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Musulmano o cristiano? Il paradosso del velo nella guerra delle immagini

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Corriere 20 gennaio 2016

Musulmano o cristiano?

Il paradosso del velo nella guerra delle immagini

La storia attraversata dall'autore di Come il velo è diventato musulmano Bruno Nassim Aboudrar

Sono ormai trent’anni che l’Europa si trova ad affrontare la spinosa questione del velo

«islamico». Tutto ruota attorno a due domande cruciali: il velo ostacola l’emancipazione delle donne oppure no? Ed è compatibile o meno con l’imperativo della laicità su cui si reggono le democrazie moderne?

I ragionamenti pro e contra – ugualmente convincenti – si sprecano, e il dibattito sembra ormai giunto a un binario morto. Nel corso di questi anni, il velo indossato in Europa è diventa- to sempre più diffuso, sempre più opaco (si è passati dal foulard al burqua) ma soprattutto sempre più visibile.

E qui sta il problema. Perché il velo può essere strumento liberatorio o liberticida, a seconda che le donne lo indossino di propria spontanea volontà oppure perché costrette; può risultare tollerabile o intollerabile in uno Stato laico che da un lato garantisce protezione a tutte le reli- gioni presenti sul suo territorio, senza distinzioni di sorta, dall’altro confina l’espressione di qualunque fede religiosa alla sfera privata, promuovendo una certa neutralità in ambito pubbli- co; ma prima di tutto, il velo è un fenomeno visuale. Concepito per nascondere, il velo mostra ciò che nasconde: esibisce la dissimulazione nello spazio della visibilità occidentale. Mi pare quindi che sia a partire da questo paradosso, e sul terreno della visibilità, che si debba riconsi- derare la questione del velo in tutta la sua violenza – una violenza che fa sentire i suoi effetti non solo sulle società occidentali, che reagiscono, ma anche sullo stesso Islam.

Prima di ogni altra cosa dobbiamo però chiederci: siamo proprio sicuri che il velo sia così

«islamico» come si dice, e come spesso pensano le donne musulmane che ne fanno un vessillo di pia osservanza religiosa?

Quella di indossare un velo che copre parzialmente il volto è pratica attestata in Siria parec- chi secoli prima dell’ascesa dell’Islam. Un mese fa i criminali dello Stato Islamico, accanendosi contro i resti del tempio di Bel a Palmira, hanno distrutto un gruppo scultoreo che raffigurava tre donne velate e risaliva al I secolo dopo Cristo. Nel corso del terzo secolo Tertulliano, Padre della Chiesa, esprime apprezzamento per il comportamento delle donne pagane d’Arabia, «che si coprono il volto per intero», e invita le donne cristiane a fare altrettanto in ossequio alla vo- lontà di San Paolo. L’apostolo dei Gentili sottolinea in effetti a più riprese la necessità che le donne cristiane portino il velo, come gesto simbolico atto a rimarcare l’inferiorità della donna in rapporto all’uomo, che a sua volta è inferiore a Cristo (Prima lettera ai Corinzi, 11, vv. 12-16).

Basandosi su questa gerarchia voluta dal Creatore, Tertulliano prescrive una misura pratica:

la donna deve coprirsi il capo perché «il velo è il suo giogo». Si cercherebbe invano un simile investimento simbolico all’interno del Corano, che menziona il velo soltanto una volta (Sura 33, versetto 59) e come semplice misura pratica: si raccomanda alle «donne dei fedeli» di indossa- re il velo in presenza di estranei, perché questo «è il modo migliore per farsi riconoscere ed evitare di subire offese». Si narra infatti che a Medina, di notte, le donne dei fedeli venissero molestate da brutti ceffi che poi, fattosi giorno, sostenevano di averle scambiate per delle schiave.

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Se quindi all’inizio, in contesto islamico, il velo non ha affatto la connotazione religiosa che possiede invece per il Cristianesimo, nelle civiltà musulmane del Mediterraneo diventa poi strumento pratico impiegato dalle donne per sottrarsi agli sguardi nelle occasioni in cui devono abbandonare la reclusione dell’harem per una qualunque necessità. Si tratta dunque di un mezzo di coercizione specificamente visuale. Pur non mostrando grande interesse per il velo, l’Islam promuove una cultura visuale opposta rispetto a quella dell’Occidente cristiano.

Per quest’ultimo, la vista è il senso più nobile perché permette di accedere – essendo per sua natura immateriale – a superiori realtà invisibili: le idee per Platone, il mistero dell’Eucaristia per i cristiani, e via dicendo. Per l’Islam, invece, la vista induce in tentazione ed è ancella della concupiscenza. Le civiltà islamiche sono tradizionalmente organizzate in modo da limitare e regolare la vista: patio, mashrabiya, discrezione e – soprattutto – interdizione delle immagini, che invece il Cristianesimo, in linea di massima, incentiva. Oggigiorno, però, questa cultura visuale islamica che sfruttava il velo per rendere invisibile chi lo indossava è praticamente scomparsa. Il velo è diventato un’immagine, inserito in una sorta di guerra di immagini e di guerra in immagine che l’Islam radicale conduce ormai contro il resto del mondo.

Il paradosso è questo: le donne si mettono in mostra velate come le immagini dell’islam – reli- gione senza immagini e che nascondeva le donne.

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