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Titolo. Pergola: paese di felicità. Concorso. Classe 1B indirizzo linguistico - Liceo Mamiani Pesaro tel

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Academic year: 2022

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Concorso

Classe 1B indirizzo linguistico - Liceo Mamiani Pesaro tel 0721-32662 Referente: prof. Claudia Mazzoli tel 3408758166 cimaz@virgilio.it Elaborato per la SEZIONE LETTERARIA

Titolo

Pergola: paese di felicità

La non indifferenza porta alla salvezza

Premessa: le storie raccontate non sono di fantasia, ma si basano su documenti storici, in particolare

• Anna Pia Ceccucci, La valle dei Giusti e dei Salvati, Ed Ecra 2012

• https://www.ancimarche.it/campi-di-concentramento-e-comuni-di-internamento- libero-il-caso-delle-marche-1940-1944/

Legenda:

in azzurro la voce dell’alunno di oggi In nero la narrazione storica

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27 gennaio 2020

Alunno Oggi a scuola abbiamo visto il video di Liliana Segre in cui viene data una definizione di indifferenza. Ascoltiamo le sue parole che risuonano energiche:

“Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò disprezzo, temo e odio gli indifferenti”. Le parole di un grande intellettuale e uomo politico, Antonio Gramsci, rendono bene il senso di una malattia morale che può essere anche una malattia mortale. L'indifferenza racchiude la chiave per comprendere la ragione del male, perché quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c'è limite all'orrore. L'indifferente è complice. Complice dei misfatti peggiori.

L'alternativa, diceva Don Milani, è "I care", me ne importa, mi sta a cuore.

Poi Liliana Segre si ferma davanti alla lapide che ricorda i nomi dei deportati.

"La visita a questo luogo storico e le lettura dei nomi di queste persone uccise per la colpa d'esser nate - dice Segre - sono proprio il contrario, invece, del motto fascista, "Me ne frego".1

1 (https://www.youtube.com/watch?v=fI-c7dDgTGA)

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Alunno: “Per domani dobbiamo studiare la seconda guerra mondiale. A me però sembra un elenco di date e avvenimenti lontani dalla mia realtà, mi sa che non sarà molto interessante…

5 Settembre 1938: un regio decreto legge i “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”; a questo fanno seguito molti decreti promulgati tra l’estate e l’autunno, volti ad affrontare in chiave razzista la cosiddetta questione ebraica. Questi decreti erano stati preceduti da altre misure già dall’agosto 1938: compiere accertamenti sulle proprietà ebraiche

Ehi, ma guarda: qui si parla di Pesaro, la nostra città! Questa storia ci riguarda da vicino!

10 agosto 1938: la prefettura di Pesaro invita la questura a verificare il patrimonio posseduto dagli ebrei nella provincia

16 agosto 1938: iniziano le operazioni di censimento degli ebrei

17 dicembre 1938: vengono individuati 119 ebrei di cui 13 a Pergola. Ad essi è vietato affittare camere ed appartamenti.

10 giugno 1940: l’Italia entra in guerra

1941: il prefetto comunica al questore di Pesaro che è necessario intensificare la vigilanza nei confronti degli ebrei per mettere in atto in modo più efficace la politica razziale

Settembre 1941: il questore rende note le 12 località di internamento per gli ebrei. Essi saranno alloggiati in camere di case private date in affitto o in albergo.

3 marzo 1942: le località destinate all’internamento salgono a 21; viene imposta la censura sulla posta e vengono chiuse le frontiere.

Roma 16 ottobre 1943: rastrellamento del ghetto ebraico: tra le 5 del mattino e le 14 gli Ebrei trovati nelle loro dimore sono stati catturati, sia nell’area del ghetto che in altre parti della città di Roma; sono stati requisiti gli elenchi con i nomi dei membri della Comunità israelitica di Roma negli uffici della Comunità stessa. In totale vengono catturate 1259 persone: 689 donne, 363 uomini e 207 bambini. Di loro più di mille vennero deportati ad Auschwitz e solo 16 sopravvissero

Ma allora cosa succede a tutti gli ebrei che in quel periodo si trovavano proprio nella nostra provincia?

Facciamo un balzo indietro nel tempo e ricostruiamo cosa accadde agli ebrei che si trovavano internati nel campo di internamento libero di Pergola.

Tutte le storie di salvezza che racconteremo sono avvenute tra il 30 novembre 1943 e l’agosto 1944 nel periodo della clandestinità dei nuclei di ebrei presenti a Pergola, dove erano stati convogliati fin dal 1940 in seguito all’istituzione dei campi di internamento libero

Nel 1940 a Ferramonti, in Calabria, il governo fascista attrezza il primo campo di internamento per gli ebrei stranieri, che erano giunti in Italia in fuga dai vari paesi già coinvolti nella guerra.

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In seguito moli altri ebrei verranno raggiunti dalla stessa misura e si rende così necessaria l’individuazione di numerosi comuni di internamento.

Questi si trovavano nelle zone più isolate e periferiche d’Italia; nella provincia di Pesaro arrivarono a superare le 20 unità. Non si trattava però di campi, ma più semplicemente di comuni dove gli ebrei venivano riuniti e costretti a vivere in una condizione di “INTERNAMENTO LIBERO”. Veniva utilizzato lo strumento dell’internamento nei confronti di tutti coloro verso i quali non c’erano sufficienti motivazioni per un vero e proprio arresto. Così bastava il “sospetto” di colpevolezza, senza nessun accertamento o di giustificazione. Si poteva finire internati in un campo per motivi banali, come l’essere considerato pericolosi politicamente o nocivi in quel dato momento storico, o per essere semplicemente ebrei con avversione verso la Germania Hitler e il Duce

Chi veniva raggiunto da questo provvedimento doveva rispettare una serie di norme:

DIVIETO DI

• allontanarsi dal centro abitato di riferimento;

• lasciare l’abitazione prima dell’alba e rientrare dopo l’Ave Maria (ore 17);

• possedere documenti

• possedere somme di denaro oltre le lire 100, tenere gioielli di valore

• leggere giornali e libri stranieri;

• tenere apparecchi radio OBBLIGO

• di essere presente tutte le mattine alle ore 11 in Comune per l’appello giornaliero;

• di vivere isolatamente, senza frequentare persone;

Tra queste zone di internamento libero c’è anche Pergola, teatro delle vicende che stiamo per raccontare

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Mi chiamo Lilia Manoni,

lavoro alle Poste di Pergola e vivo in una stanza datami in affitto dal mio capufficio, Antonio Buccelletti, in via Giannini a Pergola, al primo piano del palazzo della famiglia Camerini.

È il 30 novembre 1943 quando arriva un telegramma indirizzato a tutte le autorità locali:

Il messaggio è chiaro: tutte le persone che in questi anni erano arrivate a Pergola in condizione di internati, erano in pericolo di vita. Prima di consegnare il telegramma chiamo il mio capufficio, Antonio Buccelletti, e insieme a Lidia Buccelletti e Dina Basili cerchiamo di avvertire tutti coloro che sono a rischio, prima di consegnare il telegramma alle autorità, così avranno il tempo per fuggire.

Il giorno dopo quando le autorità cercano gli ebrei per mettere in pratica gli ordini del telegramma, non trovano nessuno e ci interrogano ripetutamente, ma nessuno di noi parla.

Cosa sarebbe successo se non avessimo ritardato la consegna del telegramma? Certo, la storia sarebbe stata un’altra. Ma in quel momento nessuno di noi ebbe alcun tentennamento: quella era la cosa giusta da fare.

TUTTI GLI EBREI, A QUALUNQUE NAZIONALITÀ APPARTENGANO, E COMUNQUE RESIDENTI NEL TERRITORIO NAZIONALE, DEBBONO ESSERE INVIATI IN APPOSITI CAMPI DI CONCENTRAMENTO.

TUTTI I LORO BENI MOBILI ED IMMOBILI DEBBONO ESSERE SOTTOPOSTI AD UN IMMEDIATO SEQUESTRO

I PERFETTI E I QUESTORI HANNO L’INCARICO DI PROVVEDERE

ALL’IMMEDIATA APPLICAZIONE DELL’ORDINANZA TRAMITE REPARTI DI POLIZIA ORDINARIA O PER MEZZO DEI CARABINIERI.

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A partire dal 30 novembre 1943 tutti gli ebrei, di qualsiasi nazionalità, per sperare di salvarsi, passano alla clandestinità. Questo periodo durerà dieci mesi, fino alla Liberazione avvenuta a fine Agosto del 1944.

Seguiamo la storia di due famiglie che hanno trovato la salvezza a Pergola, i Camerini e gli Alcalay Famiglia Camerini

Mi chiamo MARCELLA CAMERINI, sono nata a Pergola. La mia famiglia è arrivata qui da Senigallia nella prima metà dell’Ottocento.

Il mio bisnonno Jacob, nel 1863 acquistò il Palazzo Salvadori e alcuni terreni; fu consigliere comunale e contribuì ai moti rivoluzionari dell’Unità d’Italia. Ebbe nove figli.

I miei genitori si chiamavano Astorre e Giorgina. Li vedete nella foto.

Negli anni della seconda guerra mondiale io ero una giovane sposa, moglie di Angelo Anav, ed erano già nati i miei due figli:

Oretta (nel 1938) e Andrea (nel 1942). Vivevamo nel palazzo di famiglia.

Nonostante la guerra la mia vita, a Pergola, scorreva tranquillamente, fino alla sera del 30 novembre 1943, quando mia madre Giorgina accese per puro caso la radio sulla stazione di Roma e sentimmo l’annuncio:

Questa tremenda notizia ci colse impreparate: gli uomini di famiglia erano assenti, si erano recati nella zona di Ascoli in cerca di un possibile riparo, ignari del fatto che la situazione stesse per precipitare. Non sapevamo come fare. Ci sembrava una cosa impossibile, ma il mattino alle 7, mamma aveva già preparato borse e valigie:

“Dobbiamo partire, Marcella; dobbiamo mettere in salvo i tuoi bambini”.

Salimmo su un biroccio pieno pacchi, valigie e materassi, ci accalcammo per non sentire freddo.

Arrivammo così dal signor Berardinelli, in una casa di campagna che era notte, ci misero a disposizione dei letti e verso mezzanotte arrivarono incredibilmente anche gli uomini che si sistemarono nella stalla

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e nel magazzino. Erano stati avvertiti della notizia dal direttore dell’ufficio postale e si erano immediatamente messi in fuga per raggiungerci. Alle 5 del mattino seguente, mia sorella Renata e il marito Luigi Tagliacozzo insieme a mio marito Angelo e agli altri uomini di casa partirono alla ricerca di un luogo più sicuro. La mamma era distrutta al punto che suggerì

“E’ forse meglio andare in un campo di concentramento finché i nostri vestiti sono in ordine”

Fu proprio allora che mio marito Angelo entrò in casa trafelato e ci avvertì che i carabinieri ci cercavano.

Fuggimmo tutti attraverso la campagna e trovammo riparo in una capanna di canne. Gli uomini si diressero in varie direzioni in cerca di riparo e ci diedero appuntamento per le 17, l’ora dell’Ave Maria, al ponte di Sterleto. Lungo il percorso incrociammo un’automobile; nel vederla ci bloccammo: all’interno si trovavano il maresciallo e il sindaco, ma fecero finta di non vederci. Questo piccolo gesto fu per noi un importante tassello nel percorso verso la salvezza.

Avevamo cercato soluzioni in ogni direzione, ma purtroppo non c’era più alternativa: dovevamo ritornare a Montesecco, nei nostri poderi alla periferia di Pergola; eravamo rassegnati e stanchi; non capivamo…

“Perché dobbiamo fuggire? Noi, a differenza delle altre famiglie di ebrei che si trovavano a Pergola, siamo sempre vissuti qui, non siamo stranieri”.

Dopo tre giorni di fuga la mia famiglia trovò ospitalità presso la famiglia Cenci a palazzo d’Arcevia, poi ci trasferimmo nella casa di Benedetto Fraboni, dove rimanemmo dal dicembre 1943 ad aprile del 1944.

Eravamo in tanti: oltra a me con mio marito ai miei figli, c’era mia mamma Giorgina e mia sorella Renata con il marito Luigi Tagliacozzo e sua madre Talia. In quei giorni fummo costretti a trasferirci: la casa dei Fraboni era troppo vicina alla strada e rischiavamo di essere scoperti. Ci venne così offerto riparo da Alberto Vagni e dalla sua famiglia, in una casa vicino al fiume nella zona di Ripalta, lontana dalle strade.

Il loro affetto ci condusse tranquilli fino all’agosto 1944.

Con il passaggio del fronte, ad agosto del 1944, eravamo finalmente liberi: mio marito Angelo tornò a Roma, io ed i bambini ci trattenemmo nella frazione di Ripalta, per poi ritornare a Pergola. Fu allora che rividi le mie sorelle Elena e Vittoria. Seppi che avevano trovato riparo nell’Istituto Bambin Gesù di Gualdo Tadino, accolte dalla Madre superiora, suor Maria Vittoria.

Tutti noi, ciascuno in modo diverso, avevamo incontrato la solidarietà della gente del luogo, che avevano utilizzato qualsiasi strumento per aiutarci: mio padre Astorre fu messo in salvo da Pierino Quaresima, che aveva una gelateria ambulante, in un modo quasi inverosimile: lo nascose nel contenitore della gelateria!

Tutta la mia famiglia era salva!

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La famiglia Alcalay

Sono Albert Alcalay, sono nato l’11 agosto 1917. La mia famiglia è originaria di Belgrado, dove vivevamo in maniera agiata: avevamo un palazzo di 5 piani e molti terreni. Mio padre Samuele era direttore di banca. Allo scoppio della guerra ci trasferimmo tutti in Italia. Io iniziai a studiare a Bologna ma un giorno venni prelevato e condotto nel campo di Fossoli.

Lì venni torturato e riuscii a salvarmi grazie a mio padre che versò un’ingente somma per ottenere la mia liberazione. Seppi solo anni dopo che dei 2844 ebrei che giunsero a Fossoli, 2802 furono deportati.

Nel 1941 tutta la mia famiglia, compresa mia sorella Buena che all’epoca aveva 14 anni, viene internata a Ferramonti, nel comune di Tarsia, in provincia di Cosenza.

Da lì il 17 dicembre 1942 veniamo spostati a Macerta Feltria. I miei genitori trovarono delle camere in un grande appartamento, proprietà della signora Angelina vedova, che affittava stanze in quei momenti difficili. Durante la nostra breve sosta a Macerata Feltria eravamo abbastanza tranquilli.

A febbraio un ispettore di Pesaro venne a Macerata per controllare la nostra situazione, disse che dovevamo subito spostarci a Pergola nel campo di internamento libero.

Il 15 Marzo 1943 prendemmo la corriera verso Pergola.

Durante il viaggio parlavamo con alcune ragazze che viaggiavano con noi. Quando mio padre disse che saremmo andati a Pergola, una di loro disse: “Pergola, paese di felicità”. Non compresi il perché di quelle parole. L’avrei scoperto con il tempo.

A Pergola non ci erano consentite molte attività: potevamo andare nei negozi solo per comprare cibo e, soprattutto, dovevamo ogni giorno recarci in Municipio a firmare la nostra presenza. Non avevamo contatti con le persone del luogo, potevamo però frequentare la biblioteca e leggere. Con il tempo però abbiamo iniziato ad integrarci: io mi ero fatto degli amici e avevo iniziato a visitare le chiese perché la mia vocazione era quella artistica e iniziavo già a dipingere le mie prime opere. È in quel periodo che conosco Vittoria Camerini, figlia di Astorre, e… me ne innamoro! La nostra relazione era quasi

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impossibile, e lo divenne ancor più dopo il 30 novembre 1943, quando, nottetempo, venimmo avvertiti di un telegramma con l’ordine di arresto di tutti gli ebrei. Fummo costretti a fuggire e Vittoria si recò nei poderi di famiglia a Montesecco.

È in questo periodo che chiedo al mio caro amico Achille Caverni di trovare per me un monastero isolato dove poterci rifugiare. Però ormai non c’è più tempo e Achille mi aiuta a portare la mia famiglia presso la sua casa di campagna, alla periferia del piccolo paese di Caudino, a poca distanza da Pergola.

La nostra marcia verso Caudino è stata difficile. Anche se era una chiara e fresca giornata di dicembre, mio padre e mia madre stavano sudando pesantemente, e si dovevano fermare ogni cento metri circa per riprendere fiato. La casa dei Caverni era mezza nascosta, situata a una cinquantina di metri dalla strada, ricordo ancora bene la sua posizione.

Albert Alcalay

Achille me l’aveva indicata molte volte, e io l’avevo segnata sulle mie mappe. Così, anche tagliando attraverso la campagna lontana dalla strada, ero capace di guidare la mia famiglia fino a lì. Era un imponente edificio in pietra a tre piani e appena l’ho avvistato mi sono avvicinato al gruppo di ragazzi contadini, che mi hanno accompagnato alla casa. Il contadino custode, che occupava il piano terra della casa, era un uomo semplice e di buon carattere, di nome Santino. Era molto educato e voleva aiutarci, ma non aveva la chiave per il piano superiore. Ho mandato uno dei ragazzi che mi avevano accompagnato alla casa a Pergola con la sua bicicletta, con il compito di trovare Achille e consegnargli una lettera che avevo scritto rapidamente. Mentre aspettavamo la risposta di Achille, Santino ci ha dato un po’ di vino e del formaggio, e ha provveduto mia madre di un posto per stendersi e riposarsi.

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Il figlio della mugnaia ritornò quel pomeriggio con l’addolorata risposta di Achille Non potete restare in quella casa: è troppo pericoloso!

Uno dei suoi cugini - un ufficiale italiano che aveva abbandonato l’esercito - era nascosto lì. Achille temeva che la polizia, che stava cercando i disertori, avrebbe potuto cercarlo lì, e quindi trovare anche noi. Aveva allegato un migliaio di lire con il suo biglietto - come pagamento per un ritratto che avevo dipinto della sua nipotina; o più probabilmente come aiuto per noi.

Dovevamo fuggire, ma dove andare? Santino suggerì che avremmo potuto chiamare Don Domenico Rogo, il prete del vicino villaggio di Caudino. Egli venne immediatamente: era un giovane uomo diretto ed energico, non era un prete che si nascondeva dietro i ruoli sacri della sua professione. Gli abbiamo detto che eravamo ebrei iugoslavi fuggiti da Pergola a causa dell’ordine del governo di arrestare tutti gli ebrei e gli stranieri.

Egli aiuta la nostra fuga, durante la quale arriviamo a Palazzo d’Arcevia e poi a Sassoferrato (AN) ma purtroppo non tutti sono disposti ad aiutarci e dobbiamo tornare indietro verso Caudino, dove ci ospita la famiglia di Riccardo Bucci fino a gennaio; poi fino ad aprile 1944 viviamo nel mulino dei Caverni di Pergola. E poi di nuovo a Palazzo d’Arcevia, presso la proprietà Monti gestita dalla famiglia Elisabettini. Tutta la famiglia ci aveva in un certo senso adottati: Attilio e Maurina, insieme ai loro 5 figli. In seguito abbiamo saputo che i tedeschi, proprio nei momenti più terribili del maggio 1944, quando ci fu l’eccidio di Monte sant’Angelo, ci avevano cercato nella casa dei Caverni. Vennero poi a cercarci proprio dagli Elisabettini: mio padre era riuscito a scappare e a nascondersi nei boschi. Io invece mi ero nascosto in una piccola intercapedine sotto una finestra, riparato da un grande mobile.

Ad agosto, dopo il passaggio del fronte, ritornammo a Pergola, poi dopo la guerra io mi trasferii a Roma nel 1950 ho sposato una dottoressa jugoslava di Belgrado, Vera Eskenazi e nel 1951 negli USA, a Boston, dove insegnai presso l’università di Harvard e divenni un pittore abbastanza noto… le mie opere sono presenti in diverse collezioni a New York e anche a Roma.

Albert Alcalay ritratto davanti a una sua opera Opera di Albert Alcalay

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Nei miei quadri e nel mio cuore è sempre vivo il ricordo di Pergola e delle campagne limitrofe; così come è sempre presente la riconoscenza per Achille Caverni, uno dei nostri salvatori. Per me molto più che un amico: un vero e proprio fratello

Una volta in salvo mio padre ha scritto alle autorità italiano per segnalare l’aiuto che abbiamo ricevuto dalla famiglia Caverni:

Adesso che abbiamo conosciuto più da vicino le famiglie dei salvati, che ne dite se andiamo alla ricerca di coloro che li hanno salvati? I giusti, coloro che senza alcuna prospettiva di ricompensa o guadagno, ma anzi rischiando in prima persona una denuncia, si sono dati da fare per salvare queste persone in pericolo.

Ci siamo messi a cercare informazioni, e abbiamo scoperto che le notizie sono davvero frammentarie:

molti dei giusti non hanno dato troppa importanza ai loro gesti, nati spontaneamente senza che si sentissero eroi. E così le loro storie sono scarse di dettagli e qualche volta anche i loro nomi sono andati perduti. Non è andato perduto però il senso del loro agire né sono andate perdute le vite che hanno salvato.

Alle autorità I signori Federico ed Ettore Caverni, commercianti di Pergola [proprietari di una rivendita di legname, vetro e ferro], hanno aiutato me e la mia famiglia durante la nostra fuga da Pergola ed il nostro nascondimento nella campagna durante le persecuzioni fasciste e tedesche. Essi ci hanno ospitato nella loro casa di Caudino dal 5 gennaio al 11 aprile 1944. Ci hanno pure portato del danaro e mandato dei viveri in questo periodo. Così, essi hanno contribuito alla nostra salvezza.

Samuele Alcalay,

Direttore di banca di Belgrado suddito jugoslavo

internato civile di guerra

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I giusti di Pergola

La piccola cittadina di Pergola, dove tutti si conoscevano e dove il controllo da parte delle istituzioni poteva essere più facile e rigido, è stata protagonista di una vera gara di solidarietà: più di una trentina di persone sono state riconosciute come Giusti d’Israele per quello che hanno fatto nei mesi compresi tra il dicembre 1943 e l’agosto 1944. Erano tutte persone comuni, agricoltori, impiegati, artigiani, insegnanti, professionisti e membri del clero (preti e suore); in tre casi intere famiglie. Noi ripercorriamo la storia solo di alcune di loro, consapevoli che l’esitazione e l’indifferenza anche di una sola persona avrebbe comportato un finale molto diverso. Di essi oggi due sono ricordati allo Yad Vashem di Gerusalemme, Fraboni e Alberto Vagni.

Le famiglie che hanno contribuito alla salvezza degli Alcalay:

Famiglia Caverni

Mi chiamo Achille Caverni e sono un medico con la passione per la pittura. Durante gli anni della guerra mio padre e mio zio, Federico ed Ettore Caverni, ospitarono per un certo periodo la famiglia Alcalay, che giunse a Pergola per sfuggire alle persecuzioni nazifasciste. Tra le nostre famiglie nacque subito un rapporto di vera amicizia, così decidemmo di mettere a loro disposizione la casa di Caudino della nostra famiglia. la nostra amicizia durò tutta la vita, anche quando dopo la guerra la famiglia Alcalay emigrò negli Stati Uniti. Ci ritrovammo a Pergola nel 1979. Nel 1995 Albert mi inviò questa lettera che conservo con amore.

Famiglia Pastori

Sono Augusta Pastori; con i miei genitori abbiamo aiutato per diversi mesi la famiglia Alcalay, provvedendo loro cibo e riscaldamento. La famiglia era composta da quattro persone; erano nascoste al primo piano della casa di Caudino, adiacente a quella occupata dai miei familiari; ricordo perfettamente il giorno in cui la famiglia Alcalay bussò alla nostra porta: erano vestiti con indumenti stracciati e sporchi, con facce preoccupate e stanche. Chiesero aiuto, senza neanche parlare tra di noi sin da subito abbiamo escluso l’idea di rifiutarli; così li accogliemmo senza esitare.

Carissimo Achille, …

io ancora disegno e mi fa piacere. Il mio assistente viene a prendermi e mi riporta a casa e i miei studenti sono entusiasti del mio insegnamento.

Tra un mese avrò 78 anni. Al 6 di agosto esporrò un’altra mostra di 14 oli e 34 acquarelli e ti manderò l’invito come sempre. Ho una nostalgia per l’Italia e specialmente per i vostri paraggi e penso spesso di voi e del nostro tempo insieme a Pergola. Vorrei chiederti un piacere, Achille.

Vorrei comprare un libro delle Marche con tutte le photo dei paesi marchigiani. Vorrei almeno guardare le photo dei paesi e della campagna marchigiana. Ho speso tanti anni felici e tragici che quegli eventi

parteciparono nel formare il mio carattere e una philosophia che sta in me. Sembra che ho lasciato parte del mio cuore, delle mie emozioni e

sentimenti”. Albert

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Don Domenico Rogo

Sono un sacerdote originario di Fossato di Vico, e sono nato nel 1915. Di quegli anni terribili della guerra ricordo di aver incontrato e nascosto tante persone in difficoltà, spesso dentro il campanile della mia parrocchia di Caudino. una volta i nazifascisti bussarono alla porta della canonica sostenendo di sapere che nascondevo persone ricercate e che se avessero trovato qualcuno mi avrebbero ucciso. Forse credevano di spaventarmi, ma era troppo importante per me avere cura della vita delle persone perché quelle parole potessero intimorirmi!

Famiglia Manelli

Mi chiamo Anna Manelli e sono nata nel 1922; io e i miei fratelli Sante e Domenica negli anni della seconda guerra mondiale vivevamo in una casa mezzadrile nelle campagne di Caudino di proprietà della famiglia Caverni di Pergola. Tra dicembre 1943 e aprile 1944 abbiamo collaborato attivamente con don Domenico Rogo e i Caverni alla salvezza di Samuele, Lepa, Albert e Buena Alcalay.

Per coloro che nascondevano od aiutavano gli ebrei c’era la fucilazione immediata. Eravamo a conoscenza del rischio, ma non ci abbiamo pensato due volte e, nonostante le ristrettezze dei tempi, abbiamo offerto loro aiuti materiali, calore e affetto. Ho fatto amicizia subito con Buena, di qualche anno più giovane di me: era una ragazza proprio come me. Era ebrea, ma cosa cambia? Potevo esserci io nei suoi panni.

Le famiglie che hanno contribuito alla salvezza dei Camerini, Anav e Tagliacozzo:

Famiglia Bonacorsi

Mi chiamo Elena Tenti Bonacorsi. Ricordo bene quella notte tra novembre e dicembre del 1943 quando a casa nostra giunsero Luigi Tagliacozzo con la moglie Renata Camerini, il cognato Angelo Anav e la madre Talia, chiedendoci ospitalità per sfuggire ai nazifascisti. Senza pensarci due volte decisi di accoglierli, nonostante fossi a conoscenza del rischio che stavo correndo. Li feci riscaldare e cambiare i panni bagnati. Rimasero solo quella notte e poi ripartirono alla volta probabilmente della casa dei Caverni.

Un giorno, dopo circa tre mesi, davanti alla nostra abitazione si fermò una macchina dalla quale scesero quattro tedeschi armati. Avevano l’obiettivo di catturare gli ebrei nascosti, ma nonostante le varie perquisizioni non trovarono nulla. All’inizio del 1944 la nostra casa divenne un vero e proprio punto di riferimento per i giovani ricercati: ebrei, ma anche partigiani e soldati della Wehrmacht feriti. Mio marito Tito e mio fratello Nello, che poi divenne prete, si diedero molto da fare nel soccorso ai feriti. Nonostante il grande rischio corso, non mi pentii mai delle mie azioni perché ebbi l’opportunità di salvare tante vite innocenti.

Famiglia Elisabettini

Mi chiamo Maurina Elisabettini ed insieme a mio marito Attilio e ad i miei cinque figli ospitammo la famiglia ebrea Alcalay, che ci raccontarono di aver lasciato l’appartamento dei Caverni perché troppo visibile dalla strada. Non esitammo a procurargli tutto ciò di cui avevano bisogno, mettendo a loro disposizione la proprietà Arcangelo Monti che comprendeva due grandi case in prossimità di un ruscello, nascoste dalla vegetazione. Un giorno arrivarono i tedeschi, ma tutti riuscimmo miracolosamente a salvarci: Samuele riuscì a fuggire nel bosco, mentre Albert si nascose nel vuoto sottostante una finestra nascosto da un armadio e da un comò. Le mie due figlie Ada e Vilma, non sapendo che la famiglia era

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ebrea, continuarono a cucinare e a pulire le stanze. Naturalmente per gli Alcalay lo spavento fu enorme, ma fortunatamente non deportarono nessuno. La famiglia si trasferì a Roma dopo la liberazione, portando Vilma come collaboratrice domestica. Ho potuto salvare un’intera famiglia e nonostante il rischio che corsi fu immenso, rifarei la stessa scelta all’infinito.

Pirro (Dario) Maughelli

Il mio nome è Pirro Maughelli, mi chiamano Dario, sono nato a Frontone il 15 agosto 1910; finiti gli studi iniziai la carriera di insegnante elementare. Sono stato molto legato alla famiglia Camerini, sono stato accanto a loro nel periodo più difficile, triste e terribile: quello della Seconda Guerra Mondiale. Mi rendo conto che rischiai in prima persona aiutando i Camerini, gli Anav, i Tagliacozzo e Gilda Sereni, ma per me in quel momento era come un principio: non sono riuscito ad essere indifferente a tutto ciò. Cercai per loro rifugio presso famiglie sicure. Dopo la guerra, con l’aiuto dei Camerini, sono stato assunto come segretario di un’università Romana; dove ho lavorato fino alla pensione.

Gabriele Fraboni

Mi chiamo Gabriele e sono nato nel 1892. Abito a Palazzo d’Arcevia. Grazie all’aiuto della mia famiglia, tra dicembre 1943 e aprile 1944 ho ospitato in una stanza di casa alcuni ebrei delle famiglie Camirini, Anav e Tagliacozzi. Ci siamo sistemati come abbiamo potuto e le mie figlie hanno fatto subito amicizia con i bambini arrivati. Nella nostra casa arrivarono anche altre persone in difficoltà, come i due slavi fuggiti dal campo di concentramento di Arezzo. Quel momento così difficile contribuì a stringere la nostra amicizia che durò anche dopo la fine della guerra.

Alberto Vagni

Sono Alberto, ma tutti mi chiamano Berto. Con mia moglie Maria e mio figlio Giuseppe appena sposato, vivevamo negli anni della guerra nella nostra casa in campagna, distante circa un chilometro dalla casa colonica dove alloggiava il contadino che lavorava per noi. Un giorno Gabriele Fraboni bussa alla mia porta piuttosto agitato e mi chiede se possiamo dare ospitalità a una famiglia di nove ebrei. Sapevo cosa significasse, ma in quel momento la mia unica preoccupazione era capire se la mia casa riuscisse ad ospitarli tutti, e immediatamente dissi “certamente!”. Rimanemmo insieme 5 mesi, fino al passaggio del fronte, ma il legame tra di noi non finì certo in quel momento.

L’Istituto per la Memoria dei Martiri e degli Eroi dell’Olocausto Yad Vashem è stato istituito dal Parlamento Israeliano nel 1953 al fine di commemorare i sei milioni di ebrei assassinati Fraboni dai nazisti e dai loro collaboratori, tramandando la memoria dell'Olocausto alle future

giovedì 15 ottobre 2015 Cerimonia di consegna della medaglia di

Giusto fra le Nazioni Arcevia

Giusto fra le Nazioni

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generazioni affinché il mondo non ne dimentichi l'orrore e la crudeltà. I compiti principali di Yad Vashem sono la commemorazione e la documentazione degli eventi dell'Olocausto, la ricerca e l'educazione.

Il Sindaco del Comune di Arcevia e l'Ambasciata d'Israele a Roma hanno il piacere di invitare la S.V. alla cerimonia di consegna della medaglia di “Giusto fra le Nazioni” alla memoria di

Il silenzio è complice.

Dalla riflessione della Senatrice Liliana Segre emerge un problema molto grave anche al giorno d’oggi: l’indifferenza è complice dell’odio, ed è una malattia della società di ogni epoca.

Distrugge la solidarietà, il dialogo e promuove l’individualismo.

Non dobbiamo agire come se nulla ci interessasse direttamente: la voce di ognuno di noi può creare un’enorme differenza.

Molte ingiustizie avvengono solo perché nessuno ha il coraggio di denunciare gli atteggiamenti sbagliati, scegliendo di non vedere.

In tutto il mondo l’indifferenza è ancora presente, purtroppo sono ancora tante le persone che muoiono e vengono sfruttate senza che nessuno agisca per salvarle o per impedirlo.

Basti pensare ai migranti che sbarcano ogni giorno sulle coste, alle comunità perseguitate e ai bambini che sono costretti a lavorare in condizioni malsane.

In fondo l’indifferenza è solo paura e puro egoismo. Si sostituisce alla ragionevolezza semplicemente perché è più comodo e facile ignorare tutto il resto piuttosto che darsi da fare per cambiare le cose.

Le storie di Pergola ci hanno insegnato che non ci sono cose che non ci riguardano, che il silenzio e l’indifferenza sono complici e che tutti insieme, collaborando nel nostro piccolo con semplici gesti e atteggiamenti, possiamo agire per rendere il nostro pianeta un posto migliore.

Benedetto Fraboni

e

Alberto Vagni

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