• Non ci sono risultati.

La comunità terapeutica: cultura organizzativa e funzione curante

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La comunità terapeutica: cultura organizzativa e funzione curante"

Copied!
9
0
0

Testo completo

(1)

interventi

La comunità terapeutica: cultura organizzativa e funzione curante

Angela D’Agostino

Questo intervento rappresenta per noi l’opportunità di portarvi il contributo di alcune considerazioni, maturate durante la nostra esperienza sul campo nell’ambito psichiatrico e, nello specifico, in una Comunità Terapeutico- Riabilitativa.

Rispetto al passato, l’intervento comunitario oggi costituisce una tematica più attuale; sempre più frequentemente, infatti, se ne sente parlare nei congressi e nelle sedi scientifiche istituzionali e, probabilmente, a causa della complessità del tema stesso e delle esperienze relativamente recenti, costituisce un ambito di confronto e di dibattito che può dar luogo a conclusioni alquanto divergenti e contraddittorie.

Avendo questa occasione che ci vede a confronto sul tema della psicoterapia, abbiamo operato la scelta di affrontare l’approccio comunitario mettendo al centro l’importanza ed il significato della relazione operatore-paziente.

Cercheremo di dimostrare la similitudine che, secondo noi, sussiste tra l’intervento comunitario e l’approccio psicoterapeutico. Per motivi di spazio, non abbiamo la pretesa di affrontare in maniera esaustiva un tema così articolato e ricco di contenuti; quello che ci preme è di proporre alcune riflessioni atte a stimolare un confronto ed una discussione che possano mettere in luce l’importanza che un intervento psicoterapico- ovviamente rivisitato secondo le diverse esigenze- possa avere nel trattamento del disagio mentale grave all’interno della Comunità. Parlando di forme psicopatologiche gravi sarà necessario, innanzitutto, approfondire il concetto di cura partendo dal presupposto che, nel campo della salute mentale, storicamente le strategie più diffuse tendevano a focalizzarsi sulla compromissione: con i trattamenti psicofarmacologici, si è tentato di alleviare i segni ed i sintomi più legati alla patologia e che più interferivano con la vita di relazione del paziente considerando, primariamente, la cosiddetta parte malata.

Psicologa, Psicoterapeuta, Comunità Terapeutica Riabilitativa Protetta "Gnosis" - Consorzio Marino Castelli, Roma.

(2)

Recentemente, invece, sembra consolidarsi una cultura clinica diversa che ha evidenziato come la riduzione e/o la soppressione delle compromissioni, non implica, necessariamente, comportamenti più funzionali; ad esempio, lo psicofarmaco può diminuire le allucinazioni senza, per questo, garantire che il paziente sia in grado di recuperare quel grado di autonomia necessario ai fini di una soddisfacente vita di relazione funzionale all’inserimento sociale.

In quest’ottica, il concetto di cura, è legato al riconoscimento ed all’accoglimento dei bisogni del paziente, inteso nella sua totalità come

“persona”, e l’iter terapeutico viene ad essere calibrato sulla base delle risorse disponibili sia al livello personale che ambientale.

All’interno di questa diversa impostazione, ci si è trovati di fronte all’esigenza di individuare degli indicatori atti a valutare gli esiti di un trattamento. Se nel passato era sufficiente concentrarsi ed attribuire risalto alle oscillazioni sintomatologiche, attualmente, questo criterio non si è dimostrato adeguato a misurare la complessità del processo che, partendo da una fase più strettamente sanitaria, dovrà trovare una conseguente finalizzazione all’interno della cosiddetta “inclusione sociale” del paziente.

Da qui ne consegue che l’utente psichiatrico dovrà aver riacquisito una sufficiente autonomia funzionale sia a livello primario che secondario. In questa prospettiva, l’attenzione si focalizza sul processo terapeutico e sulla misura in cui questo risponde ai bisogni reali del paziente, presupponendo che la patologia mentale, intesa come risultato dell’interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali, investe l’intero ambito esistenziale della persona.

Di conseguenza, non è più concepibile utilizzare un’impostazione riduzionistica, bensì, all’interno del progetto terapeutico-riabilitativo, sarà necessario prevedere molteplici “strategie di intervento” dinamiche e flessibili e, soprattutto, attuali: il disagio psichico, nelle sue manifestazioni sintomatologiche, esprime, infatti, dei contenuti profondamente radicati nella storia, nella cultura e nei simboli di una determinata epoca. Entrando più nel merito del concetto di cura, si potrà notare come venga a delinearsi una serie progressiva di interventi che, considerati a sé stanti, rappresentano degli strumenti più o meno definiti e caratterizzati da una consolidata prassi interna;ma affinché possano assumere valenza e qualità progettuali, dovranno essere integrati fra loro attraverso un continuum che ne garantisca una coerenza complessiva:

(3)

Osservando attentamente questo schema, ci si accorgerà di aver più dimestichezza con gli strumenti riconducibili all’area sanitaria basati su protocolli e metodologie sufficientemente definiti e validati; mentre, man mano che ci si avvicina all’ambito sociale, ci si troverà ad impattare con delle procedure non altrettanto sistematizzate e/o sistematizzabili al cui interno risulta estremamente faticoso circoscrivere gli ambiti propri di intervento e garantire, nello stesso tempo, un dato di continuità e coerenza interna.

Dobbiamo riconoscere, quindi, che il concetto di cura inteso come “farsi carico”

del paziente viene ad assumere una complessità che contribuisce a rendere quantomai arduo l’intervento terapeutico Tutto ciò, presuppone che l’uomo possa essere definito come l’interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali e che la patologia mentale sia riconosciuta nella sua complessità fenomenologica come forma di disagio che investe l’intero ambito esistenziale della persona,

in quanto, non essendo possibile scindere la persona dalla realtà che le ruota intorno, occorre far propria un’ottica multidimensionale che vada oltre un semplice assemblaggio di singoli interventi. Il concetto di cura non è più circoscrivibile alla sola remissione del sintomo, ma va inteso come un “take care” dei bisogni di cui un individuo è portatore in un preciso momento storico della sua vita, con l’obiettivo di aiutarlo a recuperare una progettualità esistenziale ed a raggiungere il maggior livello di autonomia. Questa impostazione, implica che la cura non possa essere intesa unicamente come un processo lineare, bensì occorre entrare nell’ordine di idee che ogni progetto terapeutico-riabilitativo debba rispondere ad un criterio circolare, dinamico e flessibile rispetto al quale non possono essere assunte soluzioni predefinite ed estendibili a tutti.

Un altro problema ancora da risolvere è rappresentato dalla impossibilità di predeterminare i tempi necessari affinché un paziente possa raggiungere una

(4)

consapevolezza ed acquisire gli strumenti utili all’incremento della sua autonomia . Infatti, in tutti i disturbi psichici nei quali è compromesso il contatto con la realtà, risulta essere quantomeno artificioso pretendere una previsione puntuale dei tempi di trattamento necessari per ottenere dei risultati clinicamente significativi. Nella nostra esperienza di lavoro terapeutico- riabilitativo con giovani adulti affetti da forme psicopatologiche gravi, abbiamo potuto constatare la valenza che la funzione curante acquisisce non tanto su un piano di realtà, ma soprattutto a livello simbolico, nella misura in cui il paziente è in grado di introiettare contenuti esperienziali ristrutturanti e riparativi, attraverso i quali, possa correggere i pattern comportamentali patogeni precedentemente appresi. Nella fattispecie, la durata dell’intervento comunitario prevista dalle normative istituzionali (entro i tre anni), non è detto che coincida necessariamente con il “tempo interno” del paziente ed anzi, non raramente, al momento della verifica degli esiti, è possibile riscontrare un’efficacia per così dire catamnestica. Infine, è essenziale sottolineare quanti possano essere i significati di cura in una realtà come la nostra: ad esempio la comunità potrà rispondere in prima istanza ad un’esigenza “concreta” legata ad un piano di realtà in cui il paziente abbia l’opportunità di trovare un contesto sufficientemente accogliente e gratificante che gli consenta riparo emotivo dalle dinamiche conflittuali insorte all’interno del nucleo familiare; nello stesso tempo, dopo aver stabilito un’alleanza terapeutica, il setting comunitario dovrà essere in grado di trasportare una compliance, inizialmente stabilita su un piano concreto di realtà, dall’esterno all’interno, ossia cominciando ad indurre un processo di consapevolezza del proprio stato di sofferenza e dei propri limiti. In sintesi, allora, si può partire da un bisogno legato al dato concreto (allontanarsi da casa), modulare questo livello passando ad una dimensione simbolica intrapsichica (consapevolezza di sé) e tornare nuovamente su un piano progettuale legato alla realtà ( identità sociale).

Durante l’evoluzione dell’iter terapeutico-riabilitativo, la Comunità tenderà ad essere altresì idonea a passare da un codice materno ad uno paterno e cioè farà in modo che i benefici eventualmente acquisiti dal paziente a livello intrapsichico possano trovare una loro espressione reale- e quindi concreta- facendogli recuperare una progettualità che, attraverso un adeguato intervento formativo e/o professionale, gli consenta di raggiungere un’identità sociale e di gettare le basi per un reinserimento sociale effettivo. Ovviamente, questo processo non può essere scevro da insidie e contraddizioni per cui, quando si affrontano tematiche inerenti al concetto di cura e di terapia nell’ambito delle strutture psichiatriche intermedie, diventa abbastanza ostico differenziare ed integrare tra loro le singole strategie di cui consta un intervento multidimensionale. Vi sarà capitato sicuramente di ascoltare termini quali

“assistenza”, “maternage” o “intervento psicoeducazionale” ecc., che, di per se stessi, tendono ad essere utilizzati in maniera sovrapponibile e poco chiara, ma non solo: la confusione è data anche dalla non corrispondenza riscontrabile tra le funzioni previste all’interno dei mansionari professionali ed il ruolo effettivamente svolto sul campo dalle varie figure: psichiatra, psicologo,

(5)

educatore ecc.. All’interno di un’équipe comunitaria, esiste, di fatto, per lo meno a livello operativo di base, una certa equipollenza per cui l’ordine gerarchico funzionale standard, non corrisponde sempre all’investimento che il paziente fa sugli operatori, tant’è che in molte occasioni, del personale meno qualificato si trova ad avere una funzione strategica all’interno del processo terapeutico- riabilitativo. A riconferma di quanto sopra, in più di un’occasione, ci siamo sentiti rivolgere interrogativi sul come e perché uno psicologo venga da noi impegnato anche in funzioni “meno importanti”, nel quotidiano o nella conduzione di attività considerate prettamente riabilitative. Ma proprio in questa apparente contraddizione consiste il fascino e, se volete, l’interesse di un campo clinico e di ricerca così controverso com’è quello rappresentato dall’ambito comunitario. Iniziamo col dire che il modello di intervento predominante nel settore, risente profondamente dell’impostazione medica per cui, gli utenti psichiatrici, da una parte dovrebbero usufruire di una adeguata assistenza legata ai bisogni primari e, dall’altra, di interventi specialistici che, il più delle volte, si limitano alla farmacologia in quanto la psicoterapia non sembra essere facilmente accessibile.

In un’accezione diversa della Comunità Terapeutica, così come, peraltro, è condivisa dalla nostra organizzazione, si tende a considerare la realtà del paziente unitariamente. Partendo dall’ipotesi che il contesto comunitario debba poter garantire un clima ed una situazione in cui i pazienti si possano sentir liberi di esprimere la loro realtà psichica interna senza incorrere in una risposta di tipo pregiudiziale, non a caso, R. N. Rapaport, nel 1960, indicava le quattro caratteristiche fondamentali che definiscono l’approccio comunitario:

1) DEMOCRATIZZAZIONE, intesa come “… scambio di potere e respon- sabilità nel prendere decisioni all’insegna di una comunicazione aperta…”;

2) TOLLERANZA, intesa come”…flessibilità ed accettazione dei compor- tamenti devianti da parte di tutti…possibilità… per rivivere sentimenti e comportamenti appresi nel passato in contesti poco favorevoli allo svi- luppo psicologico…”;

3) COMUNALISMO, …condivisione di tutti i luoghi ed occupazioni col- lettive da parte di staff e residenti…”;

4) CONFRONTO CON LA REALTA’. “…parlare sempre in maniera di- retta, apertamente, al fine di fornire un continuo feedback del comporta- mento dei singoli così come sono visti dagli altri…”.

In questa accezione, allora, la parte normalmente definita assistenza, viene ad assumere un significato ben più ampio che preferiamo rappresentare con il nome di “maternage”, in quanto la regressione è insita in ogni forma di disagio grave e, potendo leggere al di là dei bisogni espressi in maniera concreta, si possono evincere tutta una serie di contenuti e dinamiche che riportano ai pattern relazionali primari sottostanti all’eziopatogenesi del disturbo stesso.

D’altronde, così come in una qualsiasi relazione psicoterapeutica si determina un

(6)

momento regressivo che potremmo definire una tappa indispensabile, analogamente in Comunità l’intervento è configurato proprio per favorire una prima fase regressiva in cui il paziente possa riedire tutte le sue dinamiche profonde.

Parlare unicamente di assistenza, potrebbe essere sicuramente riduttivo in quanto la forma mentis dell’operatore psicologo è impegnata in un attento e difficile lavoro di osservazione clinica, di ricostruzione anamnestica e, soprattutto nei casi più gravi, di traduzione ermeneutica di senso che, pur muovendo da presupposti concreti, tende ad andare ben al di là, chiamando in causa un’attenta e faticosa analisi controtransferale. Per chi ha esperienza nell’ambito psichiatrico, sarà ben noto il peso del cosiddetto “fattore istituzionale” per cui i pazienti, durante colloqui o momenti strutturati, sembrano gradualmente adattarsi ad un ruolo e ad aspettative per così dire esterne mentre, nel corso di momenti apparentemente meno definiti, che Correale (1991) chiama “interstizi”, i meccanismi difensivi vengono meno sollecitati ad entrare in azione, lasciando emergere aspetti del sé più autentici e senza dubbio più significativi ai fini della cura stessa.

Non a caso, nelle riunioni di équipe, ci si trova a confrontare e rivedere le informazioni anamnestiche precedentemente acquisite alla luce dei contenuti emersi durante incontri e scambi che il paziente ha avuto con gli operatori in cui le informazioni precedenti, vengono arricchite e circostanziate da nuovi episodi e particolari che possono fornire indicazioni preziose ai fini del progetto terapeutico-riabilitativo.

Questo rilevamento consente anche di rivitalizzare la figura di un paziente che, il più delle volte, viene appiattito in un’anamnesi clinica, permettendo, così, una più adeguata diagnosi differenziale in grado di approfondire gli aspetti psichici strutturali. Può, per esempio, far emergere maggiori risorse sia rispetto alla sua capacità intenzionale che rispetto alle altre capacità residue: a volte, all’interno di un episodio critico in cui il paziente sembrava avere assunto una posizione quasi passiva, si può individuare ,invece, una sua competenza nel mettere a punto una determinata pianificazione ed una conseguente strategia attuativa di cui non si è sentito di parlare all’interno di uno spazio strutturato. Sulla base di quanto sopra, il processo terapeutico diventa una costante ricerca di attribuzione di senso e di significato, all’interno della quale l’operatore affianca il paziente condividendone l’esperienza quotidiana. In questa impostazione, è evidente come si vengano ad intersecare diversi piani che, talvolta possono avere una valenza psicopedagogica, talvolta di sostegno e chiarificazione psicologica, più o meno analogamente a quanto avviene in un processo psicoterapico. Trattandosi di disagi psichici gravi, con evidenti problemi di frattura ed integrazione del sé, all’operatore psicologo verrà richiesta una più attenta osservazione sia nel riconoscere i derivati inconsci del paziente che, soprattutto, nell’individuare e selezionare il tipo di intervento da proporre, partendo dal presupposto che, un utilizzo non calibrato della parola potrebbe avere degli effetti controproducenti.

Consideriamo che lo spazio del logos, della riflessione, è limitato e che l’azione stessa acquista una valenza psicoterapica. “L’azione parlante” descritta da Paul-

(7)

Claude Racamier (1997) come modalità di intervento alternativo all’

interpretazione classica per lo più non utilizzabile da pazienti psicotici o borderline crea, nel contesto comunitario, uno scenario rappresentazionale nel quale la realtà esterna ed interna possono incontrarsi ed acquisire reciprocamente senso. L’organizzazione del setting di una comunità Terapeutica favorisce ai pazienti ma anche agli operatori la possibilità di apprendere dal fare la cui esperienza diventa uno strumento di integrazione del sé, di contenimento dell’ansia, di controllo degli impulsi, di sviluppo individuale e di gruppo.

Lo sforzo più grande che riguarda il ruolo dell’operatore psicologo, così come si evince da quanto sopra esposto, consiste proprio nella difficoltà di poter contare su parametri esterni stabili che possano garantire la coerenza dello spazio mentale di lavoro: mentre in una dimensione psicoterapica tradizionale esistono delle regole contrattuali piuttosto definite, alle quali il paziente può decidere quanto e come aderire, all’interno della Comunità Terapeutica l’adesione alle regole fa parte di un processo ben più articolato e multiforme. Costantemente l’operatore si troverà nelle condizioni di dosare con attenzione ed atteggiamento empatico una comunicazione basata, ora su modalità più prescrittive ora su modalità mirate a ristabilire e/o garantire un’alleanza, accogliendo anche dei comportamenti trasgressivi. Altri ancora potrebbero essere gli esempi, ma è chiaro che l’elemento in gioco è dato dal livello di autorevolezza che, in tutti i sensi, viene riconosciuta dal gruppo di utenti ad un operatore. Chi ha esperienza in ambito psichiatrico e di disturbi psichici gravi, sa molto bene quanto sia precario ed, in un certo senso delicato, l’equilibrio sotteso al rapporto operatore- paziente visto che vengono a mancare una serie di criteri motivazionali. Una delle situazioni di impasse vissuta dall’operatore scaturisce quando egli si trova di fronte ad un diniego diretto, ad un’opposizione e/o atteggiamento provocatorio, per cui il paziente, più o meno consapevolmente, decide di non aderire ad una delle norme del setting comunitario; è proprio in quei momenti che l’operatore si interroga sul che cosa fare, che sperimenta vissuti emotivi di inaudita intensità e, a seconda dei casi, sente emergere il bisogno – più o meno idealizzato – che un’autorità suprema “magicamente” faccia la sua comparsa per ristabilire l’ordine infranto. In questo caso, sarebbe interessante fare l’elenco e diversificare le risposte con cui si difende l’èquipe: c’è chi invoca un setting rigido ed espulsivo nei confronti di eventuali trasgressori; c’è chi, al contrario, propone una comprensione quasi estenuante che possa garantire l’equilibrio e la coerenza del setting, utilizzando quasi unicamente espressioni emotive positive;

ed ancora, ultimo ma non ultimo, c’è chi, folgorato nella propria autostima, tende ad invertire la dinamica relazionale aspettandosi che il paziente stesso si renda conto di ciò che ha arrecato con la sua eventuale condotta trasgressiva.

Non ci dilungheremo ulteriormente su come e perché negli esempi che vi abbiamo proposto sia ravvisabile un fenomeno di controtransfert genitoriale che chiama direttamente in causa la persona stessa dell’operatore! Ebbene, proprio a partire da queste considerazioni e, senza la pretesa di voler esaurire una tematica così complessa e di difficile definizione, viene chiamato in causa un concetto di setting che, ancor prima di basarsi su riferimenti esterni, corrisponde ad un

(8)

atteggiamento mentale con cui l’operatore, costantemente, possa modulare e riformulare la sua relazione con il paziente. Viene inoltre chiamato in causa il rapporto di distanza-vicinanza ed il conseguente processo proiettivo e di identificazioni proiettive che si svolgono al suo interno. In realtà, all’operatore psicologo viene richiesto di costruirsi una sorta di modello mentale che sta alla base del comportamento del paziente e che, a seconda di una più o meno marcata scissione e non integrazione del sè, fa ricorso a tutti gli echi controtransferali che possono essere utilizzabili al fine di dar senso e di organizzare quanto continuamente il paziente tende a distruggere e disorganizzare.

In pratica, occorre avere un atteggiamento mentale disponibile a condividere con il paziente un percorso esperienziale che prevede dei momenti regressivi – che per l’operatore psicologo si traducono con un ritorno a quei processi psichici primari a volte così faticosamente rimossi -, ad esperire l’impatto con forti emozioni primarie spesso in una versione presimbolica che rischia di scatenare fantasie, paure ed angosce difficilmente controllabili. Alla base di questo discorso, nonché presupposto fondamentale, occorre che l’operatore abbia una adeguata conoscenza di sé, dei propri limiti, delle proprie possibilità al fine di non perdersi e non fare ulteriormente perdere il paziente. Per esempio, il processo terapeutico evolutivo dei pazienti, oltre che da risorse e capacità proprie, dipende, soprattutto, dalla maturità personale e professionale degli operatori, dalla loro disponibilità a riconoscere ed elaborare le istanze implicite dei pazienti e alla possibilità di instaurare un legame fiduciario. In questa accezione il controtransfert risulta essere uno strumento indispensabile con cui l’èquipe cerca, all’interno del setting terapeutico comunitario, di attribuire senso a quelle multiformi dinamiche relazionali presenti nel gruppo. La rappresentazione mentale con cui l’operatore si configura il paziente consente di dare corpo al mondo interno dell’altro e, così facendo, diviene accessibile per essere eventualmente riconosciuta ed elaborata in un processo di cambiamento.

Da qui ne consegue un atteggiamento definibile “setting mentale”, per cui l’operatore è chiamato a posizionarsi a più livelli non solo con il singolo paziente, bensì anche con il gruppo degli utenti, i colleghi e l’istituzione stessa, in una matrice multidimensionale che, prima di ogni altra cosa, deve essere interiorizzata per consentirgli di orientarsi a seconda delle diverse situazioni. La definizione di setting mentale rappresenta, quindi, un elemento di complessità che ha richiesto una rivisitazione del concetto tradizionale di setting e che costituisce proprio un assunto fondamentale che stabilisce una differenziazione tra quello che può essere considerato un intervento generalmente terapeutico di tipo comunitario e quello che, invece, noi intendiamo per impostazione psicoterapeutica della Comunità.

A riprova della complessità e dell’articolazione che riguarda l’intervento comunitario, il concetto di setting mentale include tutto ciò che avviene all’interno della struttura e questo amplia notevolmente il raggio di azione:

possiamo affermare, infatti, che nella Comunità Terapeutica non è possibile demarcare un limite definito entro il quale prende corpo l’azione terapeutica. Il setting comunitario così inteso, oltre a ricoprire l’intera giornata presuppone un

(9)

intercalarsi di spazi strutturati (attività psicosociali, laboratori, gruppi terapeutici , colloqui individuali, ecc.) e spazi non strutturati (momenti di dialogo informali, momenti di riposo, momenti ludici ecc.) per cui all’èquipe è richiesta una grande capacità di osservazione clinica ed integrazione degli elementi emersi nei vari contesti, il tutto in un continuo lavoro di riformulazione mentale del paziente.

Anche a costo di allargare troppo il discorso, vorremmo mettere in risalto che, proprio in questa attività mentale in cui l’operatore è impegnato nella costruzione e nell’aggiornamento riguardo il funzionamento mentale del paziente, consiste l’elemento terapeutico e rivitalizzante che differenzia la comunità terapeutica da altre forme di trattamento: laddove al paziente non possa essere garantito questo scambio interrelazionale con gli operatori, si corre il rischio (come nei manicomi) di oggettivarlo ed, in un certo senso alienarlo in una dinamica statica. La comunità acquisisce il significato simbolico di riorganizzatrice attraverso una cadenza regolare del ritmo delle attività, delle uscite, dei colloqui, dei momenti terapeutici, dei laboratori e le regole su cui si basa la comunità fungono da regolatore – vedi il contratto terapeutico – a garanzia del setting.

Per concludere, vorremmo sottolineare come l’intervento comunitario sia inserito all’interno di una traslazione istituzionale in cui incidono fortemente il peso e l’influenza della forma mentis sociale: di fatto, una Comunità Terapeutica come la nostra opera in un regime di stretta interdipendenza con l’istituzione pubblica ed in particolare con il settore sanitario. Allo stato attuale, è ancora possibile riscontrare che, in generale, la funzione psicoterapeutica della Comunità è ormai adeguatamente riconosciuta, ma accade ancora, anche se sempre in minor misura, che questa metodologia, così finemente pensata, venga considerata non efficace o, quantomeno, disconosciuta.

Bibliografia

Cancrini L. (1999), La luna nel pozzo, Milano: Raffaello Cortina Editore.

Coralli M. (a cura di) (1997), Terapeutico e Antiterapeutico, cosa accade nelle comunità terapeutiche?, Torino: Bollati Boringhieri.

Correale A. (1991), Il campo Istituzionale, Roma: Borla.

Ferruta A., Foresti G., Pedriali E., Vigorelli M. (a cura di) (1998), La Comunità Terapeutica tra mito e realtà, Milano: Raffaello Cortina Editore.

Fiori M. (2003), Aspettativa e relazione, Edizione Psicologia.

Zapparoli G. C. (1982), Psicoanalisi del delirio, Milano: Gruppo editoriale Fab- bri-Bompiani.

Riferimenti

Documenti correlati

E' significativo sapere che nel momento della catastrofe finale, rappresentata nel romanzo dalla distruzione della città in cui vive il protagonista, a causa della guerra

Table 3.3.2 ANOVA examining the effects of exposition to heating (He) between panels populated by assemblages with different complexity (Tr) on percentage cover of

In the presence of TMCD-FITC, probe 4 exhibited the highest emission enhancement, almost 1500-fold higher than that of the probe without the host upon activation with hydrogen

Università di Macerata, Dipartimento di Economia e Diritto La cultura organizzativa.. Obiettivi

Inizia nel momento in cui il paziente viene ammesso in sala operatoria, comprende la permanenza in sala di risveglio e termina con il trasferimento del paziente in reparto..

I gruppi inseriti nella quotidianità del- la vita comunitaria sono: il gruppo della casa, il gruppo autobiografico, il gruppo di educazione alla salute e il gruppo

Interessi in Oncologia: conflitti e confluenze di cosa non dobbiamo parlare..  Il Paziente chiede la migliore cura possibile ed il Medico è tenuto a fornire la migliore cura

Mi appariva chiaramente che, per quanto alterata dalla distorsione delle dinamiche transferali della sua analisi, proprio servendosi di quella distorsione, Giorgia presen- tava