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Infatti, a causa dei diversi spostamenti della sua famiglia, è costretto a cambiare spesso istituto. Si diploma alla Washburn High School del Minnesota nel 1958.

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1 NOTE BIOGRAFICHE

1.1 Two dancers passed, one young,/ the other awkward in his rhyme

Welch nasce a Browning nel Montana nel 1940 da padre Blackfeet e madre Gros Ventre, ma ha anche antenati irlandesi. Frequenta le scuole nella riserva Blackfeet vicino ai confini col Canada e di Fort Belknap, e non solo.

Infatti, a causa dei diversi spostamenti della sua famiglia, è costretto a cambiare spesso istituto. Si diploma alla Washburn High School del Minnesota nel 1958.

Successivamente viene incoraggiato dai genitori a iscriversi all’università e inizia a frequentare la University of Minnesota e il Northern Montana College di Havre, per poi trasferirsi alla University of Montana, dove si laurea nel 1965. All’epoca, solo sedici nativi americani frequentavano la sua stessa università e insieme formarono l’Indian Club. Il suo interesse per la lettura e l’amore per la scrittura lo portano all’importante incontro con lo scrittore Richard Hugo, che in quel periodo insegna in un corso di scrittura creativa proprio nell’università che Welch frequenta.

1

Questo incontro segnerà la sua strada di scrittore.

1 Cfr. Welch, Lois M., “The Pleasure of His Company”, Studies in American Indian Literatures, Volume 18, Number 3, Fall 2006, p.22.

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V

Fu proprio Hugo a incoraggiare e a indirizzare il giovane James

2

perché trovasse la giusta fonte di ispirazione nella sua terra e nella sua cultura nativa

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e a far conoscere la sua arte scegliendo alcune poesie da pubblicare nell’American Review of Poetry.

4

Questo insieme di poesie dà l’avvio alla carriera letteraria di Welch, infatti la raccolta viene pubblicata in volume col titolo Riding the Earthboy 40 nel 1971. Questa è l’unica raccolta di poesie dell’autore, che successivamente si dedica alla scrittura di romanzi. Il primo è del 1974 e si intitola Winter in the Blood, poi nel 1979 esce The Death of Jim Loney; alcuni anni più tardi, nel 1986, viene mandato alle stampe il romanzo storico Fools Crow, The Indian Lawyer è del 1990, mentre la sua ultima opera, The Hearthsong of the Charging Elk, appare sulla scena letteraria nel 2000. Ma Welch non è solo scrittore di romanzi e nel 1994 collabora con Paul Stekler alla stesura del documentario storico Killing Custer: The Battle of Little Bighorn and the Fate of the Plains Indians.

Quando inizia a scrivere, James Welch è del tutto inconsapevole che con la sua letteratura e quella di altri scrittori nativi del calibro di N. Scott Momaday (che nel 1969 vince il premio Pulizer per House Made of Dawn), Gerald Vizenor, Leslie Marmon Silko, Simon J. Ortiz, Nila North Sun, Louise Erdrich, Joy Harjo,

2 Dalle parole di William W. Bevis sappiamo che Hugo è profondamente colpito quando legge per la prima volta la poesia “In My First Springtime”: «Hugo said that when he came to “Albert Heavy Runner was never civic,” he knew he had nothing to teach this young man except to tell him to keep writing». Bevis, W. William, “James Welch”, Western American Literature, Volume 32, Number 1, Spring 1997, p. 34.

3 Si veda Welch, James,“Introduction to Ken Lopez-Bookseller, Third Native American Literature Catalog”, http://www.lopezbooks.com/articles/welch.html, ultimo accesso 12/04/2014.

4 Cfr. Tremblay, Gail, “Remembering James Welch's Poetry”, Studies in American Indian Literatures, Volume 18, Number 3, Fall 2006, p. 49.

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VI

Duane Niatum e Paula Gunn Allen, ha l’avvio quel fermento letterario che prende il nome di Native American Renaissance.

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La fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 testimoniano una svolta fondamentale per tutti gli autori nativi, essendo questa generazione la prima a ricevere un’istruzione fuori dalle Indian Boarding Schools e a poter andare all’università. Nonostante le condizioni degli Indiani d’America siano ancora difficili, essi possono ora avere una voce che esprima la loro posizione e i loro disagi senza il filtro della popolazione dominante.

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La letteratura degli Indiani d’America entra così a pieno titolo a far parte del

“Canone”.

Circoscrivere l’arte di Welch nell’unico ambito della letteratura nativa sarebbe limitante, di fatto i suoi scritti raggiungono alte vette nel panorama della letteratura mondiale contemporanea e la sua voce non è solo quella dei Blackfeet, ma rappresenta un modello di letteratura del Nord-ovest americano. Cosa che si riflette nei numerosi riconoscimenti che sono stati attribuiti alle sue opere. Al romanzo Fools Crow vengono assegnati l’American Book Prize, il Los Angeles Times Book Prize, e il Pacific Northwest Book Award. Il documentario Killing Custer: The Battle of Little Bighorn and the Fate of the Plains Indians vince l’importante Emmy Award. È nell’agosto del 1995 che Welch riceve la comunicazione che il governo francese gli ha conferito il prestigioso

5 La moglie, Lois Welch, rivela nel suo articolo: «Little did I know we were living the Native American Literary Renaissance». Cfr. Welch, Lois M., op.cit., p. 15.

6 Si veda Lincoln, Kenneth, Native American Renaissance, Los Angeles, University of California Press, 1983.

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VII

riconoscimento di Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres. Nel 1997 Welch riceve il Lifetime Achievement Award dal Native Writers’ Circle of the Americas.

La carriera di studente e quella letteraria di Welch sono intercalate da lavori in Alaska e in California, è impiegato al Forest Service, è pompiere indiano, serve per dieci anni il Montana Board of Pardons. Di questo incarico non si sentiva all’altezza, ma decise di acconsentire dopo un colloquio con il preside della Facoltà di Legge, che gli fece notare come il suo aiuto sarebbe stato importante visto che il trenta percento dei detenuti nelle prigioni del Montana erano Indiani.

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Insegna anche come visiting professor alla Cornell e presso la University of Washington. Lavora presso il National Endowment of the Arts e offre i suoi servizi anche al Newberry Library Board col compito di recensire manoscritti per diverse case editrici.

Trascorre tutta la sua vita nella tranquilla Missoula, tranne l’anno sabbatico che passa in Grecia, assieme alla moglie Lois Monk, che sposa il 22 giugno del 1968. Si spegne il 4 agosto 2003 dopo aver combattuto contro il cancro circondato dall’affetto dei suoi amici.

7 Cfr. Welch, Lois M., op.cit., p. 24.

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VIII

1.2 Coordinate geografico-storico-mitiche della poesia di James Welch

1.2.1 I luoghi

Leggendo i versi di James Welch ci si accorge che quello che emerge è un mondo piuttosto peculiare. Se infatti sono riconoscibili luoghi ben definiti che delimitano la geografia dell’itinerario che percorriamo insieme all’autore, più arduo è riconoscere le coordinate temporali entro le quali questo viaggio avviene.

L’impressione che se ne ricava è che quegli spazi vengano percorsi in un tempo i cui assi sono sfalsati, incerti: ora ci troviamo nel presente, ora nel passato, ora in un tempo indistinto che scorre in maniera circolare, non lineare.

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Un momento siamo a Crystal, poi a Dixon; è settembre, poi Natale; ma dopo incontriamo Lester Lame Bull e non sappiamo più se il tempo è tornato indietro di qualche secolo e quello che ci troviamo davanti è il capo Piegan che ha firmato il Trattato di Fort Benton nel 1855, oppure qualche altro personaggio. Luoghi e date non coincidono. O forse sì. Come Scheckter nota: “Welch’s figures dwell in an unremitting limbo of time and landscape”.

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Solo una visione potrebbe spiegare lo stato di straniamento in cui viene gettato il lettore.

10

8 Cfr. Paula Gunn Allen, The Sacred Hoop, Recovering The Feminine in American Tradition, Boston, Beacon Press, 1986, p. 145.

9 Cfr. Scheckter, John, “James Welch: Settling Up On The Reservation”, South Dakota Review, Vol. 24, n. 2, Summer 1986, p.7.

10 La visione rappresenta un elemento fondamentale per i Blackfeet e per i Gros Ventre. Su questo aspetto mi soffermerò più avanti.

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IX

Tale situazione viene innescata dal fatto che Welch ha le radici ben piantate nella terra in cui vive, che ama. È del Montana, ma è anche un Blackfeet e questi due elementi incidono molto nella sua letteratura, nel modo di analizzare gli eventi che descrive e che ha appreso sin da piccolo. Alla domanda di Bruchac circa i riferimenti all’eredità Blakfeet e Gros Ventre, Welch risponde così:

Kind of growing up around the reservations, I just kept my eyes open and my ears open, listened to a lot of stories. You might say my senses were really brought alive by that culture. I learned more about it than I really knew. It was only after I began writing about it that I realized what I had learned. I knew quite a bit, in certain ways, about the Blackfeet and GrosVentre ways of life, even though I wasn’t raised in a traditional way. It made sense to me and I tried hard to understand those small parts.11

Quelli che racconta sono gli spazi immensi e incontaminati del “Big Sky Country”, i boschi, i fiumi e la fauna. Luoghi che, secondo la pura natura della sua gente, narrano dei fatti, non ne sono stati solo muti testimoni. E così ogni elemento ha un significato fondamentale, a volte chiaro, spesso sfuggevole. A questo scopo, prima di inoltrarmi nell’analisi dell’opera poetica di Welch, traccerò le linee essenziali della geografia nonché della storia e degli elementi mitologici utili a una più chiara comprensione di Riding the Earthboy 40.

I confini principali non sono solo quelli fissi del Montana, ma quelli più ampi degli antichi Piedi Neri prima che venissero costituite le riserve e che nel peregrinare Welch ci chiede di superare. Il lettore si trova immerso negli immensi spazi incontaminati, le montagne, le praterie erbose, le rigogliose foreste, i laghi, i fiumi, gli imponenti speroni rocciosi dalla cima piatta che prendono il nome di

11 Cfr. Bruchac, Joseph, “I Just Kept My Eyes Open” in Survival This Way: Interviews with American Indian Poets, Tucson, University of Arizona Press, 1987, pp. 314-315.

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X

butte; o in luoghi in cui l’opera dell’uomo è maggiormente presente come i pascoli e i campi coltivati; oppure in piccole città isolate sparse nel territorio.

Come accade per ogni viaggio, anche quello di Welch inizia da casa, da Browning, più precisamente dai quaranta acri appartenenti agli Earthboy, ranch confinante con quello della sua famiglia e che il poeta percorre a cavallo. Un nome reale dal quale prende il titolo la raccolta.

Le prime immagini che Welch ci restituisce sono quelle dell’avvicinarsi del rigido inverno del Montana. Prevalenti sono i paesaggi notturni, quando la temperatura si abbassa repentinamente, fa capolino una fredda luna che gela all’immobilità il sorbo selvatico.

12

Luna che all’aurora brilla anche su Crystal, vicino al Canada, e lascia il posto a una grigia alba. Seguiamo anche noi le indicazioni per il Guatemala, lontano da casa. E più a sud, verso il Perù dove “that lovely blond from Montana”

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è morta un anno prima. Ora siamo catapultati nella pericolosa Gallup (“If I cross the street / I will surely be killed”

14

). Percorriamo poi le superstrade dell’Arizona per fermarci ancora, prima di poter ritornare a casa, a Many Farms e Window Rock. E la prima sezione si chiude con un’immagine complessiva della riserva Blackfeet deturpata dagli attraversamenti ferroviari che significano la morte per molti Indiani.

La seconda sezione si apre in primavera sulle rive di Willow Creek e a cavallo ci arrampichiamo fino a Mount Chief, luogo sacro e meta di chi era in

12 Welch, James, “Song for the Season”, Riding the Earthboy 40, p. 5. D’ora in poi sarà indicato con RTE 40.

13 Ibidem, “Gesture Down to Guatemala”, p. 14.

14 Ibidem, “Life Support System”, p. 16.

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XI

cerca di visioni. Ma è già un freddo Natale quando arriviamo a Moccasin Flat.

Lasciamo i diversi butte e con una catapulta temporale ripercorriamo il tragitto che si dice abbia condotto dall’Asia i primi Indiani fino alle zone artiche. Ci ritroviamo così a St. Louis, dove Deafy ha perso misteriosamente le sue orecchie.

15

Ritorniamo appena fuori la riserva, a Harlem in Montana, dove nell’atrio del New England Hotel vediamo le foto in cui un battaglione di Turchi appare “nicer / than pie”.

16

Il poeta ci riconduce a casa, nei quaranta acri degli Earthboy che danno titolo alla raccolta, per poi osservare dalla finestra l’imbacuccata Doris Horseman che passa per la via innevata, mentre dalla radio riceviamo la notizia che a Moose Jaw è nuvoloso. Da Washington arriva “a slouching dwarf with rainwater eyes”.

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Attraversiamo, ora, le pianure e le colline circostanti prima di ritrovarci in uno squallido bar di Dixon e poi ne usciamo per recarci sul fiume Flathead, le cui acque scorrono verso il Canada. È il Ringraziamento quando ci inerpichiamo su per Snake Butte. Ancora una scena di morte chiude la seconda sezione, quella della città aurifera di Zortman tra le Little Rocky Mountains, dove, ci dice il poeta, molta della sua gente morì (“We died in Zortman on a Sunday”

18

).

Nella terza e quarta sezione, il nostro vagare si fa più circoscritto e il paesaggio è prevalentemente quello dei pascoli, (come suggerisce il titolo “Birth on Range 18”, p. 50) e di Heart Butte, tranne che per alcuni luoghi lontani evocati

15 Ibidem, “There Are Silent Legends”, p. 29.

16 Ibidem, “Harlem, Montana: Just Off the Reservation”, pp. 30-31.

17 Ibidem, “The Man from Washington”, p. 35.

18 Ibidem, “The Renegade Wants Words”, p. 41.

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XII

come la Grecia (“I know this boy, a weak-chinned Greek”

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), il Messico (“lost daughters in Mexico”

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) e la Parigi di una ormai passata estate in “Lady in a Distant Face”.

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Si fa poi, però, ritorno in un’anonima città, seduti sotto uno dei ponti in attesa di poter riemergere un giorno e “to settle / old scores or create new roles”.

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Ritroviamo pertanto gli stessi personaggi che all’inizio erano addormentati in uno stato di sonno/visione in cerca di una qualche risposta e che ora, da svegli, non possono fare altro che sperare in un futuro migliore.

1.2.2 Cenni storici sulla tribù dei Blackfeet

Sotto il nome di “Blackfeet Nation” sono raggruppate le tre principali tribù, ossia: i Pikuni o Piegan, i Kainah o Blood, i Siksika, conosciuti anche come Blackfeet del nord.

Le tre tribù erano politicamente indipendenti, benché condividessero la lingua, la maggior parte delle cerimonie e dei costumi e, in caso di guerra, costituivano fronte comune contro il nemico. Facevano vita nomade e si spostavano tra i territori canadesi dell’Alberta e del Saskachewan e l’odierno Montana con l’aiuto dei cani,

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a cui legavano una specie di slitta fatta con due

19 Ibidem, “Two for the Festival”, p. 59.

20 Ibidem, “Counting Clouds”, p. 62.

21 Ibidem, p. 69.

22 Ibidem, “Never Give a Bum an Even Break”, p. 71.

23 Queste popolazioni non conoscevano il cavallo. John C. Ewers spiega che tra i nativi è normale fare riferimento a questo periodo della loro storia con l’espressione “dog days”. Cfr. Ewers, John C., The Blackfeet. Raiders on the Northwestern Plains, Norman, University of Oklahoma Press, 1958, pp. 3-18. Ma anche Welch ne parla in Fools Crow, New York, Viking Press, 1986.(Trad. it.

La luna delle foglie cadenti, a cura di Francesca Bandel Dragone, Milano, Rizzoli, 1998), passim.

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pertiche e delle pelli sulla quale trasportavano i loro averi. Non sono rare, poi, le ricognizioni in luoghi lontani allo scopo di acquisire conoscenza di altri territori e popolazioni intraprese da alcuni gruppi di avventurosi. Nota è, ad esempio, la Old North Trail percorsa da alcuni Piegan, che conduceva da Calgary, a est delle Rocky Mountains, sino al Messico.

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Importante fonte di sostentamento era il bisonte, che sfruttavano sia per la carne che per le pelli, dalle quali ricavavano abiti e i rivestimenti per i tipi, le caratteristiche abitazioni trasportabili a forma di cono e rette da pali. Essenziale era che la caccia fosse fruttuosa, in modo da poter garantire il nutrimento durante i lunghi e rigidi mesi invernali, quando ogni banda risiedeva in diversi campi posizionando i tipi in circolo.

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Con l’approssimarsi della primavera, piccoli gruppi di cacciatori andavano in cerca dei bisonti e quando li trovavano vi si avvicinavano nascosti sotto delle pelli e ne imitavano i gesti, così la preda poteva essere uccisa con arco e frecce da breve distanza. L’estate era il periodo designato alla caccia tribale, in particolare per il procacciamento della lingua di bisonte, cibo sacrificale per la Danza del Sole che si teneva ad agosto e durava otto/dieci giorni.

24 Molte altre sono le vie conosciute dagli Indiani, tra cui quella dell’Oregon, che permisero loro di intraprendere diverse esplorazioni, imparare altre lingue, costumi diversi e nuovi metodi di caccia.

Sembra che alcuni giovani Piegan si mescolassero con altre tribù proprio a tale scopo. A questo proposito si veda Ewers, John C., The Blackfeet. Raiders on the Northwestern Plains, Norman, University of Oklahoma Press, 1958, pp. 196-204.

25 Una simile immagine di riunione ai giorni di oggi ci viene restituita da Welch nella poesia

“Surviving” (RTE 40, p. 46): “We huddled / close as cows before the bellied stove”.

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XIV

Le vere battute di caccia

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per gli approvvigionamenti, però, erano intraprese in autunno.

All’interno degli accampamenti i compiti erano distribuiti e per quanto riguarda l’educazione dei bambini, era presieduta da entrambi i genitori. I bambini dovevano imparare a comportarsi bene e rimanere tranquilli quando gli adulti erano riuniti nei tipi, dovevano svolgere i compiti loro assegnati, dovevano rispettare i taboo dei medicine bundle della famiglia e, cosa molto importante, dovevano rispettare gli anziani. Le bambine imparavano osservando quanto facevano la madre e le nonne e, come fosse un gioco, le imitavano. Era appannaggio delle donne la raccolta di bacche, radici e della legna da ardere, così come la concia delle pelli e la realizzazione dei vestiti. Al padre era delegata l’educazione dei figli maschi, che godevano di maggiori libertà rispetto alle femmine. A loro veniva insegnato, sin da piccoli, a maneggiare arco e frecce, venivano incoraggiati a praticare giochi molto fisici e movimentati perché forgiassero il loro carattere. Imparavano a riconoscere e a rispettare i grandi guerrieri che vedevano durante la Danza del Sole e sin dai dieci anni venivano affidati loro compiti importanti come quello della cura dei cavalli.

27

Importante era la scelta del nome del nascituro, in quanto avrebbe influenzato il suo futuro.

Alcuni giorni dopo la nascita, il padre radunava i membri più importanti della banda e insieme decidevano il nome tra quelli degli antenati rispettati, oppure ne

26 Ewers ci racconta che mandrie di bisonti venivano spinte giù da dei dirupi la cui base era chiusa da uno steccato, in modo da non lasciare via di fuga agli animali che erano scampati alla rovinosa caduta. Cfr. Ewers, John C., op. cit., pp. 11-14.

27 Cfr. ibidem, pp. 102-104.

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XV

sceglievano uno che ricordasse un gesto valoroso o generoso del padre come fece Lazy Boy, Piegan, che diede alla figlia il nome di Many-Steals-Horses-Woman essendo lui stato molto abile a catturare i cavalli al nemico.

28

Welch ci descrive proprio questa pratica attraverso i versi di “Toward Dawn”

29

, dove mostra che la ricerca del nome implica il prestare attenzione ai suggerimenti che derivano da una esperienza simile alla vision quest; infatti, viene presentata prima l’immagine di un cervo, evocata da un elemento uditivo – il rumore che questo fa nel bosco – e poi viene data l’immagine di una puzzola che si reca a un lontano corso d’acqua, per poi terminare con un verso che mette in luce come questo momento sia davvero vitale: “Such a moment, a life”.

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I primi contatti coi bianchi furono coi trafficanti inglesi e francesi che conducevano i loro commerci con le colonie degli Stati Uniti e del Canada. Fu in questo modo che le popolazioni indigene scoprirono il cavallo e iniziarono i baratti. I bianchi davano armi da fuoco e l’“acqua dell’uomo bianco” in cambio di pelli, con le parole di Welch: “before / other hunters gifted land with lead for hides”.

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L’introduzione del cavallo cambiò alcuni aspetti della vita quotidiana come l’approvvigionamento di cibo, gli spostamenti e, grazie alle armi da fuoco, mutarono pure le tecniche di caccia e di guerra. Se da una parte questo incontro fu proficuo, dall’altra fu letale perché i trafficanti portarono dall’Europa anche il virus mortale del vaiolo, che colpì la popolazione indiana, la quale subì forti

28 Cfr.ibidem, pp. 101-102.

29 Cfr. RTE 40, p. 8.

30 Ibidem, p. 8.

31 Ibidem, “Blackfeet, Blood and Piegan Hunters”, p. 36.

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XVI

decimazioni.

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Leggendo i versi della seconda strofa di “Magic Fox” non si può fare a meno di notare una delle tante immagini che Welch ci accenna: alcune stelle cadono sulla loro preda. In un solo verso il poeta ci rimanda alla pioggia di meteoriti che solcò il cielo di alcuni secoli prima e che preannunciò ognuna delle epidemie. Questo evento astronomico rimane scolpito nella memoria storica del Popolo Indiano e reso attuale dalle parole della poesia. L’altra piaga che contribuì a falcidiare molte vite fu quella dell’alcol.

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Ulteriore effetto negativo fu quello della scomparsa dalle pianure del bisonte

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nel giro di pochi anni (tra il 1876 e il 1880), a causa dell’insensato sfruttamento da parte anche dei bianchi e della strategia politica del governo federale. Con la quasi totale estinzione del bisonte, venne a mancare la maggiore fonte di sostentamento e questo procurò diverse carestie che stremarono ulteriormente le popolazioni indigene, alle quali non rimase che mendicare quanto era loro necessario presso i Governatori. Senza contare che tale precarietà piegò alla stanzialità alcune bande di un popolo, quello dei Blackfeet, che era stato nomade fin dai tempi antichi

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: “[…] a wandering race, driven by their names / for time”.

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Tuttavia se il rapporto coi primi commercianti fu amichevole – o almeno fintanto che venne garantito lo scambio di pelli e fucili – ostile fin dall’inizio fu quello con coloro che i Piedi Neri soprannominarono “Big Knives”, Lunghi

32 Diverse furono le epidemie che colpirono le popolazioni indiane. Cfr. Ewers, John C., op. cit., pp.28-29, pp. 64-66, p. 250, p. 252, pp. 257-258.

33 Cfr. ibidem, pp. 257-259.

34 Pianure che, invece, una volta, quando erano popolate dalle mandrie dei bisonti, erano “wistle- black”, come solo Welch potrebbe dire. “Plea to Those Who Matter”, RTE 40, p. 34.

35 Cfr. Ewers, John C., op.cit., pp. 277-296.

36 “Thanksgiving at Snake Butte”, RTE 40, p. 40.

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XVII

Coltelli, per gli acuminati e pericolosi coltelli da caccia che portavano con loro.

All’inizio si trattò di un gruppo di esploratori capitanati da Meriwether Lewis e William Clark, che nel 1804 partirono per il Missouri e il primo reciproco avvistamento avvenne a St. Louis, dove erano state tenute alcune cerimonie formali dei Piedi Neri. Successivamente arrivarono le diverse Fur Companies in cerca di pelli pregiate, alle quali non fu resa vita facile da parte di bellicose bande indiane che, con continui attacchi, fecero desistere i trafficanti americani; nel 1811 questi decisero di ritirarsi. Nell’autunno del 1831, Kenneth McKenzie riuscì a siglare un accordo coi Piegan, secondo il quale erano questi ultimi a procacciare le pelli e a consegnarle alla compagnia

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. Queste relazioni non servirono però ad accrescere realmente le conoscenze tra i due popoli e il rapporto con gli uomini bianchi fu sempre difficile e problematico.

Come ricordato in precedenza, nel 1855 venne firmato il Trattato di Lame Bull

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col quale si fissavano i confini entro cui era concesso di vivere e cacciare alle due tribù dei Blakfeet e dei Gros Ventre. Gli articoli IV e V del trattato circoscrivevano la Blackfeet Nation entro i seguenti limiti: il margine a sud era formato dalla linea che da est congiunge Hell Gate alla sorgente del fiume Musselshell, segue il corso di quest’ultimo fino alla foce e lungo il fiume Missouri fino alla confluenza col fiume Milk; a est il confine era disegnato dal tratto che

37 Diverse furono le tappe di questi contatti, anche successivi al 1831, in cui le bande di Indiani divennero sempre più dipendenti dai bianchi per armi da fuoco, munizioni e utensili in ferro. Cfr.

ibidem, pp.45-71.

38 Nella poesia “The Wrath of Lester Lame Bull” (cfr. RTE 40, p. 51) vediamo il capo Piegan infuriato, perché alle prese con un orso che rovina le colture invernali che Lame ha piantato nel suo orto.

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XVIII

congiunge il punto in cui si incontrano il fiume Missouri e il Milk con il quarantanovesimo parallelo (il confine canadese); il confine nord era rappresentato dal quarantanovesimo parallelo; le Rocky Mountains rappresentavano il limite a ovest. Successivamente questi confini vennero progressivamente ristretti. Nel 1974 il confine meridionale venne spostato di parecchie miglia a nord fino al fiume Marias.

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Negli articoli successivi del trattato veniva anche stabilito che fosse possibile costruire sul territorio indiano strade, postazioni militari, edifici governativi, stazioni ferroviarie; veniva inoltre garantita ai bianchi la libertà di navigare sui fiumi e sui laghi. A fronte di queste concessioni, veniva riconosciuta per dieci anni agli Indiani una somma annuale di 20000 dollari per merci e provvigioni, e una somma di 15000 dollari per l’educazione dei più piccoli e la formazione degli adulti all’agricoltura e alla meccanica.

Altri trattati vennero siglati e riguardavano, ad esempio, anche la costruzione della ferrovia sui territori indiani (come ci ricorda Welch in “Trestles by the Blackfoot”

40

). Per gestire i rapporti con gli Indiani venivano inviati dalla Commission of Indian Affair dei Governatori; uno di questi fu Isaac I. Stevens, che rappresentò gli Stati Uniti in tutte le fasi del Trattato di Lame Bull. Welch descrive Stevens in “The Man from Washington” come un “slouching dwarf with

39 Luogo dove, come ultimo atto di numerosi scontri, il 23 gennaio 1870 avvenne un sanguinoso massacro di Indiani. In quell’episodio furono uccisi 173 Indiani, catturati 140 tra donne e bambini e più di 300 cavalli. Quello che venne attaccato, però, era il villaggio del capo amico Heavy Runner – lo stesso di “In my First Hard Springtime” (cfr. RTE 40, p. 25), non dell’ostile Capo Mountain. Cfr. Ewers, John C., op.cit., pp. 236-253.

40 Welch, James, RTE 40, p. 21.

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XIX

rainwater eyes”

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, immagine che sembra calzare perfettamente con alcuni ritratti dell’epoca. I rapporti tra Americani e Indiani presero sempre più una piega negativa per questi ultimi, che non solo si videro strappare le terre che dovettero cedere a un prezzo irrisorio dopo che erano stati colpiti nel 1919 dalla siccità e da un eccessivo rigore invernale, ma vennero sempre più derubati della loro identità culturale con la proibizione delle cerimonie, dell’uso del tamburo, della celebrazione dei riti funebri e dei loro usi e costumi, allo scopo di omologarli al modello dei bianchi.

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Un momento di sollievo arrivò nel 1934 quando, tramite l’Indian Reorganization Act, vennero garantiti dei finanziamenti per l’agricoltura e l’allevamento e si stabilì una maggiore autonomia di gestione per gli Indiani all’interno delle riserve. I Blackfeet scrissero la loro Costituzione, nella quale veniva sancita l’appartenenza alla Tribù dei Blackfeet per origine di sangue.

Vennero anche nominati per la prima volta i tredici membri del Tribal Council allo scopo di favorire migliori condizioni e per incoraggiare l’arte e la cultura indigena.

43

Gli altri bianchi con cui gli Indiani ebbero dei contatti furono quelli che chiamarono “Black Robe Medicine Men” e i “Short Coat Medicine Men”, Uomini di Medicina, di un’altra medicina differente dalla loro. I primi erano i missionari cattolici, i secondi quelli protestanti. Ewers registra come la tribù dei Flatheads si comportasse in maniera strana, secondo l’opinione dei Small Robes, pregando in una lingua sconosciuta, facendo un segno di croce di fronte al petto e facendo

41 Cfr. ibidem, p. 35.

42 Cfr. Ewers, John C., op.cit., pp. 310-311 e pp. 319-324 .

43 Cfr. ibidem, pp. 323-324.

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XX

delle riunioni il settimo giorno nelle quali ascoltavano i discorsi morali di un certo Old Ignace Lamooce. Queste erano le prime testimonianze del contatto che le popolazioni indigene ebbero col Cristianesimo, in particolare con la missione gesuita di Caughnawaga, vicino a Montreal. Man mano il numero dei battesimi tra le tribù indiane crebbe, soprattutto perché queste vedevano la “medicina dei bianchi” come un potente rimedio che poteva far avere loro la meglio sulle bande rivali. Come accadde, ad esempio, nel 1846 quando un gruppo di Flatheads si trovò a fronteggiare e a vincere un numero superiore di Crow. Chief Victor, il capo Flathead, vide in questa vittoria la protezione del Dio dei Black Robe, e chiese a Padre Pierre Jean De Smet, gesuita, di battezzare tutti i suoi figli. Molti degli uomini Blackfeet guardavano con sospetto questi missionari che cercavano di cambiare le loro tradizioni, e vedevano in loro una sorta di Uomini di Medicina che potevano curare le malattie, ma anche causarle. Non molte furono, comunque, le missioni, sia Cattoliche che Protestanti, che si impiantarono tra i Blackfeet, i quali non potevano abbandonare la fede dei loro padri per una nuova strana religione.

44

La visione di Welch su questo aspetto riassume secoli di ingiustizie che il suo popolo ha dovuto subire e non c’è da stupirsi se ci dice che, quando se ne andò, “The Last Priest Didn’t Even Say Goodbye”

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o se amaramente commenta “no man in black / to tell us where we failed”.

46

Welch si riferisce al

44 Cfr. ibidem, pp. 185-195.

45 Cfr. RTE 40, p. 37.

46 Cfr. ibidem, “The Renegade Wants Words”, p. 41.

(18)

XXI

rapporto che la sua gente ha con la religione cristiana anche in altre poesie,

47

sottolineando sempre una sorta di incomunicabilità che rende impossibile ogni sorta di comprensione tra due mondi che risultano incompatibili e la cui comunicazione è spesso viziata da pregiudizi. La sensazione di tale incomunicabilità è possibile ricavarla in particolare quando ci dice:

[God] never learned their names.

Oh, they tried everything:

they knelt, they sprawled face down upon the altar, killed their beautiful parents.

He never thought to tell them what He wanted, who they were … and they, of course, burned His church and hid out for a long, long time.48

Ogni tentativo, dunque, è stato inutile.

La situazione odierna dei Blackfeet è quella dipinta da Welch nelle sue poesie, di un popolo fortemente abbattuto e disorientato, ma le cui radici hanno resistito saldamente aggrappate a una storia e a una cultura che si è tentato di far dimenticare e che invece è rimasta viva, anche se in attesa.

We sit now, a steady demolition team, under one of the oldest bridges in town.

Any day we will crawl out to settle old scores or create new roles, our masks

47 Ad esempio in “Arizona Highways”, cfr. ibidem, pp. 18-19, si legge: vv. 14-5, “I could / trash away the nuns”; vv. 17-19, “… I adopt this girl, … / …in the name of the father, son, / and me, the holy ghost”; più sotto, vv. 20-21, “Mormons do less / with less”. Ma anche in “Harlem, Montana:

Just Off The Reservation”, cfr. ibidem, pp. 30-31, si legge ai vv. 25-27:

Now, only Hutterites out north are nice. We hate them. They are though and their crops are always good.

We accuse them of idiocy and believe their belief wrong.

48 Cfr. ibidem, “Legends Like This”, p. 68.

(19)

XXII

glittering in a comic rain.49

1.2.3 Linee essenziali della mitologia Blackfeet e Gros Ventre

Radici salde quelle dei Blackfeet, che affondano fino a migliaia di anni fa, quando Napi, Old Man, soffiando su un mucchietto di fango, creò il mondo e ogni suo essere vivente.

50

Compresa sua moglie, Old Woman. Insieme decisero quale aspetto dovesse avere l’uomo e soprattutto che, quando sarebbe morto, non sarebbe più tornato in vita perché “[i]f people lived for ever they would never feel sorry for one other”.

51

Man mano che i figli del primo uomo e della prima donna si moltiplicarono e iniziarono a spingersi verso i quattro punti cardinali fino ad abitare tutta la terra, il cibo cominciò a scarseggiare. Fu così che Creator Sun, un altro nome col quale è conosciuto il creatore, modellò dal fango il bisonte, che per secoli ha abitato le pianure e ha fornito il sostentamento per gli uomini. E poi molti altri animali come il cervo, il daino, l’alce. Venne insegnato agli uomini

49 Cfr. ibidem, “Never Give a Bum an Even Break”, p. 71.

50 Il riferimento all’atto creazionale si ritrova in due poesie di Welch. Il primo in “In my Lifetime”

(cfr. RTE 40, p. 27), quando il poeta replica l’atto creativo tramite le mani abili di Speakthunder:

«With thunder- /hands his/father shaped the dust, circled/fire, tumbled up the wind to make a fool». Il secondo è in “The Day the ChildrenTook Over” (cfr. ibidem, p. 57), in contrasto col precedente, ricalca la tradizione cristiana: «All around town, children ran out,/rolled their snow, stuck buttons, carrots,/old hats and bits of coal on shapeless lumps/to create life, in their own image».

51 Ewers, John C., op.cit., p. 4. Altre informazioni sulla creazione del mondo ci derivano da Percy Bullchild, che ci racconta come Creator Sun abbia plasmato l’uomo dal fango (Mudman, appunto) e poi da una sua costola la donna (Ribwoman). E così tutti gli altri elementi della natura. Cfr.

Bullchild, Percy, The Sun Came Down, San Francisco, Harper & Row Publishers, 1985, pp. 5-126.

(20)

XXIII

come utilizzare ogni parte di questi animali senza sprecarne alcuna e, cosa più importante, venne insegnato loro come cacciare il bisonte, cioè facendolo precipitare da un ripido pendio detto pis-kun. Siccome il numero di questi animali crebbe eccessivamente, l’uomo chiese aiuto a Creator Sun, che questa volta creò belve con denti e artigli acuminati: il leone di montagna, la lince, l’orso e tutti gli altri predatori.

52

Col tempo altri gruppi di uomini iniziarono a spingersi sempre più lontano e così si formarono anche le diverse lingue e dialetti. All’inizio le lingue erano poche e la comprensione tra i diversi gruppi era facile, Fu solo successivamente che capirsi diventò difficile e fu necessario ricorrere ai gesti. Ciò implicava che il parlante pronunciasse ad alta voce quanto doveva dire e nel contempo mimasse il contenuto del suo discorso.

53

Momento fondamentale nella vita di un Indiano era quello attorno ai trent’anni, quando da solo si allontanava dal campo per raggiungere un luogo isolato sulle montagne o vicino a un lago, rimaneva a digiuno e invocava l’aiuto delle forze del cielo, della terra e dell’acqua (“Hear, Sun; hear, Old Man; Above people, listen; Underwater People, listen”

54

) fino a che non cadeva addormentato.

Durante il sonno potevano apparire al giovane un animale, un uccello o un elemento della natura. A questo punto lo spirito mostrava al ragazzo degli oggetti a lui sacri e spiegava come utilizzarli per proteggersi dai pericoli; oppure

52 Cfr. Riding the Earthboy 40, pp. 52-61.

53 Cfr. ibidem, pp. 61-67. Come ricorda Welch in “Night Hawk” (cfr. RTE 40, p. 20): “he speaks / with his hands”.

54 Cfr. Ewers, op.cit., p. 163.

(21)

XXIV

insegnava dei canti o dei disegni da dipingersi sul corpo o altri rituali. Tale esperienza prende il nome di vision quest

55

e ci viene descritta anche dalle parole di Welch, che apre la sua raccolta proprio con l’immagine di alcuni uomini i cui sogni sono visitati da una volpe magica che innesca una serie di visioni che trasformano la verità in incubo.

56

E poi più avanti, “In My First Hard Springtime”, ci viene raccontato come: “Starved to visions, famous cronies top Mount Chief / for names to give respect to Blackfeet streets”.

57

Chi riceveva tali poteri in dono, ammoniva Creator Sun, aveva l’obbligo morale di aiutare quanti avevano bisogno, perché se li avesse usati per il proprio tornaconto li avrebbe persi.

58

Da una simile esperienza il giovane tornava a casa con tutte le indicazioni per costruire il proprio medicine bundle, un oggetto sacro che simboleggiava la forza. Quando Welch ci racconta, in “Verifying the Dead”, che una donna esce da un involto e poi “rubbed her hips and sang / of a country like this far off”

59

, ci descrive proprio questo fatto. Il bundle era custodito dal proprietario fino a quando non moriva e anche in caso lo perdesse o gli venisse sottratto da un nemico, egli era in grado di ricostruirlo. Il potere di tale oggetto sacro poteva essere trasferito, dopo una cerimonia di purificazione, tramite un lungo e complicato rituale che ripercorreva in maniera precisa tutte le fasi che erano servite a dare origine a quel dato bundle e dovevano essere intonati canti e

55 Percy Bullchild ci spiega che, durante questa esperienza, erano necessari anche alcuni oggetti come la pipa, il tabacco, la pietra focaia e una delle sei qualità di incenso. Cfr. Bullchild, Percy, op.cit., p. 79.

56 Cfr. “Magic Fox”, RTE 40, p. 3.

57 Ibidem, p. 25.

58 Bullchild, Percy, op.cit., p. 80.

59 “Verifying the Dead”, RTE 40 , p. 4.

(22)

XXV

preghiere. Questa pratica veniva incoraggiata dai Blackfeet, per i quali possedere, e tramandare, molti medicine bundle era considerato anche segno di prestigio sociale. Uno dei più potenti medicine bundle era quello del castoro, che dava al proprietario potere sulle acque e lo faceva diventare colui che teneva nota del passare dei mesi nella tribù. Anche gli oggetti legati a importanti imprese di guerra, come scudi, coltelli o lance, potevano essere considerati medicine bundle.

Come si può capire, tali visioni rappresentano un nodo cruciale nell’esistenza di un Indiano, che cerca in esse una strada, una via, che lo possa aiutare in futuro nella sua vita.

Tuttavia non sempre le visioni si verificano, o comunque non sempre è facile rintracciare il loro significato, come sottolinea Welch che, alla fine di

“Getting Things Straight”, si domanda dopo che un falco appare in cielo: “Is he my vision?”.

60

Questa condizione è tipica dei giovani Indiani che hanno perso il rapporto con la loro storia e la loro cultura e hanno bisogno di qualcuno che li aiuti in tale processo. Anche la scrittrice Linda Hogan rivela come, non essendo stata allevata all’interno di un contesto tribale tradizionale, non riuscisse a dare una spiegazione a quei fenomeni che le accadevano e che solo successivamente riconosce come visioni.

61

I due danzatori che appaiono in “Two for the Festival”

62

sottolineano un altro aspetto della cultura Blackfeet, quello della danza. Numerose sono le danze tribali insegnate direttamente da Creator Sun a scopo cerimoniale. La più

60 Cfr. RTE 40, p. 53.

61 Cfr. Gunn Allen, Paula, op.cit., p. 168.

62 Cfr. RTE 40, p.59.

(23)

XXVI

importante è la Sun Dance. Si tratta di una cerimonia che simboleggia il rinnovamento e vede al centro il sacrificio offerto a beneficio di un componente della famiglia o della tribù che si trova in stato di bisogno. Secondo la tradizione è necessario intonare canti e preghiere al limitare del bosco perché Creator Sun guidi il gruppo di sei uomini e sei donne nella scelta dell’albero giusto per la cerimonia, di solito un pioppo nero per la sua forma a “v”. In seguito, il tronco veniva tagliato e deposto su alcuni blocchi, senza che toccasse terra, e veniva accesa la pipa sacra, dalla quale i partecipanti aspiravano a turno quattro volte.

Solo dopo, l’albero veniva trasportato in processione in spalla al villaggio, dove veniva piantato al centro dello spazio utilizzato per la cerimonia. Successivamente a un danzatore venivano conficcati sul petto degli artigli e veniva legato con delle stringhe di pelle all’albero rivolto a est, dove nasce il sole. Gli altri partecipanti alla cerimonia aiutano il danzatore al centro intonando canti e col ritmo dei tamburi. Il culmine della cerimonia è quando il danzatore al centro si avvicina quattro volte all’albero e tocca il tronco col solo palmo della mano mentre gli altri continuano le preghiere ed è in questo momento che chi partecipa può ricevere la visione. Questo sacrificio della carne rappresenta, ancora oggi, la rinascita sia spirituale che fisica, il rinnovamento.

63

L’altro momento che vede riunire le tribù indiane è quello del Pow-wow.

Questa festa era intesa a onorare momenti speciali come la morte di un membro importante, o in riverenza di un capo ben voluto. Speciali canti venivano intonati

63 Cfr. Bullchild, Percy, The Sun Came Down, Harper & Row Publishers, San Francisco, 1985, pp.

325-390.

(24)

XXVII

da tutti. Terminata la danza, i membri appartenenti alla famiglia del festeggiato si portavano al centro dell’arena e tutti gli altri conoscenti si avvicinavano a turno alla famiglia del festeggiato dalla quale ricevono dei doni.

64

Vengono tuttora indetti Pow-wow della durata di diversi giorni, ai quali possono partecipare gli appartenenti a diverse tribù e anche i non-nativi. Questa grande festa include gare di danze tradizionali, esibizioni coi tamburi e canti, ma interessa anche l’artigianato e l’arte indiani e altri elementi conviviali come i cibi tipici. Le competizioni prevedono diverse categorie in base al sesso e all’età, ad esempio, e il vincitore riceve un premio in denaro. Tra le diverse danze la Fancy Dance prevede movimenti molto ritmati scanditi dal suono del tamburo; il danzatore, che indossa l’abito tipico con piume e campanelli legati alla gamba, deve eseguire dei movimenti precisi e rimanere in posizione quando il ritmo finisce. Le donne che partecipano alla danza indossano uno scialle ricamato e arricchito di nastri e frange colorate, il cui ondulare sottolinea i movimenti della danzatrice che all’inizio evocano l’immagine di una farfalla che esce dal bozzo.

65

Tuttavia, lo sguardo che Welch getta su tali avvenimenti è perplesso, del tutto disincantato, visto che constata amaramente: “we dance for pennies now”.

66

Tutte queste conoscenze sono fondamentali per i Blackfeet, che continuano a tramandare le storie delle loro radici oralmente, di generazione in generazione, come accade nella tradizione dello storytelling. E Welch si è fatto carico di questa eredità con le sue poesie che, con la loro sintassi e la scelta

64 Cfr.ibidem, p. 83, pp. 376-377.

65 Si veda http://www.mohicanpowwow.com/, ultimo accesso 12/14/2014.

66 Cfr. “Blackfeet, Blood and Piegan Hunters”, RTE 40, p. 36.

(25)

XXVIII

semantica praticata dall’autore, ricreano nel lettore la sensazione che ci si trovi davanti a uno di quegli anziani della tribù che racconta le storie del suo Popolo affinché rimangano vive (“Comfortable we drink and string together stories / […]

lovely tales of war and white men massacre”

67

). Le nuove generazioni hanno bisogno che qualcuno racconti ancora queste storie perché: “Children need a myth that tells them be alive”.

68

Altrimenti tutto sarebbe perso, compresa la propria identità. Si rischia di fare cioè la fine di Bear Child che, in un tetro e squallido bar, racconta una storia allo specchio, ma è così ubriaco che quando cerca di mimare il suo nome, più che un orso, dà l’impressione di un serpente in calore e finisce per addormentarsi bocconi, la dignità ormai scalfita.

67 Cfr. ibidem, p. 36.

68 Cfr. ibidem, p. 36.

(26)

2 ANALISI DEL TESTO POETICO DI WELCH

2.1 Jim…just listened

One must have a mind of winter To regard the frost and the boughs Of the pine-trees crusted with snow;

And have been cold a long time

To behold the junipers shagged with ice, The spruces rough in the distant glitter Of the January sun; and not to think Of any misery in the sound of the wind, In the sound of a few leaves,

Which is the sound of the land Full of the same wind

That is blowing in the same bare place For the listener, who listens in the snow, And, nothing himself, beholds

Nothing that is not there and the nothing that is.

(“The Snowman”, Wallace Stevens)

Dall’opera poetica di Welch emerge con forza l’urgenza di mantenere

integra l’identità che l’autore sente quando percorre e rievoca in modo più o meno

(27)

XXX

implicito la realtà storica del suo popolo e che consegna, come è proprio nella tradizione dello storytelling, alle nuove generazioni di Indiani. Welch conosce bene qual è il pericolo che corre chi non riesce a bilanciare le proprie radici col presente, come accade al personaggio di Winter in the Blood, che non ha nome.

Non può averlo perché nella tradizione indiana il nome va conquistato tramite un rito di passaggio dall’infanzia all’età adulta. Ma chi non ha coscienza delle proprie origini si sente fuori asse, incapace e inadatto in un mondo che non comprende e del quale non si sente parte fino in fondo. In Riding the Earthboy 40 si ritrova in pieno questa angoscia e il linguaggio di Welch è quello sofferto della sopravvivenza, di chi sa che le parole che sta per pronunciare sono di vitale importanza e non possono essere sprecate in nessun modo. La dizione, spesso affannata e difficile, non concede quasi mai una sensazione di sollievo. Non a caso il ritmo subisce un improvviso rallentamento proprio nella poesia

“Surviving”

69

che al primo verso accoglie sei accenti forti (“The day-long cold hard rain drove”).

La sintassi essenziale e il lessico scarno della raccolta seguono il ritmo del parlato con le sue ripetizioni e le pause. Eppure la sua poesia raggiunge vette liriche per la sua densità, che apre all’interlocutore piani di lettura che si moltiplicano all’infinito senza correre il rischio che i diversi significati siano

69 RTE 40, p. 46.

(28)

XXXI

diluiti, resi nulli proprio da questo processo. Il rapporto tra significante e significato è spesso sbilanciato a favore di quest’ultimo, che viene piegato dall’autore a dover accogliere il maggior numero di attributi.

Ogni poesia emerge dalle storie che la terra stessa racconta e “would deal with an aspect of Montana prairie life, the people, the flora and fauna, the atmosphere”.

70

Tutte esperienze che accorciano la distanza con un mondo che altrimenti rimarrebbe impenetrabile e in cui è difficile sopravvivere.

71

Infatti, quello che strania il lettore non è la scelta da parte dell’autore di una forma stilistica lontana dal canone; anzi, Welch è capace di muoversi in modo abile ed esperto nel territorio della poesia e non rari sono gli accostamenti dei suoi versi con quelli di Frost o con i temi di Eliot in The Waste Land; semmai, il lettore si trova disorientato perché non riesce a rintracciare le coordinate culturali entro le quali muoversi.

Di primo acchito si ha l’impressione di trovarsi di fronte a temi familiari quali la natura e la sua potenza, tanto per citarne uno; poi, però, ci si accorge che il punto di vista deve essere spostato rispetto al consueto modo di accostarsi al testo poetico. Non osservare dall’alto, come si fa col microscopio, o di fronte come si osserva una qualunque figura, ma piuttosto la linea che forma il nostro

70 Bevis, Bill, “Dialogue with James Welch”, Northwest Review, Volume 20, Numbers 2 and 3, 1982, p. 165.

71 Sands, Kathleen Mullen, Welch, James, “Closing the Distance: Critic, Reader and the Works of James Welch”, MELUS, Vol. 14, Number 2, Summer 1987, p. 74.

(29)

XXXII

sguardo deve essere sghemba, in modo da poter attraversare quanti più livelli possibili. Prendiamo a esempio “There Is a Right Way”:

1 The justice of the prairie hawk moved me; his wings tipped the wind just right and the mouse was any mouse. I come away, 5 broken from my standing spot, dizzy with the sense of a world trying to be right, and the mouse a part of a wind that stirs the plains.72

Se ci soffermiamo sui primi versi (v. 1 fino alla cesura al v. 4) non possiamo non notare una sorta di stupore che nasce nell’osservare la precisione con cui questo bellissimo animale riesce a catturare la sua preda. Tanto preciso e armonioso, quanto semplice e naturale, è questo gesto che il poeta non può che commuoversi.

Una tale lettura, però, è alquanto superficiale. L’eco della parola “justice”

all’interno dell’intero componimento – “justice” al v. 1 diventa “just” al v. 3 – insieme alla ripetizione di “right” (v. 3 e v. 7) spostano l’attenzione dal mero fatto della caccia al livello più nobile dell’etica.

73

Non più gesto solamente giusto nel senso di “preciso”, quello del falco, ma giusto proprio della “Giustizia”. Concetto che viene amplificato anche dall’aver accostato “just” a “right” (v. 3), per cui un significato segue l’altro ed entrambi si completano nella mente di Welch e nostra.

Stupore, dunque, quello dell’osservatore, che porta a un senso di vertigine (“dizzy with the sense of a world / trying to be right”, vv. 6-7) al quale non dà sollievo il

72 RTE 40, p.52.

73 Cfr. Round, Philip, “There Is a Right Way”, Studies in American Indian Literatures, Volume 18, Number 3, Fall 2006, pp. 82-89.

(30)

XXXIII

doversi muovere dalla sfera del tangibile (“prairie hawk”, “wing”, “mouse”, ad esempio, sono tutti sostantivi concreti) a quella dell’astratta giustizia. Tra l’una e l’altra sfera, il solo anello di congiunzione è un elemento concreto, ma allo stesso tempo sfuggevole ed etereo, cioè il vento scosso da un battito d’ali che trasforma il “justice” del primo verso in “right” al v. 3.

Da un lessico semplice, quotidiano, e da immagini comuni emergono concetti straordinari che è la stessa natura a spiegare, a raccontare perché “not individuals and cultures but the very rocks and mountains had composed the Native poem or story”.

74

Welch indossa i panni dello sciamano moderno, ha letto questi insegnamenti e cerca di porgerli all’orecchio attento di coloro che vogliono ascoltare. L’amico McNamer ricorda proprio come Welch fosse solito trascorrere il tempo in ascolto, quasi rapito dall’estasi della natura che lo circondava:

I think there may have been times, maybe many, when Jim in those otherworldly hours just listened.

And he heard a fence humming in the sun. And Long Knife’s hair bristling against his collar.

He heard Fools Crow chant with his eyes closed, the rhythm like a heartbeat, as he rubbed sweet grass smoke over the out-of-his-body boy.

“I was as distant from myself as a hawk from the moon.” He heard a young man say that.

He heard the squeak of leather and the bark of a dog, then hundreds of seizers on the march, each with a long gun, their horses snorting white smoke in the cold air.

He heard travois poles make a hissing sound in the dirt and then, from the front of the band, some braves begin to sing.

And then a whole valley alive with singing.75

74 Krupat, Arnold, “Native American Literature and the Canon”, Critical Inquiry, Volume 10, Number 1, September 1983, p. 146.

75 McNamer, Deirdre, “Backed into the Wind, Clean-Limbed and Patient”, Studies in American Indian Literatures, Volume 18, Number 3, Fall 2006, pp. 34-35.

(31)

XXXIV

Esattamente come spiega Tremblay: “A few words to take one on a great journey toward a revelation”.

76

Come abbiamo visto, “There Is a Right Way”

77

è un esempio di come i piani della polisemia siano sfruttati appieno dal poeta che qui riesce a far compenetrare sfere di significato diverse, passando così dall’uso comune di

“giusto” a quello giuridico del diritto, fino a giungere a quello dell’etica della Giustizia.

Eppure, l’accumularsi di peso semantico contrasta con il ricorso a parole brevi quali “hawk”, “wings”, “wind”, “just” e “right” (vv. 1, 2 e 3), tutti monosillabi – cifra stilistica di tutta l’opera

78

– che necessitano di un’unica emissione di voce. Quello che rende difficile il pronunciare tali versi è piuttosto la sensazione che ogni parola porti in sé un’immagine, un’esperienza. Il lettore è forzato a soffermarsi su tali parole mascherate di levità e meditare su di esse fino a rievocare, non già l’immagine, ma proprio quel dato evento in tutta la sua interezza.

Il lettore è chiamato a porsi in ascolto come fa il poeta in “Toward Dawn”

79

e sentire il rumore di un cervo nel bosco: “A deer crashes / in the wood”

(vv. 3-4). In questa poesia, l’autore cerca di descrivere quale potrebbe essere l’esperienza della ricerca del nome nella tradizione del suo popolo. Si tratta di un

76 Tremblay, Gail, op.cit., p. 49.

77 RTE 40, p.52.

78 Kenneth Lincoln conta 108 monosillabi, 20 bisillabi e un solo trisillabo nell’intera raccolta.

Lincoln, Kenneth, “Winter Naming”, in Speak Like Singing, Albuquerque, University of New Mexico Press, 2009, p. 170.

79 RTE 40, p. 8.

(32)

XXXV

avvenimento molto delicato, come traspare dalle parole dei versi, in cui bisogna affinare tutti i sensi perché non sfugga alcun segnale che ci viene dato dalla natura: “[o]ne must have a mind of winter” e vedere “[n]othing that is not there and the nothing that is” con le parole di Wallace Stevens. Ecco che un cervo entra a far parte della cerimonia. La sua presenza è palese per il lettore che se la ritrova tra le righe scritte; meno per chi sta vivendo tale esperienza, il quale percepisce l’animale e lo riconosce per il suo rumore. Questa sensazione è riportata da Welch tramite il ricorso a un verbo onomatopeico come crash. Un semplice e unico indizio che però catapulta il lettore proprio dove Welch desidera che si trovi: in mezzo al bosco. Certo, col lettore inesperto deve essere più indulgente e gli svela che si tratta di un cervo (“a deer crashes in the wood”), ma l’atmosfera è ricreata.

E questo è quello che conta.

Welch non si limita a mostrarci il cervo evocandolo semplicemente per

nome, ma cerca ancora una volta di immergere l’interlocutore in un’esperienza

che altrimenti resterebbe incomprensibile. L’autore non ci svela il significato di

questa apparizione, rimane a colui che vive tale esperienza il compito di cercare la

risposta. Quella che rimane al lettore è la sensazione di aver partecipato a

qualcosa di più grande di lui, tuttavia sa che non potrebbe trovarsi lì, vicino a quel

bosco, perché questo tipo di cerimonia prevede la completa solitudine. Questo

pone il lettore in una posizione strana, quella del “novellino” al quale non si

dovrebbero raccontare certi segreti (“Bones should never tell a story / to a bad

(33)

XXXVI

beginner”

80

, ci spiega Welch) ma spinto, proprio per il suo stato di principiante, dal maestro ad ascoltare per poter seguire le medesime orme.

Allo stesso modo, se in “Toward Dawn”

81

l’uso del verbo onomatopeico crash ci fa sentire l’avanzare nel bosco del cervo, in “There Is a Right Way”

82

ci viene dato di ascoltare il preciso battito d’ali che commuove il poeta con quel “his wings tipped / the wind just right” (vv. 2-3) che, come si può notare, è dato dal ricorso a un altro verbo onomatopeico (tipped), ma è anche prolungato dall’alternarsi ritmico di fonemi sibilanti (/z/ di his wings), sordi e sonori (tipped, wind, just, right) che riecheggiano il fendere dell’aria da parte delle ali del maestoso volatile.

Altre immagini sono presentate in tutta l’opera sempre grazie all’uso sapiente delle parole che si susseguono spesso come una catena di associazioni che assume valore icastico. L’esempio ci viene da alcuni versi di “Getting Things Straight”

83

, in cui appare nuovamente un falco che domina il cielo con le sue evoluzioni e delle quali il poeta si chiede il significato.

84

Così, sempre con l’intento di restituire la dimensione della profondità a un evento che altrimenti rimarrebbe legato alla pagina, Welch fa susseguire uno dietro l’altro prima i verbi rising, circling, falling (vv. 2 e 3) e di seguito (v. 9) wheeling, ancora falling e stumbling. Il ricorso al gerundio per un verso attualizza ogni singola azione – che

80RTE 40, p. 32.

81RTE 40, p. 8.

82RTE 40, p. 52.

83 RTE 40, p. 53.

84 Già il primo verso è una domanda (“Is the sun the same drab gold?”) e così altri interrogativi scandiscono il ritmo di tutta la poesia.

(34)

XXXVII

dunque accade qui e adesso – per l’altro prolunga il momento dell’enunciato permettendo di realizzarle mentalmente una dopo l’altra.

2.2 L’enjambement e l’a capo

“Per un po’ la tana si prolungava come una galleria, ma a un certo punto sprofondava all’improvviso, tanto all’improvviso che Alice non ebbe neanche un momento per pensare a fermarsi; e si trovò a precipitare giù per quello che pareva un pozzo assai profondo.

[…]

Giù, giù, sempre più giù. Sarebbe mai finita quella caduta?”

(Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie)

L’ulteriore espediente che il poeta mette in atto in Riding the Earthboy 40 per aiutare il lettore a visualizzare la scena è il ricorso alla punteggiatura e all’a capo. Se, infatti, rileggiamo i versi 2 e 3 di “Getting Things Straight”

85

, si possono notare alcune caratteristiche:

The hawk – is he still rising, circling, falling above the field?

85 RTE 40, p. 53.

(35)

XXXVIII

Il perno sul quale si concentra l’interesse della poesia è il falco, che viene posto in primo piano proprio dal trattino, un segno grafico a separare il sostantivo dall’altra porzione di testo. Questo espediente serve a ricalcare l’andamento del parlato, infatti l’inserimento di questo segno di interpunzione rappresenta per il lettore una pausa. Essa permette a chi parla di riordinare le idee, ma soprattutto di attingere ai propri ricordi e visualizzare quanto sta dicendo. Un tale processo viene messo in atto anche da chi è in ascolto, proprio grazie a quella pausa che, trasferita graficamente, comunica al lettore la medesima percezione. Ancora una volta, cioè, il lettore è trascinato al centro della scena tramite il ricorso a semplici, quanto fini e raffinati, espedienti letterari.

Questo processo percettivo/visivo viene amplificato al verso 3, nel quale la catena di verbi che descrivono i movimenti del falco viene interrotta dall’a capo.

Come si può notare, il verso termina con due verbi che ci descrivono l’alzarsi in volo del rapace e il suo volteggiare per scrutare la zona di caccia; poi, però, l’uccello cambia repentinamente direzione e scende verso terra. Questo movimento improvviso coincide con l’a capo (“[…] circling, / falling”), che obbliga il lettore a seguire il precipitare dell’animale abbassando lo sguardo sul rigo inferiore, quasi a imitare il gesto che si farebbe osservando la scena dal vivo.

Queste sensazioni sono accresciute anche dalla virgola alla fine del verso, che prolunga il senso di vuoto che precede la caduta.

La mente del lettore può vagare da un’immagine all’altra, e da un concetto

all’altro, proprio grazie all’uso della punteggiatura, che segnala le pause e

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