapestici e, anche l’esametro. Questa apparen- te confusione si spiega con il fatto che gli antichi definivano una poesia giambica non per il metro ma per il contenuto. Il carattere

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Parte Prima - Poesia giambica

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distintivo della giambografia era la ἰαμβικὴ ἰδέα (“forma giambica”), ossia il carattere scoptico e aggressivo dei versi, non la loro natura metrica. Per esempio, quando Archiloco, prostrato da un grave lutto, dice che non gli importano più “né i giambi né le feste” (fr. 215) con

“giambi” egli allude ad un genere di poesia scherzosa, senza impli- cazioni metriche.

La connessione tra giambo e ψόγος precede di alcuni secoli la criti- ca aristotelica. Varie fonti, tra le quali l’Inno a Demetra (vv. 195 e segg.), spiegano che il nome iàmbos deriva da Iàmbe, la serva del re di Eleusi Celeo, che con i suoi scherzi grossolani riuscì a far ridere Demetra, afflitta per il rapimento della figlia. Secondo un’altra etimo- logia, invece, il termine giambo deriverebbe dal verbo ἰάπτω (“sca- glio”): il poeta giambico, infatti, “scaglia” i versi contro i suoi nemi- ci come fossero frecce. La prima etimologia mette in risalto il carat- tere scoptico della poesia giambica; la seconda la cruda violenza verbale. Ovviamente nessuna delle due etimologie può essere presa sul serio, ma la testimonianza dell’Inno omerico rivela indirettamen- te il legame tra il giambo e il culto di Demetra, anch’esso caratteriz- zato da mordaci scambi di battute.

In realtà iàmbos è una parola pregreca, dal significato oscuro ma assimilabile a termini appartenenti alla sfera dionisiaca quali ditiram- bo e thriambo; e il culto di Dioniso è spesso associato a quello di Demetra. È, dunque, in un contesto rituale pre-ellenico che sarà da ricercare l’origine e lo sviluppo del giambo.

Dati il carattere scoptico e la plateale infrazione del codice aretolo- gico, gli antichi consideravano la poesia giambica un genere proleta- rio, elaborato da autori ostili all’aristocrazia o perché esclusi per nascita o perché allontanati a causa di rivolgimenti politici o di si- tuazioni personali. È, per esempio, il caso di Ipponatte, un poeta sul quale per secoli pesò la lettura sociologica che dei suoi versi diedero i grammatici antichi, prontamente seguiti dai moderni. Aristotele, del resto, afferma che il giambo nacque per imitare le azioni vili e che il trimetro giambico era il metro plebeo per eccellenza, l’antitesi dell’esametro eroico. E Pindaro, nella seconda Pitica (vv. 54 e segg.),

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sentenzia che gli odi violenti di Archiloco sono il frutto della sua indigenza.

In realtà, il giambo è sì poesia di rottura, ma lo scopo che si prefig- ge non è di attaccare una parte determinata della società, in termini di lotta di classe, ma quello di censurare – con un linguaggio aggres- sivo e diretto – coloro che con il loro comportamento trasgredivano le regole collettive, ponendosi al di fuori della loro comunità, intesa sia come città sia come heterìa. Non è un caso che la poesia giam- bica si sia sviluppata in una società regolata dalla dialettica polare biasimo/lode che, come ha osservato A. Aloni, rappresentavano dei veri e propri “regolatori sociali”, perché rendevano pubblici vizi e virtù, sì individuali, ma che non raramente potevano avere pesanti ripercussioni sulla vita in comune. All’interno del biasimo giambico gli studiosi hanno individuato tre tipologie di ψόγος, ciascuna delle quali ha una precisa funzione sociale:

1. l’attacco è rivolto ad un nemico. In questo caso, il più frequente, l’invettiva ha lo scopo di screditare l’avversario, di infamarlo agli occhi della comunità. Viene messo, qui, in atto un procedimento psicologico molto diffuso nel mondo arcaico, che consisteva nel fare tutto il male possibile al nemico, come dice esplicitamente Archiloco: “Una sola grande cosa io so: ricambiare con mali ter- ribili chi mi fa del male” (fr. 126), o ancora: “So essere amico con gli amici / ma odiare e infamare i nemici”. Spesso il bersaglio è rappresentato da un ex amico, reo di avere violato i patti, po- nendosi automaticamente contro gli altri membri dell’heterìa o della società. È questo il caso, per esempio, dei personaggi presi di mira dagli strali di Archiloco e di Ipponatte. Importante, al proposito, è leggere ciò che scrive Aristotele: “L’animo si sdegna più contro gli amici e i conoscenti che contro gli estranei. Per questo, Archiloco, biasimando, come si deve, gli amici, dice al suo cuore: ‘tu, infatti, sei soffocato dagli amici’ “ (Politica 1328a 1-5). In questi casi, dunque, l’aggressione verbale funge da val- vola di sfogo, per impedire che le tensioni giungano allo scontro

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Parte Prima - Poesia giambica

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fisico: “L’invettiva ostile – ha scritto A. Aloni (2007, 411) – por- ta fuori dal gruppo un coagulo potenzialmente pericoloso di ag- gressività”. Lo studioso cita come esempio l’Iliade I 210-211, quando Atena suggerisce ad Achille di sfogare l’ira insultando Agamennone, per impedirgli di passare alle vie di fatto.

2. Il biasimo è rivolto ad un amico, per ammonirlo o per rammen- targli un errore. In questo caso, il biasimo si esplica all’interno del gruppo sociale di riferimento e viene solitamente mascherato mediante la comicità, “una mistificazione dell’aggressività che impedisce di riconoscerla per ciò che è” (Aloni). La poesia per- mette, così, di sfogare il grumo di pulsioni che, se non disinne- scate, avrebbero incrinato la coesione del gruppo, con conseguen- ze destabilizzanti a livello di rapporti sia umani sia politici.

3. L’invettiva è rivolta contro professioni, categorie emarginate (es.

le donne) o persone ritenute pericolose per la stabilità della comu- nità civica. È il caso, per esempio, della satira contro le figure professionali: uno scolio al poeta ellenistico Licòfrone attesta che Archiloco aveva tra i suoi bersagli un pittore di nome Miclo; i nemici di Ipponatte (Areta e Bùpalo) erano due scultori, così come scultore era Bione e il pittore Minne, due altri personaggi ridico- lizzati dai coliambi ipponattei. La satira nei confronti degli arti- giani (che sarà ereditata dalla commedia antica) ha anche motiva- zioni politiche, perché è diretta contro quel ceto che stava radical- mente cambiando i rapporti sociali, corrodendo i privilegi e il ruolo dirigenziale dell’aristocrazia, alla quale, nonostante i tenta- tivi di negarlo tentati da molti studiosi moderni, appartenevano sia Archiloco sia Ipponatte. Infine, entro questa categoria va ricorda- ta anche la satira contro le donne, nella quale l’autore (per es.

Semonide) enfatizza una serie di difetti ritenuti congeniti alla na- tura femminile.

È importante notare che il poeta giambico non si riteneva esen- te dai vizi fustigati negli altri. Al contrario, una caratteristica che accomuna i due maggiori giambografi antichi (Archiloco e

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Ipponatte) è la tendenza, molto spesso plateale, ad ostentare i medesimi difetti bersagliati nei nemici. Una tendenza, questa, che ha provocato la nascita di tradizioni pseudobiografiche che hanno generato equivoci sul valore artistico degli autori coin- volti. Ipponatte, per esempio, si presenta come un prodotto di quel sottobosco di emarginati che brulica nelle sue poesie, e dal quale provengono i suoi bersagli. Allo stesso modo, Archiloco attribuisce a se stesso l’atto poco edificante di avere gettato via lo scudo, per dare al gesto un valore simbolico ancora più di- rompente.

Al contempo, tuttavia, confessare di possedere i medesimi di- fetti stigmatizzati nei propri avversari significa condividere gli stessi orizzonti socio-culturali col proprio uditorio, significa, insomma, riconoscersi parte di una società che aggredisce chi ne mette in discussione il codice di valori, ma attraverso una critica dall’interno, senza l’intermediazione di moralismi.

Forse non è un caso che il tramonto del giambo sia coinciso con il passaggio dalla “società di vergogna” a quella “di colpa”

(per servirci della sintesi di E. Dodds). Il progressivo affermar- si delle legislazioni scritte, per esempio, sottraeva al giambo quel ruolo di regolatore sociale che abbiamo visto essere stato una sua prerogativa. La condanna di un personaggio, il biasimo che derivava dai suoi comportamenti devianti spettava, ora, alle leggi della città. Il giambo, pur continuando a sopravvivere, acquista, tuttavia, sempre più un carattere letterario: i protago- nisti si trasformano, a poco a poco, in maschere, in caratteri privi di una loro vita autonoma. Le situazioni diventano sempre più aderenti a moduli stereotipati, e la lingua accoglie sperimen- talismi verbali sempre più spiccati, come mostra già la poesia di Ipponatte, caratterizzata da un complesso gioco di ingegneria verbale che si concretizza nella ricerca continua di giochi di parole (ambiguità lessicali, griphoi, doppi sensi, deformazioni

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Parte Prima - Poesia giambica

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a fini parodici), di allusioni colte, di glosse, di combinazioni lessicali, di giunture inattese, di colorite metafore. È comincia- to il processo di evoluzione che, di lì a qualche decennio, sfo- cerà nella commedia attica, che della poesia giambica è l’erede diretta.

Commedia antica politica Commedia antica disimpegnata Culti demetriaci

GIAMBOGRAFIA

Giambo scoptico (ἰαμβικὴ ἰδέα) Giambo disimpegnato Origine della poesia giambica e sua evoluzione

Ananio: VI sec. Semonide: VII sec.

Archiloco: VII sec. Ipponatte: VI sec.

V SECOLO

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