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La rivalsa dell'INPS per le prestazioni d'invalidità e inabilità Antonio Todaro

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Academic year: 2022

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La rivalsa dell'INPS per le prestazioni d'invalidità e inabilità

Antonio Todaro*

"Si considera invalido l'assicurato la cui capacità di guadagno, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente per infermità o difetto fisico o mentale a meno di un terzo (art. 10, R.D.L. 14 aprile 1939, n. 639 ).

"Si considera invalido, ai fini del conseguimento del diritto all'assegno nell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti ed autonomi gestiti dall'Istituto nazionale della previdenza sociale, l'assicurato la cui capacità di lavoro in occupazioni confacenti alle sue attitudini sia ridotta in modo permanente, a causa d'infermità o difetto fisico o mentale, a meno di un terzo". (art. 1, legge 12 giugno 1984, n.222, recante revisione della disciplina dell'invalidità pensionabile ).

"Si considera inabile, ai fini del conseguimento del diritto a pensione nell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti... l'assicurato o il titolare di assegno d'invalidità con decorrenza successiva alla data di entrata in vigore della presente legge il quale, a causa d'infermità o difetto, fisico o mentale, si trovi nell'assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa" ( art. 2, legge ult. cit.).

Come è dato vedere la legge non fornisce una nozione dell'invalidità o dell'inabilità in sé ma piuttosto la individua mediante il riferimento ad una conseguenza: la riduzione della capacità di guadagno o di lavoro in una certa misura ovvero nella misura assoluta. (Cinelli, Diritto della previdenza sociale, Torino, 1996, 331)

Si tratta invero di uno degli aspetti dell'invalidità o dell'inabilità, in ordine al quale è possibile pure una valutazione economica, a sensi dell'art. 1223 codice civile, della perdita (danno emergente) e del mancato guadagno (lucro cessante).

Sennonché questa stima dell'invalidità o dell'inabilità in termini di danno patrimoniale non risulta aderente al sistema previdenziale, uniformato all'art. 38 della Carta Fondamentale, secondo cui: "i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso d'infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria".

Norma, i quella ora ricordata, immediatamente operativa secondo l'avviso della Corte Costituzionale (Corte Cost., 6 giugno 1974, n. 160 ).

Quindi non la sola valutazione della perdita della capacità lavorativa e dei conseguenti guadagni, ma piuttosto la valutazione delle esigenze di vita del soggetto inabile o invalido, inteso come persona nella sua integrità fisica e morale.

Coerentemente, la disciplina positiva dell'assegno d'invalidità e della pensione d'inabilità, supera i tradizionali parametri civilistici del danno emergente e del lucro cessante ed è compatibile con la colpa dell'avente diritto, con il suo concorso colposo, con la presenza di altri emolumenti (art. 8 della legge 638 del 1983), con il rischio precostituito, con l'aliud perceptum (Persiani, Tutela previdenziale del danno biologico e prestazioni previdenziali, in Il diritto del lavoro, 1992, 234).

Se così è si può affermare che l'invalidità e l'inabilità sono considerate come situazioni o, meglio, stati della persona, la cui garanzia si pone fuori dei principi del codice civile.

Con la conseguenza che la tutela che discende dall'art. 38 della Costituzione, in quanto destinata alla persona, si colloca sullo stesso piano di quella che deriva dall'art. 32 della Costituzione, in quanto pure orientata alla persona.

Tuttavia la Corte Costituzionale, con le decisioni n. 356 e 485 del 1991, sia pure con riguardo ad altre norme (gli artt. 10 e 11 DPR 3 0 giugno 1965, n. 1124), ha osservato che le prestazioni dell'Ente Assicuratore per gli infortuni, ancorché misurate sulle esigenze di vita, sono attinenti ad un aspetto della persona, quella della sua attitudine al lavoro, mentre restano esclusi altri aspetti:

* Coordinatore Centrale, Avvocatura INPS, Roma

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quello spirituale, culturale, affettivo, sociale, sportivo e ogni altro ambito in cui si realizza la persona umana.

Si legge nella decisione n. 356: "La menomazione dell'integrità psicofisica del soggetto offeso costituisce quindi un danno integralmente risarcibile di per se stesso. L'autonomia del danno biologico rispetto alle altre ed eventuali conseguenze dannose di esso ed il principio costituzionale sua integrale e non limitabile risarcibilità determinano l'impossibilità di considerare

esauriente, non soltanto una tutela risarcitoria limitata alle perdite o riduzioni di reddito, effettive o potenziali, conseguenti alla menomazione dell'integrità psicofisica, ma anche una tutela risarcitoria che prenda in considerazione soltanto l'attitudine a svolgere attività produttiva di reddito."

E ancora: "La considerazione della salute come bene e valore personale, in quanto tale garantito dalla costituzione come diritto fondamentale dell'individuo nella sua globalità e non solo quale produttore di reddito, impone di prendere in considerazione il danno biologico ai fini del risarcimento, in relazione all'integrità dei suoi riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, le situazioni ed i rapporti in cui la persona esplica sé stessa nella propria vita: non soltanto, quindi, con riferimento alla sfera produttiva, ma anche con riferimento alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva e ad ogni altro ambito e modo in cui il soggetto svolge la sua personalità e cioè a tutte" le attività realizzatrici della persona umana" (sent. n. 184 del 1986)".

E inoltre: "è certo che la copertura assicurativa prevista dall'attuale sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionale non ha per oggetto esclusivamente il danno patrimoniale in senso stretto... Ma è altrettanto certo che... le indennità previste dal DPR n. 1124 del 1965 sono collegate e commisurate esclusivamente ai riflessi che la menomazione psicofisica ha sull'attitudine al lavoro... mentre nessun rilievo assumono gli svantaggi, le privazioni e gli ostacoli che la menomazione comporta con riferimento agli altri ambiti e agli altri modi in cui il soggetto svolge la sua personalità nella propria vita."

In termini identici la decisione n. 485 precisa: " Come questa Corte ha già sottolineato con la citata sentenza n. 356 del 1991 " le indennità previste dal DPR n. 1124 del 1965 sono collegate e commisurate esclusivamente ai riflessi che la menomazione psicofisica ha sull'attitudine al lavoro dell'assicurato", sicché non è possibile inferirne che è l'intero danno alla persona che viene indennizzato.

Si tratta, come è evidente, di corollari della fondamentale pronunzia n. 184 del 1986, secondo cui il danno biologico (o fisiologico) come evento del fatto lesivo della salute, interno al fatto illecito, distinto dal danno conseguenza (come sono rispettivamente quello morale e quello patrimoniale), esterno al fatto illecito va risarcito per sé in virtù della correlazione degli artt. 32 della Costituzione e 2043 del codice civile (Ponzanelli, La Corte Costituzionale, Il danno non patrimoniale e il danno alla salute, in Foro it., 1986, 2057; Mastropaolo, La nozione di danno biologico, in Giust. Civ., 1991, 279 e segg. ).

Decisione che si pone sul versante della tutela dei diritti della persona, anche se per enucleare il concetto di danno biologico deve fare ricorso a categorie teoriche neppure unanimamente condivise dalla dottrina penalistica sul punto dell'evento giuridico (Delitala, Il Fatto nella teoria generale del reato, Padova 1930; Panmain, Manuale di diritto penale, Torino, 1967; Ponzanelli, loc.cit., ed ivi richiami) e d'altra parte non può eludere il problema economico della stima di tale speciale danno (Mastropaolo, loc. cit.; Ciafrè, Risarcimento del danno biologico e azione di rivalsa dell'INAIL: due sentenze della Corte Costituzionale, in Giust. Civ., 1992, 1681 e segg.), con la preoccupazione della "cautela nella liquidazione del cumulo dei danni onde evitare da un canto duplicazioni risarcitorie e d'altro gravi sperequazioni nei casi concreti" (Corte Costituzionale n. 184 del 1986, cit).

Di fatto, fuori dei parametri civilistici del danno emergente e del lucro cessante, la stima appare estremamente difficile e va affidata a criteri equitativi (Ciafrè, loc. cit., 1687, Mastropaolo, loc. cit., 287 e, in giurisprudenza, Cass. 28 novembre 1995, n. 12301).

Criteri che non superano tuttavia la difficoltà di dare un prezzo alla lesione delle sfere: spirituale, culturale, affettiva, dei più vari ambiti della persona per sé diversi e non omogenei, in relazione ai

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soggetti, all'età, all'educazione, alle attitudini ed all'ambiente e d'altra parte non si sottraggono all'esigenza di tenere conto, per evitare duplicazioni, di quegli aspetti della persona che, pur se connessi alla sua attitudine al lavoro, sono indennizzati dal sistema previdenziale, in quanto raccordati alle esigenze di vita, fuori dello schema del danno e del lucro (Marando, L'attualità della rivalsa previdenziale in rapporto alla natura delle prestazioni infortunistiche (11 giusto risarcimento e la distribuzione del costo del danno), in Responsabilità civile e previdenza, 1996, 30; Del Castello, Risarcimento del danno biologico e diritto di regresso dell'assicuratore, in Giust. Civ., 1992, 20 e, in giurisprudenza, Cass. 19 aprile 1996, n.3727).

Con un risultato che, allo stato, incide principalmente sul patrimonio del responsabile della lesione, secondo la regola degli artt. 2043 e 2740 del codice civile, mentre in prospettiva, secondo l'invito della Corte Costituzionale, deve riversarvi sul sistema previdenziale a seguito di una verifica delle compatibilità che comunque spetta al legislatore, e che è destinato a stimolare ulteriormente il dibattito sui limiti del Welfare State.

Probabilmente, una misura idonea potrebbe essere quella di istituire uno speciale fondo di garanzia, specificamente destinato alla tutela della salute, che sopperisca alle insufficienze della responsabilità dei privati ed in particolare dell'art. 2740 del codice civile.

In ogni caso si tratta:

1) di stimare le singoli componenti del danno biologico (Del Castello, loc. cit.);

2) di individuare quale parte ulteriore di esso deve essere ancora soddisfatta, una volta indennizzato l'aspetto garantito dal sistema previdenziale;

3) di evitare le duplicazioni risarcitorie (Mastropaolo, loc. cit., 287; Ciafrè, loc. cit., 22);

4) di disciplinare il concorso dei creditori, aventi lo stesso titolo, nei confronti del responsabile e del suo assicuratore.

Su tali premesse è possibile svolgere una più attenta lettura delle decisioni della Corte Costituzionale e affermare che il risarcimento del danno biologico non può subire limitazioni e non tollera prededuzioni ma che è tuttavia compatibile con la rivalsa dell'Ente previdenziale per la quota di lesione dell'integrità fisica da questo indennizzata, la quale non può essere attribuita due volte, a meno di non realizzare l'indebito arricchimento, temuto dal giudice delle leggi.

Tali considerazioni giustificano la critica alle sentenze della Corte regolatrice (ma pure dei giudici di merito) sul punto in cui escludono o sembrano escludere, tout court, la rivalsa degli enti previdenziali pure per la quota di danno biologico da questi indennizzata (V. Cass. 28 gennaio 1997, n.859, 6 dicembre 1995, n. 12569, 4 aprile 1995, n. 3944 e Tribunale di Napoli, 9 novembre 1994, n. 8843, edita su Informazione Previdenziale, 1995, 405, Tribunale di Roma, 28 novembre 1994, n.7288, Tribunale di Palermo, 16 settembre 1994, n. 943, inedite).

Nel contesto sopra descritto s'inserisce l'art. 14 della legge 12 giugno 1984, n. 222, secondo cui:

"l’Istituto erogatore delle prestazioni previste dalla presente legge è surrogato, fino alla concorrenza del loro ammontare nei diritti dell'assicurato o dei superstiti verso i terzi responsabili e le loro compagnie di assicurazione." "Agli effetti del precedente comma dovrà essere calcolato il valore capitale della prestazione erogata, mediante i criteri e le tariffe, costruite con le stesse basi di quelle allegate al decreto ministeriale 19 febbraio 198 1, in attuazione dell'art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338, che saranno determinati con decreto del Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, sentito il consiglio di amministrazione dell'Istituto nazionale della previdenza sociale".

Si tratta di una disposizione che non è stata mai sottoposta alla verifica di legittimità costituzionale e che non può dirsi automaticamente riconducibile alle decisioni n. 356 e 485 citate, le quali riguardano altre norme dell'ordinamento (art.10, OPR n. 1124).

Mentre è certo che "la pronunzia di incostituzionalità di una disposizione di legge non può essere estesa dal giudice a norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali, ancorché esse costituiscano applicazione dello stesso principio generale contenuto nella norma già dichiarata costituzionalmente illegittima" (Cass. 5 aprile 1991, n.3586).

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L'art. 14 non ha sin qui assunto un significativo rilievo e non ha realizzato il ristoro delle risorse finanziarie del sistema previdenziale che il legislatore sembrava assegnargli.

A distanza di tredici anni dalla sua entrata in vigore, il contenzioso che ne è derivato non è neppure pervenuto al controllo della Corte di Cassazione, confermandone in tal modo la sostanziale disapplicazione.

Nel suo impianto esso appare, per più aspetti, innovativo.

Nuovo è il riferimento all'INPS, che nell'art. 1916 del codice civile non risulta in alcun modo operato.

Nuovo è il presupposto: le prestazioni previste dalla legge 222 e cioè l'assegno d'invalidità e la pensione d'invalidità, non solo per la parte eseguita ma anche per quella da prestare, secondo la coerente esigenza di capitalizzazione regolata nel secondo comma della disposizione.

Nuova l'azionabilità del diritto di rivalsa nei confronti della compagnia di assicurazione del responsabile civile. Azione non rintracciabile nell'art. 1916 del codice civile, che la circoscrive nei confronti del terzo responsabile, e neppure nell'art. 28 della legge 24 dicembre 1969, n.990, che, nei comma 3 e 4, soltanto puntualizza il contenuto della dichiarazione e della comunicazione, rispettivamente della compagnia di assicurazione e dell'Ente previdenziale, senza riconoscere tuttavia a quest'ultimo alcuna azione diretta nei confronti della prima.

La norma, alla stregua delle parole usate, realizza la surroga nei diritti dell'assicurato e dei superstiti. Dunque è riconducibile, nonostante la diversa opinione, alla previsione dell'art. 1201, n.5 del codice civile (Pontonio, L'azione di surroga dell'INPS in base alla legge 12 giugno 1984, n. 222, in Responsabilità Civile e Previdenza, 1985, 524), opera di diritto e realizza una successione a titolo particolare (Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1959, III, 261; Galgano, Diritto privato, Padova, 1990, 395; Pontonio, loc. cit. 524, e, per la giurisprudenza, Cass. 15 ottobre 1968, n.3554) nella posizione dell'assicurato e dei superstiti verso i terzi responsabilità e le loro compagnie di assicurazione.

Tuttavia la specificità di questa forma di surroga consiste nel rilievo che l'Ente previdenziale in realtà non soddisfa il credito del danneggiato verso il responsabile civile ed il suo assicuratore ma adempie ad una obbligazione propria, cui è tenuto in attuazione dell'ordinamento previdenziale.

Sicché non può dirsi che la surrogazione, come accade di norma, premi l'adempimento di una obbligazione altrui.

Ed ancora , secondo il dato letterale, la surroga rileva nei limiti delle prestazioni previste dalla legge 222. Pertanto, per l'argomento a contrario, non opera per le altre prestazioni, come sono quelle dei fondi speciali, sostitutivi o esonerativi dell'assicurazione generale obbligatoria.

Esclusione sicuramente incongrua se l'obbiettivo del legislatore era quello di contenere, mediante la rivalsa, i costi della previdenza e se si considera che l'area sottratta è quella delle categorie meglio tutelate, aventi diritto a prestazioni, normalmente, più onerose.

Epperò, ragioni di perplessità discendono pure dalla correlazione della disposizione in esame con la legge n. 1990 del 1969.

Invero se la rivalsa opera di diritto e cioè automaticamente, essa male si raccorda con il quarto comma dell'art. 28 della legge n. 990, che subordina l'effetto surrogatorio alla dichiarazione di volersene avvalere da parte dell'Ente previdenziale.

E ancora meno si coordina con il terzo comma del citato articolo, che condiziona la surroga alla dichiarazione di avere diritto alle prestazioni previdenziali da parte del danneggiato. Quando invece l'accertamento del diritto dovrebbe essere sganciato da siffatte dichiarazioni ed essere operato direttamente presso l'Ente previdenziale.

A meno di non considerare implicitamente abrogate le disposizioni del terzo e del quarto comma dell'art. 28.

Conclusione giuridicamente ingiustificato se è vero che i ridetti commi terzo e quarto si collegano al precedente comma secondo, il quale garantisce la cautela sulle somme oggetto della rivalsa ed è quindi pienamente giustificato pure dopo l'entrata in vigore della legge 222.

Ancora, la riconosciuta disponibilità del diritto alle prestazioni previdenziali, allo stato, consente al danneggiato di rinunziarvi e di impedire in tal modo la surroga, salva la facoltà di richiedere

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quelle prestazioni in un momento successivo, con conseguente pregiudizio per il sistema previdenziale e con duplicazione del risarcimento.

L'eventuale recupero della capacità lavorativa, poi, si traduce in una sovrastima del valore capitalizzato del danno, che tuttavia non può formare oggetto di recupero, vuoi per l'esigenza di certezza dei rapporti che per l'opportunità di favorire, comunque, il reinserimento del danneggiato nel circuito economico e sociale (in senso contrario, Lipari, in Commento delle Nuove Leggi Civili, 1985, 431).

Quanto all'evento vecchiaia, che costituisce il termine ad quem delle prestazioni economiche di invalidità o di inabilità, non può essere condivisa l'opinione secondo cui esso dovrebbe essere dedotto dal calcolo del danno perché indipendente dal fatto illecito (Pontonio, loc. cit., e, in giurisprudenza, Tribunale di Napoli, 9 novembre 1994, n. 8843).

Al riguardo può osservarsi che l'illecito ha comunque impedito la copertura finanziaria della prestazione di vecchiaia, sicché la rivalsa è pienamente giustificata.

In tema di danno biologico, inoltre, non è superfluo rilevare che esso presuppone la lesione dell'integrità fisica e quindi la esistenza della persona, con la conseguenza che, mentre non appare valutabile in caso di morte immediata del danneggiato, il relativo diritto all'indennizzo non sorge e non si trasmette agli aventi causa (da ultimo, Cass. 25 gennaio 1997, n. 1704).

Sul versante processuale, poi, sembra ragionevole escludere che occorra una prova specifica del danno biologico, essendo sufficiente la deduzione della lesione dell'integrità, mentre la stima dell'indennizzo, anche per gli aspetti che interessano l'ente previdenziale, va affidata, piuttosto che alla dimostrazione rigorosa del quantum, ai criteri equitativi, che, debbono dare giusto rilievo alla copertura apprestata per le esigenze di vita.

Sul punto del diritto alla rivalsa dell'ente di previdenza, va tenuto presente che per la parte attinente alle esigenze di vita riguardo la sfera della persona, ha, per tale aspetto lo stesso titolo prioritario dell'indennizzo dovuto per le lesioni dell'integrità fisica e deve concorrere nei limiti del massimale nei confronti della compagnia di assicurazione, e nei limiti del patrimonio nei confronti del responsabile.

Infine, de iure condendo, il difettoso collegamento delle diverse norme che disciplinano la materia del danno suggerisce di evitare valutazioni difformi e contrastanti in ordine ad uno stesso fatto (l'illecito) e di predisporre strumenti processuali che regolino l'esercizio delle azioni di risarcimento e di rivalsa in un unico giudizio, che dia certezza e definisca contestualmente le varie pretese.

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