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351/2011 Foucault e la “Storia della follia” (1961-2011)

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Foucault e la “Storia della follia”

(1961-2011)

Premessa

MATERIALI 1

Michel Foucault “Non esiste cultura senza follia”

[1961]

Frédéric Gros Nota sulla “Storia della follia”

Daniel Defert L’altra scena della pittura Pier Aldo Rovatti “Sarai un malato di mente”

(una risposta ai detrattori di Foucault) Mario Colucci La storia negata

Pierangelo Di Vittorio Togliersi la corona.

Foucault e Basaglia, storia di una ricezione

“minore”

Mauro Bertani Un’opera morale (e la storia della psichiatria)

MATERIALI 2

Michel Foucault Storia della follia e antipsichiatria [1973]

Jean-François Bert, Philippe Artières Foucault 1970. “Storia della follia”, atto III

Colin Gordon La “Storia della follia” in Inghilterra Alain Beaulieu Foucault e la “Storia della follia”

in Nord America

Valentín Galván La ricezione della “Storia della follia” in Spagna

Cesar Candiotto, Vera Portocarrero Effetti della “Storia della follia” in Brasile

351

luglio settembre 2011

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it),

Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento,

tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore via Melzo 9, 20129 Milano collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. i✏ek

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Finito di stampare nel settembre 2011

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Premessa

S ono trascorsi cinquant’anni dal giorno di maggio 1961 in cui Michel Foucault, dopo molte peripezie, disavventure e smarri- menti, che avevano condotto il manoscritto dagli uffici di Galli- mard al tavolo di Philippe Ariès presso le edizioni Plon, era riu- scito finalmente a pubblicare la sua thèse. Un lasso di tempo suf- ficiente, crediamo, per cominciare a interrogarci sui destini di un libro iniziato nella lunga “notte svedese” a Uppsala, prose- guito “al grande sole ostinato della libertà polacca” a Varsavia e concluso nella quiete indifferente di Amburgo, e per chiederci in particolare come mai questo libro, dalle vicende editoriali tor- mentate anche in seguito (solo di recente i lettori di lingua in- glese hanno finalmente potuto leggere l’edizione integrale del testo, e solo nel 2011 il lettore italiano potrà finalmente dispor- re di un’edizione senza tagli e omissioni), si sia a sua volta regi- strato in maniera tanto controversa e contraddittoria nello spa- zio della nostra cultura e del nostro pensiero. Un lasso di tempo che ha scavato comunque la necessaria distanza storica a partire dalla quale ripensare criticamente la straordinaria inventività e produttività di un libro che, come ha scritto Georges Can- guilhem, dovrà essere giudicato essenzialmente come “evento”, in ragione degli “effetti” che avrà prodotto. Effetti (o loro man- cata produzione) che abbiamo voluto cominciare a cartografare con questo numero di “aut aut”.

Ecco il dossier che, a proposito del grande libro del 1961, vor-

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remmo dunque innanzitutto riaprire, provando a riprendere i pro- blemi suscitati da esso e che solo alcuni, all’epoca, anche se non tra i minori, avevano individuato. Per questo abbiamo pensato di or- ganizzare il fascicolo secondo due linee di forza: la prima è quella costituita dalla ricostruzione dei principali dispiegamenti teorici e analitici del libro e dalla rievocazione di alcune delle questioni cru- ciali sollevate (senza escludere il ricordo o la testimonianza perso- nale), l’altra è quella dei suoi effetti non (immediatamente) teorici, vale a dire le analisi di archivio e la documentazione sulla storia del- la psichiatria, unitamente alle ricadute sui movimenti e le organiz- zazioni di lotta a proposito della psichiatria e delle istituzioni psi- chiatriche. Il lettore troverà, accanto ad alcuni interventi che rico- struiscono l’architettonica generale del libro, le questioni teoriche da esso poste e alcuni dei problemi che da allora in avanti, e fino al termine della vita, Foucault non cesserà di approfondire, anche una prima ricostruzione di quella che si chiama, convenzionalmente, la “ricezione” del suo libro, per avviare poi una riflessione (qui so- lo accennata e ancora tutta da svolgere) su quanto annunciava Fou- cault – “un giorno forse non sapremo più esattamente quel che la follia ha potuto essere” – e che gli sviluppi delle neuroscienze, nel- le loro ricadute e applicazioni terapeutiche, soprattutto farmaco- logiche, sembrano aver reso oggi attuale.

Correlato a questo piano ve n’è poi un altro che ci è parso va-

lesse la pena di esplorare. Quasi da subito, com’è noto, è comin-

ciata infatti l’utilizzazione del libro da parte di chi farà della conte-

stazione delle istituzioni psichiatriche, dei saperi che le legittima-

vano e del potere che le amministrava il proprio programma teori-

co e politico. Non senza “malintesi e controsensi”, come osserverà

Robert Castel, ma era parte della posizione filosofica di Foucault –

del resto esplicitamente dichiarata e rivendicata nella nuova prefa-

zione per l’edizione del 1972 – affidare il destino di un pensiero, di

un’opera, di un lavoro, a iniziare dai propri, all’insieme delle ri-

prese, delle riattivazioni, delle utilizzazioni e persino degli stravol-

gimenti che di essi è possibile effettuare, in altri luoghi, in altri tem-

pi, in altre forme. E proprio questo gioco complesso di relazioni

che si sono intrecciate tra un’opera e la sua epoca, tra una forma di

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riflessività, una teoria, le sue traduzioni sul piano delle pratiche con- crete si è trattato di interrogare, chiedendoci quali “effetti” abbia prodotto la Storia della follia nella pratica di chi si occupa dei sa- peri che hanno investito l’esperienza della follia, in particolare nel- la pratica di chi tali saperi applica, facendone derivare conseguen- ze decisive – una diagnosi, una prescrizione, un trattamento, un in- ternamento – per l’esistenza di chi viene loro affidato.

È vero che dopo di allora Foucault non farà più uscire nessun libro esplicitamente dedicato alla questione psichiatrica, ma è al- trettanto vero che due dei suoi corsi al Collège de France – quel- lo del 1973-1974 dedicato a Il potere psichiatrico e quello dell’an- no successivo dedicato a Gli anormali – sono incentrati sulla psi- chiatria e sulla sua storia, così come è vero che tutto il lavoro filo- sofico di Foucault comporterà un interminabile e costante con- fronto con la psichiatria, e più in generale con le discipline del campo “psy”, fino alle ultime opere e agli ultimi corsi. Inoltre Fou- cault ha continuamente accompagnato la propria produzione, tan- to teorica quanto storica, ivi compresa quella relativa alla “cosa psy”, con una impressionante messe di interventi – brevi saggi, ar- ticoli, interviste – che costituiscono altrettanti atti (come ad esem- pio la conferenza del 1973 a Montréal, qui tradotta assieme a un’in- tervista a caldo rilasciata nel 1961) anche se non più sotto le spe- cie della speculazione teoretica o dell’erudizione storica, bensì nel- la forma dell’attivismo militante, delle pratiche (anti)istituzionali vere e proprie (manifestazioni, partecipazione a iniziative colletti- ve) che rappresentano il versante propriamente e direttamente po- litico dell’impegno di Foucault all’interno del campo “psy”.

Philippe Artières, storico, lavora presso il Cnrs-Ehess. Presidente del Centre Michel Foucault, è autore (con M. Potte-Bonneville) di D’après Foucault. Gestes, luttes, programmes (2007) e curatore di Le groupe d’infor- mation sur les prisons. Archives d’une lutte, 1970-1972 (2001).

Jean-François Bert, sociologo, lavora presso l’Institut interdisciplinare d’anthropologie du contémporain e collabora con il Centre Foucault. È autore di Introduction à Michel Foucault (2011). Con Philippe Artières annuncia per l’autunno 2011 la pubblicazione di un volume sulla Storia

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della follia e di uno su cinquant’anni di ricezione del libro, presso le Pres- ses universitaires de Caen e le Éditions de l’Imec.

Alain Beaulieu, filosofo, insegna presso il Dipartimento di filosofia del- la Laurentian University a Sudbury (Canada), fa parte della redazione della rivista “Foucault Studies” e ha curato i volumi Michel Foucault et le contrôle social (2005) e Michel Foucault and Power Today (2006).

Cesar Candiotto, filosofo, insegna presso la Pucpr (Pontifícia Universi- dade Católica do Paraná, Brasile) ed è l’autore del recente volume Fou- cault e a crítica da verdade (2010).

Daniel Defert, filosofo e sociologo, ha insegnato presso l’Université Pa- ris VIII . Nel 1984 ha fondato Aides. Di Foucault ha curato i quattro vo- lumi dei Dits et écrits (1994) e le Leçons sur la volonté de savoir (2011).

V alentín Galván, filosofo, insegna e collabora con l’Universidad de Ca- diz. È autore di De vagos y maleantes. Michel Foucault en España (2010).

Colin Gordon, filosofo e sociologo, lavora presso il Royal Brompton &

Harefield Nhs Trust di Londra. Ha curato The Foucault Effect: Studies in Governmentality (1991).

Frédéric Gros, filosofo, insegna all’Université Paris XII e presso lo Iep.

Fa parte dell’équipe dei curatori dei corsi al Collège de France di Fou- cault, di cui ha curato Hermenéutique du sujet (2004), Le gouvernement de soi et des autres (2008), Le courage de la vérité (2010). È autore di Mi- chel Foucault (1996) e di Foucault et la folie (1997).

V era Portocarrero, filosofa, insegna presso la Uerj (Universidade do Esta-

do do Rio de Janeiro, Brasile), ha scritto Arquivos da loucura (2002) e

As ciências da vida. De Canguilhem a Foucault (2009).

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Materiali 1

“Non esiste cultura senza follia”

[1961]

MICHEL FOUCAULT

M i è sembrato che la follia sia stata un fe- nomeno di civiltà altrettanto variabile e fluttuante di ogni altro fenomeno cul- turale. E del resto è stato leggendo alcuni libri americani sul mo- do in cui certe popolazioni primitive reagiscono al fenomeno del- la follia che mi sono chiesto se non avrebbe potuto essere inte- ressante vedere come la nostra cultura reagisce a tale fenomeno.

Ci sono civiltà che l’hanno celebrata, altre che l’hanno tenuta a distanza, altre ancora che l’hanno curata, ma ciò su cui ho volu- to insistere è precisamente il fatto che curare il folle non è la sola reazione possibile al fenomeno della follia. Credo infatti che tra i folli vi siano altrettante persone interessanti di quante se ne tro- vano tra quelle normali, e che allo stesso modo se ne trovino al- trettante che sono poco o per nulla interessanti. Non esiste cultu- ra senza follia, e quel che mi sono proposto di studiare è appunto il problema assolutamente generale dei rapporti che una cultura intrattiene con la follia, a partire dall’analisi di un caso preciso, va- le a dire quello delle reazioni della cultura dell’età classica a un fe- nomeno, quello della follia, che sembrava opporsi radicalmente al razionalismo del XVII e del XVIII secolo.

Credo che il XVII secolo rappresenti, appunto, una svolta: pri- ma di allora, e in ogni caso fino agli inizi di quel secolo, all’incir-

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Trascrizione di un’intervista inedita con Nicole Brice del 31 maggio 1961 diffusa su Fran-

ce Culture.

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Nota sulla “Storia della follia”

FRÉDÉRIC GROS

N el 1961 appare la Storia della follia, che co- stituisce la tesi di dottorato di Michel Fou- cault. L’opera si presenta come un’“anti- storia” della psichiatria prima di essere riconosciuta, qualche anno più tardi, come un classico dell’antipsichiatria. Le storie classiche della psichiatria descrivevano, infatti, l’emergere di questa nuova scienza basandosi sul modello della rottura e della rivelazione scien- tifica. Alla fine del XVIII secolo, l’alienista Pinel avrebbe scoperto che i folli, considerati fino a quel momento dei criminali, delle per- sone possedute dal demonio, oppure delle bestie selvagge, e sot- toposti ai trattamenti più degradanti (rinchiusi, incatenati), in realtà non erano altro che malati, ed era quindi necessario trattarli con umanità e dolcezza. In seguito all’introduzione di questo sguardo compassionevole e obiettivo (comprensivo) sulla follia, la psichia- tria sarebbe passata di conquista in conquista, stabilendo dei qua- dri clinici definitivi e precisi, che descrivevano in maniera scienti- fica le forme, i tipi e le evoluzioni della malattia mentale.

Foucault rifiuta per diverse ragioni questa visione da conqui- statrice della psichiatria. Innanzitutto perché la follia non costitui- sce per lui, di primo acchito, un oggetto medico. La follia è origi- nariamente una decisione culturale complessiva, un modo di defi- nirci come uomini di ragione, rigettando i folli dall’altra parte del- la separazione. Il che significa immediatamente che l’impresa di co- noscenza sulla follia poggia su questo primo gesto di esclusione, e ne sarebbe l’ultimo prolungamento. È il contrario rispetto alla sto-

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ria tradizionale della psichiatria, che fa apparire l’oggettivazione medica come liberatrice. Alla radice del nostro rapporto con la fol- lia, c’è piuttosto un gesto di separazione, una maniera di esclude- re l’altro per liberarci della sua ossessione e per poterci definire al- l’interno di un’integrità culturale determinata. È in questo senso che il caso della lebbra durante il Medioevo rappresenta, per Fou- cault, una sorta di compendio della storia della follia, nella misura in cui ha messo in opera riti forti di purificazione e di esclusione.

Non si tratta tuttavia di gettare discredito in maniera romantica alla presa scientifica sulla follia, bensì da un lato di ricollocarla sto- ricamente, e dall’altro di comprenderne le poste in gioco e le im- plicazioni per la nostra identità moderna. La storia che scrive Fou- cault non è dunque una storia nel senso tradizionale della storia del- la scienza, vale a dire una storia degli errori clamorosi e delle sco- perte folgoranti, una storia retrospettiva che si scrive a partire da verità contemporanee, per mettere poi in atto la selezione tra gli oscurantisti e i precursori. Foucault la definisce “archeologia”. Si tratta di scavare, di scoprire strati profondi sotto la superficie degli enunciati e delle istituzioni. Sono le “esperienze” di follia che ven- gono studiate da Foucault, considerando al contempo le pratiche sociali, i saperi medici e le manifestazioni artistiche e letterarie. Il Rinascimento così disegnerà il tema della follia come erranza: il fol- le si muove di città in città, è affidato a battellieri, è costretto a di- morare alle porte delle città, e così via. Si è spesso rimproverato a Foucault un eccesso di credulità: avrebbe cioè creduto realmente nell’esistenza della Nave dei folli, mentre si trattava solo di un tema letterario; avrebbe creduto poi al grande internamento dei folli nel- l’Hôpital général durante l’età classica, quando in realtà quest’ulti- mo non sarebbe stato così massivo e brutale come egli pretende, ecc. Ma occorre comprendere che, a livello di un’archeologia della follia, la rêverie culturale conta tanto quanto la pratica sociale ac- certata. Si tratta di ritrovare e di descrivere un fondo di esperienza, piuttosto che di stabilire scientificamente la realtà dei fatti.

Si potrebbe qualificare come cosmica l’esperienza complessiva che il Rinascimento fa della follia, dato che questa condizione di er- ranza fondamentale, in cui è stato proiettato l’insensato, entra in ri-

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sonanza con un tema potente: la minaccia della distruzione dei mon- di, l’ossessione di una Natura, il cui ordine regolare non sarebbe che apparente, quando nel suo seno più profondo mostri senza età bru- licano e minacciano l’invasione, il timore del caos compare dietro le apparenze regolate. È ciò che Foucault chiama la “coscienza tra- gica” della follia, della quale trova di nuovo, dopo un lungo oblio, una riapparizione contemporanea in Nietzsche e Artaud. Si vede inoltre molto bene, con questi esempi, che si tratta per Foucault di lasciar posto a un’esperienza artistica, letteraria della follia, e che fa- re della follia una malattia mentale, un puro oggetto medico, signi- fica ridurre considerevolmente lo spazio che occupa e la posta in gioco che essa costituisce all’interno della nostra cultura.

Dopo questo breve episodio del Rinascimento, Foucault dedi- ca il maggior numero di pagine a descrivere l’esperienza classica della follia, descrizioni che furono all’origine di numerose pole- miche, sia da parte degli storici (alcuni dei quali, come si è detto, mettono in questione l’idea stessa di un “grande internamento”

della follia nel XVII secolo), sia da parte dei filosofi (si veda la po- lemica con Jacques Derrida a proposito dell’interpretazione di un passaggio delle Meditazioni di Descartes).

In effetti Foucault mette in scena, con una solennità assai mar- cata, il momento del grande internamento: i folli, che erano vissuti fino a quel momento nell’erranza, sarebbero stati rapidamente rin- chiusi entro le spesse mura dell’Hôpital général, assieme ai mendi- canti e ad altri vagabondi, presto seguiti da tutto il gran popolo tra- viato della sragione (blasfemi, libertini ecc.). Ora, questo interna- mento presuppone per Foucault una nuova esperienza, e in ogni ca- so una percezione concreta del folle come personaggio, ormai con- cepito nell’orizzonte delle problematiche sociali (il disordine causa- to dalle popolazioni miserabili e senza lavoro che vagano nelle città) e delle pratiche politiche (l’istituzione di pratiche di internamento come misure di polizia, che sovente mettono fuori gioco l’istanza giudiziaria). Il folle non è più un personaggio inquietante, con un’au- ra mistica: diventa piuttosto un problema di natura sociale.

Anche su questo punto gli psichiatri si sentiranno direttamente presi di mira, poiché si tratta dopotutto per Foucault di mostrare

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L’altra scena della pittura

DANIEL DEFERT

L a presenza della pittura nell’opera di Fou- cault ha suscitato interesse, soprattutto a partire dall’esegesi tanto estetica quanto fi- losofica di Las Meninas che apre Le parole e le cose. Si tende però a dimenticare che anche Storia della follia si apre con la descri- zione della Nave dei folli di Hieronymus Bosch. L’edizione prin- cipale del 1961, 1 poco tradotta, tranne che in Italia e in Giappo- ne, e in Inghilterra solo nel giugno 2006, dunque scarsamente co- nosciuta, contiene lunghe digressioni su quadri di Bosch, Brue- ghel, Thierry Bouts, Dürer, Goya e Van Gogh. Tutto si svolge co- me se nell’opera di Foucault esistessero due modalità di discorso sulla pittura, una rottura a partire dal testo su Velázquez e il pas- saggio da una semantica esistenziale a un’analitica del significan- te, un significante di cui egli si libera a partire dagli anni settanta.

Foucault introduce la presenza della follia nella società occi- dentale del XV secolo a partire dal quadro di Bosch che a sua vol- ta illustra il canto XXVII del Narrenschiff di Brandt del 1492, e che esprime “la situazione liminare del folle all’orizzonte dell’inquie- tudine dell’uomo medievale”. La pittura e la letteratura “simbo- lizzano tutta un’inquietudine, apparsa improvvisamente all’oriz- zonte della cultura europea verso la fine del Medioevo”. Foucault sviluppa ampiamente l’argomento: “Fino alla seconda metà del XV

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1. M. Foucault, St oria della f ollia n ell ’ e t à c la ss i c a (1961), Rizzoli, Milano 1963 (la coper-

tina riproduce la tavola 26 dei Capri cc i di Goya).

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secolo, o ancora un po’ oltre, il tema della morte è il solo a regna- re sovrano. La fine dell’uomo, la fine dei tempi, prendono l’aspetto delle pesti e delle guerre. Ed ecco che, negli ultimi anni del seco- lo, questa grande inquietudine gira su se stessa; la derisione della follia prende il posto della morte e della sua serietà. Il terrore di fronte a questo limite assoluto della morte si interiorizza in una continua ironia, la vita stessa non è altro che fatuità, la follia è la morte già presente”. 2 E ancora: “La sostituzione del tema della follia a quello della morte non segna una rottura ma piuttosto una torsione all’interno della stessa inquietudine. È sempre in causa il nulla dell’esistenza, ma questo nulla non è più considerato come termine esterno e finale, è riconosciuto dall’interno, come la for- ma continua e costante dell’esistenza”.

In questa torsione, che è già soggettivazione per introdurre un concetto più tardivo, c’è sdoppiamento della follia: “Se la follia trascina ognuno nell’accecamento in cui si perde, al contrario il folle, il personaggio del folle, del grullo, del balordo nelle farse e nelle vecchie feste dei pazzi, assume sempre più importanza, ri- corda a ciascuno la sua verità, organizzando una critica sociale e morale”. Foucault vede esprimersi questa fenditura sempre più accentuata nell’espressione della follia in una separazione sempre più netta tra la sua traduzione letteraria e la sua traduzione pla- stica: “Tra il verbo e l’immagine, la bella unità tende a sciogliersi [...] non c’è più un solo e identico significato che li accomuni”. 3

Alla pittura va l’espressione della follia come esperienza tragi- ca della finitudine e della morte, alla letteratura l’espressione dei folli come esperienza critica. “L’immagine ha ancora la vocazione di trasmettere qualcosa di consustanziale al linguaggio, ma biso- gna riconoscere che, ormai, essa non dice più la stessa cosa”, men- tre “attraverso i suoi valori plastici, la pittura s’immerge nell’e- sperienza che si allontanerà sempre più dal linguaggio, quale che possa essere l’identità superficiale del tema [...]. Il senso non si legge più a una percezione immediata, la figura in quanto tale ces-

2. Ivi, pp. 29-30.

3. Ivi, p. 32.

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sa di parlare.” “Da una parte Bosch, Brueghel, Bouts, Dürer, e tut- to il silenzio delle immagini; è nello spazio della pura visione che la follia dispiega i suoi poteri, come forza primitiva di rivelazione e rivelazione che l’onirico è reale.” “Si dispiega nella pittura del

XV secolo come la tragica follia del mondo.”

“L’onirico è reale.” Non è possibile non sentire qui la conti- nuazione dell’ampia meditazione di Foucault su Binswanger, Il so- gno e l’esistenza, pubblicata nel 1954. 4

Descrivendo l’altro quadro di Bosch, la Tentazione di Sant’An- tonio, Foucault sviluppa una singolare esegesi: “Nella Tentazione di Lisbona, si è seduta di fronte a Sant’Antonio una di quelle fi- gure nate dalla follia, dalla sua solitudine, dalla sua penitenza, dal- le sue privazioni; un’esile fonte di luce rischiara questo volto sen- za corpo, pura presenza dell’inquietudine sotto le sembianze di un’agile smorfia. Ora è proprio questa sagoma da incubo a essere il soggetto e l’oggetto della tentazione; è questa ad affascinare lo sguardo dell’asceta”; “è la sua stessa natura [dell’uomo], quella che metterà a nudo l’inesorabile verità dell’Inferno”.

“Il grillo [la figura semi-grottesca, semi-ferina che orna i salte- ri o i cornicioni delle cattedrali ] non ricorda più all’uomo, in for- ma satirica, la sua vocazione spirituale dimenticata. È la follia di- venuta tentazione, tutto ciò che c’è in lui di impossibile, di fanta- stico, di inumano, come se venisse da una potenza insensata raso terra, è tutto questo appunto a conferirgli il suo strano potere. La libertà, anche spaventosa, dei suoi sogni, i fantasmi della sua fol- lia hanno per l’uomo del XV secolo un potere d’attrazione più for- te della realtà desiderabile della carne.”

In numerose immagini il Rinascimento ha dato espressione a

“quanto presentiva delle minacce e dei segreti del mondo”. Al con- trario, nella letteratura ci si impegna a liquidare la follia; non è di essa che si parla, Erasmo distoglie lo sguardo da questa demenza, non è di queste forme insensate che ha voluto tessere l’elogio, ma della “dolce illusione che libera l’anima dalle sue penose preoc- cupazioni”.

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4. M. Foucault, “Introduzione” (1954), in L. Binswanger, S o gn o ed e s i st e nz a ,

SE

, Milano

1993, pp. 11-85.

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“Sarai un malato di mente”

(una risposta ai detrattori di Foucault)

PIER ALDO ROVATTI

I n un libro intervista del 2008, Giovanni Jer- vis, uno dei protagonisti della psichiatria cri- tica italiana negli anni sessanta e settanta, do- po avere associato Franco Basaglia a Michel Foucault (entrambi elaborarono – dice – “una teoria dell’esclusione sociale e della ma- nipolazione del consenso” 1 ), viene invitato dal suo intervistatore (lo storico della medicina Gilberto Corbellini) a esprimere un giu- dizio sulle posizioni di Foucault, e risponde così: “Parlare di Fou- cault è difficile. È stato un intellettuale di grande statura e nessu- no nega il suo ruolo nella cultura del Novecento; tuttavia le sue idee sono rimaste controverse e se lo prendi come filosofo della devianza non sono sicuro che il suo contributo sia stato del tutto positivo. Certo non si può negare una cosa: l’influenza del suo pen- siero sulla cultura italiana è stata considerevole, e aspetta ancora oggi di essere esaminata con qualche cura. I suoi inizi furono un po’ in sordina: io ricordo che nel 1961 la sua Storia della follia su- scitò qualche interesse anche al di qua delle Alpi ma, al tempo stes- so, varie perplessità. Nella prefazione alla prima edizione france- se egli sosteneva la tesi antipsichiatrica più tipica, cioè che la fol- lia è un ricettacolo di verità; nell’insieme quel volume non era, co- me forse poteva sembrare, uno studio storico condotto con scru- polo di oggettività ma piuttosto una lunga dissertazione non pri-

1. G. Corbellini, G. Jervis, La ra z io n ali t à n e g a t a. Ps i ch ia t ria e a nt ip s i ch ia t ria i n It alia , Bol-

lati Boringhieri, Torino 2008, p. 95.

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va di un suo spirito battagliero, a carattere anti-cartesiano e anti- illuminista”. 2

Un po’ in sordina, la tesi antipsichiatrica più tipica, uno stori- co poco oggettivo, una posizione anti-illuministica... Ce ne sareb- be già abbastanza! Ma Jervis rincara la dose: parla di un radicali- smo “elegante ma anche lievemente ossessivo”, di scarsa origina- lità, di civettamento con le avanguardie letterarie (surrealismo), di uno studioso cui certo premevano il documento d’archivio e la sua concretezza ma che era incapace di governare l’impulso alla for- zatura “ideologica” dei fatti storici. Non tralascia di ricordare le critiche “pungenti” di Carlo Ginzburg, espresse all’indomani del- l’uscita della Storia della follia, e conclude dicendo che “delusio- ne” è la parola giusta per riassumere ciò che accadde dopo, quan- do inutilmente si attese che Foucault arricchisse il suo discorso di una “solida capacità teorica”, al punto che “uno psichiatra avver- tito non poteva che constatare come Foucault trattasse i proble- mi della psichiatria in modo superficiale”. 3

Ho conosciuto personalmente e ho potuto apprezzare, come tanti, Giovanni Jervis, da poco scomparso. Fu accanto a Franco Basaglia nella straordinaria esperienza di Gorizia, poi prese altre strade e si discostò dalla psichiatria, pur restando sempre una vo- ce di sinistra molto ascoltata, perfino fastidiosa nella sua intolle- ranza critica verso le cosiddette ideologie. Un giorno qualcuno do- vrà pure scrivere un libro serio sul suo tortuoso rapporto con Ba- saglia. Qui me ne servo solo come sintomo molto eloquente di un diffuso fraintendimento: di come, nella cultura italiana, abbia po- tuto prodursi una cattiva lettura della Storia della follia di Fou- cault: da subito e poi nei decenni successivi fino a oggi. Una let- tura “cattiva”, essa sì completamente ideologica, che ha reso mol- to faticoso l’impiantarsi di quella “buona” lettura che, grazie an- che allo stesso Basaglia, ha potuto comunque prendere piede e af- fermarsi nelle pratiche e nelle riflessioni. Soltanto adesso stiamo infatti scoprendo (e sembra proprio che ci siano voluti cin-

25

2. Ivi, p. 96.

3. Cfr. ivi, pp. 97 e 98.

(16)

26

quant’anni!) quale sia stato l’impatto decisivo che il pensiero di Foucault ha avuto (e continua ad avere) sulla consapevolezza cri- tica della società in cui tentiamo di navigare, spesso a vista. E co- me l’atto inaugurale di questo impatto, proprio le analisi sulla ge- nealogia dell’idea di salute mentale, costituisse la rottura di tanti cliché ormai incistati, un gesto che rivoluzionava il potere dei pre- giudizi e che forse arrivava con troppo anticipo sul mondo comu- ne di pensare, intellettuali di sinistra compresi.

Appunto, gli inizi avvennero “un po’ in sordina”, ma chi era- no i sordi? Isolate orecchie filosofiche (Jacques Derrida, Maurice Blanchot, Michel Serres e pochi altri) compresero che con la pub- blicazione della Storia della follia, nel 1961, si produceva un even- to molto significativo ma, poiché Foucault non era precisamente un filosofo, lo stesso mondo filosofico, con poche eccezioni, girò le spalle come se la faccenda non lo riguardasse, e parlo soprat- tutto della Francia. Altrove nessuno prestò ascolto, e tutti si ani- marono solo qualche anno più tardi quando Jean-Paul Sartre stig- matizzò l’antiumanismo di Le parole e le cose (1966) e Foucault poté finalmente essere inserito in un contesto, cioè nella stagione dello strutturalismo.

Quanto al mondo della psichiatria, e in particolare di quella psichiatria critica (sociale, comunitaria) che allora parlava soprat- tutto inglese, Foucault non vi trovò, durante l’intero decennio dei sessanta, alcuna cittadinanza. E se veniamo all’Italia, nell’Istitu- zione negata, che documenterà nel ’68 con grande clamore il la- voro di rottura compiuto da Basaglia e dalla sua équipe nel mani- comio di Gorizia, non troviamo alcuna traccia della Storia della follia. E se poi andiamo anche a leggere gli scritti più teorici del Basaglia di quegli anni (di un Basaglia che introduceva nell’asfit- tico scenario della psichiatria istituzionale l’aria critica che gli pro- veniva dalle sue letture filosofiche, uno per tutti il saggio del 1965 Corpo, sguardo e silenzio 4 ), vi troviamo soprattutto un certo esi- stenzialismo umanistico alla Sartre, cioè un’attenzione concentra-

4. Cfr. ora in F. Basaglia, L ’ut opia della real t à , a cura di F. Ongaro Basaglia, Einaudi, To-

rino 2005.

(17)

36

aut aut, 351, 2011, 36-49

1. R. Martin, V eri t à, po t ere, s é. Int er v i st a a Mi ch el Fo uc a u l t , 25 o tt obre 1982 , in L.H. Mar- tin, H. Gutman e P.H. Hutton (a cura di), Mi ch el Fo uc a u l t . T e cn olo g ie del s é (1988), Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 3-10.

2. Ivi, p. 3.

3. Ivi, p. 4.

La storia negata

MARIO COLUCCI

S iamo negli Stati Uniti nel 1982 e, nel corso

di un’intervista a margine di un seminario

sulle tecnologie del sé, 1 Michel Foucault, co-

me sovente accade, si schermisce con la sua interlocutrice. Teme

che le sue parole possano suonare con troppa enfasi. Sta parlan-

do del proprio ruolo di intellettuale, definizione che lo imbaraz-

za, perché di sé direbbe piuttosto che è “un insegnante”, 2 con il

quale discutere un lavoro fatto in comune: in fondo, il suo ruolo

è “quello di far vedere alle persone come esse siano più libere di

quello che pensano, e di mostrare loro come esse considerino ve-

ro ed evidente ciò che in realtà è stato costruito in un determina-

to momento della storia, sicché quella presunta evidenza può es-

sere sottoposta a critica e distrutta”. 3 Non è la prima volta che

Foucault ribadisce con chiarezza che i nostri spazi di libertà sono

più ampi di quanto percepiamo, semmai il problema sta nella no-

stra difficoltà a mettere in crisi i discorsi che riteniamo veri ed evi-

denti, e ancor di più talune istituzioni, dalla cui necessità biso-

gnerebbe emanciparsi ricordando innanzitutto il loro statuto ar-

bitrario e storicamente determinato. Questi discorsi e queste isti-

tuzioni possono essere criticate, nel momento in cui si accetta che

(18)

la loro origine è frutto di una contingenza che c’è stata, ma che avrebbe anche potuto non esserci. Il compito che un intellettuale dovrebbe assolvere è proprio quello di “produrre un qualche mu- tamento nella mente delle persone”. 4

Nel seguito dell’intervista il discorso va a cadere sulle sue ope- re e, in particolare, su Storia della follia: Foucault ricorda ancora, dopo più di vent’anni, il travaglio di quel libro, il fatto di aver pra- ticato la sua ricerca all’interno di istituzioni tradizionali, come gli ospedali psichiatrici, dove aveva visto applicare tecniche per la cu- ra della malattia mentale quali la neurochirurgia e la psicofarma- cologia, fatte passare come necessarie. Anche lui all’inizio aveva accettato questo stato di cose, ma poi aveva incominciato a chie- dersi perché fossero necessarie ed era entrato in “uno stato di pro- strazione e di forte disagio personale”. 5 Allora aveva deciso di la- sciare l’ospedale psichiatrico e di iniziare a scrivere la storia di que- ste pratiche. Così aveva avuto origine il suo libro, dal rifiuto di ac- cettare lo statuto di una realtà che si imponeva come naturale ma che era arbitraria. Gli psichiatri non glielo avevano perdonato: ri- cordare che i loro magnifici asili discendono dai lazzaretti è stato un delitto di lesa maestà, uno “psichiatricidio”. Ma allora, si do- manda Foucault, che scienza è mai questa che non riconosce e non accetta la propria storia senza sentirsi attaccata? 6

La polemica era già iniziata a Tolosa nel 1969, in occasione del- le Giornate annuali di “Évolution psychiatrique”. Foucault ave- va declinato l’invito alla partecipazione e il celebre Henry Ey, ve- ro promotore del convegno, non l’aveva presa bene. In aperto dis- sidio con la Storia della follia aveva etichettato la posizione del suo autore come “psichiatricida”. 7 Foucault era rimasto sorpre- so, ma già il titolo scelto per il convegno gli sarebbe dovuto ba- stare come spiegazione: “Concezione ideologica di Storia della follia”. Per Ey e i suoi colleghi Foucault aveva iniziato una guer-

37

4. I bidem.

5. Ivi, p. 6.

6. I bidem.

7. H. Ey, Comme nt aire s c ri t iq u e s su r l ’“H i st oire de la f olie ” de Mi ch el Fo uc a u l t, “Évolu-

tion psychiatrique”, Actes du colloque, Privat, Toulouse 1971, vol. 36, fasc.

II

, p. 257.

(19)

38

8. Cfr. M. Foucault, “Nietzsche, la genealogia, la storia” (1971), in I l di sc or s o, la v eri t à, la st oria. Int er v e nt i 1969 - 1984 , a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, p. 48.

9. Id., St oria della f ollia n ell ’ e t à c la ss i c a (1961, 1972

2

), Rizzoli, Milano 1976, p. 525.

ra ideologica contro la loro disciplina e bisognava combatterlo.

Quale sarebbe la sua ideologia? La storia, o meglio un certo uso della storia, attraverso il quale egli è sospettato di voler invalida- re la loro scienza: uso genealogico che rifugge dai finalismi e dal- le progressioni accumulative, e procede per eventi e discontinuità;

che è interessato non alla verità dell’origine, ma all’esteriorità del- l’accidente. 8

Foucault comprende che la psichiatria non ama la storia se non quando le restituisce un’idea di progresso e quando è costruita su una serie di immagini che abbiano “la funzione di illustrare l’età felice in cui la follia è infine riconosciuta e trattata secondo una verità davanti alla quale si era restati troppo a lungo ciechi”. 9 Im- magini che confortano, perché parlano di una stagione del risve- glio, dell’arrivo della primavera della scienza dopo l’inverno del- l’errore e del pregiudizio. La psichiatria si nutre di agiografie, di ritratti santificati, di racconti edificanti, come nel caso di Tuke o di Pinel. È l’unico passato che la soddisfa e che è disponibile ad accettare perché le narra di origini moralmente virtuose, del dis- solversi della notte dell’ignoranza sotto il sole della scienza, del viaggio verso il trionfo finale di una verità che per troppo tempo non si è potuta o non si è voluta vedere.

Di quale verità si tratta? Quella della follia infine riconosciuta

come fatto di natura. Al termine del cammino gli psichiatri po-

trebbero finalmente incontrare la follia come malattia mentale. Ma

Foucault li ferma a metà strada: considerando la follia un prodot-

to culturale più che un dato patologico, le attribuisce uno statuto

di verità mutevole, frutto di processi storici, e ne demolisce im-

plicitamente la presunta solidità naturale e scientifica. Non esiste

una natura della follia che si mostra da sé per quello che è, esiste

invece un discorso di verità che si incarica di definirla e che deve

la sua forza solo al fatto di essere riuscito a prevalere. È evidente

come questa conclusione distrugga la rispettabilità scientifica del-

la psichiatria: l’origine delle sue pratiche, spesso coercitive, è as-

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50

aut aut, 351, 2011, 50-70

Togliersi la corona.

Foucault e Basaglia, storia di una ricezione “minore”

PIERANGELO DI VITTORIO

A volte un paesaggio si coglie meglio stando ai suoi margini. La prima scommessa di Foucault è stata questa: per porre il pro- blema dei rapporti tra potere e sapere, non conviene analizzare una scienza dal profilo epistemologico “incerto” come la psichiatria, piuttosto che interrogare la fisica, la chimica o la matematica? Nel caso della psichiatria, il groviglio di rapporti che lega la sua prati- ca a una serie “di istituzioni, di esigenze economiche immediate, di urgenze politiche, di regolazioni sociali”, sembra rivelarsi con maggiore evidenza. 1 Tuttavia, la decisione di occuparsi di scienze meno nobili come la psichiatria o la medicina ha squalificato la domanda posta da Foucault agli occhi di coloro cui era rivolta – gli intellettuali marxisti francesi –, i quali hanno pensato che si trattasse di un “problema politicamente senza importanza ed epi- stemologicamente senza dignità” (tranne qualche rara eccezione, come il “nietzschiano” Canguilhem). 2 La ricezione della Storia del- la follia comincia con una porta in faccia, ed è questo fallimento a consegnarla sin dall’inizio a un destino “minore”.

Una scena di gelosia

Passa qualche tempo, e il silenzio con cui l’opera era stata accol- ta e che aveva finito per “sviare” Foucault dalle sue originarie

1. M. Foucault, “Intervista a Michel Foucault” (1976), in Mi c ro f i s i c a del po t ere. Int er - v e nt i poli t i c i , Einaudi, Torino 1977, p. 3.

2. Ivi, p. 4.

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preoccupazioni lascia il posto a un frastuono per certi versi più sorprendente e difficile da gestire. La sua intenzione era quella di porre un problema ritenuto centrale, lo stesso che animerà le ri- cerche genealogiche negli anni settanta, muovendo però da una zona relativamente marginale del sapere. In modo inaspettato, i primi echi della Storia della follia giungeranno proprio dal mon- do periferico della psichiatria, sottoposto nel frattempo, sia in Eu- ropa che negli Stati Uniti, a forti sollecitazioni critiche. Nell’in- tervento al I Congresso internazionale di psichiatria sociale, tenu- tosi a Londra nel 1964, Franco Basaglia dice che “la libertà di cui parlava Pinel era stata concessa in uno spazio chiuso, messa nelle mani del legislatore e del medico che dovevano dosarla e tutelar- la”. 3 Il rinvio alla Storia della follia è evidente, e dimostra l’elabo- razione, da parte di Basaglia, di una riflessione più organica sul fallimento della psichiatria istituzionale e sui rapporti tra sapere e potere. 4

Più tardi, nel 1971, nel corso di un’intervista dove annuncia la nascita del Gip (Groupe d’information sur les prisons), Foucault esprime dal proprio punto di vista, con franchezza, il contraccol- po della ricezione della Storia della follia da parte dei movimenti della cosiddetta “antipsichiatria”. Szasz, Laing, Cooper e Basaglia hanno visto nel suo libro una sorta di giustificazione storica e se ne sono impossessati. Malgrado le forzature e i malintesi, l’incon- tro c’è stato e bisogna prenderne atto. Un’esperienza probabil- mente decisiva nel percorso di Foucault. Non solo perché lo ha portato a rendersi conto che la “critica” si produce sempre a ca- vallo tra le ricerche erudite e i movimenti di lotta, ma anche perché lo shock è stato tale da farlo letteralmente uscire fuori di sé: “Di- ciamo che sono un po’ geloso e che adesso vorrei fare le cose io stesso: invece di scrivere un libro sulla storia della giustizia, che in seguito sarebbe ripreso da altre persone che rimetterebbero pra- ticamente in discussione la giustizia, vorrei cominciare da qui e

51

3. F. Basaglia, “La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo istituzionalizzato”

(1965), in Sc ri tt i , 2 voll., Einaudi, Torino 1981-82, vol.

I

, p. 249.

4. A. Pirella, “Michel Foucault in Italia, o la critica della psichiatria” (1992), in I l pro -

blema p s i ch ia t ri c o , Centro di Documentazione di Pistoia, Pistoia 1999, p. 115.

(22)

52

5. M. Foucault, “Un problème m’intéresse depuis longtemps, c’est celui du système pé- nal” (1971), in Di ts e t é c ri ts . 1954 - 1988 , 4 voll., Gallimard, Paris 1994, vol.

II

, p. 209.

poi, chissà, se vivo ancora e non sono finito in prigione, allora scri- verò un libro…”. 5 Alla fine il libro ci sarà. Ma Sorvegliare e puni- re esce nel 1975, dopo un lungo silenzio editoriale. In questo las- so di tempo, oltre all’insegnamento al Collège de France, Foucault svolge un’intensa attività militante a fianco dei detenuti per de- nunciare la loro condizione e porre l’attenzione sulla necessità di una trasformazione del sistema penale. Egli assume dunque la stes- sa posizione degli psichiatri révoltés che avevano accolto con en- tusiasmo il suo libro, e questo è sicuramente un primo, strano ef- fetto della ricezione minore della Storia della follia.

Più in generale, tutto ciò che ha a che fare con i processi di tra- sformazione della psichiatria nel XX secolo può essere posto sot- to il segno di una storia minore. Parafrasando Deleuze e Guatta- ri, si potrebbe dire che la “storia minore” è quella che una mino- ranza fa all’interno di una storia maggiore. Ovvero, su un altro re- gistro, quella che racconta la storia a partire però da una partico- lare e specifica inquadratura. In tal senso, la storia dei processi di trasformazione della psichiatria potrebbe costituire una sorta di

“buco della serratura” dal quale osservare la storia del XX secolo in generale. Un punto di vista sicuramente limitato, parziale, ma utile a focalizzare l’attenzione su alcuni “dettagli” in grado di ri- velare l’insieme o, quanto meno, di farlo apparire sotto una luce diversa.

Questa storia minore ha prodotto, in certi casi, effetti durevo-

li e significativi. Norberto Bobbio considerava per esempio la leg-

ge 180 come l’unica autentica “riforma” realizzata in Italia. Que-

sta legge è stata possibile grazie ad alcune esperienze concrete di

superamento del manicomio, in particolare quelle condotte da Ba-

saglia a Gorizia e Trieste, attraverso le quali si è dimostrato che il

problema della sofferenza psichica poteva essere affrontato in mo-

do diverso. I manicomi rappresentano storicamente la risposta isti-

tuzionale all’idea di un’intrinseca “pericolosità” della malattia men-

tale. Questo giudizio è il punto di saldatura delle due dimensioni

(23)

Un’opera morale

(e la storia della psichiatria)

MAURO BERTANI

N o n sc ri v o un libro per ch é s ia l ’u l t imo, ma per f ar s ì ch e al t ri libri s ia n o po ss ibili, e n o n n e c e ss ariame nt e sc ri tt i da me.

Michel Foucault

C ompito del pensiero, ha detto una volta Michel Foucault, è rendere difficili i gesti troppo facili. Compito tanto più compli- cato e drammatico quando si ha a che fare con le cose che, a loro volta, sono le più difficili. E occuparsi della follia è di certo una di quelle, forse la più difficile di tutte. Il lavoro instancabile com- piuto da Foucault nella forma del dissodamento e della ricostru- zione delle modulazioni molteplici, variabili, eterogenee, della complicata trama di discorsi e di pratiche a partire da cui gli uo- mini si sono curati della follia – anche se in genere di quella degli altri – può essere ricondotto, forse persino ridotto, al tentativo di rompere le evidenze accecanti e le certezze troppo sicure di sé af- finché gesti appunto troppo facili – internare un uomo, soffocar- ne o sequestrarne la parola, sospenderne i diritti, somministrargli un farmaco, fissarne l’identità, poco importa se definita come pa- tologica – ritornino a essere difficili. Tutte le conoscenze che sul- l’enigma della follia si sono costruite, tutti i saperi che sul tenta- tivo di ridurre, se non di abolire, il rapporto “tra l’uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua car- cassa durante la notte” si sono formati, tutti i discorsi che sullo sforzo di rischiarare, se non di cancellare, l’oscura appartenenza dell’uomo alla sragione, si sono edificati, prima e più radicalmente di quanto essi fossero già in grado di fare da soli, Foucault li ha costretti a interrogarsi su di sé – ovvero a compiere quell’eserci- zio critico, e autocritico, che rappresenta, da almeno due secoli a

aut aut, 351, 2011, 71-90

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72

questa parte, ciò che è più proprio della riflessività e della co-

scienza di sé di una modernità che si è venuta sviluppando con-

temporaneamente alla costituzione di un sapere psicologico e psi-

copatologico. E lo ha fatto proprio perché era convinto che quei

saperi e quei discorsi potessero sussistere – come del resto pos-

sono vivere una società, o addirittura un individuo – solo nel e

grazie al lavoro effettuato su se stessi, in virtù dell’esercizio di una

critica permanente su di sé e sulle istituzioni, gli apparati, i di-

spositivi, di cui si sono dotati. Era insomma a questo lavoro del

pensiero su se stesso, all’interno di una scena nella quale il pen-

siero è una forza accanto ad altre forze che entrano in gioco, si

mettono a rischio, affrontano dei pericoli, che Foucault aveva ri-

dato, dopo Nietzsche, ma in altro modo, il nome antico di ge-

nealogia – e addirittura, come si era arrischiato a dire in qualche

rara occasione, di “genealogia della morale”. Non è un caso, al-

lora, se un giorno, introducendo l’edizione americana dell’Anti-

Edipo, Foucault ha scritto che si trattava di “un libro di etica”,

anzi del “primo libro di etica apparso in Francia da ormai molto

tempo”. Stava parlando di un libro e di un’etica singolari. Quel

che però lì Foucault non diceva è che quel libro era stato a sua

volta reso possibile anche dal libro che lui aveva scritto dieci an-

ni prima. Qui vorremmo allora sostenere che quel libro è un li-

bro morale, forse persino un libro di morale, e addirittura un li-

bro che è opera di “un moralista”, come a Foucault (secondo una

fonte apocrifa) accadde di definirsi una volta. Ma un moralista di

tipo nuovo, il quale, piuttosto che “farci la morale” – com’è ac-

caduto da quando questa è stata ridotta, come avevano già de-

nunciato, ciascuno a suo modo, Kant e Nietzsche, alla semplice

enunciazione normativa di un codice che ha finito con l’identifi-

carsi con “tutti i precetti antichi e moderni”, con la Legge, infine

addirittura con il diritto –, ha immaginato le forme possibili di

una “rivoluzione morale”. Una rivoluzione a partire dalla quale

fosse nuovamente possibile immaginare una pratica della demo-

crazia in cui l’esperienza della sragione avrebbe potuto trovare un

suo luogo, magari instabile, incerto, provvisorio, ma pur tuttavia

aperto a una modulazione agonistica, a un affrontamento inter-

(25)

minabile, nel quadro dei rimaneggiamenti incessanti, perché in- decidibili, dei nostri “giochi del vero e del falso”.

Vi sono libri il cui singolare destino è quello di diventare qual- cosa di più e di diverso da un libro. Si tratta di quei libri che tra- sformano i nostri modi di percepire e di pensare, e insieme i no- stri modi di essere e di vivere. Libri che modificano la concezio- ne che ci facciamo di un oggetto o di un problema, e che con una necessità altrettanto rigorosa implicano che i gesti con cui ci ac- costiamo a loro, i rapporti che intratteniamo con essi, non siano più i medesimi. Per molti, la thèse pubblicata nel 1961 è stato uno di questi libri, punto di partenza di tutte le sue indagini successi- ve. Il problema che lì poneva ritorna infatti, sia pure diversamen- te formulato, anche nelle ultime lezioni al Collège, dove è possi- bile sentire riecheggiare ancora una volta la vocazione e l’inten- zionalità morale di un’opera esorbitante e “sragionevole” come la Storia della follia, con cui Foucault aveva inteso porre alla cultu- ra contemporanea una questione filosofica – metafisica, se si vuo- le – e un’interrogazione etica. La prima è quella delle “radici cal- cinate del senso”, come scriveva nella prefazione originaria, ovve- ro quella della sragione e della follia (prima della loro dissocia- zione) come limite assoluto, punto di fissione e sprofondamento di ogni senso e di ogni significato, rovescio incontornabile di ogni verità e principio di rimessa in questione della nostra libertà (e del- le concezioni che ce ne facciamo). Di qui veniva il progetto di una

“storia dei limiti – di quei gesti oscuri, necessariamente dimenti- cati non appena compiuti, attraverso i quali una cultura rigetta qualcosa che di lì in poi rappresenterà per essa qualcosa come l’E- steriore”. Limiti – e spostamento dei limiti – che sono parte del regime di verità che decide della natura (democratica oppure no) del nostro vivere politico; gesti con cui ci proteggiamo, o credia- mo di proteggerci, dal tragico che sussiste al di là di ogni dialetti- ca e al di qua di ogni ragione.

La questione etica è quella che Foucault legava al gesto inau- gurale di Descartes che tracciava il partage tra ragione e follia e che implicava, egli diceva, una “scelta etica”. Una scelta libera- mente compiuta, una “scelta fondamentale come condizione del-

73

(26)

Materiali 2

Storia della follia e antipsichiatria [1973]

MICHEL FOUCAULT

M i presento a voi gravato dal peso di due difetti, di due mancanze. Quella di es- sere influenzato e quella di non essere né psichiatra né antipsichiatra; a dire il vero, rimpiango non tan- to il fatto di non essere psichiatra, quanto piuttosto di non esse- re antipsichiatra, perché ho l’impressione che qui si stia deli- neando una sorta di investimento teorico che deve cingere d’as- sedio i temi e le pratiche dell’antipsichiatria, e io non sono sicu- ro di trovarmi nella posizione migliore per essere colui che re- spingerà questi attacchi. Sono soltanto uno storico e vorrei, co- me storico, cercare di spiegarvi in che modo vedo la nascita di questa antipsichiatria. Lo farò di certo con una competenza in- feriore a quella, ammirevole, che è appena stata espressa dal dot- tor Ellenberger. Come lui, anch’io penso che non esista un’anti- psichiatria, ma piuttosto degli antipsichiatri, e su questo punto concordo pienamente con lui; tuttavia tra le nostre analisi ci so- no forse alcuni punti di divergenza.

Adotterò un punto di vista che probabilmente vi sembrerà trop- po lontano, e che non è nemmeno storico, bensì quasi etnologico.

Comincerò dicendo quanto segue: credo che, in realtà, l’idea se-

aut aut, 351, 2011, 91-107

91

Trascrizione della conferenza tenuta da Foucault a Montréal il 9 maggio 1973, nel quadro del colloquio organizzato da Henri F. Ellenberger dal titolo “Faut-il interner les psychiatres?”.

Si tratta della trascrizione della registrazione della conferenza, di cui non esiste una versione

scritta. La prima versione del testo francese è recentemente apparsa in “Cités”, fuori serie,

2010; una seconda versione è apparsa nel recente “Cahier de l’Herne” dedicato a Foucault

e pubblicato nel febbraio 2011.

(27)

92

condo cui la verità sarebbe universale, eterna, che vi sia verità ovun- que e sempre, e che dappertutto attorno a noi la verità incomba, ci attenda, sia presente in silenzio, passiva e addormentata, aspet- tando il momento in cui getteremo lo sguardo su di essa e infine la risveglieremo, l’idea che la verità e l’universale coincidano, sia un’idea da filosofi, dunque un’idea da studiosi che ha avuto cor- so lungo l’intera storia di quello che potremmo chiamare il nostro imperialismo culturale.

E tuttavia se consideriamo la trama, la fibra della nostra società, della nostra civiltà, delle nostre istituzioni, ci accorgiamo che in fondo abbiamo sempre, anche in uno stadio avanzato, delle tec- niche, dei rituali, delle istituzioni che hanno la funzione di deter- minare, di isolare momenti specifici o luoghi differenziati, a par- tire dai quali la verità potrebbe infine rifulgere: come se, alla fin fine, la verità non fosse propria di ogni luogo, né di ogni tempo, ma dovessero esserci luoghi in cui la verità esplode e appare, mo- menti in cui la verità può essere colta, momenti in cui viene alla luce.

Esiste dunque tutta una geografia culturale della verità. E c’è nelle nostre società, o per lo meno c’è stata, nella società, una geo- grafia delle sedi profetiche. I filosofi greci si chiedevano perché, appunto, si ritenesse che la verità dovesse parlare a Delfi e, dopo- tutto, noi abbiamo ancora, nelle chiese e nelle università, dei luo- ghi che chiamiamo “cattedre”, da cui si suppone che la verità par- li. Anche la cella del monaco, l’isolamento monastico, costituiva- no a loro volta una modalità di predisporre un determinato luogo geografico in cui la verità avrebbe potuto prodursi. C’è stata inol- tre una sorta di cronologia della verità.

Consideriamo nel pensiero medico, a partire da Ippocrate, la

nozione assai singolare di crisi; che cos’è stata per secoli la crisi nel

pensiero medico dell’Occidente? La crisi è stata il momento, è sta-

ta definita come il momento in cui la vera natura della malattia si

sarebbe infine potuta manifestare, in cui l’evoluzione effettiva del-

la malattia si sarebbe delineata. Il momento della crisi era quello

della decisione, quello in cui viene effettuata la separazione tra la

vita e la morte. E il ruolo del medico, rispetto alla crisi, non era

(28)

quello di chi, in un certo senso, interveniva e la risolveva, ma era piuttosto quello dell’organizzatore, di colui che, ponendosi ac- canto alla crisi, parallelamente a essa, la spiava, l’appoggiava, la sosteneva, la favoriva; attraverso un certo numero di artifici, un certo numero di tecniche, quasi di incantesimi, egli permetteva al- la crisi di essere il momento in cui la verità si sarebbe infine pro- dotta.

Si potrebbe dire, allo stesso modo, che anche nelle pratiche giu- diziarie, per secoli, si è cercata la verità, ma non tanto attraverso il sistema dell’inchiesta, bensì attraverso un sistema che era quel- lo della prova; si organizzava una sorta di rituale, al contempo un luogo e un momento, in cui si pensava che la verità avrebbe po- tuto prodursi e avrebbe potuto farlo in modo folgorante, produr- si come una folgore. Era infatti il Giudizio di Dio a dover decide- re chi avesse ragione e chi fosse nel vero!

Esisteva dunque, in un certo senso, tutta una geografia, tutta una cronologia differenziata della verità. In altre parole, la verità non è sempre stata concepita come l’elemento stesso dell’univer- sale. Nella nostra cultura, anzi, è durata per secoli, e forse non si è ancora spenta, l’idea secondo cui la verità è un evento che si pro- duce, e che si produce in certi luoghi e in certi momenti. Si po- trebbe quasi dire – lo dico con cautela e a titolo di semplice ipo- tesi – che il momento in cui l’idea secondo cui la verità è un even- to che si produce semplicemente in certi luoghi e in certi momenti, ha cominciato a essere seriamente messa in discussione, mi sem- bra, con le grandi tecniche legate alla navigazione, vale a dire quan- do si è stati obbligati a inventare strumenti grazie ai quali fosse possibile individuare, scoprire, definire, formulare la verità in un qualunque luogo e in un qualunque momento. La nave, luogo sen- za luogo, perduto in uno spazio infinito, che deve a ogni istante determinare la propria situazione, rappresenta, in un certo senso, l’immagine stessa, il problema stesso che si trova al cuore della no- stra società: in che modo, ovunque e da qualsivoglia punto di vi- sta, cogliere la verità? Il grande problema della navigazione è sta- to il momento fondamentale della rottura, non tanto nella coscienza scientifica, ma in quella che chiamerei la tecnologia della verità.

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Foucault 1970.

“Storia della follia”, atto III JEAN-FRANÇOIS BERT

PHILIPPE ARTIÈRES

S e la discussione della tesi di dottorato di Fou- cault nel 1961, con la sua pubblicazione pres- so Plon con il titolo di Folie et déraison: hi- stoire de la folie à l’âge classique, segna il primo atto della storia della sua “follia”, come Foucault stesso amava definirla, la ripro- posizione, fin dal 1963, in edizione tascabile e in versione ridotta, ne costituisce il secondo. Molto diffusa, la seconda edizione cir- colò ampiamente fra gli studiosi di scienze umane e sociali, di- ventando l’oggetto di letture tanto fra gli storici quanto fra i filo- sofi. Questi due momenti della ricezione, l’una accademica e con- troversa – occorre tenere presente l’accoglienza gelida di una par- te della commissione d’esame –, l’altra attenta invece al progetto foucaultiano, ma inquieta per alcune delle sue proposte, contri- buirono a fare di Foucault una figura importante del pensiero con- temporaneo degli anni sessanta.

D’altra parte, il filosofo non è risultato estraneo a questo rico-

noscimento, impegnandosi con forza e costanza a promuovere la

tesi del suo lavoro, facendola conoscere laddove gli sembrava ne-

cessario, intervenendo a seminari, pubblicando articoli, replican-

do punto per punto ai suoi detrattori (si vedano le sue repliche a

Lawrence Stone, George Steiner, o a Jean-Marc Pelorson per la

Francia). Lungi dal lasciarsi la sua tesi alle spalle, Foucault non

smetterà di difenderla e di riprenderla nei suoi cantieri: Nascita

della clinica era costituita, dirà, “dai resti della Storia della follia”,

l’indagine su Roussel ne sarà una sorta di appendice… Se per una

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certa fase Le parole e le cose sposterà l’attenzione, a causa del- l’immenso successo riportato al momento della sua pubblicazio- ne e per via della proposta foucaultiana di un’“archeologia delle scienze umane”, all’inizio degli anni settanta la “follia” torna in- vece al centro della scena. Questa volta all’insaputa del suo auto- re, come lui stesso sottolineerà nella prefazione alla riedizione, re- sa necessaria da una nuova ondata di lettori. Foucault sarà tra- sformato in teorico francese dell’antipsichiatria.

Un libro recuperato dai suoi contemporanei

A partire da questo momento la Storia della follia è legata a una nuova forma di sensibilità sociale, che verte sulla rimessa in cau- sa del funzionamento generale delle istituzioni terapeutiche. Gli ospedali psichiatrici vengono investiti dall’ondata di contestazio- ni del Maggio ’68. Assemblee generali fanno coesistere per la pri- ma volta in uno stesso luogo, al di fuori dello stretto contesto te- rapeutico, sovente nella biblioteca degli ospedali, se non diretta- mente i malati e il personale di cura, perlomeno i medici primari e gli infermieri. Sarebbe un errore tuttavia fare del ’68 un momento di rottura nell’aggiornamento della psichiatria francese. Questa istituzione non ha atteso la fine degli anni sessanta per mettere in questione le sue pratiche e l’illusione, ancora radicata in alcuni operatori del settore, di un certo umanesimo terapeutico.

La creazione presso l’ospedale di Saint Alban, a partire dal 1940, della psicoterapia istituzionale, che consiste in una ridefinizione profonda delle relazioni fra i malati, il personale curante e il mon- do esterno, è stata seguita da una prima messa sotto accusa della struttura dell’ospedale psichiatrico. 1 Nei primi anni sessanta que- sto processo ha un’accelerazione: il 15 marzo 1960, tramite una circolare ministeriale, viene avviata la politica di “settore”, che im- plica un cambiamento profondo nell’organizzazione delle cure. La psichiatria deve ormai affrontare i bisogni della popolazione, ten- tando di organizzare una risposta terapeutica che prenda in con-

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1. J. Oury, Psych ia t rie e t p sych o th érapie i nst i tut io nn elle s, in P. Kaufmann (a cura di), L ’ ap -

por t f re u die n: éléme nts po u r un e e ncyc lopédie de la p sych a n al ys e , Bordas, Paris 1983.

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siderazione l’ambiente sociale nel quale evolve il malato. Ma que- ste contestazioni alla psichiatria proseguiranno ben dopo gli “even- ti” del Maggio. Fino alla fine degli anni settanta gli antipsichiatri manterranno la speranza di un cambiamento, certamente dell’i- stituzione in se stessa, ma anche della società nel suo complesso, che viene giudicata responsabile di aggravare la condizione psi- cologica degli individui. Anche quando, dal 1972 in poi, lo spiri- to gauchiste comincia perdere la sua influenza, l’antipsichiatria francese continua a pesare nel dibattito politico e sociale, denun- ciando gli internamenti abusivi, le condizioni disumane di vita nei manicomi, le conseguenze a lungo termine dei neurolettici, ma an- che, a partire dal 1973-1974, la “fliciatrie” (polizia psichiatrica), o come la chiamava Roger Gentis “psychoflicage” (psicopolizia), uno dei peggiori effetti della legge del 1838, dal momento che per- mette l’internamento di persone che soffrono di disturbi mentali senza ricorrere alla procedura dell’interdizione giudiziaria.

Gli anni sessanta sono segnati, inoltre, da una modernizzazio- ne dell’insegnamento di psicologia clinica. Gli studenti di medi- cina sono obbligati a seguire questo insegnamento già dal primo anno del loro corso di laurea. Fino al 1966, e a seconda delle uni- versità, sono previste ogni anno fra le 25 e le 100 ore di lezione di psicologia medica, in cui vengono affrontati più di ventisei argo- menti, fra cui la psicoterapia, la farmacopea o ancora la relazione medico-malato.

Il ’68 accelera questo processo di riforme, poiché è in quel pe-

riodo che viene istituzionalizzata l’emancipazione della psichiatria

dalla neurologia. Tuttavia le ricadute reali sull’organizzazione e sul

funzionamento dell’istituzione psichiatrica non sono state quelle

che molti avevano sperato allora: non più il darsi del tu, non più

la condivisione dei saperi, non più la solidarietà fra i pazienti e i

curanti. I gruppi di lavoro non statutario scompaiono e l’imper-

meabilità tra i servizi riprende. Le critiche all’istituzione vengono

tenute in considerazione. Nel momento in cui esce anche la Sto-

ria della follia, vengono pubblicati diversi saggi sulla psichiatria,

sulle sue pratiche e sulla sua storia. Quello stesso anno Jean-Char-

les Pagé, ricoverato al Saint Jean de Dieu, il più grande ospedale

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La “Storia della follia” in Inghilterra

COLIN GORDON

S econdo quanto sono riuscito ad appurare, l’opera e il pensiero di Michel Foucault han- no avuto, sull’antipsichiatria inglese e/o sui movimenti radicali di riforma o contestazione delle istituzioni psi- chiatriche, un’influenza diretta e specifica piuttosto modesta. Fou- cault aveva conosciuto molto bene David Cooper a Parigi negli anni settanta; aveva preso parte a dibattiti pubblici sia con Ronald Laing sia con Cooper, ciascuno dei quali aveva contribuito – il pri- mo attraverso una sollecitazione inviata all’editore, il secondo con una prefazione all’edizione inglese – alla traduzione della Storia della follia. Per la doxa radicale di quegli anni gli scritti di Laing, Cooper, Szasz, Goffman e Foucault facevano parte di una stessa costellazione, vennero cioè visti, non senza qualche ragione, come se fossero in stretta relazione gli uni con gli altri. E tuttavia, né Laing né Cooper furono mai, in alcun modo, dei seguaci, da un punto di vista intellettuale, di Foucault. Lo stesso Foucault pare abbia attraversato la Manica solo una o due volte in vita sua, e que- ste visite, almeno stando a quel che ne sappiamo, non sembrano avere incluso contatti con gruppi antipsichiatrici o militanti.

Così come in Francia Foucault era stato cordialmente detesta- to dai leader riformisti che facevano riferimento al marxismo nel- la psichiatria francese del dopoguerra, allo stesso modo il suo la- voro venne ferocemente attaccato, sul piano ideologico e su quel- lo politico, dall’influente scrittore della nuova sinistra trockista Pe- ter Sedgwick, nel suo libro Psycho Politics (1982). In esso Sedgwick

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sosteneva che concezioni “politicamente corrette” della malattia mentale, come quelle di Foucault, R.D. Laing e Thomas Szasz, avrebbero potuto essere utilizzate dalle forze di destra per ridur- re l’assistenza. Psichiatri clinici progressisti come David Ingleby, uno dei sostenitori più importanti del movimento della “psichia- tria critica”, mostrarono un prudente rispetto per alcuni aspetti dell’opera di Foucault, ma – forse comprensibilmente – conside- rarono che per i propri progetti e programmi non offriva un so- stegno diretto. In questo caso – come del resto in quello di Fran- co Basaglia – la critica interna della psichiatria attinse ad altre e più antiche risorse filosofiche, come la fenomenologia e l’esisten- zialismo, da Jaspers a Binswanger e Sartre, più familiari e proba- bilmente più congeniali al riformismo degli operatori rispetto al- le ricerche di Foucault. In uno dei grandi compendi inglesi del nuovo pensiero militante, The Dialectics of Liberation, basato su una conferenza pubblica del 1967, Cooper e Laing condivisero il palco con Goldmann, Marcuse e Stokely Carmichael: in quell’oc- casione Foucault risultava assente dalla scena.

Non appena la chiusura dei manicomi e i tagli ai servizi sociali

iniziarono a trasformare i pazienti psichiatrici in senzatetto che va-

gabondavano per le strade delle città, polemisti di sinistra come

Sedgwick e Andrew Scull accusarono immediatamente la critica

nichilista di Foucault di essere tra le principali responsabili di que-

ste nuove miserie. Nel frattempo, soprattutto in seguito alla pub-

blicazione di Sorvegliare e punire, come successe in Francia, i temi

del grande internamento e dell’arcipelago carcerario venivano per-

cepiti sempre più come fattori di disturbo e privi di utilità dai di-

fensori (nella maggior parte trockisti) della rivoluzione proletaria

e dagli architetti althusseriani delle nuove norme teoriche. Allo stes-

so modo, le posizioni critiche espresse da Foucault sulla psicanali-

si, nelle sue prime opere come in quelle più tarde, risultavano inac-

cettabili per i lacaniani, nonostante l’influenza di Lacan, enorme

sul femminismo e nel mondo universitario, non avesse avuto, al-

meno in apparenza, ripercussioni o applicazioni radicali nel cam-

po della psichiatria istituzionale. Sauf erreur, non c’è mai stato un

equivalente inglese di un itinerario come quello di Félix Guattari.

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