1 Introduzione
Un portrait de femme ! rien au monde n’est plus difficile, c’est infaisable… c’est à en pleurer. Jean Auguste Ingres1 Finché ci saranno storie, esisteranno ancora
delle possibilità. Peter Bichsel2 Identità plurali, lingua, esilio, Storia, oralità. Queste sono solo alcune delle tematiche rintracciabili nei testi di tutti quegli autori, nati e cresciuti nei paesi che furono colonie francesi, che hanno scelto proprio la lingua del colonizzatore di ieri per portare avanti, attraverso la propria penna, un lavoro di ricerca della propria identità, personale e collettiva, svincolata dalle imposizioni di quella civiltà straniera per secoli ritenuta dominante. Si sente spesso parlare di letteratura francofona, letteratura beure, letteratura dell’esilio; ma queste etichette sono veramente appropriate per racchiudere un caleidoscopio di testi tanto articolato e poliedrico sia per appartenenza geografica che per tematiche trattate?
Où on la met celle-là? Quel rayon sous quelle étiquette? Littérature, oui, Littérature. Mais laquelle ? France. Maghreb. Algérie. Francophonie… Elle porte un nom arabe, prénom, nom (le nom de son père ?) on ne peut pas se tromper, mais ça ne suffit pas […] Françaises ? Littérature française ? Impossible de classer, un ordre rationnel, impossible.3
Questo l’interrogativo che si pone la scrittrice franco-algerina Leïla Sebbar in un articolo apparso nel 2008 sulla rivista Synergie Monde in cui, immaginando un dialogo tra due bibliotecari fittizi, esitanti su come catalogare la sua opera, porta avanti una riflessione approfondita sulla classificazione dei testi degli autori appartenenti al mondo cosiddetto francofono, consapevole della sua appartenenza a una categoria che sfugge a tutte le altre, la chiama “Littérature du Divers”:
Au fond toutes les littératures de langue française qui racontent une histoire, des histoires et un pays étrangers, ces écrivains qui écrivent en langue française une littérature étrangère, on l’appellerait une littérature du Divers. Alors, celle qui a un nom arabe et qui écrit dans la langue de sa mère, le français maternel, une littérature étrangère, le corps de son père algérien, on la met dans le rayon
Littérature française – Littérature du Divers…
C’est un peu long, tu ne trouves pas ? Oui mais on ne peut pas faire court. Impossible. Sinon on trahit.4
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Ingres, J., citato da Picon, G., Ingres, Ginevra, Skira, 1989, p. 38. 2 Bichsel, P., Il lettore, il narrare, Milano, Marcos y Marcos, 1989, p. 19. 3 Sebbar, L., Une littérature du divers. In: Synergie monde, n° 5, 2008, http://gerflint.fr/Base/Monde5/sebbar.pdf, (ultima consultazione: 23.01.2016). 4
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Leïla Sebbar occupa, infatti, una posizione unica nella letteratura maghrebina francofona; lei stessa non si reputa “ni Beure, ni Maghrébine, ni tout à fait Française”1 ma rivendica un’identità ibrida di croisée2, al centro di un crocevia di culture e tradizioni talvolta affini, talvolta inconciliabili, all’interno di un contesto geografico e culturale mediterraneo. Nasce a Aflou, in Algeria, nel 1941 da madre francese, cattolica, e padre algerino, musulmano, entrambi maestri presso la scuola di francese del paese; trascorre, quindi, gli anni della formazione scolastica in Algeria dove cresce in un contesto prevalentemente francofono ignorando completamente la lingua paterna, l’arabo della terra in cui è nata, che ne accompagna la vita come un sottofondo, un canto segreto di cui può ascoltare la melodia senza però riconoscerne le note. All’età di diciannove anni si trasferisce con la famiglia in Francia per completare gli studi universitari in Lettere stabilendosi prima a Nizza e poi a Parigi, dove vive ancora oggi. La sua scrittura scaturisce dal dualismo culturale che la caratterizza, dall’appartenenza simultanea a due sistemi culturali e modi di vedere il mondo che, nella sua persona, si scontrano e si incontrano ma, anche, dalla necessità di riconnettersi alle sue radici algerine per recuperarne la memoria; attraverso i suoi testi rivendica gli scambi e le commistioni interculturali che sono alla base della sua identità:
Et puis, pour moi, la fiction c’est la suture qui masque la blessure, l’écart entre les deux rives. Je suis là, à la croisée, enfin sereine, à ma place, en somme, puisque je suis une croisée qui cherche une filiation et qui écris dans une lignée, toujours la même, reliée à l’histoire, à la mémoire, à l’identité, à la tradition et à la transmission, je veux dire à la recherche d’une ascendance et d’une descendance, d’une place dans l’histoire d’une famille, d’une communauté, d’un peuple au regard de l’Histoire et de l’univers. C’est dans la fiction que je me sens sujet libre (de père, de mère, de clan, de dogmes…) et forte de la charge de l’exil. C’est là et seulement là que je me rassemble corps et âme et que je fais le pont entre les deux rives, en amont et en aval.3
La scrittura diventa, in questo senso, sinonimo di ricerca e comprensione prima, di riappropriazione e riconquista poi, un mezzo per riconoscersi e per riconoscere “le corps de mon père dans la langue de ma mère”4
poiché il silenzio della lingua del padre può resuscitare attraverso quella della madre; un vero e proprio viaggio, i greci lo chiamerebbero nostos, ritorno, un’esplorazione profonda del sé e della propria identità
1 Huston, N, Sebbar, L., Lettres parisiennes, cit. in: Laronde, M., Leïla Sebbar, Parigi, L’Harmattan, 2003, p. 16.
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Huston, N., Sebbar, L., Lettres parisiennes. In : Communications, 43, 1996, 1986. Le croisement des cultures, p. 264. http://www.persee.fr/doc/comm_0588-8018_1986_num_43_1_1650
3 Huston, N, Sebbar, L., Lettres parisiennes. In: Laronde, M., op. cit., p. 16.
4 Sebbar, L., L’arabe comme un chant secret, Saint- Pourçain-sur-Sioule, Bleu autour, 2010, p. 46. (da qui in poi sarà usata l’abbreviazione Chant Secret)
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per tracciare le proprie “routes algériennes dans la France”1 che comprende anche un’indagine della memoria e della storia collettiva di un popolo intero. Una scrittura in cui si intrecciano di continuo passato e presente e che non può prescindere dagli intrecci tra la storia individuale e personale e la Storia collettiva, quella con la S maiuscola. La complessità a lei soggiacente emerge dalle peculiarità stilistiche e lessicali inevitabilmente rintracciabili in tutte le sue opere che riflettono la necessità viscerale di divincolarsi dalle norme e dalle convenzioni del francese tradizionale; riesce a creare un linguaggio scritto unico nel suo genere poiché si apre alla parola parlata consentendo al racconto in arabo di fluire al di sotto della pagina scritta.
Il presente lavoro di tesi si propone di analizzare il ruolo che Leïla Sebbar accorda all’oralità nel suo romanzo Les femmes au bain, pubblicato nel 2006; l’espressione orale diventa lo strumento in grado di supplire alla mancanza della parola paterna e consente di creare un mondo attraverso il filtro di un’altra cultura, di un’altra lingua, di un’altra civiltà. Con Les femmes au bain Leïla Sebbar trasporta il lettore in quell’universo lontano e seducente, misterioso e impenetrabile che tanti pittori, nel corso dei secoli, hanno cercato di immaginare e di rappresentare senza mai riuscire a coglierne appieno l’essenza: quello del bagno turco, “sacro-sainte institution que les hommes les plus sévères et les plus arrogants étaient dans l’obligation d’accepter”2
, uno spazio privilegiato di interazione e di incontro tra donne di ogni età ed estrazione sociale che nessun uomo ha il potere di vietare. È proprio in questo luogo “sacro” che la complessa narrazione della vicenda si sviluppa poiché, qui, le donne possono parlare “sans surveillance”3, senza controlli ma anche senza filtri. Il romanzo offre un ritratto schietto e appassionato delle donne che, protette dai vapori rassicuranti del bagno turco, parlano delle proprie vite, dei propri amori, leciti e illeciti, dei propri desideri e, in particolare, “des hommes, époux, amants (oui amants), pères et frères qui ont détourné l’héritage des absents, des sœurs débiles, des veuves et des orphelins qui personne ne protège”4
; le storie si intrecciano e si sovrappongono come se fossero delle micro-scene che traggono linfa vitale, allo stesso tempo, dai ricordi individuali di ognuna e dalla memoria collettiva, quella tramandata dalle leggende più antiche del Maghreb e custodite dalla
1 Ivi, p. 68. 2
Jones, C. C., La représentation du corps féminin dans le hammam fictionnel maghrébin, in Lachheb, M. (ed.), Penser le corps au Maghreb, Karthala, 2012, p. 125.
3 Sebbar, L., Les femmes au bain, Saint- Pourçain- sur- Sioule, Bleu autour, 2009, p. 23. (da qui in poi sarà usata l’abbreviazione Femmes)
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vieille négresse, uno dei personaggi principali del testo, massaggiatrice e cantastorie,
ruoli che le conferiscono un’autorità inoppugnabile nonostante venga relegata ai gradini più bassi della scala sociale. Tuttavia, una vicenda risalta su tutte le altre, quella che coinvolge i due narratori principali di cui la scrittrice si avvale, la Bien-aimée e l’Étranger de sang, amanti separati dalla violenza delle leggi patriarcali e tribali. Il loro amore non è tollerabile poiché non è stato stabilito, sarebbe più appropriato dire imposto, dalla famiglia o dalla comunità e, pertanto, l’Étranger de sang, colui che, in virtù della sua delicatezza, eleganza e cultura si distingue dagli altri uomini ed è amato dalle donne, deve essere allontanato, isolato, rinchiuso in prigione con l’accusa di stupro poiché l’onore della tribù deve essere preservato. Ma in quella stessa tribù, nel suo codice d’onore, nei suoi valori, la Bien-aimée non si riconosce, la disprezza così come disprezza gli uomini che ne fanno parte poiché le negano “la lumière, l’impertinence”1
a cui lei tanto ambisce. Una moderna Shahrazad che, come la négresse e le altre protagoniste del romanzo, fa della parola un potente strumento di ribellione e un’arma indissolubile contro la violenza e l’ignoranza, un mezzo per mettere in discussione e sovvertire lo status quo dominante.
Questo lavoro di tesi si articola in tre capitoli; il primo sarà dedicato a un’analisi delle complesse dinamiche che da sempre intercorrono tra parola parlata e parola scritta, tra ciò che si dice e ciò che si scrive, con particolare riguardo per le tematiche della duplice appartenenza culturale, del rapporto conflittuale con l’arabo e dell’esilio tanto care a Leïla Sebbar al punto da spingerla a dare vita a una scrittura capace di “oralizzare” e “arabizzare” la lingua francese. Per tale motivo, il secondo capitolo si focalizzerà sulle modalità attraverso le quali queste “oralizzazione” e “arabizzazione” si compiono, attraverso, cioè, il sovvertimento della fabula, l’alternanza di ben tre narratori principali e molti altri secondari, i rinvii a un modello autorevole, quello de Le mille e una notte, e attraverso scelte stilistiche e lessicali mai convenzionali che fanno in modo che la voce poetica del testo affiori dalla pagina scritta giungendo direttamente all’orecchio del lettore. Infine, il terzo e ultimo capitolo, sarà dedicato alla traduzione italiana di Les
femmes au bain e a un’analisi delle possibili strategie traduttive, con particolare
attenzione alle difficoltà che le peculiarità strutturali e linguistiche del testo pongono al traduttore.
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