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CAPITOLO II

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

I temi legati alla morte e alla sofferenza sono stati storicamente domini d’interesse privilegiato della religione e dell’antropologia. Oggi la morte viene “relegata ad accadimento biologico, di cui non ha senso parlarne più del necessario”, e “il lutto viene vissuto come esperienza soprattutto interiore, senza necessitare particolari forme di espressione esteriore e sociale” (Mola, 1994).

Ma la morte è un problema che riguarda i vivi: i morti non hanno problemi. Tra gli esseri che muoiono, gli uomini sono le uniche creature per le quali la morte costituisce un problema, sanno di dover morire; solo essi, a differenza degli animali, possono prevedere la loro fine ed essere consapevoli che può sopraggiungere in ogni momento. In realtà non è la morte ma la coscienza della morte a costituire un problema per gli uomini (Elias, 1985).

Nella consapevolezza della vastità dell’argomento della morte e delle sue possibili declinazioni, questa tesi si propone di analizzarne alcuni aspetti, individuare possibili spunti per ricerche future e aprire una riflessione su ciò che significa nella civiltà odierna morire e l’accompagnamento al morire che si inserisce all’interno della cultura della morte.

Nel primo capitolo vengono considerati gli aspetti storici e antropologici, grazie ai quali si evidenzia la trasformazione a cui il significato della morte è andato incontro, fino ad oggi in cui è la negazione della stessa, pur coerente con il modello socioculturale occidentale, a necessitare di un ripensamento e di una maggior consapevolezza, nell’ottica di una miglior qualità di vita sia individuale, sia familiare, sia sociale.

Nel secondo capitolo sono esposte le principali teorie della perdita. La psicologia apre una riflessione sul tema della morte e sui processi intrapsichici che riguardano l’elaborazione della perdita con Freud che, nel 1917 nel suo saggio Lutto e Melanconia, scrive:

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“il lutto, è di regola la reazione alla perdita di una persona amata (…) confidiamo che, dopo un certo intervallo di tempo, verrà superato e ne riteniamo inopportuna e persino dannosa l’alterazione(…). Nel lutto il mondo è diventato povero e vuoto...”

Successivamente, Bowlby, di formazione psicoanalitica, opera una sintesi tra alcune indicazioni di Freud, i risultati della scuola etologica di Lorenz e Tinbergen, di quella epistemologica di Piaget e della teoria dell’apprendimento. L’autore, insieme a Pakers traccia una continuità tra legame di attaccamento e perdita, ipotizza fasi di elaborazione del lutto sia nei bambini sia negli adulti e analizza, attraverso studi sperimentali, le reazioni al lutto e il lutto patologico. Si considerano anche i modelli stadiali del lutto. Segue un’analisi della psicopatologia del lutto, nelle sue varie e possibili costellazioni, che comprendono sintomi somatici, affettivi e cognitivi, e che vede oggi un interesse crescente da parte dei clinici, anche sul piano dell’identificazione di quadri specifici . Nel descrivere il passaggio dal DSM IV al DSM V, si approfondisce la fenomenologia del lutto complicato con la definizione e l’introduzione del Persistent Complex Bereavement Disorder. Infine vengono presi in esame la resilienza e lo stile di coping, e l’importanza del dare significato alla perdita in una prospetiva salutogenica.

Il terzo capitolo analizza la dimensione familiare della perdita e del lutto da una prospettiva sistemica relazionale, includendo il funzionamento del sistema famiglia di fronte alla perdita, le variabili che intervengono nel suo processo, e i suoi possibili effetti transgenerazionali, il coping e la resilienza familiare.

Nel quarto capitolo viene indagata la dimensione sociale del lutto, una dimensione in realtà molto complessa nella quale sono coinvolte e agenti numerose variabili.

Nell’ottica della psicologia della salute, si evidenziano le differenze culturali e di genere come fattori di regolazione delle reazioni alla perdita e dei processi del lutto, anche all’interno dei rituali condivisi. Si analizza anche l’emergere di un nuovo fenomeno, l’utilizzo di internet per comunicare il decesso e dare vita a commemorazioni condivise e la comunicazione mediale come possibile supporto sociale. In una società multietnica, è inoltre fondamentale conoscere i significati e le tradizioni delle varie culture e religioni di fronte alla morte e al morire. Queste

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variabili sono correlate anche al sopravvivere alla perdita e alla riduzione della psicopatologia del lutto.

Infine, nel quinto capitolo, si propone la trattazione di un aspetto di estrema attualità, perché potenzialmente matrice di possibili sviluppi pratici, con ricadute socioculturali e individuali. Verso la fine di una vita è quel tempo, variabile in durata, che precede la morte, che può essere un tempo prezioso, in cui le cure palliative e l’accompagnamento al morente, perché è un individuo che si accompagna e non soltanto un processo, intervengono in un’ottica di qualità di vita e non di attesa della morte. Altrettanto importante è recuperare, diffondere la cultura della morte e del morire che l’uomo occidentale ha perduto, sviluppando anche programmi di formazione per gli operatori della salute e non solo. Nella nostra società manca una cultura della fine della vita che tenga conto del travaglio psicologico, spirituale, etico, relazionale che la morte e il lutto provocano negli individui, e del significato che questi eventi assumono nella trasmissione del sapere familiare e del patrimonio culturale, simbolico e morale che tiene in piedi il corpo sociale e dà continuità al succedersi delle generazioni (Crozzoli, 2003).

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CAPITOLO I

ASPETTI STORICI E ANTROPOLOGICI

Le prime prove di umanizzazione sono generalmente considerate quelle degli utensili in selce grezza e del focolare, seguiti dalle sepolture. L’uomo di Neanderthal sotterra i suoi morti, talvolta li raggruppa (Morin, 2014). Non è più una questione d’istinto ma è l’alba del pensiero umano, che si traduce in una specie di rivolta contro la morte (Lecomnte, 1948).

Non c’è in pratica alcun gruppo arcaico, per quanto “primitivo”, che abbandoni i suoi morti o che li abbandoni senza riti. L’etnologia ci mostra che i morti sono stati ovunque oggetto di pratiche che corrispondono tutte a credenze relative alla loro sopravvivenza, (sotto forma di spettro corporeo, ombra, fantasma) o alla loro rinascita.

Per Frazer (1978) è impossibile non essere colpiti dalla forza, dall’ universalità della credenza dell’immortalità. Si tratta di un’immortalità definita come prolungamento della vita per un periodo indefinito, ma non necessariamente eterno in quanto l’eternità è una nozione astratta e tarda. Le pratiche concernenti i cadaveri e la credenza di una vita propria dei morti si sono manifestate nella storia come fenomeni umani, originari allo stesso modo dell’utensile. La morte è quindi una vita che prolunga, in un modo o nell’altro, la vita individuale. Si tratta non già di un’idea ma di un’immagine, una metafora della vita, un mito. Infatti, la morte nei vocabolari arcaici non esiste ancora come concetto: se ne parla come di un sonno, un viaggio, una nascita, una malattia, un incidente, un maleficio, un ingresso nella casa degli avi e il più delle volte di tutte queste cose messe insieme. Questa concezione di immortalità implica, tuttavia, non l’ignoranza della morte, bensì al contrario il riconoscimento del suo avvento. Se la morte, come è stato detto, è assimilata alla vita poiché è riempita di metafore della vita, essa, quando sopraggiunge, viene non di meno colta come un cambiamento di stato, un “qualcosa” che modifica l’ordine normale della vita. Si ammette che il morto non sia più un vivo normale poiché

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viene trasportato e trattato in ossequio a riti particolari, sotterrato o bruciato. Vi è dunque una coscienza realistica della morte presente nel dato preistorico ed etnologico dell’immortalità: non la coscienza dell’”essenza” della morte, qualcosa che non è mai stato conosciuto né mai lo sarà perché la morte non ha “essenza”, ma della realtà della morte. Seppure la morte non ha “essenza”, essa è tuttavia reale, essa arriva; questa realtà troverà il suo nome proprio: la morte, dopodiché verrà riconosciuta come legge ineluttabile. Mentre si finge immortale, l’uomo non potrà non definirsi mortale. La stessa coscienza quindi nega e riconosce la morte: la nega come annientamento, la riconosce come evento. Morin (2014) indica in tale contraddizione la collocazione di una zona di turbamento e orrore.

Le prime teorie e interpretazioni della morte originano in Egitto, la morte diviene così un oggetto culturale (Frazer,1978, Hertz, 1978, 2004; Assmann, 2002; Kuijt, 2008).

Ariès, nel suo saggio Storia della morte in Occidente (1978), ricostruisce le trasformazioni nel tempo del significato della morte e dei suoi rituali strettamente intrecciati con i cambiamenti della famiglia e socioculturali.

Nel I Medioevo la morte è addomesticata, la paura della morte è stemperata perché parte integrante della vita, una rassegnazione al destino associata a una fiducia mistica rende la morte familiare. La morte come le stagioni fanno parte del ciclo di vita. Il morente è protagonista della sua morte, e ha attorno a sé familiari e bambini; alla morte seguono rituali semplici accompagnati da emozioni prive di eccessiva drammaticità e il defunto viene sepolto nei pressi della chiesa, in ossari comuni, l’importante era affidare il corpo alla chiesa affinché lo conservasse nel suo sacro recinto.

Dal X al XIII secolo si assiste a un cambiamento, la morte assume un significato drammatico e personale, attraverso la consapevolezza della morte di sé e l’attesa del giudizio di Dio. La sepoltura è contrassegnata, nasce la consapevolezza di sé anche dopo la morte. Nasce nell’uomo la paura del castigo eterno e della colpa e con esse, la paura della morte.

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Fra il XVI e il XVIII secolo, la morte si ammanta di magia e si accompagna a fantasmi, nella letteratura la morte s’intreccia all’amore. Nascono le danze macabre, i morti si animano e diventando aggressivi contro coloro che sono vivi. La cultura precristiana popolare si mescola con la cristianità. Nasce un interesse morboso per gli spettacoli di morte e di sofferenza.

Dal XVIII al XIX secolo la morte diviene romantica, assumendo un nuovo significato:

è soprattutto la morte dell’altro. Il dolore per la perdita dell’altro è estremo per la separazione inaccettabile e inconsolabile. I cimiteri vengono ricollocati all’esterno delle città. L’uomo occidentale la esalta, la drammatizza, la vuole impressionante e dominante, il ricordo e il rimpianto si uniscono ispirando nel XIX e XX secolo il nuovo culto delle tombe e dei cimiteri.

È proprio nel XX secolo che con le conquiste della tecnica, l’illusione dell’immortalità si diffonde, e la morte diviene proibita, si mente al malato. La morte e la sofferenza spaventano perché la vita deve essere orientata alla felicità.

La morte scompare relegata in ospedale, divenendo la morte ospedalizzata, in luogo di cura e lotta contro la morte, e i suoi riti svuotati del loro significato. Nella società moderna la morte diviene il principale tabù sostituendosi alla sessualità.

Per Thomas (2006) la morte e il dolore, sono fantasmi silenziosi presenti all’interno della cultura occidentale individualista, orientata al successo e all’eterna giovinezza.

Quando l’avere prevale sull’essere, non c’è posto per la morte: perché la morte si oppone al profitto, perché la morte è qualcosa di assurdo e di sconveniente in una società che si basa sull’accumulo dei beni e sul progresso (Thomas, 1976, 2006). Lo stesso autore costatava con inquietudine che il mondo contemporaneo, anziché celebrare i propri morti, li fa semplicemente “sparire”. In America le società addette alle pratiche funerarie agiscono in modo che i parenti quasi non vedano il cadavere, e comunque non se ne occupino, ma soprattutto hanno il compito di far sparire nel giro di poco ogni oggetto del defunto, compresi i mobili, cosicché i parenti, ritornando a casa, non trovino più nulla che richiami alla memoria il morto. Ancor più sorprendente il progetto denominato «immortalità digitale: preservare la vita dopo la morte», una lista di servizi online dedicati a chi vuole sopravvivere a se

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stesso: un individuo può preparare mail, messaggi vocali o comunicati video da inviare a parenti, amici e soci in affari, che dopo il decesso si vedranno recapitare (con leggero sovrapprezzo, anche per molti decenni) i messaggi che il defunto aveva composto per loro da vivo (Bormolini, 2014).

Quello che la nostra attuale società sogna è di vivere in un attuale presente, ma l’improvvisa irruzione del lutto distrugge di fatto quest’antica utopia. Sostituire una natura “data”con una natura “fabbricata” è la ragion d’essere della Tecnica: così il

“death control” si accompagna al “birth control”, dove entrambi rappresentano fedelmente la negazione della morte. Quella che Thomas (2006) chiama la

“tecnocrazia medica”, si consuma anche mediante la medicalizzazione sociale (Drusini, 2009). Quest’ultimo evidenzia come se dall’archeologia si apprende che nessuna cultura al mondo ignora la morte, ne esclude contemporaneamente l’esistenza di un possibile Aldilà, dalla conoscenza diretta delle popolazioni

“primitive” emerge l’eguale rispetto per la vita e per la morte, considerate come due facce della stessa medaglia.

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CAPITOLO II

DIMENSIONE INDIVIDUALE DEL LUTTO 2.1 Teorie della perdita e del lutto

Il termine perdita (loss) è più ampio e più soggettivo/relazionale del termine morte.

Esso sta ad indicare l’aspetto latente ma ineliminabile di ogni transizione significativa, dolorosa o piacevole della vita. Procedere nello sviluppo significa acquisire nuovi ruoli e nuove relazioni, ma al contempo lasciare i vecchi e anche lasciare parti di se stessi. L’esperienza del lutto è quindi una costante del vivere, emblematicamente e radicalmente espressa nel traguardo/passaggio della morte. Il termine “perdita” sottolinea inoltre l’effetto di ciò, o di chi è venuto a mancare su chi era a lui legato, su chi rimane, nel caso della morte.

La morte non è una perdita, ma è la perdita, la sua eccedenza e irrimediabilità viene sminuita se la si inserisce entro una categoria cha la accomuna metaforicamente ad altri eventi (Scabini, 1994).

2.1.1 Freud

Per Freud il concetto del lutto è riferibile non solo alla reazione alla perdita di una persona cara, ma anche alle reazioni di una persona di fronte a perdite come quella della libertà o di un ideale. L’autore sottolinea che non si pensa mai di considerarlo come uno stato patologico, che richiede un intervento medico, nonostante si possano manifestare “gravi scostamenti” rispetto alla normale modalità di affrontare la vita. Il lutto è ritenuto superabile entro un determinato periodo di tempo, e ne si sconsiglia qualunque interferenza. L’autore evidenzia anche la contraddizione presente nell’uomo che da un lato riconosce la morte ma dall’altro è incapace di pensarla riferita a se stesso.

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Freud apre la riflessione sul tema della morte nella lettera a Fliess del 6 febbraio 1899 in cui scriveva:

“(…) eravamo naturalmente pronti a sostenere che la morte costituisce l’esito necessario di ogni forma di vita, che ognuno di noi ha verso la natura questo debito e deve essere preparato a saldarlo, e che dunque la morte è un fatto naturale, incontestabile, inevitabile. In realtà però eravamo abituati a comportarci in tutt’altro modo. C’era in noi l’inequivocabile tendenza a scartare la morte, a eliminarla dalla vita. Abbiamo cercato di mettere a tacere il pensiero della morte (…)”(2008).

È impossibile per noi raffigurarci la nostra stessa morte e ogni volta che cerchiamo di farlo, possiamo costatare che continuiamo a essere ancora presenti come spettatori. Perciò la scuola psicoanalitica ha potuto anche affermare che non c’è nessuno che in fondo creda alla propria morte o, detto in altre parole, che nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità.

In Lutto e Melanconia (1989), Freud descrive come nel lutto il mondo si svuoti divenendo povero, e al contempo, l’esame di realtà mostri la non più esistenza dell’oggetto amato. A questo punto è richiesta la sottrazione dell’energia libidica dall’oggetto che non è più, da ogni forma di legame con esso. Il processo di disinvestimento richiede tempo, tempo in cui l’Io mette in atto meccanismi, come l’identificazione, perché il processo di risoluzione è difficile e doloroso: è difficile disinvestire, spostare e investire l’energia libidica su un altro oggetto. La relazione si è interrotta in maniera definitiva, e lo scioglimento del legame richiede energia e tempo. Il lutto induce l’Io a rinunciare all’oggetto e gli offre il premio di rimanere in vita. Il lutto vedrà risoluzione con una sorta di restituito ad integrum.

Si vedrà successivamente che Freud cambierà posizione.

Riferendosi alla durata l’autore (1989) scrive:

“ che il lutto per quanto doloroso sia, termina spontaneamente”.

In analogia con la tela della compagna di Ulisse, il processo del lutto consiste in uno scioglimento e distacco, fra il tagliare o lo sciogliere pazientemente i legami con le tracce dell’esistenza dell’oggetto che tendono insistentemente a riannodarsi, fra il

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recidere questi fili o dipanarli alla maniera di Penelope (Luchetti, 2013). Laplanche (2000) pone però una domanda:

“qual è esattamente il lavoro di quest’ultima? Tessere o detessere?

Luchetti (2013) si domanda se tesse al solo scopo di detessere, di guadagnar tempo per il momento in cui il suo Ulisse tornerà o se forse detessere per tessere, ovvero per poter tessere una nuova tela. Penelope non taglia i fili, come nella teoria freudiana, li sbroglia pazientemente per poterli ricomporre in altro modo. Questo lavoro che richiede tempo, è ripetitivo ed è notturno, lontano dalla chiarezza cosciente con cui Freud pretende che si spezzino i fili a uno a uno.

Molte perdite hanno costellato la vita di Freud, e la sua lunga riflessione sulla morte è il risultato dell’intreccio della sua storia personale con il momento storico, sociale e culturale in cui ha vissuto. Il lutto paterno è doloroso ma diventa motore dell’opera L’interpretazione dei sogni (1989) nella quale illustra come la stessa opera sia stata mezzo dell’autoanalisi della sua reazione alla morte del padre, evento da lui stesso definito come il più significativo, “la perdita più radicale nella vita di un uomo”. Il tono però cambia dopo la morte della figlia trentacinquenne, in uno scambio epistolare con Binswanger, anche lui colpito dalla perdita di un figlio, l’autore (1989) confida:

“mia figlia morta, oggi avrebbe compiuto trentasei anni (…). Si sa che dopo una tale perdita, il lutto acuto si attenuerà, ma si resta sempre inconsolabili, senza trovare un sostituto. Tutto ciò che ne prende il posto, pur colmandolo interamente, resta tuttavia qualcos’altro. E in fondo, è bene così. È l’unico modo per perpetuare questo amore che a nessun costo si vuole abbandonare (…) Questo è il segreto della mia indifferenza- quello che è stato chiamato coraggio- di fronte al mio proprio pericolo di morte”.

Lucchetti (2013) commenta questo passo di Freud con chiarezza e autenticità:

“La mostruosità della morte dei figli prima di quella dei genitori impedisce una neocreazione (termine usato da Freud, 1920-1926), pone di fronte a un lutto che non si lascia mettere da parte, a legami che non si scindono e non è possibile recidere, a un amore che non si abbandona e che non abbandona, al quale tocca invece salvare.

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In questo caso può esservi forse attenuazione, ma non risoluzione ne conclusione del lutto, non vi è sostituto possibile, qui il posto vuoto può essere pure occupato per intero, ma da qualcosa che resta sempre «altro», rispetto a ciò che resta in riserva”.

2.1.2 I Modelli Stadiali

Tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso si è risvegliato un interesse crescente relativamente agli studi sul lutto e sul cordoglio con Colin Murray Parkes (1964, 1970) e John Bowlby (1961). Quest’ultimo di formazione psicoanalitica, ha operato una sintesi tra alcune indicazioni di Freud, i risultati della scuola etologica di Lorenz e Tinbergen, di quella epistemologica di Piaget e della teoria dell’apprendimento. Nel 1961 Bowlby, opera una distinzione tra “mourning” e

“grief” e successivamente identificherà le fasi del lutto.

Mourning è un processo psicologico che può iniziare con la fantasia della perdita dell’oggetto amato, con l’esperienza di separazione da un genitore in tenera età o con la perdita di un parente stretto o di un amico, e che mette in moto la previsione di perdite o di morte (Bowlby-West, 1983). É anche il lutto come insieme di reazioni esterne e agite conseguenti a una perdita, è il processo attraverso cui il lutto si risolve (Buglass, 2010).

Grief identifica lo stato soggettivo in cui sono coinvolti il rinunciare all’oggetto perduto, il lasciare andare l’illusione di una relazione con l’oggetto, e include la ricerca e il desiderio per l’oggetto di attaccamento perduto (Bolby-West, 1983).

Grief è il cordoglio (deriva dal latino cordolere=provare dolore al cuore) e l’

afflizione (dal latino adfligere=sbattere, urtare). Consiste nella reazione individuale fisica, emotiva, cognitiva, comportamentale, sociale e spirituale (Greenstreet, 2004), descritta da Freud (1989) come “dolore psichico”, vissuto dalla persona colpita dalla perdita.

Bereavement (da to bereave=orbare) è relativo al privare per sempre di qualcuno o di qualcosa, è il lutto come deprivazione, il subire una perdita, l’essere in lutto.

Corrisponde allo stato o condizione psicosociale della persona che ha subito una

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perdita affettivamente significativa. Si riferisce quindi al periodo dopo la perdita nel quale si collocano grief e mourning, definito da Stroebe et al. (1993) come lo stato in cui si sperimenta la perdita, scatenante una reazione di dolore e afflizione che si manifesta mediante una gamma di comportamenti conosciuti come mourning.

Bowlby si allontana dai concetti della psicanalisi e di Freud, che pongono l’accento soprattutto sull’identificazione con l’oggetto perduto come processo principale che interviene nel lutto, a compensazione della perdita subita. I dati d’osservazione indicano che l’identificazione non è l’unico, né il principale processo coinvolto nel lutto. Nel lutto intervengono un elevato numero e una varietà di reazioni, tendenti a entrare in conflitto fra loro. La perdita di una persona amata, suscita un intenso desiderio di ricongiungimento, ma anche rabbia per la sua dipartita, e successivamente solitamente, un certo grado di distacco, dà origine a una richiesta di aiuto, ma anche al rifiuto di coloro che cercano di rispondervi. Una perdita è dolorosa da viversi e difficile da capirsi. Le fasi del lutto identificate da Bowlby e condivise da Parkes sono quattro, sfumate, ma comunque identificabili in una sequenza complessiva, all’interno della quale il soggetto può oscillare avanti e indietro (Bowlby, 1983).

1. Fase di stordimento che può durare da poche ore a settimane, può essere interrotta da scoppi di rabbia intensa o distress. In questa fase, affrontare la quotidianità è difficile a causa d’incomprensione, negazione e preoccupazione per la perdita.

2. Fase di ricerca e struggimento per la persona perduta, e rabbia che può durare mesi, spesso anni. Un periodo d’intenso struggimento interiore, in cui la consapevolezza della realtà della morte, entra in conflitto con il forte impulso a recuperare la persona perduta e la passata struttura familiare. Da un lato vi è il convincimento che la morte sia realmente avvenuta, con il dolore e la ricerca senza speranza che ciò implica, dall’altro vi è l’impossibilità a crederlo, accompagnata tanto dalla speranza che tutto ritorni a posto, quanto da un bisogno di cercare la persona perduta,

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recuperandola. La rabbia è suscitata, sia da chi viene ritenuto responsabile della perdita, sia dalle frustrazioni incontrate durante questa ricerca, infruttuosa, per riallacciare il legame spezzato. Finché la rabbia è presente, non è stato accettato il fatto che la perdita è permanente, il che consente di sperare ancora (Bowlby, 1961b).

Il bisogno di ricercare e recuperare la persona cara perduta è un passaggio obbligato, acuto nelle prime settimane o mesi diminuendo gradualmente con il tempo. È una ricerca attiva: la persona può presentare irrequietezza motoria ed eloquio accelerato, la sua ricerca ha uno scopo, anche se il suo ricercare può apparire frammentario o inibito (Parkes, 1970b; Lindemann, 1944). Il persistere di questo impulso in modo attivo, caratterizza forme patologiche di lutto (Parkes, 1970b; Bowlby, 1963).

Ricerca incessante, speranza intermittente, delusione, pianto, rabbia, accuse, ingratitudine, sono tutti aspetti tipici della seconda fase del lutto.

Può coesistere una profonda tristezza senza scampo, compatibile con l’ammissione che il ricongiungimento è assai poco probabile. In questi momenti è possibile che la persona cerchi di liberarsi dei ricordi della persona perduta, oscillando tra la conservazione di tali ricordi come tesori e il desiderio di disfarsene.

Le fasi successive sono fondamentalmente orientate a cercare un modo per conciliare questi impulsi incompatibili. In questa fase risultano importanti gli aspetti culturali e sociali del lutto, come i rituali e le cerimonie funebri.

3. Fase di disorganizzazione e disperazione caratterizzata da sentimenti di perdita di speranza, in cui la persona in lutto è consapevole della discrepanza tra la realtà interna e l’esistente realtà esterna. Solo se la persona riesce a tollerare il tormento emotivo, la sofferenza acuta, la ricerca più o meno conscia, l’infinita analisi del come e del perché della perdita e la rabbia, può arrivare ad accettare che la perdita è definitiva e che la sua vita deve subire una ristrutturazione. Verso la fase della ridefinizione, la persona deve lasciare andare vecchi modi di pensare, sentire e di agire ancor prima

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che siano definiti i nuovi, e questo può produrre disperazione fino a depressione e ad apatia. Se questa fase si alterna a quella in cui il soggetto comincia a esaminare la nuova situazione, e considerare come può affrontarla, avviene il passaggio alla fase successiva.

4. Una fase di minor o maggior grado di ridefinizione, di sviluppo di una nuova serie d’ipotesi, include il ritrovare una nuova personale identità. Solo ad avvenuta ridefinizione di sé e della situazione è possibile pianificare il futuro.

Il processo di ridefinizione non è solamente una liberazione di affetti, è anche un atto cognitivo, da qui dipende tutto il resto. È un processo di

“realizzazione” (Parkes, 1972), in cui si costruiscono nuove rappresentazioni interne, adeguate ai cambiamenti avvenuti nella vita di colui che sopravvive.

Da questo, nasce la comprensione della necessità di assumere nuovi ruoli e nuove capacità.

La trasformazione e la realizzazione possono essere viste come fasi di sviluppo del lutto soggettivo, che consistono in un’esperienza di consapevolezza circa il proprio stato soggettivo, che conduce verso una nuova identità (Bolwby-West, 1981).

L’abilità di sperimentare se stessi come cambiati e realizzati, ed esprimere questa nuova identità, può essere un importante processo di guarigione (Bowlby-West 1983).

Parkes (1967) descrive il lutto come ‘sickness’ ed evidenzia come molte persone che hanno subito una grande perdita con il tempo riacquistano forza, esperienza che può essere definita, recupero o reinserimento o accettazione.

Esisterebbero due fasi supplementari del recupero: la trasformazione e la realizzazione. Il termine trasformazione è espressamente riferito al distacco, cioè allo scioglimento dell’attaccamento alla persona morta, e a un’esperienza

emotiva di sé, in relazione con l’amore universale. (Bowlby-West, 1983). Questa esperienza è stata descritta in innumerevoli storie di vita personali, laddove le persone riferiscono l’esperienza del distacco (Gunther, 1949;

Frankl, 1955; Dooley, 1960; Kushner, 1981).

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Analogamente, una persona morente può sperimentare la trasformazione e il permettere a coloro che sono in lutto di “lasciarsi andare”, e passare nella fase di trasformazione e realizzazione. Il termine realizzazione (Maslow, 1962) consiste nell’agire sulla base dell’esperienza della trasformazione, utilizzando il nuovo senso di sé, l’essersi liberato dal legame di attaccamento, crescendo nella pienezza di sé o come descritto da Maslow, realizzando il proprio potenziale interno.

Molte teorie o modelli relativi al lutto hanno in comune la presenza di fasi o temi (Worden 1991; Bowlby, 1983; Parkes, 1975; Kubler-Ross, 1969; Lindemann, 1944). Lindemann (1944), sulla base della sua esperienza clinica sviluppò un modello di lutto in cinque fasi:

1. Disturbi somatici come senso di oppressione alla gola, affanno o soffocamento

2. Preoccupazione 3. Sensi di colpa

4. Sentimenti di ostilità o rabbia 5. Difficoltà nei compiti quotidiani

In questa prospettiva, il processo psicologico per affrontare una perdita significativa richiedeva il distacco emozionale dal defunto, e l’adattamento a un nuovo ambiente in cui il defunto non era incluso (Lindemann, 1944).

Nel suo saggio La Morte e il Morire (1976) Kübler-Ross ha identificato cinque stadi del lutto in persone affette da malattie terminali:

1. Rifiuto e isolamento. Il rifiuto dopo una notizia scioccante e inattesa ha la funzione di paracolpi, permettendo al malato di ritrovare il coraggio, e con il tempo mobilizza altre difese, meno radicali. Secondo l’autrice, il bisogno di rifiuto è una difesa temporanea, che solitamente viene in un secondo tempo sostituito da una parziale accettazione, ma soprattutto è direttamente proporzionale al bisogno di rifiuto del medico. Nel caso che il rifiuto sia

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mantenuto fino alla fine, non necessariamente accresce la pena. Ciò che l’autrice rileva è che il bisogno del rifiuto esiste, generalmente, in ogni malato all’inizio, più che verso la fine, di una grave malattia. Molti pazienti riescono a mantenere un mondo fittizio, in cui essi sono sani e stanno bene finché muoiono.

2. Rabbia. Quando si esaurisce la fase di rifiuto, subentra uno stato di collera, invidia e risentimento, diretti in ogni direzione sull’ambiente. Questi sentimenti originano dall’improvvisa interruzione delle proprie attività, dei propri sogni e dei propri progetti causata dall’irruzione della malattia nella propria vita, mentre intorno la gente pare continuare a beneficiare di tutto quello che la persona è stata improvvisamente privata. Il malato si lamenta per ogni cosa, ma il nucleo centrale di questa fase consiste nella paura di essere dimenticato e lasciato solo.

3. Patteggiamento. Se la prima fase è caratterizzata dall’incapacità di affrontare la realtà e la seconda dalla collera con la gente e con Dio, nella terza si assiste al tentativo di mercanteggiare, di accordarsi per poter rimandare l’evento. Il venire a patti è un tentativo di dilazionare, prevede un premio per buona condotta, pone un limite di tempo e la promessa di non chiedere altro, se la dilazione gli sarà concessa. In realtà nessun malato mantiene la promessa, e a un patteggiamento, ne farà seguito sempre un altro.

4. Depressione. Quando il malato non può più negare, di fronte al corpo che dimagrisce e perde forza, quando insorgono altri sintomi, tutti i sentimenti che hanno caratterizzato la fase precedente sono sostituiti dal senso della grave perdita che subisce, una perdita globale. In realtà vi sono due tipi di depressione una reattiva e una preparatoria. La prima può in parte ridursi se qualcuno si prende cura dei problemi esistenziali, come la cura dei figli, della casa o di anziani o nel poter usufruire di ausili e presidi medici che consentano il mantenimento di una buona qualità di vita. La seconda di tipo preparatorio non è il risultato di una perdita subita, ma prende in

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considerazione le perdite che verranno, quelle future, come l’imminente perdita di tutti gli oggetti del proprio amore, dell’integrità e funzionalità fisica, del ruolo familiare e sociale, ovvero della propria identità fino allora vissuta. È una depressione silenziosa, diversa dalla depressione reattiva nella quale il paziente richiede molte interazioni verbali e ha molto da comunicare. Nel dolore che prepara alla morte, cala il silenzio, e i sentimenti si esprimono attraverso una carezza, attraverso il tenere la mano, spesso in uno scambio reciproco, oppure semplicemente stando in silenzio. Non è insolito che esista una discrepanza fra il desiderio e la disposizione del malato, e le attese di coloro che gli sono vicino. Ciò porta ad agitazione nei malati. L’autrice enfatizza la necessità di una maggior consapevolezza da parte dei sanitari di questa discrepanza, e del conflitto fra paziente e familiari. Sarebbe auspicabile una maggior consapevolezza, sia da parte dei familiari sia del personale sanitario. A questo proposito Kübler-Ross scrive riferendosi agli operatori sanitari:

“dovrebbero sapere che questo tipo di depressione è necessario e benefico perché permette al malato di morire in uno stato di accettazione e di pace.

Soltanto i malati che hanno potuto superare le loro angosce e ansietà riescono a raggiungere questa fase. Se questa rassicurante constatazione potesse essere comunicata ai familiari anche a questi sarebbe risparmiata tanta angoscia inutile”.

5. Accettazione. Se il malato ha avuto il tempo sufficiente ed è stato aiutato a superare le quattro fasi precedenti, raggiungerà uno stato in cui non sarà arrabbiato né depresso, per il suo destino. Non si tratta di una rinuncia rassegnata e senza speranza: l’accettazione non ha a che fare con la felicità bensì con un “quasi vuoto” di sentimenti. Il malato non ha più voglia di parlare e non gradisce le visite. L’esserci, può rassicurarlo del fatto che non lo si lascerà solo, la pressione della mano, come uno sguardo, può comunicare molto più di mille parole non dette. I malati muoiono con minori difficoltà, se glielo si permette e se si aiutano a distaccarsi gradualmente, da

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tutti i rapporti importanti della loro vita. Per Kübler-Ross la fase dell’accettazione non conosce la paura né la disperazione, e potrebbe essere paragonata alla prima infanzia, quella descritta da Bettelheim (2005):

“era davvero un’età in cui non ci chiedevano niente e ci davano tutto quello che volevamo. La psicoanalisi considera la primissima infanzia come un tempo di passività, un’età di narcisismo primario, quando noi esperimentiamo l’io come il tutto”.

Questo modello è stato il frutto del lavoro clinico dell’autrice, costruito per comprendere e per venire a patti con la morte, ed è stato usato ampliamente. La teoria stadiale del lutto è un modello ampiamente accettato dalla comunità scientifica, anche se non è mai stata testata sperimentalmente.

Il rapporto del Center for the Advancement of Health (Report, 2001), ha concluso che la teoria del lutto, si è allontanata dalla stretta relazione con la teoria multistadiale della Kübler-Ross, che attualmente il lutto non si considera così facilmente distinguibile in stadi (Genevro, Marshall, Miller, 2004) e che le risposte alla perdita sono ampiamente variabili e non vi è un chiaro e definito corso o processo del lutto e del cordoglio (Buglass, 2010).

Il dibattito in letteratura sulla validità di questo modello ha infatti evidenziato risultati contraddittori (Bonanno, 2007; Stroebe, Schut, Stroebe, 2005; Bonanno, Wortman, Lehman, 2002; Wortman, Silver, 1989; ).

Alcuni ricercatori, (Maciejewski, Zhang, Block, Prigerson, 2007) hanno evidenziato che, sebbene siano presenti delle fasi, queste non si verificano necessariamente nell’ordine temporale previsto dalle teorie stadiali e, contrariamente alla teoria, l’accettazione è risultata l’indicatore del lutto più frequente, seguito dall’incredulità.

Inoltre, gli autori, ipotizzano che ogni stadio non può essere definito da un singolo indicatore del lutto. Utilizzando i cinque indicatori indicati dalla teoria stadiale (incredulità, desiderio e ricerca del defunto, rabbia, depressione e accettazione), hanno valutato l’entità e i pattern di cambiamenti nel tempo dopo una perdita. Per la valutazione dell’incredulità, del desiderio, della rabbia e dell’accettazione, è stato

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somministrato l’Inventory of Complicated Grief-Revised precedentemente conosciuto come Traumatic Grief Response to Loss (Prigerson, Jacobs, 2001). Per la valutazione della depressione è stato utilizzato un questionario specifico per malattie terminali (Chochinov, Wilson, Enns, 1997). Di questi indicatori, più che la severità è stata valutata la frequenza nelle risposte al questionario, in quanto la frequenza è risultata essere maggiormente significativa per valutare l’impatto dell’evento. I dati ricavati da situazioni in cui la diagnosi di malattia terminale è stata effettuata entro sei mesi dalla morte sono stati confrontati con situazioni in cui la diagnosi è stata effettuata oltre i sei mesi precedenti la morte. I sei mesi sono stati utilizzati come soglia perché questo è risultato il tempo dopo il quale è possibile distinguere il lutto normale da quello compilcato (Zhang, El-Jawahri, Prigerson, 2006; Prigerson, Maciejewsky, 2005). È risultato che, l’incredulità non è un indicatore predominante del lutto, mentre se l’accettazione è l’elemento più diffuso, il desiderio è l’indicatore negativo dominante, nel periodo da uno a dodici mesi dalla perdita. È anche emerso che l’incredulità da un picco iniziale si ridimensiona ad un mese dalla perdita, per gli altri parametri si osserva che il desiderio presenta un picco a quattro mesi, la rabbia a cinque mesi, la depressione raggiunge il picco a sei mesi dalla perdita, a differenza dell’accettazione che aumenta durante tutto il periodo dell’osservazione. I cinque indicatori raggiungono il proprio valore massimo nella sequenza prevista dalle teorie stadiali: incredulità, desiderio, rabbia, depressione e accettazione.

Una limitazione dei modelli a stadi, o a fasi, è che presentano una rigidità della struttura, perché la sequenza risulta predefinita mentre nella realtà le fasi o gli stadi spesso si sovrappongono o accadono in maniera non sequenziale. Corr (1993), sostenendo che ciò deriva dal fatto che il modello stadiale è costruito su impressioni cliniche e non su dati sperimentali, argomenta sulla somiglianza dei cinque stadi ai meccanismi di difesa e ne mette in dubbio l’utilizzo, in un complesso processo di lutto, a causa di un’eccessiva linearità, rigidità e passività. Inoltre il modello del lutto in individui con malattie a prognosi infausta della Kübler-Ross è stato spesso travisato ed è stato applicato all’individuo in lutto: la persona che sta morendo può

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essere afflitta per la perdita del suo futuro e per il poco tempo che le resta da vivere, a differenza delle persone in lutto, che piangono la perdita di una persona e la privazione di questa dalla loro vita.

Bowlby (1983) prevede una serie di fasi in una sequenza complessiva, che sono state esposte precedentemente.

Secondo Bowlby le relazioni di attaccamento nell’infanzia plasmano le reazioni alle perdite nella fase adulta, lo stile di attaccamento come risultato di un’interazione diadica, e la relazione che ne deriva, rimarrebbero attivi in tutto l’arco del ciclo di vita (Buglass, 2010).

Stroebe (1992), discute alcune delle carenze associate alle ipotesi del lavoro del lutto, come l’idea di dover affrontare l’esperienza di venire a patti con la morte, per evitare dannose conseguenze per la salute.

Parker (1964), condivide le quattro fasi di Bowlby, con cui collabora strettamente, ma nota che queste non sono strettamente lineari ma possono essere sperimentate più volte, come risultato di ricordi o in occasione di anniversari. Il lutto è un processo che non coinvolge sintomi che iniziano dopo una perdita e si dissolvono, ma consiste in una successione di fasi, che si fondono e si interscambiano (Parkes, 1996).

Worden (1991) addotta un approccio diverso al lutto, il suo modello prevede alcuni compiti da svolgere: dalla fase passiva di cordoglio e afflizione a compiti attivi dell’elaborazione del lutto. Include quattro compiti:

1. Accettazione della realtà della perdita 2. Sperimentare il dolore

3. Adattarsi a una realtà in cui non è più presente il defunto, sviluppare nuovi ruoli e un nuovo senso del sé nel mondo.

4. Dare un nuovo spazio al proprio caro e proseguire nel proprio percorso di vita. La ricollocazione richiede che la persona stabilisca una relazione che continua, attraverso i ricordi del proprio caro che le permetta di continuare a vivere.

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2.2 L’adattamento alla perdita: il coping nel lutto 2.2.1 Il Modello del Doppio Processo

Stroebe et al. (2004) suggeriscono che il lavoro del lutto sia un processo molto più attivo dello sperimentare il dolore passivamente, e criticano il modello di Worden (1991), evidenziando che non tutti intraprenderanno i compiti nell’ordine designato. Inoltre il completamento di ciascun compito, dovrebbe aiutare l’adattamento alla perdita o alla morte, in un tempo limitato.

Gli stessi autori sottolineano, che oltre all’accettazione della realtà della morte, è necessario accettare anche i cambiamenti che accadono. La persona che è in lutto ha bisogno di tempo per piangere, e dovrebbe sviluppare nuovi ruoli, identità e relazioni.

I modelli stadiali tentano di trovare pattern simili nei comportamenti umani. Questo può essere d’aiuto a coloro che piangono, per avere conforto dal sapere che le loro esperienze e i loro sentimenti sono condivisi da altri.

Tuttavia, come abbiamo accennato, una limitazione di questi modelli è che spiegano il lutto in un modo eccessivamente lineare e presentano elementi di rigidità nella struttura dell’evoluzione dei processi di adattamento che descrivono. Gli autori evidenziano che questi modelli prescrittivi, non permettono alcuna variazione, portano a giudizi riguardo quale sia la modalità corretta o sbagliata di provare dolore, ed essendo stati sviluppati all’interno della cultura occidentale, potrebbero non essere applicabili a persone in lutto appartenenti ad altre culture.

Il Modello del Doppio Processo (Stroebe, Schut, 1999), integra concetti esistenti con l’idea di un’oscillazione tra i comportamenti di coping. In questo modello viene descritto come l’individuo in lutto fronteggia l’esperienza della morte e i conseguenti cambiamenti nella sua vita, attraverso processi sia orientati alla perdita, sia orientati a una riorganizzazione.

I processi orientati alla perdita sono specificatamente legati alla perdita come l’elaborazione del lutto, le ruminazioni, il desiderio e la ricerca della persona

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perduta, associati a comportamenti come il visitare luoghi o ascoltare musica che risveglino in maniera intensa il dolore. I processi orientati al recupero, consistono in cambiamenti dello stile e delle abitudini di vita, come l’affrontare ogni giorno la vita, e costruire nuovi ruoli e nuove relazioni.

Il modello del doppio processo è molto flessibile, adattabile a differenti culture e suggerisce che la maggior parte delle persone in lutto avrà bisogno di muoversi, avanti e indietro tra i due domini, tra problematiche pratiche ed emozionali.

Entrambi i processi sono necessari per l’adattamento e sono influenzati sia dalle circostanze della morte, sia da fattori di personalità, sia da variabili culturali e di genere; l’intensità e il grado dei processi variano da individuo a individuo. Tale modello riconosce l’importanza sia dell’espressione sia del controllo dei sentimenti, e implica che la modalità soggettiva di affrontare un lutto, non può essere valutata frettolosamente. Rimane da chiarire lo scopo dell’oscillazione. Il modello può essere criticato per alcuni aspetti, come ad esempio il riporre troppa enfasi sulle abilità di

The Dual Process Model of Coping with bereavement Strobe, Schut (1999)

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coping individuali. Non appare esserci alcun ruolo per le relazioni interpersonali, nell’aiutare le persone a venire a patti con la morte.

I membri di una famiglia possono avere la propria interpretazione della morte, e interagire con quella degli altri per determinare il procedere del cordoglio all’interno della famiglia.

Un vantaggio di questo modello è che introduce l’effetto delle credenze culturali e religiose nel processo del lutto, enfatizzando così l’individualità dell’esperienza della perdita e del lutto, ma anche alcuni rilevanti aspetti della dimensione sociale.

2.2.2 Il Modello del Doppio Processo Integrato

Se per Freud e per la tradizione psicoanalitica, la funzione psicologica del cordoglio consiste nel lasciare andare il defunto, distaccandosi, rivivendo il passato e i ricordi, per poter superare la perdita, si deve evidenziare che alcuni autori hanno sfidato queste credenze di lunga data, sostenendo la necessità di mantenere i legami con il defunto, per il futuro adattamento (Klass, Silverman, Nickman, 1996; Payne, Horn, Relf, 1996). Sebbene nella letteratura scientifica vi sia stata una certa alternanza di prospettive, c’è stata sempre una maggior focalizzazione sui benefici del continuare a mantenere un legame con la persona deceduta.

Ad oggi vi è un’ulteriore comprensione del fatto che non esistono regole: non è adattivo continuare a mantenere un legame con il defunto, né rinunciare a lui e sciogliere il legame (Field, 2008; Field, Gao, Paderna, 2005; Stroebe, Schut, 2005).

Alcune persone hanno la necessità di mantenere o intensificare il legame, per ricollocare la persona deceduta, nella continuazione della loro vita.

Field et al. (2005) evidenziano il ruolo delle differenze individuali sull’efficacia o inefficacia del mantenere un legame, attraverso la presenza di una relazione interna con la persona deceduta, per affrontare il lutto. Vi è quindi la necessità di approfondire la ricerca per comprendere 'a chi' mantenere o sciogliere il legame promuove l’adattamento, chiarire il processo e le dinamiche attraverso cui la continuazione o lo scioglimento del legame può essere raggiunto e come questi

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processi correlano con l’adattamento, chiedendosi come le persone in lutto ricollocano affettivamente, cognitivamente e dal punto di vista comportamentale, il loro perduto amato (Strobe, Schut, 2005). Le formulazioni teoriche dovranno migliorare la comprensione delle complesse relazioni che esistono tra il continuare o lo spezzare legami e l’adattamento, permettendo più precise predizioni su chi avrà maggiori benefici o danni dal continuare il legame (Field, 2008; Field et al.

2005).

Schut e Stroebe (2005) hanno adottato la Teoria dell’Attaccamento (Bowlby, 1980, 1973, 1969) come riferimento teorico, per spiegare i differenti patterns individuali nelle reazioni al lutto.

Field (Field, 2008; Field et al. 2005) ha definito la relazione con il defunto, sul postulato dell’ansia da separazione della Teoria dell’Attaccamento, e le fasi dell’adattamento, evidenziando che la modalità di continuazione del legame può essere definita identificando queste modalità di continuità del legame, in accordo con gli stili di attaccamento.

Analogamente, altri autori hanno correlato gli stili di attaccamento a complicazioni nel processo del lutto (Mikulincer, Shaver, 2008, Stroebe et all, 2005; Shaver e Tancredy, 2001).

Tuttavia le ricerche effettuate in tale direzione non sono state guidate da una teoria ad eccezione dello studio sperimentale di Field (2005). Le ricerche sperimentali non hanno chiarito il disegno rispetto a questa relazione: a volte è stato trovato un migliore adattamento continuando il legame, altre volte no (Boelen, Schut, Stroebe, Zijereveld, 2006; Schut, Stroebe, Boelen, Zijereveld, 2006; Field, Gal-Oz, Bonanno, 2003).

Stroebe, Schut e Boerner (2010), hanno cercato di disegnare un modello teorico per predire l’adattamento o il maladattamento conseguente al mantenimento o allo scioglimento del legame. Questo modello, specifico per il lutto, origina dall’integrazione tra la Teoria dell’attaccamento, il Modello del Doppio Processo, La Teoria delle Rappresentazioni Mentali e la modalità di legame continuato/sciolto.

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Il modello prevede l’analisi degli stili di coping e dei processi cognitivi all’interno della Teoria dell’Attaccamento, e si propone di predire ed esaminare sperimentalmente la relazione tra l’adattamento al lutto e il tipo di legame.

Nella Teoria dell’Attaccamento s’ipotizza che la mancanza/fiducia e la conseguente insicurezza/sicurezza sperimentata dall’individuo nella sua relazione primaria, influenzerà la continuazione o lo scioglimento della relazione con un caro defunto.

L’assunto di base è che vi sia una continuità nel ciclo di vita.

La Teoria dell’Attaccamento è basata su ricerche sperimentali, ed è stato sviluppato un sistema di classificazione di differenti tipi di relazioni nei termini di stile d’attaccamento sicuro e stile d’attaccamento insicuro (Main, Solomon, 1990, 1986;

Ainsworth, Blehar, Waters, Wall, 1978).

In breve l’attaccamento sicuro nell’età adulta è caratterizzato dalla facilità a essere vicini a un altro, dalla reciprocità, dall’accoglienza e dalla disponibilità emotiva, e dalla capacità di alternare vicinanza e allontanamento. L’attaccamento sicuro è

The Dual Process Model of Coping with bereavement: Process analysis Strobe, Schut (2001)

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correlato con maggiori livelli di benessere e soddisfazione, dell’attaccamento insicuro (Collins, Read, 1990; Feeney, 1999).

L’attaccamento insicuro è stato classificato come insicuro-evitante, insicuro- resistente (ambivalente) e disorganizzato-disorientato.

Un altro importante predittore, considerato da questo impianto teorico, sono i cosiddetti Modelli Operativi Interni, rappresentazioni della relazione di sé e della figura di attaccamento, che il bambino costruisce, in grado di organizzare pensieri e ricordi e di guidare i comportamenti (Bowlby, 1969). Recentemente, e con implicazioni importanti per la comprensione della natura del legame che continua, i teorici dell’attaccamento hanno cominciato a utilizzare l’ansia e l’evitamento, come variabili continue, correlate all’attaccamento al posto dei quattro stili con cui sono compatibili (Brennann, Clark, Shaver, 1998). Differenze individuali nello stile di attaccamento possono essere valutate mediante queste due dimensioni. La posizione di un soggetto sulla dimensione dell’ansia indica la misura con cui il soggetto si preoccupa dell’affidabilità e del supporto della figura di attaccamento nel momento del bisogno; la stessa sulla dimensione dell’evitamento, valuta quanto l’individuo diffida della buona volontà del partner e il suo impegno a mantenersi indipendente e distante. Bassi punteggi in entrambe le dimensioni indicano attaccamento sicuro, alti in entrambe sono indice di attaccamento disorganizzato- disorientato. Bassi punteggi nell’ansia e alti nell’evitamento connoteranno l’insicuro evitante, mentre l’insicuro resistente avrà alti punteggi nell’ansia e bassi nell’evitamento (Mikulincer, Shaver, 2008; Bartholomew, Horowitz, 1991).

In generale è possibile sostenere che le persone orientate a un attaccamento sicuro continuano a mantenere un legame, d’intensità moderata, e gradualmente ricollocano il defunto; l’insicuro-evitante scioglierebbe totalmente il legame;

l’insicuro-resistente vorrebbe continuare il legame in maniera incessantemente aderente; mentre il disorganizzato-disorientato subirebbe una grande confusione e incertezza nel conservare o liquidare il proprio legame (Stroebe, Schut, Boerner, 2010).

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Numerosi modelli nell’ambito del lutto hanno collegato i fenomeni dell’attaccamento, o le relazioni coniugali, come variabili, alle modalità di coping (Bonanno, Kaltmann, 1999; Stroebe, Schut, 1999; Parkes, 1988, Rubin, 1992, 1999).

In accordo con questo modello, il coping orientato alla perdita, ha a che fare direttamente con la persona deceduta, mentre il coping orientato alla restituzione, è focalizzato su stressor secondari derivanti dalla morte (ad esempio il cambiamento da marito a vedovo). L’oscillazione dei processi è postulata in quanto il soggetto in lutto deve affrontare ed evitare i due tipi di stressor, ad esempio può essere occupato a pensare a cose direttamente correlate alla perdita, sul come andare avanti, orientato alla perdita, e poter spostare l’attenzione su uno stressor secondario come fronteggiare da solo la gestione finanziaria. Seguendo questo processo l’adattamento comporta entrambi i confronti e gli evitamenti dei due tipi di stressor.

L’analisi del coping in questo modello, si focalizza sul processo di confronto ed evitamento, sulla valenza positiva e negativa dell’emozione o della situazione, in quanto affrontata o evitata. L’enfasi è stata data sugli effetti dell’affrontare-evitare, del significato positivo-negativo attribuito come regolatori del processo di adattamento. Sulla scia di numerosi studi sperimentali (Folkman, 2001; Folkman, Chesney, Cooke, Bocellari, Collette, 1994), Stroebe e Schut (2001) hanno suggerito che emozioni positive e il trovare significati positivi, sono necessari per un buon coping nel lutto, e che queste manifestazioni non sono solo associate ma sono in relazione causale all’adattamento. Hanno perciò integrato il modello del doppio processo con i percorsi di valutazione positiva e negativa, postulando come la regolazione del processo stesso, avvenga in maniera oscillatoria fra i due. Sulla stessa linea di ricerche è stato evidenziato che uno stile di coping rimuginativo porta a un lutto persistente (Nolen-Hoeksema, 2001; Nolen-Hoeksema, Parker, Larson, 1994). Recenti ricerche hanno confermato i postulati del modello (Bonanno, Papa, O’Neill, Wesphal, Coifman, 2004).

È necessario ora comprendere la natura delle rappresentazioni mentali del defunto, e come queste vengono trasformate durante il processo del lutto. Queste

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rappresentazioni immagazzinate nella memoria esplicita, possono essere recuperate dalla persona in lutto per conforto o anche per disagio (ad esempio “mia madre non mi ha mai aiutato”). È stato evidenziato che le rappresentazioni esplicite del defunto e le rappresentazioni internalizzate, influenzano l’ampiezza e il tipo di legame con lo stesso. La trasformazione della relazione coinvolge la destrutturazione di alcune componenti dei costrutti mentali, mentre ne vengono mantenute e costruite altre. Una trasformazione della rappresentazione avviene mediante la sostituzione della relazione perduta con rappresentazioni mentali richiamate (ricordando cosa lui diceva) o costruite ex novo (immaginando cosa il defunto avrebbe detto)(Boerner, Heckhausen, 2003).

Boerner e Heckhausen (2003), attingono alla teoria del controllo (Heckhausen, Schultz, 1995), per distinguere due modalità di adattamento, un controllo primario e un controllo secondario, che riflettono l’impegno attivo per lo scopo o il disimpegno. Il controllo primario è orientato all’ambiente esterno e coinvolge tentativi per cambiare il mondo, per soddisfare i bisogni dell’individuo. Il controllo secondario, è diretto all’interno e focalizzato sul tentativo di minimizzare e promuovere il controllo primario. Gli autori evidenziano che le strategie compensatorie del controllo secondario come il disimpegno o le attribuzioni auto- protettive, diventano più adattive durante il lutto, da quando le strategie del controllo primario riflettono l’impegno allo scopo perché l’individuo si confronta con una situazione che è un’irreversibile perdita di controllo.

Gli stessi autori postulano che il disimpegno da una persona deceduta e l’adattamento alla perdita, richiedono una ristrutturazione cognitiva e affettiva non intenzionale, che i meccanismi attraverso cui avviene il disimpegno sono sostituzione di obiettivi e svalutazioni dell’obiettivo impedito. Nel caso di lutto, una svalutazione della persona amata perduta è atipica e risulterebbe in un disimpegno piuttosto che in una trasformazione che coinvolge sia disimpegno che legame. La trasformazione è influenzata dalle tendenze di coping e dal contesto sociale, che possono promuovere o compromettere la costruzione delle rappresentazioni mentali. Ad esempio un contesto sociale che scoraggia la compartecipazione a

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commemorazioni e la disposizione a mantenere un controllo primario non porta a richiamare o a sviluppare nuove rappresentazioni mentali, rendendo la trasformazione del legame molto difficile.

Questa, ad oggi, è la più fine e sottile analisi di processo sull’argomento della continuazione o dello scioglimento dei legami; essa suggerisce come le dinamiche possono funzionare ed elabora un processo attraverso il quale può essere ricercata una continua connessione, e come tale connessione possa essere adattiva o meno.

Il processo della trasformazione non è dissimile dall’oscillazione del doppio processo: risultano così modelli compatibili. Un possibile predittore della trasformazione mentale del legame è l’attaccamento sicuro.

In sintesi, questo modello teorico risulta dall’associazione tra la concettualizzazione dell’esito del lutto derivante dalla Teoria di Lazarus e Folkman (1984) e il modello del doppio processo. Inquadrata all’interno della teoria di Lazarus e Folkman, la perdita può essere considerata lo stressor e la valutazione cognitiva individuale, positiva o negativa, associata all’abilità di fare fronte alla tensione emotiva e alle sfide conseguenti la perdita stessa, come variabile che può influenzare l’outcome del lutto (Stroebe, Schut, 1999, 2010).

La Tab. 1 mostra il Modello Integrativo della Continuità dei legami e dell’Adattamento al Lutto.

Questa teoria integrata al modello del doppio processo, ha contribuito allo sviluppo del più completo inquadramento del lutto fino ad oggi (Hanssons, Schut, 2006), in quanto considera le relazioni tra la natura del lutto in termini delle variabili di orientamento alla perdita o alla reintegrazione, dei fattori di rischio interpersonali (supporto sociale, fattori culturali, dinamiche familiari), dei fattori di rischio intrapersonali (stile d’attaccamento, dei modelli operativi interni, abilità intellettive, stato socioeconomico), della valutazione cognitiva dell’evento e del coping conseguente (negativa/positiva e regolazione emozionale) nel predire gli outcomes della perdita a breve e a lungo termine (intensità del dolore, reintegrazione sociale, psicologica e benessere).

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Inoltre, laddove si propone un’ associazione tra processi e adattamento, è necessario evidenziare che le persone, probabilmente cambieranno durante il processo del lutto, ad esempio una valutazione negativa può inizialmente far parte di un adattamento al dolore, ma in una fase più tardiva non altrettanto. Infine, anche questo approccio è focalizzato su fattori intrapersonali, anche se al contesto della perdita viene riconosciuta una certa importanza (Boerner, Heckhausen, 2003;

Bonanno, Kaltmann, 1999).

Questa prospettiva integrata può essere utilizzata come guida per ricerche sperimentali. Tutti i costrutti considerati possono essere operazionalizzati e sottoposti a future disamine. Ad esempio una delle possibili linee di ricerca potrebbe essere esaminare sperimentalmente le connessioni tra stili di attaccamento, modalità di coping e rappresentazioni mentali. Numerosi studi saranno necessari per la valutazione dei costrutti e delle dimensioni coinvolti. Gli strumenti per la valutazione nell’area dell’attaccamento, per stabilire stili e dimensioni, sono abbastanza avanzati. La valutazione dei parametri coinvolti nel Modello del Doppio Processo è invece relativamente nuova, cominciando ora ad essere effettuata.

In questo contesto è importante che siano già state sviluppate sofisticate valutazioni psicometriche del coping, ad esempio può essere utilizzata una versione adattata della Ruminative Coping Scale di Nolen-Hoeksema (1994), per valutare la presenza di eccessiva focalizzazione orientata alla perdita. Non sono possibili misurazioni dirette delle rappresentazioni mentali del deceduto come concettualizzato in questo modello, tuttavia alcuni item della Continuing Bonds Scale di Field (2003) possono riflettere qualcosa delle rappresentazioni mentali.

Alcuni item della Grief Scale, che indicano la capacità di muoversi verso la vita, possono rappresentare disimpegno. Svariate valutazioni della salute mentale e fisica, possono essere considerate per valutare la relazione con gli esiti, e testare i previsti outcome per i quattro possibili differenti profili come indicato nella Tab.1.

Se i parametri possono essere definiti sperimentalmente, non è secondario l’utilizzo

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clinico del modello integrato, perché potrebbe portare il legame maladattivo al centro della pianificazione di un supporto.

Il ruolo degli stili d’attaccamento nella psicopatologia e nella psicoterapia sono stati documentati estesamente (Mikulincer, Shaver, 2007), così come l’importanza di considerarli per facilitare la comprensione delle problematiche del paziente e la selezione d’interventi appropriati (Shorey, Snyder, 2006). Questo modello potrebbe aiutare l’identificazione delle persone in lutto che sono a rischio di problematiche di salute a lungo termine o di adattamento. Per esempio la presenza di uno stile d’attaccamento insicuro-preccupato e di uno sforzo a un controllo rigido, potrebbero essere indicatori per lavorare sulla relazione in corso, in aggiunta all’applicazione dei criteri di lutto cronico/prolungato. Il modello potrebbe essere utilizzato come guida per la ricostruzione delle rappresentazioni mentali della persona defunta, per incoraggiare, identificando le aree, il muoversi nella vita attuale, senza il defunto. Tradurre i principi del modello in passaggi concreti, sarebbe possibile per l’intervento con coloro che soffrono di lutto complicato, e per guidarli verso una modalità più adattiva del mantenere/sciogliere i loro legami con l’amato defunto.

2.3 La resilienza e l’approccio salutogenico

Il termine resilienza è stato mutuato dalla fisica per indicare la capacità di riuscire, di vivere, di svilupparsi positivamente, in maniera socialmente accettabile, nonostante lo stress o un evento traumatico che generalmente comportano il grave rischio di un esito negativo. Cyrulnik (2005), la definisce come “l’arte di navigare sui torrenti”: nonostante un evento traumatico imprevisto, dopo essere stato da questo travolto, il soggetto deve ricorrere alle sue risorse interne, impresse nella memoria, per poter lottare. Comprende la capacità agire positivamente traducendo nella pratica le proprie intenzioni di costruire la realtà (Simonelli, Simonelli, 2010).

La resilienza, seppur legata a caratteristiche psicologiche individuali, si caratterizza anche per l’uso di risorse relazionali e processi di apprendimento legati alla

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partecipazione sociale. Wolin e Wolin (1993), hanno definito la resilienza

“l’adattamento riuscito nonostante il rischio e l’avversità”.

La resilienza permette di risanare le ferite, riprendere il controllo della propria esistenza e vivere e amare pienamente, divenendo in questo modo un potenziale fattore di salutogenesi. Essere resilienti non significa avere un involucro, che protegge da ogni avversità, ma impedisce anche ogni scambio, né uscire indenni dalle esperienze di sofferenza e di difficoltà che impone la vita. È necessario anche non confonderla con il funzionamento competente perché la resilienza, riguarda tutta la persona nella sua interezza. Coraggio e sofferenza si mescolano, e in questa battaglia fra il soffrire e il lottare si cela lo sforzo di integrare l’esperienza della crisi nella trama complessa della nostra identità individuale e sociale, consapevoli che influenzerà il nostro modo di affrontare la vita in futuro. Si diviene resilienti affrontando le difficoltà della vita, le crisi, le avversità.

Walsh (2008), in riferimento alla resilienza cita una frase di Albert Camus:

“nella profondità dell’inverno, ho imparato alla fine che dentro di me c’è un’estate invincibile”.

Alcuni tratti individuali che possono favorire lo sviluppo della resilienza, sono caratteristici della cosiddetta Hardiness (Kobasa, 1979), che può essere sinteticamente riassunta nella presenza di un Locus of Control interno, uno stile di coping flessibile, focalizzato sul problema e non sull’emozione o l’evitamento, coinvolgimento attivo negli eventi e nelle relazioni, senso di risolutezza, convinzione che nella vita sia più normale il cambiamento che la stabilità, e che il cambiamento rappresenti soprattutto una sfida e non una minaccia. L’esperienza negativa diviene così un’opportunità di crescita. Le persone hardiness sono disposte a chiedere e a ricevere aiuto.

La resilienza non è un tratto stabile né un costrutto globale, poiché e possibile individuarlo nelle varie dimensioni del funzionamento del soggetto, e può quindi variare nel corso della vita. Vi sono fattori predisponenti allo sviluppo di resilienza che sono stati raggruppati fondamentalmente in tre domini:

- Caratteristiche personali, come il funzionamento intellettivo e l’assertività.

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- Caratteristiche familiari, come lo stile di attaccamento sicuro, un legame stretto con almeno un caregiver, la presenza di una famiglia in cui vi sono coesione, supporto emotivo e calore.

- Fattori socio-ambientali come un’esperienza scolastica positiva, buone relazioni con i pari e con gli adulti.

La presenza di autostima e un senso di autoefficacia elevati, accompagnati da un sentimento di fiducia e di controllo sugli accadimenti si congiunge a competenze adattive, come uno stile di coping efficace.

Molti autori preferiscono definirla in termini di processo, più che di risultato inteso come prospettiva che esamina il ciclo di vita e non è mai assoluto né totale, variabile in funzione del trauma del contesto e dello stadio di vita, e si può esprimere diversamente nelle varie culture (Egeland et al. 1993).

In realtà, il costrutto di resilienza è fortemente interconnesso con i costrutti sviluppati nell’approccio salutogenico di Antonovsky il cui nucleo è il Senso di Coerenza, dal lui stesso definito come un “pervasivo e duraturo senso di fiducia nel fatto che il mondo è prevedibile e che c’è un’alta probabilità che le cose riusciranno nel modo che ci si può ragionevolmente attendere” (1987). Questo stile di pensiero racchiude la prevedibilità, l’ottimismo e la fiducia in se stessi (Lazarus, 1991).

Simonelli e Simonelli (2010), evidenziano come il senso di coerenza permetterebbe alle persone di comprendere le sfide della vita, percepire di possedere le risorse per farvi fronte, e che esiste un senso e una motivazione per affrontarle. Il senso di coerenza si strutturerebbe durante i primi trent’anni di vita della persona, e sarebbe costruito da tre componenti:

- Senso di Comprensibilità, consiste nella componente cognitiva, che rafforza la convinzione che gli stimoli che provengono dall’ambiente hanno un significato, sono ordinati e prevedibili. La comprensione di quello che sta succedendo aiuta ad affrontare meglio le situazioni.

- Senso di Affrontabilità, consiste nella convinzione che sia disponibile un’ampia varietà di risorse per fronteggiare la situazione. Anche se avviene in misura minima o solo nella fantasia, questa percezione soggettiva è

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fondamentale nelle situazioni estreme o difficili, rappresenta la possibilità

‘avere voce in capitolo’ e di poter esprimere una scelta ad esempio in fatto di terapie.

- Senso di Significatività, consiste nell’elemento motivazionale, caratterizzato dalla speranza e risoluzione dell’individuo di farcela, percependo gli stimoli come sfide emotive e non solamente come minacce. È fondamentale dare un significato, un senso agli eventi e alle esperienze personali. Se viene perduto il significato, o non se ne ricerca il senso, si rischia di rinunciare alla vita.

Il senso di Coerenza rappresenta una modalità di leggere il mondo e la propria esperienza di vita, la realtà circostante e il proprio futuro; le difficoltà e le tragedie di vita e di ripensare ai propri orizzonti. Al costrutto di Senso di Coerenza l’autore ha affiancato quello di Strategie di Resistenza che permettono un coping positivo.

All’interno di questa denominazione sono compresi, fattori biologici come la sana costituzione, la disponibilità economica, fattori psicosociali come autostima e supporto sociale, capitale culturale, intelligenza e flessibilità.

Se la resilienza e i costrutti dell’approccio salutogenico, aiutano ad affrontare le avversità della vita, nulla però può cancellare il dolore.

2.4 La costruzione di significato

Una revisione della letteratura sul significato ha identificato due sottodimensioni: il dare un significato e il trovare un lato positivo.

Dare significato (sense making), inizialmente concettualizzato come comprensibilità (Janoff-Bulman, Frantz, 1997), si riferisce alla spiegazione di una perdita sulla base di una credenza o visione del mondo (Davis et al., 1998; Janoff-Bulman, Frantz, 1997).

Il trovare un lato positivo (benefit finding), è affine al concetto di significatività (Janoff-Bulman, Frantz, 1997) si riferisce al valore di un evento, nella vita di una persona più globalmente, e spesso coinvolge cambiamenti positivi come un

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